“Dignità relazionale”. Un concetto non solo giuridicamente complesso
1. Non solo articolo 2. Principi costituzionali in tensione
Come esseri umani siamo essenzialmente soggetti relazionali, che hanno consistenza e senso in quanto radicati – letteralmente – in relazioni di mutuo riconoscimento. Ciò avviene sicuramente nel processo insieme psicologico e sociale che fa di un bambino che nasce un figlio, cioè un soggetto definito da una collocazione in un sistema di relazioni specifiche, che gli/le danno senso e se ne prendono responsabilità. Non si tratta solo o prioritariamente di una questione giuridica, anche se, come vedremo, questa non è affatto irrilevante. Come osservava Bowlby[1], senza attaccamento, senza possibilità di formare un legame di reciproco riconoscimento, un bambino non può crescere, non può svilupparsi pienamente. Crescendo, queste relazioni di attaccamento si trasformano e altre se ne aggiungono, se non così fondative, certamente altrettanto importanti per la formazione dell’identità personale.
Come non pensare che siano proprio – o soprattutto – queste le relazioni che costituiscono le «formazioni sociali ove si svolge la personalità» di ciascuno, di cui l’art. 2 della Costituzione richiama l’inviolabilità in stretta connessione con l’inviolabilità dei diritti del singolo?
Eppure, a lungo, nel dibattito corrente nel senso comune, si è ritenuto che i Costituenti, con il termine «formazioni sociali», si riferissero alle associazioni di varia natura cui gli individui possono aderire e di cui liberamente possono far parte. È solo in epoca relativamente recente che questo articolo è stato utilizzato per richiedere un riconoscimento legale delle relazioni di coppia di persone dello stesso sesso, come relazioni di amore e reciproca solidarietà altrettanto significative, per chi ne fa parte, di quelle instaurate da coppie di persone dei due sessi, e altrettanto capaci di generatività.
Qualsiasi fosse l’intenzione dei Costituenti (e sono abbastanza sicura che non avessero minimamente in testa le coppie omosessuali), è indubbio che quella formulazione è molto forte nel suo riconoscimento che gli individui, i singoli, svolgono la propria personalità all’interno di relazioni significative, non in un astratto vuoto relazionale da cui escono per incontrare gli altri. Diventano se stessi, acquisiscono la propria identità, nell’interazione con altri che per loro sono importanti, significativi. Difficile pensare che sia significativa, costituzionalmente da proteggere, l’appartenenza a una associazione, un sindacato o un partito e non una relazione intima di solidarietà e affetto – una relazione che, per consistenza e significato per chi la intrattiene, ha tutte le caratteristiche che oggi attribuiamo alle relazioni famigliari più strette, anche se non sempre ne ha, o le è consentito di averne, la definizione giuridica. Aggiungo che in questa formulazione, a differenza dell’art. 29, dove se ne identifica una in particolare – la famiglia basata sul matrimonio –, non vi è alcuna identificazione preliminare né, tantomeno, una definizione di quali siano e di come debbano essere fatte le «formazioni sociali ove si svolge la personalità». Si tratta di una formulazione aperta, che indirettamente lascia l’identificazione di quali siano le «formazioni sociali» meritevoli di protezione costituzionale alla negoziazione tra i soggetti interessati e gli organi istituzionali della Repubblica – aperta, quindi, anche alle trasformazioni sociali e culturali. Di più: là dove, nell’art. 29, si costruisce una sorta di “ippogrifo concettuale”, affermando che una «società naturale» possa essere fondata (non legittimata ex post) su un istituto giuridico, appunto il matrimonio, l’art. 2 si colloca pienamente entro la consapevolezza che ogni relazione si costruisce intersoggettivamente e in società.
