Populismo e Nazione
1. Populismo
Nel nuovo millennio nei sistemi politici occidentali si sono presentati con crescente energia e successo uomini politici, movimenti e partiti variamente denominati come populisti. Dietro questa categoria vi è un ampio spettro di fenomeni empirici che coprono l’intero arco delle posizioni politiche. Questa tendenza ad usare la categoria di populismo in modo eccessivamente pervasivo le toglie, però, capacità analitica. Potremmo dire che è un limite non solo della categoria, ma del fenomeno che essa cerca di descrivere, i cui confini sono estremamente indefiniti ed adattabili a molteplici situazioni. Ciò che accomuna tutti coloro che si muovono in questo spettro è l’evocazione di un’idea di popolo indistinta contrapposta a quella di élite: da una parte gli esclusi, dall’altra i privilegiati. È una nozione che incorpora e dilata una divisione sociale netta, benché non riducibile ad un unico elemento: il popolo è costituito da tutti coloro che sono tartassati dal potere economico, politico, culturale ecc.[1].
Questa nozione non incorpora di per sé alcuna dimensione identitaria ed è suscettibile di comprendere potenzialmente tutti coloro che sono esclusi dal potere. La potenza della narrazione sta in ciò che contemporaneamente è indeterminatezza e netta definizione del nemico. In un mondo in cui le classi che conoscevamo sembrano scomparse e i confini sociali si fanno fluidi, la possibilità di individuare nei potenti il nemico sembra fornire una risposta.
La relativa indeterminatezza della definizione di popolo viene mitigata dalle specifiche declinazioni che tale nozione incontra sul suo cammino. Non esiste un popolo, ma svariati popoli i cui confini sono determinati dalla politica e dal diritto.
2. Sovranismo
Nel dibattito contemporaneo il populismo è spesso associato al cd. sovranismo, che spesso viene confuso con nazionalismo ed etnonazionalismo. Il sovranismo è la delimitazione del popolo in relazione ai confini statali, non pretende superiorità rispetto ad altri popoli e potrebbe essere inclusivo all’interno dei confini statali non assumendo in sé alcuna identità specifica. In altri termini non è altro che la riaffermazione di un potere territoriale, in cui l’elemento determinante è la definizione dei confini del territorio. Non a caso il sovranismo si declina su diverse scale territoriali. Il sovranismo nazionalista o etnonazionalista produce un’ulteriore delimitazione dei confini in relazione a qualche criterio di tipo etnico e/o culturale.
Il sovranismo non è populismo in quanto potrebbe ricomprendere nell’insieme della popolazione definita come sopra anche le élite.
Empiricamente la declinazione che il populismo sta trovando in Europa è essenzialmente di tipo nazional-sovranista, ma vi sono movimenti, per quanto minoritari, che si ispirano ad un populismo più sociale che nazionale. Ci troviamo, insomma, di fronte ad un insieme complesso di possibili delimitazioni ed intrecci che trovano la loro espressione nella politica contemporanea. Per questa ragione dobbiamo provare a sbrogliare i diversi nodi.
3. Confini
Il populismo affronta e declina la questione sociale in termini non riducibili alla questione di classe, incorporando una contrapposizione che è di status, tracciando un confine, anche culturale, con le élite. Questa è la ragione perché non tollera i partiti. Questi in quanto strumenti di mediazione costituiscono ed istituiscono élite, per questo i movimenti populisti sono proiettati verso leadership di tipo carismatico senza intermediazione.
Ciò in regimi parlamentari crea delle dissonanze, con la tipica contrapposizione tra democrazia diretta e democrazia delegata, che si riflettono nelle dinamiche di tali movimenti[2]. Il tendenziale rifiuto delle dinamiche parlamentari, della libertà di espressione del singolo rappresentante, il ricorso continuo a deliberazioni dirette sono il tentativo di risolvere una contraddizione insolubile.
Il sovranismo[3] non vive queste contraddizioni. Élite e popolo sono riconciliati e fronteggiano un avversario esterno. Ma il sovranismo costruisce confini all’interno della popolazione definendo coloro che ne fanno parte sulla base di criteri giuridici.
A godere dei diritti non sono tutti coloro che vivono all’interno dei confini dello Stato, ma soltanto chi è individuato da criteri legati all’appartenenza allo Stato o al territorio oggetto della rivendicazione. Questo consente al sovranismo una moltiplicazione dei popoli a cui si riferisce.
