Magistratura democratica

Il procedimento concorsuale liquidatorio

di Valentino Lenoci
Il presente saggio analizza le principali novità riguardanti le procedure liquidatorie disciplinate dal nuovo CCII. In particolare, vi è esaminata la procedura di liquidazione giudiziale, nelle diverse fasi del suo sviluppo (dal procedimento unitario di regolazione della crisi fino al riparto e alla chiusura). Sono, poi, fatti dei cenni alle procedure del concordato preventivo liquidatorio e della liquidazione controllata del sovraindebitato.

1. Dal fallimento alla liquidazione giudiziale

La novità forse più rilevante, dal punto di vista semantico, del nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’ora innanzi: CCII), è rappresentata dalla definitiva scomparsa del termine «fallimento», e della relativa aggettivazione «fallimentare», dalla disciplina della gestione giudiziale della crisi, con conseguente eliminazione anche del termine «fallito» per indicare il debitore insolvente.

La procedura fallimentare, infatti, è stata sostituita dalla procedura di liquidazione giudiziale, in cui è evidente, già dalla denominazione, la funzione prettamente liquidatoria, in funzione di soddisfacimento dei creditori.

L’eliminazione dei termini «fallimento» e «fallito» è poi stata estesa a tutti i testi normativi: ai sensi dell’art. 349 CCII, infatti, «nelle disposizioni normative vigenti i termini “fallimento”, “procedura fallimentare”, “fallito”, nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni “liquidazione giudiziale”, “procedura di liquidazione giudiziale” e loro derivati, con salvezza di continuità della fattispecie».

Più in particolare, poi, l’art. 382 del CCII, prevede, nei tre commi, la sostituzione degli artt. 2288, comma 1, 2308, comma 1, e 2497, comma 4, cc, e – per l’appunto – dei termini in questione mediante il riferimento, invece, alla procedura di liquidazione giudiziale[1].

Come chiarito dalla relazione illustrativa della riforma, con tale modifica terminologica si è voluto eliminare «l’aura di negatività e di discredito, anche personale, che storicamente si accompagna» alla parola fallimento o allo status di fallito, consentendo altresì anche al nostro Paese di allinearsi a una «tendenza già manifestatasi nei principali ordinamenti europei di civil law (tra cui quelli di Francia, Germania e Spagna)».

Ciò posto, va comunque evidenziato che, al di là delle innovazioni terminologiche, il legislatore del 2019 non ha comunque stravolto le caratteristiche principali del vecchio fallimento, avendo proceduto per lo più a riorganizzare la precedente disciplina al fine di rendere la procedura liquidatoria più rapida e snella.

Semmai, appare rilevante la circostanza che, nel sistema del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, la procedura di liquidazione giudiziale sia stata posta dopo la disciplina relativa alle procedure finalizzate alla continuità aziendale, quali gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato preventivo: il che dimostra come, nel nuovo sistema normativo, la liquidazione sia considerata come una mera eventualità rispetto alle procedure recuperatorie e di salvataggio aziendale, che acquistano una sempre maggiore rilevanza, testimoniata anche dall’introduzione delle nuove procedure di allerta (artt. 12 ss. CCII) e di composizione assistita della crisi (artt. 19 ss. CCII), nonché dalla previsione, per l’imprenditore individuale e per gli amministratori di società, di adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi, nonché un assetto organizzativo adeguato in tal senso (artt. 3 e 375 CCII), con il conseguente dovere, in capo agli organi di controllo, di segnalare tempestivamente gli indicatori della crisi (art. 14 CCII).

2. I presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale

Il nuovo codice conferma l’insolvenza quale presupposto oggettivo per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale (art. 121 CCII).

Seguendo la più recente tecnica legislativa, nella parte iniziale del codice sono contenute una serie di definizioni ai fini della sua applicazione. In base, dunque, all’art. 2, comma 1, lett. b, CCII, per «insolvenza» si intende «lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

La definizione è sostanzialmente identica a quella dell’art. 5 l.fall. e, sul punto, non ci si attendono grandi evoluzioni giurisprudenziali, essendo ormai la nozione di insolvenza ampiamente esplorata dalle corti e dalla dottrina[2].

La nozione di insolvenza viene, peraltro, distinta da quella di crisi, che è indicata come «lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate» (art. 2, comma 1, lett. a, CCII).

Lo stato di crisi, quindi, non viene più configurato come un genus all’interno del quale è ricompresa la species  dell’insolvenza (secondo lo schema dell’attuale art. 160, comma 3, l.fall.), ma, più correttamente, le due situazioni sono delineate come differenti e autonome, entrambe rilevanti per l’ammissione a procedure di soluzione della crisi quali il concordato preventivo (art. 85, comma 1, CCII), gli accordi di ristrutturazione dei debiti (art. 57, comma 1, CCII) o i piani di risanamento (art. 56, comma 1, CCII), mentre per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale l’unico presupposto rilevante è quello dell’insolvenza, non potendosi quindi ammettere alla procedura il debitore che si trovi solo in stato di crisi[3].

Anche con riferimento al presupposto soggettivo, non vi sono novità rilevanti rispetto all’attuale legge fallimentare.

L’art. 121 CCII, infatti, prevede che le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano «agli imprenditori commerciali che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lettera d)».

Il presupposto soggettivo, quindi, è rimasto sostanzialmente inalterato rispetto a quanto previsto dall’art. 1 l.fall., anche se lo schema di d.lgs approvato dal Consiglio dei ministri l’8 novembre 2018, e trasmesso alle Camere il 14 novembre 2018 per l’ottenimento dei pareri delle commissioni competenti, aveva eliminato dall’art. 121 la locuzione «commerciali», abrogando di fatto l’art. 2221 cc e assoggettando alla liquidazione giudiziale tutti gli imprenditori in stato di insolvenza, anche quelli non commerciali, nonché indicando esclusivamente i casi di non assoggettabilità degli imprenditori minori sotto soglia.

Ciò avrebbe determinato, pertanto, l’assoggettabilità a liquidazione giudiziale anche degli imprenditori agricoli, così superandosi definitivamente quella distinzione, per l’appunto, tra imprenditori commerciali e imprenditori agricoli, ormai da più parti ritenuta anacronistica[4].

Il legislatore delegato, tuttavia, con una decisione dell’ultimo momento, ha preferito conservare la distinzione tra imprenditore commerciale e imprenditore agricolo, limitando l’assoggettabilità alla liquidazione giudiziale soltanto all’imprenditore commerciale, fermo restando che, con ogni probabilità, rimarrà comunque in essere la più recente elaborazione giurisprudenziale, che aveva comunque ritenuto soggetto a fallimento l’imprenditore, pur qualificatosi agricolo, ove non sussista un collegamento funzionale della sua attività con la terra, e quindi con un “ciclo biologico”[5].

Il sistema che ne è risultato, dunque, è sostanzialmente analogo a quello della vecchia legge fallimentare, per cui alla procedura di liquidazione giudiziale saranno assoggettati gli imprenditori commerciali (individuali e collettivi), e quindi non solo quei soggetti specificamente qualificati come tali, ma anche, a titolo non esaustivo: a) le imprese artigiane; b) le associazioni, riconosciute e non, e le fondazioni, allorché esercitino un’attività d’impresa che costituisca attività prevalente[6]; c) gli enti ecclesiastici[7]; d) i consorzi con attività esterna[8]; e) le società che esercitano un’attività sportiva in conformità del predetto art. 2092 cc[9]; f) la holding di tipo personale[10]; g) le imprese familiari; h) i minori incapaci autorizzati all’esercizio dell’impresa[11].

Sono, invece, esclusi dalla procedura di liquidazione giudiziale gli enti pubblici qualificati come tali dalla legge, oltre che, come già detto, gli imprenditori agricoli e le start-up innovative (per questi ultimi rimane in essere l’assoggettamento alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, come previsto ora dall’art. 2, comma 1, lett. c, CCII).