In questa prospettiva, se posso esprimere un parere benché non sia una costituzionalista e neppure una esperta di diritto, mi sembra che vi sia una contraddizione tra l’art. 2 e l’art. 30 della Costituzione. Se quest’ultimo, infatti, allarga di fatto il raggio delle relazioni “famigliari” che la Repubblica deve proteggere, includendovi anche quelle tra genitori e figli nati fuori dal matrimonio, allo stesso tempo disconosce la pienezza dei diritti relazionali di questi ultimi, allora e fino al 1975 ancora definiti «illegittimi». I loro diritti a essere riconosciuti da entrambi i genitori e a far valere un’appartenenza ad entrambi, infatti, sono dall’art. 30 subordinati alla garanzia di quella particolare formazione sociale che è la famiglia legittima. In questo modo, mi sembra, il diritto del singolo a veder riconosciuti i rapporti sociali in cui si forma la personalità e, prima ancora, ad avere rapporti con il genitore cui la legge allora impediva di riconoscerlo, sono subordinati (“compatibili”) ai diritti di quelli che stanno nel perimetro della famiglia “legittima”, chiaramente postulati come prioritari e giuridicamente superiori – di qui anche i vincoli alla ricerca di paternità. Si potrebbe dire che, con l’art. 30, non solo viene parzialmente smentito l’art. 2, nella misura in cui non si riconosce ai genitori e ai figli “illegittimi” di costituire un relazione che abbia la dignità di formazione sociale rilevante per il proprio benessere e identità, con i connessi obblighi di solidarietà anche economica; viene anche rovesciato l’“ippogrifo concettuale” dell’art. 29, nella misura in cui, esplicitamente, la famiglia giuridica è qui fatta prevalere su quella “naturale” della procreazione. Dovranno passare molti anni perché questa contraddizione interna alla stessa Costituzione venga sanata a favore della relazione genitori-figli, e soprattutto dei figli, a prescindere dallo statuto giuridico della loro procreazione/nascita. Dapprima, nel 1975, vi è stata l’eliminazione della dicitura «illegittimo» a caratterizzare i nati fuori dal matrimonio e l’estensione della possibilità di riconoscerli ai genitori “naturali”, pur coniugati con persona diversa dall’altro genitore “naturale”. Ma si è dovuti arrivare al 2012 per la definitiva eliminazione di ogni distinzione giuridica tra figli “naturali” e “legittimi”.
2. Accesso alla “dignità relazionale” per tutti i figli
È noto che, almeno nella storia della famiglia occidentale, i primi soggetti a essere individuati come meritevoli di investimenti relazionali (“affetto”) sono stati i figli[2], dapprima nelle classi più abbienti e poi, con tempi e modi diversi, via via in tutte le classi e condizioni di nascita. La Convenzione internazionale dei diritti dei bambini e adolescenti (1989) è il culmine di un lento e lungo processo di riconoscimento dei bambini come soggetti di diritti propri, a prescindere dalla loro origine famigliare e sociale, da cui scaturiscono doveri non solo dei genitori, ma anche della società. Allo stesso tempo, è anche il riconoscimento che uno dei diritti fondamentali è quello, appunto, a essere collocati in una relazione di filiazione, il diritto “alla famiglia” come ambito di appartenenza e di possibilità di identificazione.
Da questo processo sono scaturite modifiche normative, oltre che concettuali, importanti. Esse non hanno riguardato solo la graduale estensione, almeno in linea di principio, del diritto “alla famiglia” di tutti i bambini, inclusi – in Occidente almeno – quelli nati fuori dal matrimonio. Hanno riguardato anche la concezione stessa sia di famiglia sia di adeguatezza, appunto, relazionale della stessa.
Il primo effetto di questa modifica si è avuto sull’adozione, sia rispetto alla finalità (dare un figlio a chi non lo ha o una famiglia a chi non la ha), sia rispetto alle condizioni di adottabilità. Quando una famiglia non può essere considerata tale rispetto alla funzione fondativa che ha per la formazione della personalità del bambino? Questo apre indubbiamente a un esame più attento delle relazioni famigliari e al loro rapporto con il benessere del bambino. Allo stesso tempo, apre a rischi di sovrapposizione ideologica di un particolare modello di relazioni famigliari, della qualità di “buon genitore” e persino di chi possa avere “funzioni” genitoriali, non solo su famiglie oggettivamente, empiricamente provate come dannose per il benessere di un bambino, ma anche su famiglie che funzionano in altro modo rispetto a quello atteso, ma ciononostante sono in grado di fornire quell’attaccamento e quella generatività che riteniamo indispensabili per il benessere di un bambino. È successo in contesti coloniali, di cui il caso più clamoroso – anche se non unico – è quello della forzata rimozione dei bambini dalle famiglie aborigene in Australia, perché non corrispondevano al modello di famiglia nucleare con le sue specializzazioni interne lungo linee di genere che si andava stabilizzando presso il ceto medio occidentale. Può succedere e succede ancora oggi nei confronti di gruppi famigliari “non standard”, se un bambino mostra un qualche tipo di disagio, anche se questo non è necessariamente riconducibile alla non convenzionalità della famiglia che lo cresce, ma, ad esempio, alla povertà o alla ostilità dell’ambiente sociale circostante rispetto al suo gruppo famigliare. Succede, ad esempio in Italia, nei confronti dei figli delle coppie dello stesso sesso, i quali, dopo il 2012, sono rimasti gli unici a non avere il riconoscimento automatico del rapporto con entrambi coloro che li hanno messi al mondo come figli (e hanno, perciò, anche una parentela legale dimezzata).