Consideriamo alcuni esempi. È stata promulgata la legge istitutiva del reddito di cittadinanza. Nella definizione esso dovrebbe riguardare i cittadini ed è indirizzato a quella parte di popolazione con redditi bassi o nulli. Nel dispositivo è stata introdotta una serie numerosa di requisiti che limiterà l’accesso a tale misura anche a parti della popolazione in evidente e riconosciuta condizione di povertà, gli immigrati. La nozione di popolo così declinata non riesce a ricomprendere la questione sociale, introduce distinzioni che creano disuguaglianze. La principale di queste distinzioni è rivolta a cittadini che non godono di molti diritti e che non hanno voce per poterli sostenere.
In molte Regioni, e ancor più se passerà l’autonomia differenziata, la residenza nella regione è un requisito per accedere a possibili benefici (casa, lavoro, ecc.). Qual è in questo caso il popolo? Non è più quello ricompreso nei confini dello Stato, ma è quello ricompreso nei confini della Regione.
Insomma, la indicazione di confini crea sempre una divisione ed un accesso differenziato alle risorse che quei confini delimitano. Potremmo dire che generano un popolo a geometria variabile.
Anche il populismo che ricomprenda tutti coloro che sono all’interno dei confini di uno Stato ha un principio di esclusione legato alle modalità di accesso al territorio ed alle forme di riconoscimento giuridico della presenza in esso.
4. Identità
Queste contraddizioni vengono, almeno in linea di principio risolte attraverso la riduzione del sovranismo populista ad un principio identitario nazionalista[4].
Le questioni relative all’identità nazionale sono troppo complesse per essere affrontare in questo breve articolo, ma alcune cose si possono dire. In primo luogo, che lo Stato-Nazione è un modello, ma è anche una finzione storica almeno nella misura in cui identifica l’unità politica con l’omogeneità culturale e tale finzione mostra chiaramente i suoi limiti nel contesto contemporaneo. Ciò nonostante la Nazione ha costituito un potente movente di mobilitazione e di riduzione del conflitto interno. Nazione e classe sono, almeno fino a Bauer e soprattutto allo stalinismo due termini antitetici. La Nazione raccoglie tutti coloro che vivono all’interno dei confini dello Stato, la classe raccoglie coloro che condividono una condizione sociale al di là di ogni confine.
Il nazionalismo fa fatica a trattare la questione sociale. Il marxismo fa fatica ad incorporare l’idea di Nazione ovvero il legame con il territorio e gli antagonismi che vengono generati tra le classi dei diversi Stati. Nel corso del ‘900 fascismo e nazismo hanno cercato di risolvere la questione sociale all’interno del nazionalismo e lo stalinismo, e poi il terzomondismo, hanno cercato di risolvere la questione nazionale dentro la questione di classe.
La dimensione identitaria riduce la questione sociale sia che essa venga declinata in termini di interessi nazionali attraverso un compromesso sociale che identifica nel popolo-nazione il portatore di un interesse condiviso in ragione di un’identità condivisa, sia che essa venga declinata in termini di protezione della classe nazionale (molto spesso è la classe operaia nativa – o acquisita – ad opporsi alle immigrazioni o all’estensione dei diritti ai migranti).
5. Il compromesso: Welfare state
Nello Stato-Nazione questo coacervo di contraddizioni precipita. Esso diventa, infatti, il luogo della protezione istituendo una delimitazione allo stesso conflitto sociale.
In occidente il tentativo di risolvere queste contraddizioni ha dato vita ad un terzo modello di compromesso: il welfare state fordista.
L’emergere e la diffusione dei welfare state o dell’état provvidence risolve le tensioni tra classe e popolo, tra popolo e Nazione. Lo Stato si fa carico delle tensioni sociali ergendosi a padre-protettore della sua popolazione ed il conflitto di classe si dimensiona intorno alla redistribuzione interna ai singoli Stati, almeno in occidente. Non è più il nazionalismo identitario che rivendica uno spazio nel mondo, ma è la Nazione che protegge i suoi cittadini.
La Repubblica italiana nasce in questo frangente e la sua Costituzione incorpora il riconoscimento della Nazione e la protezione dei cittadini da parte dello Stato, assegnando a quest’ultimo i compiti di ridurre le tensioni sociali generalizzando la condizione di benessere.