Sostanzialmente invariati, rispetto all’attuale disciplina, sono anche i requisiti dimensionali richiesti per l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale.

È stata, a tal proposito, introdotta la nozione di «impresa minore» per indicare quelle imprese che presentino congiuntamente i seguenti requisiti: 1) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore a euro 300 mila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore a euro 200 mila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività, se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti, anche non scaduti, non superiore a euro 500 mila. Tali valori sono aggiornabili ogni tre anni con decreto del Ministero della giustizia (art. 2, comma 1, lett. d, CCII).

Tali “imprese minori” sono, dunque, escluse dalla liquidazione giudiziale, dal concordato preventivo e dagli accordi di ristrutturazione del debiti, e possono invece accedere alle procedure minori del sovraindebitamento. Viene inoltre confermato che l’onere probatorio circa la ricorrenza dei requisiti di non assoggettabilità alla procedura è a carico del debitore, anche in ossequio al principio giurisprudenziale di “vicinanza della prova”[12].

L’unica rilevante novità, sul punto, consiste nella eliminazione dell’aggettivo «lordi» riferito ai ricavi, come previsto attualmente dall’art. 1, comma 2, lett. b, l.fall., così rimandandosi integralmente alla disciplina prevista dagli artt. 2425 e 2425-bis cc per l’individuazione di tale requisito[13]. Resta comunque fermo il principio per cui i ricavi possono risultare “in qualunque modo”, così come previsto dall’attuale legge fallimentare, e quindi sia dalla contabilità ufficiale che attraverso accertamenti, anche non definitivi, dell’Agenzia delle entrate, ovvero attraverso dati extracontabili desumibili da indagini della polizia tributaria, potendo dunque il giudice modificare i ricavi dichiarati, ai fini della verifica del superamento o meno della predetta soglia[14].

3. Il procedimento unitario di regolazione della crisi e la liquidazione giudiziale

Come è noto, una delle novità più rilevanti nella nuova disciplina riguarda l’“unificazione” delle procedure finalizzate all’apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo, o all’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti.

Le ragioni di tali innovazione attengono, da un lato, alla necessità di coordinare e regolamentare le ipotesi di coesistenza della richiesta di liquidazione giudiziale con la richiesta di accesso a una delle procedure recuperatorie (concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti); dall’altro, all’opportunità di una esatta individuazione del dies a quo dal quale far decorrere il termine per l’esercizio dell’azione revocatoria concorsuale.

L’art. 49 CCII, al primo comma, dispone infatti che in tanto potrà farsi luogo all’apertura della liquidazione giudiziale, in quanto siano prima «definite le domande di accesso ad una procedura di regolazione concordata della crisi o dell’insolvenza» eventualmente proposte, con ciò prevedendosi finalmente una situazione di pregiudizialità giuridica della richiesta di accesso al concordato preventivo o agli accordi di ristrutturazione rispetto alla procedura liquidatoria[15].

L’art. 166 CCII, infatti, fa coincidere tale momento di decorrenza con quello del «deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale», con ciò facendo chiaramente intendere che, nel caso di liquidazione giudiziale pronunciata pur in presenza di una domanda di ammissione a concordato preventivo o di omologazione di accordo di ristrutturazione dei debiti, dovrà farsi riferimento, comunque, al deposito della prima domanda del procedimento unitario, nel quale sono confluite le domande successive (di apertura della liquidazione giudiziale, o di ammissione a una procedura recuperatoria).

Per quel che riguarda la legittimazione a richiedere l’apertura della procedura liquidatoria, l’art. 37, comma 2, CCII conferma quella del debitore, di uno o più creditori o del pubblico ministero, ma prevede altresì la legittimazione «degli organi e delle autorità amministrative che hanno funzioni di controllo e di vigilanza sull’impresa».

Trattasi di legittimazione autonoma, che tali organi di controllo (interni ed esterni) esercitano in proprio, e non in rappresentanza del debitore, e che si giustifica con l’ampliamento dei poteri di controllo di questi organi, in funzione dell’adozione degli adeguati assetti organizzativi e della tempestiva emersione della crisi (art. 14 CCII).

Risulta, inoltre, ampliato (o, forse, meglio delimitato rispetto alla disciplina attuale) il potere di iniziativa del pubblico ministero, il quale, da un lato, potrà presentare la richiesta di apertura della procedura di liquidazione giudiziale ogni qualvolta abbia notizia (in qualunque forma) dell’esistenza di uno stato di insolvenza; dall’altro lato, potrà assumere tale iniziativa dopo aver ricevuto notizie sull’esistenza di uno stato di insolvenza dall’autorità giudiziaria, che sarà tenuta a farne segnalazione una volta che lo abbia rilevato in un qualunque procedimento (art. 38, comma 2, CCII)[16].

Lo svolgimento del procedimento, con riferimento alla richiesta di apertura della procedura di liquidazione giudiziale, ricalca sostanzialmente quello delineato attualmente dall’art. 15 l.fall.

Viene infatti previsto un termine di convocazione non inferiore a 15 giorni rispetto alla data di notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, al fine di garantire un adeguato diritto di difesa, e salva la possibilità di abbreviazione dei termini nei casi di urgenza. Inoltre, è stata prevista la possibilità di delega, da parte del tribunale, al giudice relatore, ai fini dell’audizione delle parti e dell’ammissione e dell’espletamento dei mezzi istruttori (art. 41, comma 6, CCII).

Una novità rilevante, rispetto alla disciplina attuale, riguarda l’intervento di terzi nel corso del procedimento, che sarà sempre possibile – purché, ovviamente, si tratti di terzi legittimati alla presentazione della domanda di apertura della procedura – «sino a che la causa non venga rimessa al collegio per la decisione», e quindi, in pratica, sino a quando il giudice delegato o il tribunale non si riservino per la decisione (art. 41, comma 5, CCII).

 Altra rilevante novità – che peraltro recepisce la prassi già in vigore presso numerosi uffici giudiziari – riguarda l’obbligo, per la cancelleria, a seguito della procedura della domanda di apertura della liquidazione giudiziale o del concordato preventivo, di acquisire mediante collegamento telematico diretto alle banche dati dell’Agenzia delle entrate, dell’Inps e del registro delle imprese, i dati e i documenti relativi al debitore, come individuati dall’art. 367 CCII[17].

Scompare, invece, rispetto all’attuale art. 15 l.fall., il potere per le parti di nominare propri consulenti tecnici, ma tale mancata previsione non pare poter fondare un divieto assoluto in ordine a tale nomina[18].

L’art. 43 CCII disciplina poi, finalmente, la fattispecie della rinuncia alla domanda di apertura della liquidazione giudiziale (quella che, in gergo forense, viene chiamata “desistenza”). Si prevede, in questi casi, che il procedimento si estingua, con la possibilità altresì di condanna alle spese della parte che ha dato causa al giudizio[19].

La rinuncia alla domanda fa salva, in ogni caso, la legittimazione del pubblico ministero, al quale deve inoltre essere comunicato il decreto di estinzione, affinché l’organo requirente possa valutare di presentare una sua autonoma istanza di apertura della procedura.

L’apertura della procedura è disposta con sentenza, con la quale – come avviene nel sistema attuale – il tribunale nomina il giudice delegato e il curatore, con la possibilità, inoltre, di nominare anche «uno o più esperti per l’esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore» (art. 49, comma 3, lett. b, CCII).

Una rilevante novità riguarda la previsione dell’autorizzazione al curatore – disposta con la sentenza di apertura della procedura, con le modalità di cui agli artt. 155-quater, 155-quinquies e 155-sexies disp. att. cpc –, ad accedere alle banche dati dell’anagrafe tributaria e dell’archivio dei rapporti finanziari, nonché alla banca dati degli atti assoggettati a imposta di registro, e ad estrarre copia degli stessi, con possibilità di acquisizione dell’elenco dei clienti e dei fornitori di cui all’art. 21 dl 31 maggio 2010, n. 78, convertito in l. 30 luglio 2010, n. 122, e della documentazione contabile in possesso delle banche e degli altri intermediari finanziari.