Aggiungo che si fa fatica non solo ad accettare che le figure genitoriali significative – quelle che sono capaci di creare insieme attaccamento e capacità di distacco – possano non essere di sesso diverso, ma anche che possano essere più di due, senza passare per la sostituzione o la surroga, come nel caso dell’adozione e dell’affidamento. Eppure, la ricerca antropologica è ricca di esempi di come, nelle varie culture, le funzioni genitoriali possano essere distribuite diversamente non solo tra uomini e donne, ma tra soggetti diversi da quelli procreativi e non coincidere necessariamente (anzi, quasi mai) con quelle del modello della famiglia nucleare[3]. La stessa esperienza delle famiglie cosiddette “ricomposte”, in cui la coppia coniugale non coincide con quella genitoriale “ufficiale” per tutti i figli presenti, mostra come, in diversi casi, non vi sia né perdita né sostituzione, ma aggiunta di relazioni di tipo genitoriale, generative. Ancora di più questo vale per le famiglie affidatarie.
Un ulteriore processo di ridefinizione è quello messo in atto dal riconoscimento del diritto dei figli – “naturali” non riconosciuti da un genitore, adottivi e, anche se non ancora in Italia, concepiti con il ricorso alle tecniche di fecondazione assistita cd. “eterologa” – a ricercare il genitore o i genitori biologici sconosciuti[4]. In questo caso, si tratta di una riformulazione del rapporto tra “natura” e “famiglia”, non tuttavia – come si teme – nel senso di cancellare la dimensione sociale, intenzionale, della famiglia e della filiazione così bene esemplificata, appunto, dall’adozione. Piuttosto, a mio parere almeno, tale riconoscimento evidenzia il carattere eminentemente simbolico e relazionale che è attribuito alla “natura” del concepimento e della procreazione. La domanda di poter “conoscere le proprie origini”, infatti, è dovuta non tanto a un rovesciamento della gerarchia di priorità tra “natura” (i legami di sangue) e “relazione”, come sostenuto o temuto da qualcuno, quanto la dimostrazione che il bisogno di identificarsi con una relazione – anche quando negata, interrotta, non messa in conto – è talmente radicato e costitutivo della personalità da coinvolgere anche l’origine biologica. Per l’adottato, può significare comprendere il processo e le ragioni per cui chi lo/la ha messo al mondo non ha potuto, o voluto, accoglierlo/la come figlio. Per chi è nato tramite donazione di gameti diversi da quelli di uno o entrambi i genitori, o da gestazione per altri, può essere il desiderio di conoscere la storia e la personalità di chi ha concorso in modo fondamentale alla propria venuta al mondo. Non è il patrimonio genetico ciò di cui si va in cerca (la cui conoscenza può essere messa agevolmente a disposizione in totale anonimato), ma la persona che ha concorso alla propria origine, la cui storia, non solo genetica, si pensa faccia parte poco o tanto della “propria personalità”. Una ricerca che può sollecitare fantasie esagerate o essere esposta al rischio di fallimento, delusioni, rifiuti, come per altro avviene in tutte le relazioni importanti. Una ricerca che nulla toglie al fatto che “la formazione sociale in cui si è costituita la personalità”, nel bene e nel male, sia quella formata con coloro che hanno assunto a tutti gli effetti una responsabilità genitoriale, ma che rende evidente come questa “formazione sociale”, e l’entrata in essa da parte del figlio/a, abbiano visto all’opera anche altri soggetti, altre relazioni.
A questo proposito, mi sembra di grande interesse la riflessione della sociologa francese Irène Théry[5]. Affrontando la questione dell’anonimato o meno del donatore/donatrice di gameti, Théry offre una prospettiva diversa da quella in cui di solito essa viene affrontata. A suo parere, occorre innanzitutto distinguere le diverse dimensioni rispetto a cui si pone la questione dell’anonimato: la possibilità o meno di scegliere le caratteristiche del donatore/donatrice; l’opportunità o meno di rivelare ai figli nati in questo modo la propria origine di nascita; il diritto dei figli di conoscere il donatore/donatrice. Mantenere l’anonimato in tutte e tre le sue dimensioni risponderebbe al desiderio – degli aspiranti genitori – di mimare una procreazione “naturale”, censurando l’intervento di un/una terza, come se il ricorso a donatore/donatrice fosse una cura contro la sterilità, ciò che ovviamente non è. Ma ciò facendo, si nega a se stessi e ai figli la storia di quella procreazione, di quella venuta al mondo, e la distinzione tra procreazione e genitorialità. Quest’ultima, come abbiamo ricordato più sopra, esiste anche nelle “procreazioni naturali”, ma nella riproduzione assistita con donatore/donatrice diviene esplicita e chiede di essere “pensata”.