La narrazione politica ha confuso questo prodotto storico con un paradigma assoluto[5], senza coglierne la contingenza e l’eccezionalità determinata dal grande processo di sviluppo post-bellico.
Ora siamo al capolinea ed i nodi vengono al pettine, ponendo due questioni essenziali: i singoli Stati-Nazione sono ancora il contenitore adeguato per i sistemi di protezione sociale? E la Nazione costituisce ancora la cornice culturale entro cui definire il popolo?
Entrambi questi interrogativi non possono avere una risposta giuridica, benché il diritto possa fornire delle indicazioni significative.
6. Non solo Stato
Iniziamo dal primo quesito. È evidente che gli Stati sono tutt’ora il principale attore dispositivo di forme di protezione/assicurazione sociale che prevedano la fornitura di servizi e/o di complementi reddituali, e sono ancora il principale luogo nel quale si esprime la partecipazione politica. Ma non sono soli e soprattutto non sono eguali tra loro. Per quanto la definizione dei principali strumenti di protezione sociale sia di competenza dei singoli Stati, tale decisione è condizionata da organismi sovranazionali e dipende dai rapporti di forza su quel terreno e dalle politiche che prevalgono in quelle sedi. Lo smantellamento dei welfare state e l’affermazione di un programma neoliberista sono stati prodotti tanto dalle trasformazioni politico-sociali dei singoli Stati che dalle decisioni del Fondo monetario internazionale o della Commissione europea. In secondo luogo, la capacità degli Stati di incidere su tali politiche dipende dal loro peso ed è difficile pensare che i singoli Stati europei possano farlo in modo significativo. L’Unione europea, forse potrebbe, ma sarebbe necessaria una svolta politica che non si vede all’orizzonte.
Se vi è un’erosione dall’alto delle capacità di intervento dello Stato-Nazione, vi è, nell’Unione europea, anche un processo di descaling che sposta competenze verso territori infrastatali (Regioni) attribuendo alle stesse una rilevanza fondamentale e generando anche qui processi di costruzione identitaria[6].
Entrambe queste riduzioni delle capacità di intervento dello Stato sono al centro di tensioni che stanno emergendo nel contesto europeo (e non solo), ma non significano che gli stati non contino più. Semplicemente essi nella loro forma attuale non possono essere più dati per scontati.
7. Non solo Nazione
La seconda questione riguarda le trasformazioni della popolazione degli attuali Stati. La Nazione capace di protezione si pensava fondamentalmente omogenea e costituita da nativi (o assimilabili ai nativi in particolare negli Stati ex-coloniali), i confini li doveva istituire essenzialmente verso l’esterno garantendo forme di redistribuzione o quantomeno promesse di redistribuzione all’interno. Il quadro è completamente cambiato. L’Europa, ed in particolare l’Unione europea, costituisce un importante meta migratoria e, soprattutto, ha aperto progressivamente i propri i confini interni andando a costruire una delle più ampie zone di libera circolazione del mondo.
I confini esterni non sono più sufficienti e si costruiscono confini interni sia nei confronti di coloro che non appartengono alla Nazione (gli immigrati), sia nei confronti delle disomogeneità territoriali.
Le sfide sono molteplici: definire le cornici istituzionali adeguate e capaci di intervenire nella produzione di protezione, definire quale e quanta protezione ed a chi è destinata, ripensare le identità in termini plurali.
8. Democrazia e protezione
Lo Stato-Nazione, se mai è esistito, è ora certamente obsoleto rispetto a queste sfide, ma allo stesso tempo è resistente e sembra essere l’unico luogo in cui è possibile esercitare qualche forma di autodifesa sociale e di partecipazione democratica.
Gli Stati-Nazione democratici si sono fondati sulla rappresentanza di interessi e sull’allargamento del suffragio. Ciò ha messo nelle mani degli elettori un grande potere, i voti ed i numeri contano in democrazia. Su questo si è costruito il consenso intorno ai welfare state della prima metà del Novecento. Essi non solo redistribuivano risorse, ma lo facevano verso quella parte di popolazione che costituiva la maggioranza del “popolo”.
Questa maggioranza non vi è più. Essa è divisa da fratture economiche, generazionali, culturali.