Si tratta di poteri già oggi in parte esercitati ed esercitabili dal curatore, ma che sono stati meglio definiti, e probabilmente consentiranno una maggiore efficienza dell’azione dell’ufficio.

La sentenza di apertura della procedura deve essere iscritta nel registro delle imprese, con la precisazione che gli effetti nei confronti del fallito si producono dalla data di pubblicazione in cancelleria, mentre nei confronti dei terzi si producono dalla data di iscrizione nel suddetto registro.

Anche nel nuovo sistema rimane fermo il principio per cui non si fa luogo alla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati sia complessivamente inferiore a euro 30 mila (art. 49, comma 5, CCII).

4. Gli organi della procedura

La nuova disciplina conferma, quali organi della procedura, il tribunale concorsuale, il giudice delegato, il curatore e il comitato dei creditori.

Al tribunale sono attribuiti compiti generali di supervisione e controllo: esso, infatti, oltre alla nomina, alla revoca e alla sostituzione degli altri organi, ha poteri di audizione in ogni tempo del curatore, del comitato dei creditori e del debitore, e decide i reclami avverso i provvedimenti del giudice delegato.

I poteri del giudice delegato nell’ambito della liquidazione giudiziale sono elencati nell’art. 123 CCII, che ricalca a grandi linee i contenuti dell’art. 25 l.fall.

Il giudice delegato, quindi, esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura, laddove le funzioni direttive e di gestione sono riservate al curatore, sotto il controllo del comitato dei creditori.

In particolare, il giudice delegato: a) riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio; b) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del patrimonio, a esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione; c) convoca il curatore e il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla legge e ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura; d) su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l’eventuale revoca dell’incarico conferito alle persone la cui opera è stata richiesta dal medesimo curatore nell’interesse della procedura;  e) provvede sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori; f) autorizza il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto, quando è utile per il miglior soddisfacimento dei creditori,  g) nomina gli arbitri, su proposta del curatore; h) procede all’accertamento dei crediti e dei diritti vantati da terzi sui beni compresi nella procedura; i) quando ne ravvisa l’opportunità, dispone che il curatore presenti relazioni ulteriori rispetto a quelle previste dall’art. 130, prescrivendone le modalità.

Rispetto al dettato dell’art. 25 l.fall., l’art. 123 CCII contiene alcune novità sotto i seguenti profili: 1) è stato eliminato il termine di 15 giorni entro cui il giudice delegato doveva provvedere sui reclami contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori; 2) si precisa che l’autorizzazione alle azioni debba essere data previa valutazione, non soltanto della fondatezza in astratto dell’azione medesima, ma altresì in considerazione dell’effettivo beneficio che l’azione produca per i creditori; 3) viene “normato” il principio, già applicato nella prassi, per cui il giudice delegato può richiedere al curatore di presentare relazioni ulteriori rispetto alle relazioni e rapporti riepilogativi semestrali previsti nell’attuale art. 130 CCII.

Proprio questi ultimi costituiscono uno dei mezzi principali a disposizione del giudice delegato per esercitare le proprie funzioni di vigilanza e controllo[20].

Il curatore è l’organo cui compete l’amministrazione del patrimonio da liquidare. Egli deve compiere tutte le operazioni della procedura, sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite (art. 128 CCII).

Rispetto a quanto previsto dall’art. 33 l.fall., con riguardo agli obblighi informativi in capo al curatore, l’art. 130 CCII ha ridotto da sessanta a trenta giorni il termine (decorrente dalla dichiarazione di apertura della procedura) entro il quale lo stesso curatore deve presentare al giudice delegato una relazione contenente l’informazione circa gli accertamenti compiuti e quanto è stato accertato sulle cause dell’insolvenza, nonché sull’eventuale responsabilità del debitore, degli amministratori o degli organi di controllo.

Sono stati, inoltre, introdotti nuovi obblighi informativi in capo al curatore: in particolare, è stata prevista una segnalazione al pubblico ministero laddove il debitore non depositi copia dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie (art. 130, comma 2, CCII) ed è stato altresì previsto che, entro sessanta giorni dal decreto di esecutività dello stato passivo, presenti al giudice delegato una relazione particolareggiata in ordine al tempo e alle cause dell’insorgere della crisi e del manifestarsi dell’insolvenza del debitore, sulla diligenza spiegata dal debitore nell’esercizio dell’impresa, sulla responsabilità del debitore o di altri e su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale, oltre che, in caso di società, sulla responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, del soci e – eventuale – di estranei alla società (art. 130, commi 4 e 5, CCII)[21].

Il curatore, inoltre, ha la facoltà di accedere alle banche dati delle pubbliche amministrazioni e, in mancanza di collaborazione del debitore, deve reperire la documentazione idonea a ricostruire la situazione economica e finanziaria dell’imprenditore acquisendo, con l’autorizzazione del giudice, tutti i dati, le informazioni e la documentazione indicati nell’art. 130, comma 2, CCII.

Il primo rapporto riepilogativo deve essere presentato dal curatore entro 4 mesi dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo; i successivi, ogni sei mesi. Copia del rapporto e dei documenti allegati è trasmessa al comitato dei creditori. Nel termine di quindici giorni, il comitato dei creditori o ciascuno dei suoi componenti possono formulare osservazioni scritte. Nei successivi quindici giorni, copia del rapporto, assieme alle eventuali osservazioni, omesse le parti secretate, è trasmessa per mezzo della posta elettronica certificata al debitore, ai creditori e ai titolari di diritti sui beni.

La diligenza richiesta al curatore è quella propria «richiesta dalla natura dell’incarico» (art. 136, comma 1, CCII), e quindi una diligenza professionale qualificata, secondo i noti parametri di cui all’art. 1176, comma 2, cc.

Il curatore deve tenere un registro informatico consultabile telematicamente, oltre che dal giudice delegato, da ciascuno dei componenti del comitato dei creditori, nel quale deve annotare giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione. Mensilmente, il curatore firma digitalmente il registro e vi appone la marca temporale, in conformità alle regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la copia, la duplicazione, la riproduzione e la validazione dei documenti informatici (art. 136, comma 1, CCII).

Nell’ottica della velocizzazione delle procedure, il curatore procede alle operazioni di liquidazione contemporaneamente alle operazioni di accertamento del passivo, e quindi non successivamente ad esse.

Nel caso di sostituzione del curatore, l’azione di responsabilità contro il curatore revocato o sostituito è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato. Il curatore che cessi dal suo ufficio, anche durante la liquidazione giudiziale, nonché al termine dei giudizi e delle altre operazioni di cui all’art. 233, comma 2, CCII (cioè giudizi conclusi e operazioni svolte successivamente alla chiusura della procedura), deve rendere il conto della gestione, comunicandolo anche al curatore eventualmente nominato in sua vece, il quale può presentare osservazioni e contestazioni.

Con riguardo al compenso del curatore (art. 137 CCII), le principali novità rispetto alla normativa vigente (art. 39 l.fall.) riguardano: 1) la previsione di un’integrazione del compenso per l’attività svolta fino al termine dei giudizi e delle altre operazioni di chiusura della procedura; 2) i criteri di ripartizione del compenso tra il curatore e gli esperti nominati ai sensi dell’art. 49, comma 3, lett. b, CCII (esperti nominati dal tribunale con la sentenza di apertura della procedura per l’esecuzione di compiti specifici in luogo del curatore).