Come nel caso dell’adozione, questa origine, e la distinzione che marca, dovrebbe essere resa accessibile anche ai figli nati tramite il ricorso a donatori/donatrici di gameti. Le richieste delle associazioni di figli nati in questo modo di un diritto all’“accesso alle proprie origini”, analogo a quello di coloro che sono nati da parto anonimo, vanno lette in questa luce. Per questo motivo, in alcuni Paesi l’anonimato è vietato per quanto riguarda l’accesso alle informazioni identificanti il donatore/donatrice di gameti da parte delle persone nate per questa via, una volta che abbiano raggiunta la maggiore età. Come osserva Théry, riconoscere questo diritto non significa altro che trattare queste persone come esseri umani, come tutti gli altri, che hanno appunto il diritto a conoscere le proprie origini. A maggior ragione, aggiungo io, là dove fosse permessa la gestazione per altri, il criterio di accettabilità, al netto della esclusione delle forme di sfruttamento e di negazione di diritti della gestante, non dovrebbe passare tanto dalla distinzione – dai confini incerti – tra gestazione commerciale o altruistica. Piuttosto, dovrebbe basarsi sulla esplicita disponibilità di tutti i soggetti adulti coinvolti in vario modo nella generazione a stare in relazione tra loro e, soprattutto, con colui o colei che da questa relazione nasce: per restituirgli/le appieno la complessa relazionalità entro cui è stato concepito ed è diventato figlio/a[6].
3. Le relazioni di amore e di solidarietà reciproca
La centralità della coppia come fondante la famiglia non è un fenomeno universale. In molti Paesi ancora oggi e anche nell’Occidente europeo, in un passato non lontano, era piuttosto l’alleanza tra le parentele e il debito riproduttivo che la generazione più giovane aveva verso quelle più vecchia a motivare la formazione della coppia e determinarne le caratteristiche. Anche nei ceti che avevano poco da trasmettere da una generazione all’altra e, quindi, erano più liberi dagli obblighi e dai controlli delle parentele, la formazione della coppia era determinata dai bisogni di complementarietà nel lavoro quotidiano, agricolo o artigiano che fosse, una complementarietà di cui faceva parte anche il lavoro domestico e di produzione per l’autoconsumo. L’amore non era previsto, anzi era considerato potenzialmente rischioso, sia per la formazione della coppia che per la sua stabilità. E l’asimmetria di genere era la norma. Famiglia e matrimonio erano certamente istituti relazionali importanti, socialmente più importanti di quanto non lo siano oggi nelle società democratiche sviluppate. Ma il contenuto e le gerarchie insite in queste relazioni erano anche molto diverse da quelle che oggi sono ritenute adeguate e valorizzate positivamente[7].
La formulazione dell’art. 29 della Costituzione, perciò, che pone il matrimonio al centro, anzi all’origine della famiglia legittima, non solo è basata su quello che ho chiamato un “ippogrifo concettuale” (una società naturale fondata su un istituto giuridico). Si riferisce anche a un concetto di matrimonio storicamente e culturalmente situato: quello alla base della famiglia coniugale intima, in cui è la coppia che si sceglie e crea legami con le reciproche parentele dando contemporaneamente origine a una nuova famiglia, non basata su vincoli di alleanza anche se non priva di obbligazioni morali e affettive oltre che – come nel caso italiano – legali. Insieme al matrimonio sono, infatti, cambiati anche il ruolo della parentela e la qualità dei rapporti di parentela: più “scelti”, quelli che si mantengono “attivi”, più basati sul codice dell’affettività, anche se rimangono – più in alcuni Paesi (ad esempio, l’Italia) che in altri –, forti caratteri di strumentalità, di scambio di risorse e servizi[8].
Il concetto di matrimonio insito nell’art. 29 della Costituzione è anche tendenzialmente democratico, perché fondato non solo sulla libera scelta degli interessati, ma anche sul principio della uguaglianza tra i coniugi. E questo nonostante il richiamo al bene superiore dell’unità della famiglia lasci ancora sullo sfondo un principio gerarchico, nella misura in cui si evoca una possibile contrapposizione tra uguaglianza tra coniugi e salvaguardia dell’unità famigliare. Si dovrà arrivare alle nuove norme del 1975 perché quella contrapposizione – e la soluzione implicita che suggerisce di un ritorno alla asimmetria di genere – venga riformulata come necessità di negoziazione paritaria, con il possibile intervento di un terzo “neutrale” – il giudice – in caso di disaccordo.