La classe operaia che costituiva il nucleo di quella maggioranza è ormai una porzione minoritaria, il popolo è fatto da precari, pensionati, lavoratori autonomi, classe operaia, disoccupati o inoccupati. È questo coacervo di differenti interessi e prospettive che richiede protezione all’unico soggetto verso il quale si può rivolgere lo Stato nazionale. Ma, questo soggetto non può dare che risposte limitate e temporanee e tale limitatezza, di risorse e di poteri, alimenta la paura dell’apertura. Frontiere aperte, competizione/concorrenza aumentano il numero degli attori favorendo coloro che sono più forti, più innovativi, che hanno il supporto migliore, gli altri vengono lasciati indietro. La competizione è ovunque: i giovani vedono nei pensionati e negli anziani chi sta mangiando il loro futuro, i disoccupati vedono negli immigrati dei temibili concorrenti, i territori vedono negli altri territori dei possibili avversari.
Populismo e nazionalismo, sia nella loro declinazione distinta sia in combinazione tra loro, cercano di dare una risposta diretta e semplice a questa frantumazione scardinando, però, i principi della democrazia liberale. Peraltro, è una risposta in sé divisiva. Certo i movimenti populisti si fanno interpreti di paure e bisogni che non possono e non devono essere ignorati, ma la narrazione che vede un popolo contro un’élite o un’appartenenza contro un’altra si scontra con la realtà di una società molto più complessa di quella descritta.
Questa semplificazione è allo stesso tempo la forza e la fragilità di tali movimenti, ma le risposte non possono essere la mera riproposizione di paradigmi passati. La riproposizione delle varie declinazioni dello Stato-Nazione non è una risposta adeguata, ma le alternative che si intravedono devono affrontare ancora lo scoglio della partecipazione democratica.
[1] La letteratura sull’argomento è sterminata, ci limitiamo a suggerire alcuni testi di riferimento: Manuel Anselmi, Populismo: teorie e problemi, Mondadori università,Milano, 2017; Jan-Werner Müller, Cos’è il populismo? EGEA, Bocconi editore, Milano, 2017; Cas Mudde, e Cristóbal Rovira Kaltwasser. Populism: A VERY Short Introduction. Oxford University Press, 2017; Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza, Bari-Roma, 2019.
[2] Vedi N. Urbinati, Maggioranza-e-maggioritarismo, in La sfida populista, a cura di Manuel Anselmi, Paul Blokker, Nadia Urbinati, Feltrinelli, Milano, 2018.
[3] Il termine sovranismo nasce nel contesto politico canadese ed indica l’insieme dei movimenti e partiti che rivendicano l’indipendenza del Québec. Si riferisce, quindi, ad una domanda politica sub-statale. In Europa ha trovato declinazioni di tipo statale indicando la rivendicazione politica di riappropriazione delle competenze statali da parti degli Stati che le hanno presumibilmente perse a favore di entità sovra-nazionali. Per le diverse declinazioni di questa categoria si veda: R. Bellamy, «A European Republic of Sovereign States: Sovereignty, Republicanism and the European Union», European Journal of Political Theory 16, n. 2, 2017, pp. 188-209; Thomas Fazi e William Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Roma,2018; A. Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale. DeriveApprodi, Roma, 2018; G. Valditara, Sovranismo. Una speranza per la democrazia, Book Time, Milano, 2018.
[4] Sui rapporti tra populismo e nazionalismo si veda: B. Bonikowski, D. Halikiopoulou, E. Kaufmann e Matthijs Rooduijn, «Populism and Nationalism in a Comparative Perspective: A Scholarly Exchange», in Nations and Nationalism 25, n. 1, 2019, pp. 58-81; A. Martinelli, (ed.) «When Populism meets Nationalism» ISPI Report, 2018.
[5] Sulla critica al nazionalismo metodologico: D. Chernilo, «The Critique of Methodological Nationalism: Theory and History», in Thesis Eleven 106, n. 1, 2011, pp. 98-117; Id., «Social Theory’s Methodological Nationalism: Myth and Reality», in European Journal of Social Theory 9, n. 1, 2006, pp. 5–22; A. Wimmer e N. Glick Schiller, «Methodological nationalism and beyond: nation–state building, migration and the social sciences», in Global networks 2, n. 4, 2002, pp. 301-334.
[6] M. Keating, Rescaling the European State: The Making of Territory and the Rise of the Meso, Oxford, Oxford University Press, 2013.