Infine, per quel che riguarda il comitato dei creditori, rispetto all’attuale disciplina non vengono introdotte rilevanti novità in tema di composizione, attribuzioni e funzionamento. È stata, tuttavia, prevista una disciplina autonoma per i reclami avverso le autorizzazioni e i dinieghi del comitato (che in precedenza era unificata alla disciplina del reclamo avverso gli atti del curatore), con attribuzione di una chiara legittimazione al curatore, al debitore e ad ogni altro interessato (art. 141 CCII).

5. Gli effetti dell’apertura della procedura

La disciplina degli effetti dell’apertura della procedura non contiene rilevanti innovazioni rispetto alla disciplina degli effetti del fallimento.

Con riguardo agli effetti nei confronti del debitore, l’art. 142 CCII riproduce l’attuale art. 42 l.fall., e prevede quello che viene definito comunemente lo “spossessamento” del debitore, cioè la perdita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, che passano al curatore ai fini della successiva liquidazione.

Anche con riferimento ai rapporti processuali, agli atti compiuti dal debitore dopo l’apertura della procedura, ai beni non compresi nella liquidazione, agli alimenti e alla corrispondenza del debitore, la nuova disciplina conferma sostanzialmente quella attuale.

Meritano, comunque, di essere segnalate due innovazioni. In primo luogo, con riferimento ai rapporti processuali, l’art. 143, comma 3, CCII conferma che l’apertura della liquidazione giudiziale determina l’interruzione del processo, ma specifica opportunamente che «il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice», così eliminando alcune incertezze sulla individuazione del dies a quo per la riassunzione, che erano state prospettate in giurisprudenza[22].

Con riferimento, invece, ai beni non compresi nella liquidazione giudiziale, l’art. 146 CCII prevede che i limiti di cui al comma 1, lett. b, e cioè le quote degli assegni alimentari, degli stipendi e delle pensioni che non vengono ricomprese nella liquidazione, poiché riferiti a quanto occorre per il mantenimento del debitore e della sua famiglia, vengono determinati dal giudice delegato «sentiti il curatore ed il comitato dei creditori», con ciò, sostanzialmente, recependo una prassi già in voga presso gli uffici fallimentari. 

Anche nella disciplina degli effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale per i creditori non si registrano significative innovazioni rispetto alla precedente disciplina.

Numerose disposizioni, infatti, si limitano a recepire soltanto le variazioni terminologiche conseguenti all’abolizione del termine «fallimento».

E’ il caso degli artt. 150, 151, 158, 159, 160, 161 e 163 CCII, che, rispetto ai precedenti artt. 51, 52, 59, 60, 61, 62 e 63 l.fall., prevedono le più neutre definizioni di «liquidazione giudiziale» e «debitore» in luogo di «fallimento» e di «fallito».

Anche con riferimento agli effetti per i creditori, tuttavia, non mancano alcune novità.

In particolare, l’art. 154 CCII, riguardante i crediti pecuniari, benché riproduca in gran parte l’art. 55 l.fall., conferma che la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale sospende il corso degli interessi convenzionali o legali, ma chiarisce che tale sospensione opera, ai fini del concorso, non solo fino alla chiusura della procedura, ma anche, in alternativa, fino all’archiviazione disposta ai sensi dell’art. 234, comma 7, CCII, e cioè fino all’archiviazione conseguente alla definizione dei giudizi pendenti anche dopo la chiusura della procedura, a meno che, comunque, i crediti non siano garantiti da pegno o privilegio, e salvo quanto è disposto dall’art. 153, comma 3, CCII.

In secondo luogo, con riferimento alla compensazione, l’art. 155, comma 2, CCII dispone che la compensazione non abbia luogo «se il creditore ha acquistato il credito per atto tra vivi dopo il deposito della domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale o nell’anno anteriore». Pertanto, a differenza della disposizione dell’art. 56 l.fall., al fine di poter essere opposto in compensazione si prescinde dalla circostanza che il credito sia o meno scaduto prima dell’apertura della procedura.

Per quel che riguarda gli effetti sugli atti pregiudizievoli ai creditori, la nuova disciplina ricalca, sostanzialmente, quella di cui agli attuali artt. 64 ss. l.fall., con la specificazione, tuttavia, che il termine a ritroso per l’individuazione del periodo sospetto deve essere calcolato a partire dalla data in cui è stata depositata «la domanda cui è seguita l’apertura della liquidazione giudiziale».

Si tratta di una significativa novità, in linea con quanto previsto dall’art. 7, comma 4, lett. b della legge delega, conseguenza dell’introduzione del procedimento unitario per la regolazione della crisi, nel quale – come si è visto – confluiscono sia le domande di apertura della procedura di liquidazione giudiziale che quelle di ammissione al concordato preventivo o di omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, con lo scopo, altresì, di evitare che tra il momento del deposito della domanda di liquidazione giudiziale e quello di apertura della stessa si verifichi un danno ai creditori dato dall’irrevocabilità degli atti più risalenti.

La suddetta modifica riguarda sia gli atti a titolo gratuito (art. 163 CCII) sia i pagamenti di crediti scaduti e non postergati (art. 164 CCII), sia gli atti a titolo oneroso (art. 166 CCII)

Nessuna modifica, invece, si registra con riferimento all’azione revocatoria ordinaria (art. 165 CCII), coerentemente col fatto che, in questi casi, il termine decorre dal compimento dell’atto.

Parimenti, sono rimaste immutate le discipline relative ai patrimoni destinati a uno specifico affare (art. 167 CCII) e ai pagamenti di cambiali scadute (art. 168 CCII).

Infine, per quel che riguarda gli effetti sui rapporti pendenti, anche in tal caso la nuova disciplina appare, in larga parte, sovrapponibile a quella contenuta nella legge fallimentare.

Non mancano, tuttavia, significative novità.

Innanzitutto, infatti, viene previsto, come principio generale, quello secondo cui, nel caso di prosecuzione del contratto, «sono prededucibili soltanto i crediti maturati nel corso della procedura» (art. 172, comma 3, CCII). In tal modo, vengono limitate il più possibile le ipotesi di prededuzione, e vengono quindi superate alcune incertezze che si ponevano, nella pratica, nel caso di rapporti a esecuzione continuata o periodica.

Con riferimento, poi, al contratto preliminare, la nuova disciplina contiene una più precisa regolamentazione dei rapporti tra trascrizione del contratto, trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica e potestà del curatore di scioglimento dal contratto.

In particolare, viene confermata la possibilità, per il curatore, di sciogliersi dal contratto preliminare ineseguito, anche quando il promissario acquirente abbia proposto e trascritto prima dell’apertura della procedura domanda di esecuzione in forma specifica, ma viene altresì chiarito che «lo scioglimento non è opponibile al promissario acquirente se la domanda viene successivamente accolta» (art. 173, comma 1, CCII).

Come evidenziato nella relazione illustrativa, la disposizione interviene a portare chiarezza su una questione largamente dibattuta in giurisprudenza, anche successivamente alla pronuncia della Corte di cassazione, sez. unite, 16 settembre  2015, n. 18131[23], atteso che «la soluzione adottata coniuga il rispetto dei principi in materia di trascrizione delle domande giudiziali e del relativo effetto prenotativo, con la salvaguardia delle ragioni della massa, nel caso in cui la domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare non sia accolta».

Così delineata la regola generale, anche la riforma ha ribadito alcune cautele volte a salvaguardare gli interessi delle parti in bonis. Infatti, allorquando il contratto preliminare di compravendita immobiliare – trascritto ai sensi dell’art. 2645-bis cc – sia oggetto di scioglimento, il promissario acquirente potrà far valere il proprio credito al passivo, con il privilegio di cui all’art. 2775-bis cc gravante sull’immobile oggetto del contratto, a condizione che gli effetti della trascrizione non siano cessati prima dell’apertura della liquidazione giudiziale poiché, nei termini previsti, non si è verificato uno degli eventi contemplati dall’art. 2645-bis cc.