Vale la pena di ricordare che anche la dottrina della Chiesa cattolica sul matrimonio ha seguito un’analoga evoluzione, pur con qualche ritardo. O meglio, è arrivata tardi ad assimilare l’evoluzione di un processo che aveva messo in moto essa stessa. Come ha, infatti, osservato Alberto Melloni[9], la società borghese aveva ereditato l’istituzione del matrimonio dal Concilio di Trento, quando per la prima volta la Chiesa aveva stabilito regole chiare per definire chi poteva sposarsi, a quali condizioni e in quale forma. In questo modo, intendeva non solo porre ordine in pratiche molto difformi da un ceto all’altro e da un Paese all’altro, ma anche affermare il proprio potere regolativo in un campo fino ad allora lasciato esclusivamente al controllo delle parentele e delle comunità. Uno dei principi basilari di questa nuova regolazione era la necessità del consenso degli sposi, che così erano – almeno in linea formale – sottratti al potere delle parentele e divenivano i veri protagonisti. Un protagonismo che, tuttavia, veniva fortemente temperato dalla necessità che il matrimonio fosse pronunciato non solo in pubblico e di fronte a testimoni, ma da parte di un rappresentante dell’autorità, il sacerdote. Ci sono tutti gli elementi del matrimonio moderno come matrimonio-contratto, le cui finalità continuano a essere indifferenti all’amore. È stata, invece, la società laica la prima a modificare dall’interno il matrimonio, dapprima a livello culturale e, poi, normativo. In questo passaggio la Chiesa cattolica ha piuttosto agito al seguito di trasformazioni culturali e normative avvenute al di fuori di essa. È arrivata più tardi a riconoscere il valore autonomo e fondativo dell’amore reciproco. Fino alla enciclica Gaudium et Spes, il fine principale del matrimonio (e della sessualità) era quello procreativo e la distinzione di genere era chiaramente asimmetrica, come suggerito dalla età minima per accedervi, non solo più bassa dell’attuale, ma diversa per i due sessi: più bassa, 14 anni (più o meno coincidente con l’età media al menarca, quindi alla potenzialità riproduttiva), per le ragazze; 16 anni per i ragazzi. Una norma che, indirettamente, consentiva anche che un uomo ampiamente adulto sposasse una bambina, come ancora avviene in alcuni Paesi in via di sviluppo. Se la Gaudium et Spes riconosce che scopo del matrimonio è anche il farsi stare bene reciprocamente, si è dovuti arrivare a Giovanni Paolo II, poi al papa Francesco di Amoris Laetitia perché l’amore divenisse, anche per la Chiesa cattolica, la cifra sia dei rapporti coniugali sia dei rapporti genitori-figli, perché venisse riconosciuta piena dignità alla relazione amorosa a prescindere dalla sua finalità riproduttiva.
Si tratta di una evoluzione culturale, oltre che teologica, che tuttavia non ammette la propria storicità, continuando invece a pretendere di parlare della “famiglia naturale”, gettando di fatto nella “innaturalità” secoli di storia famigliare in Occidente e intere civiltà e culture.
Proprio questa trasformazione del rapporto coniugale come relazione che ha nella dimensione amorosa il proprio fondamento e giustificazione primaria, al punto da creare ripugnanza nei confronti dei matrimoni combinati o “di interesse”, ha dapprima aperto la strada al divorzio come esito non di una colpa, ma di una presa d’atto che non ci si riconosce più in quel rapporto, che quel rapporto non fa più “stare bene”. Successivamente, ha aperto anche al riconoscimento, prima culturale e poi giuridico, della dignità relazionale dei rapporti d’amore tra persone dello stesso sesso. Questo processo ha anche rafforzato l’individuazione della relazione di coppia, e solo di essa, come la relazione amorosa per eccellenza e unica relazione “orizzontale” tra adulti non consanguinei meritevole di riconoscimento, a esclusione di altre relazioni che vedano una diversa combinazione numerica. Anche nei Paesi occidentali più liberali rispetto alla molteplicità delle definizioni di famiglia, l’unica relazione a carattere “coniugale” riconosciuta legalmente (e, in parte, socialmente) è quella di coppia. Né poligamia né poliandria hanno riconoscimento legale in Occidente, anche se lo hanno in altri Paesi, con conseguenze sulla (in)trasportabilità da un Paese all’altro, in caso di mobilità geografica, delle relazioni e obbligazioni legittimamente assunte in uno, ma illegittime nell’altro.
Mentre un numero crescente di Paesi ha equiparato pienamente le coppie di persone dello stesso sesso a quelle di persone di sesso diverso, consentendo anche alle prime l’accesso al matrimonio, alla definizione di famiglia e alla genitorialità[10], la legge italiana sulle unioni civili costituisce solo un riconoscimento parziale della pari dignità dei rapporti di coppia tra persone dello stesso sesso rispetto a quelli tra persone di sesso diverso. In primo luogo, non riconosce lo status di “famiglia”, o di elemento base per la formazione di una famiglia, alle prime, non solo perché non consente loro di sposarsi bensì solo di accedere a un diverso istituto giuridico, ma proprio esplicitamente rifiutando di definirle come tali. A prima vista, può sembrare un puro “accanimento terminologico”, stante che poi la legge riconosce alle coppie di persone dello stesso sesso gli stessi diritti e doveri attribuiti a chi si sposa. Vi sono, tuttavia, altri due passaggi in questa legge che confermano la non volontà di riconoscimento della dimensione “famigliare” a queste coppie. La prima è la mancanza dell’obbligo di fedeltà. Può sembrare una (non) norma ridicola o, addirittura, di vantaggio per le coppie dello stesso sesso rispetto a quelle di persone di sesso diverso che si sposano. In realtà, si tratta di una non troppo sottile allusione a una intrinseca promiscuità delle persone omosessuali e, allo stesso tempo, una sottolineatura del fatto che queste non possano, per questo, aspirare alla piena dignità di una “coppia coniugale”. Senza, peraltro, specificare che cosa si intenda per “fedeltà”, concetto complesso certamente non riducibile alla sola sessualità nel modello di coppia contemporaneo, ove proprio l’aspettativa di stare reciprocamente bene, di prendersi cura l’uno dell’altro, di sviluppare rapporti di reciprocità e fiducia, ha modificato profondamente che cosa si intende per fedeltà. Si può essere “infedeli” non solo facendo sesso con una persona diversa dal proprio coniuge, ma – direi, soprattutto – venendo meno agli obblighi di reciprocità, essendo lontani, disattenti, estranei, trascurando il benessere dell’altro/a. Molte separazioni e divorzi non avvengono perché c’è stato qualche “tradimento” sul piano sessuale, ma perché l’uno o l’altra si sentono traditi nelle proprie aspettative, o perché le aspettative sono cambiate o si è diventati estranei. Senza sottovalutare l’importanza della sessualità e anche della fedeltà sessuale come componente del benessere della coppia e del rapporto fiduciario su cui si basa, qualcuno può considerare l’infedeltà sessuale meno importante della rottura della fiducia su altri piani della vita e attese comuni.