A tutela di preminenti interessi connessi al soddisfacimento di bisogni abitativi o all’esercizio di attività produttive, è stata confermata l’eccezione, introdotta con il d. lgs 12 settembre 2007, n. 169, prevedendo che non possa essere sciolto il contratto preliminare di compravendita regolarmente trascritto avente ad oggetto immobili a uso abitativo destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, nonché un immobile destinato a costituire la sede principale dell’attività di impresa del promissario acquirente, purché gli effetti della trascrizione non siano cessati prima dell’apertura della procedura per omesso verificarsi nei termini previsti di uno degli eventi di cui all’art. 2645-bis cc (art. 173, comma 3, CCII). In questi casi, dunque, il contratto prosegue e il curatore è obbligato a darvi esecuzione, con la precisazione che, al fine di non gravare la massa di oneri ulteriori, il bene è trasferito nello stato in cui si trova.

Diversamente da quanto previsto dalla legge fallimentare, il codice della crisi e dell’insolvenza ha previsto una condizione ulteriore affinché lo scioglimento non si produca: è infatti necessario che il promissario acquirente chieda l’esecuzione del preliminare con le forme e nei termini previsti per l’accertamento dei diritti dei terzi sui beni compresa nella procedura. Inoltre, in attuazione della delega (art. 7, comma 2, lett. d, l. n. 155/2017), con l’intento di tutelare l’interesse del promissario acquirente ad acquistare un bene libero da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, è stato chiarito che il giudice delegato, una volta che abbia venduto l’immobile e ne abbia interamente riscosso il prezzo, ordini con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché delle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestro conservativi e di ogni altro vincolo[24].

Tuttavia, per evitare che la posizione del promissario acquirente e l’interesse dei creditori siano penalizzati da un simile meccanismo, nonché per scongiurare il rischio che questi ultimi possano perdere le garanzie del credito senza ottenere l’adempimento, è stabilito che gli acconti che il promissario acquirente dimostri di avere versato anteriormente all’apertura della liquidazione giudiziale siano opponibili alla massa in misura pari alla metà dell’importo, così da assicurare ai creditori l’acquisizione alla massa almeno di una parte residua del prezzo corrisposto (art. 173, comma 4, CCII).

Una rilevante novità nella disciplina degli effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale sui rapporti pendenti riguarda i “contratti di carattere personale”, e cioè i contratti in cui «la considerazione della qualità soggettiva della parte nei cui confronti è aperta la liquidazione giudiziale è stata motivo determinante del consenso» (art. 175, comma 2, CCII)[25].

Tali contratti, di norma, si sciolgono per effetto dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di uno dei contraenti, salvo che il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori e il consenso dell’altro contraente, manifesti la volontà di subentrarvi, assumendo, a decorrere dalla data del subentro, tutti i relativi obblighi (art. 175, comma 1, CCII).

Innovativa è anche la disciplina dei contratti a esecuzione continuata o periodica. L’art. 179 CCII, infatti, introducendo un nuovo comma rispetto all’art. 74 l.fall., esclude la prededuzione per il prezzo delle consegne avvenute e dei servizi erogati prima dell’apertura della procedura, prevedendo in tali ipotesi soltanto la possibilità dell’ammissione al passivo, e quindi superando ogni incertezza circa la natura concorsuale o prededucibile di tali crediti.

Una importante novità deve essere registrata anche in materia di contratto di affitto d’azienda. Infatti, nella disciplina di cui all’art. 79 l.fall., si prevede, di norma, la continuazione del contratto, ma con la facoltà per entrambe le parti di recedere entro sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo.

Il codice della crisi, invece, all’art. 184, differenzia l’ipotesi in cui sia sottoposto a liquidazione giudiziale il concedente, da quella dell’apertura della procedura nei confronti dell’affittuario. Nel primo caso, il curatore potrà recedere dal contratto entro sessanta giorni, corrispondendo alla controparte un equo indennizzo, il quale, nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato, sentiti gli interessati. Nell’ipotesi di fallimento dell’affittuario, è prevista la possibilità per il curatore di recedere dal contratto previa autorizzazione del comitato dei creditori, corrispondendo – anche in tal caso – un equo indennizzo, che, nel dissenso tra le parti, è determinato dal giudice delegato.

Per entrambe le ipotesi, è chiarito che l’indennizzo debba essere trattato come credito concorsuale e non, quindi, come credito prededucibile, e per il suo soddisfacimento deve essere avanzata apposita domanda di ammissione al passivo.

Infine, con riferimento al rapporto di lavoro, la nuova disciplina concorsuale contiene, finalmente, una specifica disciplina degli effetti dell’apertura della procedura sui contratti di lavoro subordinato in essere, prevedendosi, in linea generale, che «l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro»: 1) «non costituisce motivo di licenziamento»; 2) «[i] rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa restano sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, oppure vi receda» (art. 189, comma 1, CCII).

In questo modo, la nuova disciplina recepisce, da un lato, un principio risalente nel nostro diritto del lavoro, e cioè che il fallimento non costituisce giusta causa di risoluzione del rapporto (art. 2119, comma 2, cc); dall’altro, i principi giurisprudenziali che storicamente si erano affermati in tema di effetti del fallimento sui rapporti di lavoro in essere al momento della dichiarazione di apertura della procedura[26]. A ciò si aggiungono ulteriori meccanismi di semplificazione e flessibilità delle regole generali di recesso analoghi a quelli stabiliti per le procedure di licenziamento collettivo, dal momento che la dismissione del personale rappresenta una conseguenza pressoché scontata della disgregazione dell’azienda.

Gli effetti del trasferimento di azienda sui rapporti di lavoro sono disciplinati tramite un espresso rinvio alla disciplina lavoristica (art. 191 CCII), in attuazione del principio enunciato dalla legge delega, che impone di «armonizzare le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento (…) nella Direttiva 2011/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001, come interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea».

6. Accertamento del passivo

La liquidazione giudiziale, essendo diretta a regolare le pretese creditorie nel concorso, presuppone, ovviamente, che tali pretese vengano verificate e accertate. I creditori, quindi, per potere essere qualificati tali, devono far valere le loro pretese all’interno della procedura, e questo avviene, per l’appunto, mediante il particolare sub-procedimento di verificazione dello stato passivo.

In tale prospettiva, la funzione dell’accertamento del passivo sviluppa la sua peculiarità proprio nel contesto della liquidazione giudiziale che, come il fallimento, resta un processo di esecuzione generale o universale sul patrimonio del debitore, nell’ambito del quale l’organo giurisdizionale deve accertare le pretese dei creditori che chiedono di partecipare alla distribuzione di ciò che è stato ricavato dalla liquidazione.

L’accertamento del passivo, nella nuova procedura di liquidazione giudiziale, prevede una disciplina sostanzialmente sovrapponibile a quella attuale.

Non mancano, tuttavia, anche in questo caso, alcune novità di rilievo.

In primo luogo, l’art. 201, comma 1, CCII stabilisce che la procedura di accertamento del passivo venga estesa anche alle «domande di partecipazione al riparto delle somme ricavate dalla liquidazione di beni compresi nella procedura ipotecati a garanzia di debiti altrui», e quindi a quei creditori che non sono tali nei confronti del debitore, ma in favore dei quali lo stesso debitore si è posto come terzo datore di ipoteca. In tal modo, vengono superate le incertezze interpretative che, da tempo, si sono manifestate sull’argomento[27].

A fronte di tale modifica, è stato altresì previsto che il ricorso debba contenere, oltre alle medesime indicazioni di cui alla disciplina previgente, la determinazione della somma che si intende insinuare al passivo, ovvero la descrizione del bene di cui si chiede la restituzione o la rivendicazione, ovvero – e qui si rinviene la novità – «l’ammontare del credito per il quale si intende partecipare al riparto se il debitore nei cui confronti è aperta la liquidazione è terzo datore di ipoteca».

Una ulteriore novità della disciplina della verificazione dello stato passivo è, poi, rappresentata dalla previsione (art. 201, comma 10, CCII) dell’assoggettamento alla sospensione feriale dei termini del procedimento di verificazione, in tal modo ancora superandosi le incertezze interpretative in materia.

Infine, per quanto riguarda le domande tardive, l’art. 208 CCII ha previsto la riduzione da dodici mesi a sei mesi dal decreto di esecutività dello stato passivo per la presentazione di tali domande; inoltre, con riferimento alle domande cd. “supertardive”, è stata prevista la possibilità di una declaratoria di inammissibilità con decreto del giudice delegato, «quando la domanda risulta manifestamente inammissibile perché l’istante non ha indicato le circostanze da cui è dipeso il ritardo o non ne ha offerto prova documentale o non ha indicato i mezzi di prova di cui intende valersi per dimostrarne la non imputabilità» (art. 208, comma 3, CCII)[28].

7. Il programma di liquidazione e il riparto

Al fine di non disperdere il patrimonio aziendale e di evitare la disgregazione di imprese ancora potenzialmente produttive, l’art. 211 CCII dispone che, a determinate condizioni, l’apertura della liquidazione giudiziale non determina la cessazione dell’attività d’impresa, quando «dall’interruzione può derivare un grave danno, purché la prosecuzione non arrechi pregiudizio ai creditori» (comma 2).

La possibilità di continuare a gestire l’impresa nel corso della procedura, dunque, si giustifica da un lato con la necessità di assicurare, in tal modo, una più conveniente allocazione sul mercato dei complessi aziendali e, comunque, migliori condizioni di realizzo, e, dall’altro, tenendo conto anche di interessi concorrenti, altrettanto meritevoli di tutela (si pensi, ad esempio, alla necessità di prevenire un danno ambientale derivante dall’improvvisa cessazione dell’attività, o un pregiudizio alla tutela dell’avviamento). In sostanza, quindi, il tribunale deve procedere a una valutazione comparativa tra gli interessi in gioco, e dunque tra il possibile «grave danno» derivante dall’interruzione, e il «pregiudizio» che la continuazione potrebbe arrecare ai creditori, tenendo conto anche della possibile insorgenza di crediti prededucibili[29].

L’esercizio provvisorio può essere disposto dal tribunale già con la sentenza che dichiara aperta la procedura di liquidazione giudiziale, ovvero successivamente dal giudice delegato, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 211, comma 3, CCII). In questa seconda ipotesi, tuttavia, scompaiono le condizioni previste per l’esercizio provvisorio disposto già con la sentenza di apertura della procedura, e cioè il «grave danno» derivante dall’interruzione, e l’assenza di «pregiudizio» per i creditori. Pertanto, in questa fase, il giudice delegato deve operare una scelta prettamente aziendalistica, essendo nelle sue scelte condizionato esclusivamente dall’obiettivo di realizzare il miglior soddisfacimento dei creditori. Nella stessa direzione si colloca la previsione secondo la quale anche il tribunale può ordinare la cessazione dell’esercizio provvisorio in qualsiasi momento, laddove ne ravvisi l’opportunità, con decreto assunto in camera di consiglio, sentiti il curatore e il comitato dei creditori (art. 211, comma 7, CCII).

Un’alternativa all’esercizio provvisorio, sempre al fine di conservare i valori aziendali, è data dall’affitto di azienda, che può essere autorizzato dal giudice delegato anche prima della presentazione del programma di liquidazione, su proposta del curatore, previo parere favorevole del comitato dei creditori (art. 212 CCII).

La nuova disciplina conferma la necessità di programmazione, da parte del curatore, delle attività di liquidazione, prevedendosi che, entro sessanta giorni dalla redazione dell’inventario e, in ogni caso, entro centottanta giorni dalla sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, il curatore debba predisporre il programma di liquidazione, da sottoporre all’approvazione del comitato dei creditori (art. 213, comma 1, CCII).

A differenza dell’attuale art. 104-ter l.fall., l’art. 213 CCII non specifica il contenuto del programma di liquidazione, limitandosi a precisare che «il programma è suddiviso in sezioni in cui sono indicati separatamente criteri e modalità della liquidazione dei beni immobili, della liquidazione degli altri beni e della riscossione dei crediti, con indicazione dei costi e dei presumibili tempi di realizzo. Nel programma sono, inoltre, indicati le azioni giudiziali di qualunque natura e il subentro nelle liti pendenti, con i costi per il primo grado di giudizio. Sono, altresì, indicati gli esiti delle liquidazioni già compiute» (comma 3).

Per ragioni di speditezza della procedura, è stato inoltre stabilito che nel programma deve essere indicato «il termine entro il quale avrà inizio l’attività di liquidazione dell’attivo ed il termine del suo presumibile completamento», che non potrà eccedere i cinque anni dal deposito della sentenza, salvi i casi di eccezionale complessità, in cui questo termine può essere differito a sette anni dal giudice delegato (art. 213, comma 5, CCII).

Sempre nell’ottica di una maggiore celerità, il curatore, previa autorizzazione del comitati dei creditori, potrà non acquisire o rinunciare alla liquidazione di beni, se l’attività di liquidazione appare manifestamente non conveniente; tale mancanza di convenienza si presume se, dopo sei tentativi di vendita, non ha fatto seguito l’aggiudicazione, salvo che il giudice delegato non autorizzi il curatore a continuare l’attività liquidatoria, in presenza di giustificati motivi (art. 213, comma 2, CCII). Per quanto riguarda i singoli atti di liquidazione, questi devono essere autorizzati dal giudice delegato, che ne valuta la conformità al programma approvato (art. 213, comma 7, CCII).

Le modalità di liquidazione sono disciplinate dall’art. 216 CCII, che dispone che, in linea generale, le vendite siano effettuate con procedure competitive e con modalità telematiche – tramite il portale delle vendite pubbliche –, salvo che tali modalità siano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori.

Il giudice delegato, oltre a determinare le modalità di liquidazione dei beni, può anche ordinare la liquidazione di beni immobili occupati dal debitore (salvo che non si tratti della sua abitazione) o da terzi in forza di titolo non opponibile al curatore (art. 216, comma 2, CCII).

Le somme ricavate dalla liquidazione sono erogate ai creditori secondo l’ordine di ripartizione stabilito dall’art. 221 CCII, che riproduce l’attuale art. 111 l.fall.

Il procedimento per il riparto è disciplinato dagli artt. 220 ss. CCII, con invio telematico del progetto di ripartizione ai creditori, che hanno quindici giorni di tempo dalla comunicazione per proporre reclamo.

La chiusura della procedura avviene, di regola, al termine del riparto finale.

L’art. 233 CCII disciplina le ipotesi di chiusura, che sono le stesse dell’attuale art. 118 l.fall., tuttavia con la opportuna precisazione che, nei casi di chiusura di procedure relative a società di capitali per mancanza di passivo, o per integrale pagamento dei crediti, la società ritorna in bonis, e il curatore provvede a convocare l’assemblea ordinaria dei soci per le deliberazioni necessarie ai fini della ripresa dell’attività o della sua cessazione.

Rimane disciplinata ora dall’art. 234 CCII l’ipotesi della chiusura anticipata in pendenza di giudizi in corso.

8. Il concordato preventivo liquidatorio

La nuova disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza ha conservato l’ammissibilità del concordato preventivo puramente liquidatorio, con il quale il debitore si propone di soddisfare i creditori, per l’appunto, mediante la sola liquidazione del proprio patrimonio (art. 84 CCII).

Sono state, pertanto, superate quelle tendenze volte a mantenere l’istituto concordatario soltanto in funzione della continuità aziendale, e quindi della prosecuzione dell’attività d’impresa da parte del debitore, purché, tuttavia, il concordato liquidatorio appaia effettivamente conveniente rispetto alla prospettiva della liquidazione giudiziale.