Il secondo, molto più importante, passaggio della norma sulle unioni civili che marca il rifiuto a considerare le coppie dello stesso sesso come “famiglia”, riguarda la negazione della possibilità che diventino genitori, appunto, come coppia e non solo come singoli. Con il risultato che i figli – nel senso proprio di generati nel desiderio, nell’accoglienza, nell’assunzione di responsabilità – di una coppia dello stesso sesso sono condannati per legge a rimanere orfani di un genitore.
Non va, infine, dimenticato che l’aver introdotto un istituto ad hoc per le coppie dello stesso sesso invece di estendere loro la possibilità di sposarsi ha provocato, di fatto, l’istituzione di un terzo istituto giuridico della coppia (in questo caso, sia dello stesso sesso che di sesso diverso): quello della convivenza. È vero che la legge sulle unioni civili è nata dalla confluenza di due richieste distinte, quella delle coppie dello stesso sesso di accedere al matrimonio e quella delle coppie conviventi, sia dello stesso sesso sia di sesso diverso, di avere una forma di riconoscimento giuridico delle proprie relazioni – e dei diritti e doveri reciproci che ne scaturiscono – diverso, “più leggero” del matrimonio (in particolare, per quanto riguarda le obbligazioni nei confronti delle reciproche parentele, così forti nel codice civile italiano), analogo ai “patti civili di solidarietà” francesi. La richiesta, in altri termini, era di non avere solo il matrimonio come forma di riconoscimento dello statuto di coppia. Il risultato dei veti e compromessi sulla prima richiesta ha portato, appunto, alla definizione di tre istituti giuridici della coppia distinti: quello matrimoniale, destinato alle sole coppie di persone di sesso diverso; l’unione civile, destinata solo alle coppie di persone dello stesso sesso; la convivenza, destinata a entrambi i tipi di coppia che non desiderino accedere allo statuto “più forte” cui avrebbero distintamente diritto.
Benché alle coppie conviventi venga riconosciuto, nel linguaggio e sentimento comune, e anche nella giurisprudenza, l’essere “famiglie di fatto”, in linea di principio esse cadrebbero sotto la medesima definizione di “non famiglie” delle unioni civili, nella misura in cui non sono coniugate. Non si vede, tuttavia, come si possa rifiutare lo status legale di famiglia a conviventi che abbiano figli legalmente riconosciuti. Non faranno – per legge – famiglia come coppia, ma come genitori senz’altro.
Aggiungo che si arriva, in questo modo, al paradosso per cui sarebbe famiglia, dal punto di vista giuridico, quella composta da una coppia coniugata in cui uno o entrambi provengono da un matrimonio precedente da cui hanno avuto figli che vivono con loro (e che hanno un genitore che vive da un’altra parte, con cui pure “sono famiglia”), mentre non sarebbe famiglia, dal punto di vista legale, una coppia “semplice”, con i propri figli, solo perché non sposata. La pretesa di definire in modo univoco che cosa sia famiglia e quali ne siano i confini può giocare brutti scherzi e portare a esiti imprevisti.