In questo senso, l’art. 84, comma 4, CCII, precisa che «nel concordato liquidatorio l’apporto di risorse esterne deve incrementare di almeno il dieci per cento, rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale, il soddisfacimento dei creditori, che non può essere in ogni caso inferiore al venti per cento dell’ammontare complessivo del credito chirografario».

In sostanza, quindi, il concordato preventivo in tanto è ammissibile, in quanto: 1) vi sia l’apporto di risorse esterne al debitore (ad esempio, beni personali dei soci); 2) tali beni, liquidati unitamente ai beni del debitore, portino alla realizzazione di un ricavato della liquidazione che determini il soddisfacimento dei creditori chirografari superiore di almeno il dieci per cento rispetto al soddisfacimento potenzialmente derivante dalla liquidazione giudiziale.

Secondo il legislatore, dunque, a queste condizioni il concordato – che rappresenta indubbiamente un vantaggio per l’imprenditore, il quale mantiene l’amministrazione dei propri beni ed è esposto a rischi più limitati sotto il profilo penale – diviene conveniente anche per i creditori, i quali otterrebbero altrimenti dal concordato addirittura meno di quanto potrebbero conseguire dalla liquidazione giudiziale[30].

La valutazione comparativa tra le procedure, ovviamente, deve essere effettuata tenendo conto delle azioni recuperatorie esercitabili dal curatore, e delle possibilità di effettivo successivo realizzo.

9. La liquidazione controllata del sovraindebitato

La liquidazione controllata è la procedura liquidatoria destinata ai soggetti sovraindebitati, vale a dire a quei soggetti in stato di crisi o di insolvenza che, per la mancanza della qualità di imprenditori, o per la loro qualità di imprenditori minori (secondo le definizioni di cui all’art. 2 CCII), non sono assoggettati alle procedure “maggiori” del concordato preventivo o della liquidazione giudiziale.

La liquidazione controllata, come la liquidazione giudiziale, determina lo spossessamento dell’intero patrimonio del debitore, che viene amministrato dal liquidatore nominato dal tribunale.

Inoltre, sempre dal momento della sentenza di apertura della procedura, il debitore subisce anche la perdita della legittimazione processuale poiché, in sua sostituzione, subentra il liquidatore in tutti i giudizi in corso di natura patrimoniale. Si determina, inoltre, il blocco di tutte le azioni esecutive e cautelari, e si apre il concorso formale e sostanziale dei creditori (art. 270 CCII).

Rispetto alla procedura liquidatoria prevista dagli artt. 14-ter ss. l. 27 gennaio 2012, n. 3, la liquidazione controllata può essere richiesta, oltre che dal debitore, anche da uno o più creditori e, per le imprese minori, anche dal pubblico ministero. Essa, inoltre, viene aperta automaticamente a seguito della conversione delle altre due procedure (ristrutturazione dei debiti del consumatore e concordato minore) per inadempimento o frode del sovraindebitato.

[1] La questione semantica relativa al termine «fallimento» era stata già oggetto di una questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Vicenza con ordinanza del 13 giugno 2014 (in Gazzetta ufficiale, prima serie speciale, 27 maggio 2015, n. 21), con riferimento agli artt. 1, comma 1, e 5, comma 1, l.fall., nella parte in cui «assoggettano a fallimento l’imprenditore individuale persona fisica, e non autonomamente la sola impresa individuale intesa come attività, ovvero alternativamente [la sottolineatura è nel dispositivo dell’ordinanza] nella parte in cui assoggettano a fallimento l’imprenditore individuale anziché limitarsi a dichiararne l’insolvenza, o a dichiarare soltanto l’insolvenza dell’impresa della persona fisica come attività». La Corte costituzionale, con ordinanza n. 46 del 3 marzo 2016 (in Giur. cost., 2016, 2, 528), ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione in quanto rilevante solo dal punto di vista virtuale, pur evidenziando che «l’obiettivo del mutamento del nomen iuris dell’istituto in questione, che il rimettente si propone di conseguire attraverso l’incidente di costituzionalità – seppur apprezzabile nella delineata prospettiva di una più sensibile attenzione al valore della dignità della persona – presuppone, comunque, una valutazione, in ordine alla denominazione più appropriata di aspetti pertinenti alla disciplina del fallimento, certamente eccentrica rispetto ai poteri del Giudice delle leggi ed attinente invece al proprium delle scelte riservate al legislatore. Come, del resto, dimostrato, de iure condendo, dal criterio direttivo individuato dal recente schema di disegno di legge recante “Delega al Governo per la riforma organica delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza”, elaborato dalla Commissione ministeriale istituita dal Ministro della giustizia con decreto 24 febbraio 2015, consistente proprio nella previsione della sostituzione del termine “fallimento”, con espressioni equivalenti, quali “insolvenza” o “liquidazione giudiziale”».

[2] Cfr., da ultimo, Cass., 11 marzo 2019, n. 6978, in Giustizia civile, mass., 2019; vds. altresì, tra le altre, Cass., 27 marzo 2014, n. 7252, in Guida al diritto, 2014, 26, 58.

[3] Il problema delle differenze tra stato di crisi e stato di insolvenza era già stato percepito all’indomani della riforma del concordato preventivo, di cui al dl 14 marzo 2005, n. 35, convertito in l. 14 maggio 2005, n. 80, prima che fosse introdotto il comma 3 dell’art. 160 l.fall., in forza dell’art. 35 dl 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in l. 23 febbraio 2006, n. 51: vds., sull’argomento, G. Bozza, Le condizioni soggettive ed oggettive del nuovo concordato, in Fallimento, 2005, p. 954; V. Lenoci, Il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione dei debiti, Giuffrè, Milano, 2010, p. 71. La giurisprudenza, tuttavia, si era da subito orientata per una nozione di stato di crisi ricompresa nel più ampio concetto di stato di insolvenza: vds. Trib. Milano, 7 novembre 2005, in Fallimento, 2006, 51; Trib. Pescara, 20 ottobre 2005, in Fallimento, 2006, 56; Trib. Sulmona, 6 luglio 2005, in Fallimento, 2005, 793.

[4] Cfr. G. Ferri Jr, Impresa e società nella disciplina della liquidazione giudiziale: considerazione in margine al progetto di codice della crisi e dell’insolvenza, in Corriere giuridico, n. 10/2018, p. 1277, il quale evidenzia che «potrebbe infatti chiedersi se, una volta resa applicazione la liquidazione giudiziale a tutti gli imprenditori, abbia ancora senso, da un lato, continuare a distinguere, nella dimensione dell’impresa, tra imprenditori agricoli e imprenditori commerciali (…) e, dall’altro, continuare a prevedere una disciplina differenziata per i piccoli imprenditori; o se non sia preferibile superare definitivamente entrambe tali distinzioni, dislocando nella disciplina generale dell’impresa, in modo da renderla applicabile all’imprenditore agricolo, anche il residuo contenuto dello statuto dell’imprenditore commerciale, al quale peraltro già risultano soggette le imprese agricole organizzate in forma di società commerciale, e, rispettivamente, sottraendo all’ambito di applicazione della disciplina generale dell’impresa i piccoli imprenditori, ai quali non avrebbe allora più senso riconoscere una qualche rilevanza normativa». Sull’argomento vds. anche S. Della Rocca e F. Grieco, Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. Primo commento al d. lgs n. 14/2019, Cedam, Padova, 2019, p. 188.

[5] Cfr., tra le altre, Cass., 8 agosto 2016, n. 16614, in Giustizia civile, mass., 2016, secondo la quale «l’esenzione dell’imprenditore agricolo dal fallimento viene meno ove non sussista, di fatto, il collegamento funzionale della sua attività con la terra, intesa come fattore produttivo, o quando le attività connesse di cui all’art. 2135, comma 3, c.c., assumano rilievo decisamente prevalente, sproporzionato rispetto a quelle di coltivazione, allevamento e silvicoltura, gravando su chi invochi l’esenzione, sotto il profilo della connessione tra la svolta attività di trasformazione e commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli e quella tipica di coltivazione ex art. 2135, comma 1, c.c., il corrispondente onere probatorio (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione impugnata, che aveva negato la qualità di imprenditore agricolo alla odierna ricorrente, in mancanza di prova che le attività di conservazione e commercializzazione da lei esercitate riguardassero prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del proprio fondo)».

[6] Trib. Monza, 11 giugno 2001, in Giurisprudenza di merito, 2002, 10; Trib. Genova, 7 giugno 2001, in Vita notarile, 2002, 683; Trib. Palermo, 24 febbraio 1997, in Giurisprudenza commerciale, 1999, II, 440; Trib. Firenze, 10 maggio 1995, in Rivista diritto sportivo, 1995, 796; Trib. Roma, 6 aprile 1995, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, 1995, II, 719.

[7] Trib. Paola, 3 dicembre 2009, in Fallimento, 2010, 8, 979.

[8] Cass., 16 dicembre 2013, n. 28015, in Diritto e giustizia, 17 dicembre 2013.

[9] Trib. Bologna, 6 maggio 1999, in Giurisprudenza commerciale, 2001, II, 135.

[10] Cass., 6 marzo 2017, n. 5520, in Giurisprudenza commerciale, 2018, 1, II, 24; Cass., 18 novembre 2010, n. 23344, in Fallimento, 2011, 565.

[11] Sull’argomento, vds. S. Della Rocca e F. Grieco, Il codice, op. cit., p. 191.

[12] Sul principio di vicinanza della prova, tra le altre, Cass., 4 maggio 2012, n. 6799, in Giustizia civile, mass., 2012, 5, 565; Cass., 11 maggio 2009, n. 10744, in Guida al diritto, 2009, 31, 74.

[13] In particolare, Cass., 27 dicembre 2013, n. 28667, in Guida al diritto, 2014, 12, 71, secondo la quale, ai fini dell’individuazione della nozione di «ricavi lordi», deve farsi riferimento ai nn. 1) e 5) della lett. a dell’art. 2425 cc, mentre non rientrano le voci dal n. 2) al n. 4), e in particolare le variazioni delle rimanenze, le quali rappresentano costi sospesi, in conformità al principio di competenza economica di cui all’art. 2423-bis cc, per essere rinviati ai successivi esercizi in cui si conseguiranno i relativi ricavi.

[14] N. Nisio, I presupposti del fallimento, in P. Cendon (a cura di), Trattario di diritto civile, vol. XVI, Giuffrè, Milano, 2016, p. 189.

[15] Situazione già presente nell’attuale sistema, ma che è stata affermata soltanto dalla giurisprudenza: cfr. Cass., sez. unite, 15 maggio 2015, n. 9935, in Giurisprudenza commerciale, 2017, 1, II, p. 21, con nota di A.F. Di Girolamo, Le sezioni unite e il principio di prevalenza del concordato preventivo rispetto al fallimento.

[16] Appare evidente la differenza rispetto all’attuale art. 7, comma 1, n. 2), l.fall., che limita la segnalazione alla rilevazione effettuata nel solo processo civile e ne ipotizza l’iniziativa in termini di semplice facoltà. Sul punto, vds. S. Sanzo, Le procedure di allerta ed il procedimento unitario di regolazione della crisi e dell’insolvenza, in S. Sanzo e D. Burroni (a cura di), Il nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, Zanichelli, Bologna, 2019, p. 75.

[17] Trattasi, in particolare, delle dichiarazioni dei redditi concernenti i tre esercizi o anni precedenti, dell’elenco degli atti sottoposti a imposta di registro e dei debiti fiscali, dei bilanci relativi agli ultimi tre esercizi, delle informazioni relative ai debiti contributivi.

[18] S. Sanzo, Le procedure di allerta, op. cit., p. 80.

[19] Viene recepita, anche in questo caso, una prassi ampiamente in uso da parte dei tribunali fallimentari.

[20] Sul punto, C. Ravina, Gli organi della procedura nel codice della crisi e dell’insolvenza, in Il fallimentarista, 15 febbraio 2019, http://ilfallimentarista.it/articoli/focus/gli-organi-della-procedura-nel-codice-della-crisi-e-dell-insolvenza.

[21] Nel caso in cui la società in liquidazione giudiziale appartenga a un gruppo, il curatore deve altresì riferire sulla natura dei rapporti con le altre società o enti, e allegare le informazioni raccolte sulle rispettive contabilità.

[22] Cfr., da ultimo, Cass., 30 gennaio 2019, n. 2658, in Diritto e giustizia, 31 gennaio 2019; Cass., 30 novembre 2018, n. 31010, in Giustizia civile, mass., 2019; Cass., 27 giugno 2018, n. 16887, in Guida al diritto, 2019, 1, 76.

[23] In Giurisprudenza commerciale, 2016, 4, II, p. 743, con note di L. Cattani, Trascrizione della domanda ex art. 2932 c.c. e successivo fallimento del promittente venditore: le Sezioni unite “aggiustano il tiro”, e di L. Russo, Gli effetti della trascrizione della domanda di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare in relazione all’art. 72 l. fall.

[24] Vds., sul punto, G. Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza, Giappichelli, Torino, 2019, p. 137, il quale evidenzia che tale innovazione è anche funzionale a ridurre le oscillazioni giurisprudenziali in ordine alla natura coattiva o meno della vendita effettuata dal curatore in adempimento del preliminare.

[25] Si tratta, in sostanza, dei contratti caratterizzati dal cd. intuitus personae.

[26] Cass., 11 gennaio 2018, n. 522, in Diritto e giustizia, 15 gennaio 2018; Cass., 14 maggio 2012, n. 7473, in Giustizia civile, mass., 2012, 6, 607; Corte appello Milano, 28 luglio 2007, in Fallimento, 2007, 12, 1485.

[27] Cfr., da ultimo, Cass., 10 luglio 2018, n. 18082, in Giustizia civile, mass. 2018, secondo la quale «i titolari di diritti reali di garanzia (nella specie, pegno di polizze) costituiti dal terzo non debitore, successivamente fallito, per le obbligazioni assunte tra altri soggetti, non possono avvalersi del procedimento di verificazione di cui all’art. 52 legge fall., atteso che questa disposizione non sottopone a concorso la posizione soggettiva del beneficiario della garanzia, il quale non è creditore diretto del fallito e perché, ove se ne volesse estendere l’ambito di applicazione fino a comprendere anche l’accertamento del diritto verso il fallito, quale terzo datore della garanzia, si verrebbe ad introdurre un anomalo contraddittorio con una ulteriore parte, ossia quella corrispondente al debitore garantito proprio dalla garanzia data dal fallito». In senso contrario, invece, Cass., 30 gennaio 2019, n. 2657, in Giustizia civile, mass., 2019, a mente della quale «i titolari di diritti d’ipoteca sui beni immobili compresi nel fallimento e già costituiti in garanzia per crediti vantati verso debitori diversi dal fallito, dopo la riforma introdotta dal d.lgs. n. 5 del 2006 devono avvalersi, ai sensi del novellato art. 52, comma 2, l.fall., del procedimento di verificazione dello stato passivo di cui al capo V della l.fall., prescrivendo oggi il nuovo art. 92 l.fall. che l’avviso circa la facoltà di partecipare al concorso sia comunicato non soltanto ai creditori, ma anche “ai titolari di diritti reali o personali su beni mobili o immobili di proprietà o in possesso del fallito”».

[28] Il decreto di inammissibilità del giudice delegato è comunque reclamabile ai sensi dell’art. 124 CCII.

[29] G. Fauceglia, Il nuovo diritto, op. cit., p. 165.

[30] Cfr., sul punto, G.B. Nardecchia, La riforma della legge fallimentare. Prima lettura del codice della crisi e dell’insolvenza, Neldiritto, Molfetta, 2019, p. 78.