Va, infine, osservato, che considerare la famiglia nell’ottica della formazione sociale, oltre a denaturalizzarla, aiuta a vederla come costruzione insieme intersoggettiva e in società, in cui si sviluppano obbligazioni e diritti reciproci e verso terzi, insieme liberamente scelti e plasmati dalle concrete circostanze sociali e culturali in cui ci si trova. Una costruzione che, benché esito delle attività e intenzioni di chi la mette in moto, a sua volta le e li trasforma non solo psicologicamente, ma anche nelle opportunità e nei vincoli che incontrano, seppure non nello stesso modo per tutti i soggetti coinvolti. Per questo, la previsione di contratti pre-matrimoniali che dettaglino puntigliosamente il fare e non fare, il dare e l’avere in costanza di matrimonio non possono prevedere i possibili cambiamenti – nelle opportunità, nei vincoli, nei desideri – che possono mutare i rapporti di potere e le convenienze dei partner di una coppia. Per lo stesso motivo, dissento da una visione del matrimonio come una relazione in cui, in nome dell’uguaglianza, ciascuno entra con quello che ha ed esce ancora con ciò – in termini patrimoniali, di capacità economica, di lavoro – che ha individualmente. Questa concezione non solo censura il fatto che l’uguaglianza rimane ampiamente teorica sul piano pratico, sia entro la coppia, sia in società; non considera neppure che, in quanto formazione, società costruita, giorno per giorno, tramite decisioni piccole e grandi che interagiscono tra loro e con le circostanze di ciascuno, la famiglia non è qualche cosa “di esterno” ai singoli. È un’esperienza, un “fatto sociale” comune, in senso durkheimiano, che – nel bene e nel male – entra a costituire sia la personalità di ciascuno sia il suo sistema di vincoli e opportunità. Chi l’ha fatta insieme, deve condividerne costi e benefici se e quando si decide di disfarla.
4. Confini mobili
Al di là degli equilibrismi linguistici, la duplice ottica della storicità e pluralità delle forme famigliari e delle “formazioni sociali in cui si svolge la personalità” attenua le distinzioni tra “famiglie di fatto” e “famiglie di diritto”. O meglio, apre uno spazio perché anche le prime possano essere accolte tra le seconde, perché la definizione giuridica di famiglia perda la propria monoliticità per riconoscere dignità relazionale e rilevanza pubblica a una pluralità di forme. Quali siano queste forme e come ciò avvenga non può essere deciso a tavolino: piuttosto, è necessariamente oggetto di negoziazioni, compromessi, giudizi di valore in rapporti spesso asimmetrici. Basta non partire da pregiudizi circa l’univocità e, tantomeno, la “naturalità” vuoi della famiglia, vuoi delle “formazioni sociali in cui si realizza la personalità”.
Lasciando in sospeso la questione di quanto e come allargare questi confini, vorrei sollevarne qui un’altra: quella della difficile “portabilità” dei propri diritti e doveri relazionali da una società all’altra. Non mi riferisco solo né principalmente alla questione, già accennata, della intrasportabilità legale – nei Paesi con statuti di coppia monogamici – dei rapporti poligamici o poliandrici. Mi riferisco, soprattutto, alle difficoltà che hanno i migranti a vedersi riconoscere il diritto ai propri legami famigliari. Il caso eclatante dei bambini separati dai genitori entrati illegalmente negli Usa dal confine con il Messico ha commosso, per qualche giorno, il mondo. Ma succede anche in Europa che i migranti si vedano violato il proprio “diritto alla famiglia”. Nonostante, ai fini della mobilità al proprio interno, la normativa europea abbia una delle definizioni di legami famigliari tra le più estensive, ogni Paese la applica in modo più o meno restrittivo quando si tratta di consentire il ricongiungimento famigliare[11]. Le restrizioni possono riguardare le condizioni (economiche, abitative, linguistiche) alle quali è consentito chiedere il ricongiungimento, ma anche chi vi è ammesso: solo i coniugi e i figli minori? Anche i figli maggiorenni? Anche i parenti stretti? Quali? In alcuni Paesi, ad esempio in Germania, anche per il ricongiungimento con il/la coniuge, in nome dell’obiettivo dell’integrazione, viene richiesto il superamento di una prova linguistica. In altri può succedere che una lunga separazione, dovuta alle necessità di guadagnare e alle difficoltà di rientrare nel Paese “ospite” una volta usciti dai suoi confini, sia interpretata come prova di cattivo maternage e abbandono, quindi come un impedimento al ricongiungimento dei figli – è successo in Olanda. Le difficoltà normative frapposte, nei Paesi di origine e di arrivo, al pendolarismo tra due Paesi possono rendere difficile mantenere in modo significativo i rapporti e le obbligazioni reciproche delle famiglie transnazionali dei migranti economici non-Ue. Anche per i cittadini Ue, le normative relative ai permessi di soggiorno possono rendere difficile al coniuge “ricongiunto”, per lo più una donna, trovarsi un lavoro ed essere economicamente autonoma, costringendola così in una dipendenza dal partner in contrasto con il modello della parità.
Gli esempi potrebbero continuare. Essi segnalano come il diritto a vedersi riconosciute le proprie relazioni famigliari, come formazione sociale in cui si realizza la personalità, non è uguale per tutti: in famiglie standard o meno, per autoctoni e migranti, ricchi e poveri, persone con maggiore o minore prestigio e potere sociale nonché, in alcuni, casi anche uomini e donne.
5. Un rischio
L’allargamento della definizione di famiglia anche a relazioni “non standard”, in combinazione con la focalizzazione sulla coppia e sui rapporti di generazione come luoghi deputati all’affettività e allo “svolgimento della personalità”, porta con sé il rischio di considerare la famiglia, le relazioni famigliari comunque intese e allargate, come le uniche relazioni importanti per lo sviluppo dell’identità. Incontri, rapporti “generativi” importanti con qualcuno che ci ha fatto da “maestro/a”, amicizie che hanno segnato profondamente la nostra vita, esperienze di appartenenza collettiva che hanno arricchito di dimensioni emotive, relazionali, conoscitive la nostra esperienza e il nostro modo di essere, rischiano di essere considerate marginali. C’è il rischio di una definizione familistica, per quanto allargata, della relazionalità che ci costituisce come esseri umani.
È utile, per evitare questo rischio, tornare al concetto di “formazioni sociali in cui si esprime la personalità”, mantenendone l’apertura, la pluralità possibile per ciascuno. Ciò non significa che tutte debbano essere normate e a tutte si debba dare riconoscimento legale, ma che di esse si deve tenere conto ogni volta che si prende una decisione vincolante per la vita di qualcuno. Che si deve essere consapevoli che distruggere, o impedire di sviluppare la rete di relazioni extra-famigliari di qualcuno, anche di un bambino, può vincolare fortemente lo sviluppo della sua personalità.
[1] J. Bowlby, Attaccamento e perdita, voll. 1-3, Bollati Boringhieri, Torino, 1999-2001.
[2] Si veda, ad esempio, P. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Laterza, Bari, 1968.
[3] Si vedano, ad esempio, F. Remotti, Forme di umanità, Mondadori, Milano, 2002, e id., Contro natura. Lettera al papa, Laterza, Bari, 2008; P.P. Viazzo e F. Remotti, La famiglia: uno sguardo antropologico, in Aa. Vv., La famiglia, Università Bocconi Editore, Milano, 2007, pp. 40–65; A. Burguière e F. Lebrun, The one hundred and one families of Europe, in A. Burguière - C. Klapisch-Zuber - M. Segalen - F. Zonabend (a cura di), A history of the family, vol. 1, Oxford University Press, Oxford, 1996.
[4] Sul complesso processo che ha portato al riconoscimento di questo diritto nel caso dell’adozione e le problematiche tuttora aperte si veda, ad esempio, G. Grasso, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini, tra vecchi e nuovi feticci, in Minori e giustizia, n. 4/2018, pp. 80-90.
[5] Irène Théry, Des humains comme les autres. Bioéthique, anonymat et genre du don, Éditions de l’EHESS, Parigi, 2010.
[6] È un tema che ho affrontato anche nel mio Mamme e papà. Gli esami non finiscono mai, Il Mulino, Bologna, 2016.
[7] Ho sviluppato più approfonditamente questo tema nel mio Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, Milano 2015 (seconda edizione). Si veda anche F. Remotti, Contro natura, op. cit.
[8] Cfr. M. Segalen, The modern reality of kinship: sources and significance of new kinship forms in contemporary Europe, in P. Heady e M. Kohli (a cura di), Family, Kinship and State in contemporary Europe, vol. 3, Campus, Francoforte, 2010, pp. 249-270.
[9] A. Melloni, Amore senza fine, amore senza fini, Il Mulino, Bologna, 2015.
[10] Quest’ultima può trovare restrizioni rispetto all’accesso a talune forme di riproduzione assistita, in particolare alla gestazione per altri, che tuttavia coincidono per lo più con quelle estese anche alle coppie di persone di sesso diverso. Pur essendo cautamente favorevole alla gestazione per altri a determinate condizioni, come argomentato più sopra, non sono d’accordo con chi sostiene che vietarla tout court discrimina le coppie omosessuali maschili rispetto al diritto a provare a diventare genitori. La questione della gestazione per altri riguarda, infatti, a mio parere – e va affrontata rispetto ai loro diritti relazionali e alla loro salute –, le donne gestanti, le donatrici di ovuli e coloro che vengono al mondo per questo tramite.
[11] Su questi temi, si veda anche il mio Family matters: Social policy, an overlooked constraint on the development of European citizenship, in A. Kessler Harris e M. Vaudagna (a cura di), Democracy and the Welfare State, Columbia University Press, New York, 2018, pp. 229-248; J. Long - M. Naldini - A. Santero, The role of reproductive rights and family policies in defining parenthood e D. Haley - D. Leplanka - A. Santero, Differently unequal. On migrants stratified access to family reunification and family enttlements in the Netherlands, Israel and Italy, entrambi in T. Knijn e M. Naldini (a cura di), Gender and generational divisions in EU citizenship, Edward Elgar, Cheltenham, 2018, pp. 87-110 e 111-139 (rispettivamente).