Il legame tra adulti, la trappola della parità e il riconoscimento delle differenze
1. Solo ieri
Sono passati solo tre anni dall’approvazione in Italia della legge sulle unioni civili[1], che ha sancito il riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso in quanto “specifica formazione sociale”. In un Paese come il nostro, nel quale su temi come la famiglia e le scelte procreative spesso sono state sentenze della Corte costituzionale ad aprire la strada a nuove formulazioni legislative, proprio una sentenza della Corte del 2010 indicava nell’art. 2 della Costituzione la possibilità di riconoscere diritti alle persone dello stesso sesso il regime di convivenza e di relazione affettiva, negando però l’accesso a matrimonio[2]. Non proprio una famiglia dunque – per via di quella che Stefano Rodotà ha definito «una lettura chiusa» dell’art. 29 della Costituzione[3] – ma, grazie a quel richiamo all’art. 2, una formazione sociale dove si svolge la personalità degli uomini e delle donne. In questo modo, hanno trovato riconoscimento giuridico convivenze e legami in essere da molto tempo o progetti di vita che non avevano mai visto tutelati i diritti delle persone coinvolte. Del resto, il testo riconosce diritti e obblighi reciproci simili a quelli del matrimonio civile, tranne quello di fedeltà, simbolicamente caduto durante la discussione parlamentare, quasi a rinforzo di un pregiudizio diffuso sulla promiscuità delle coppie omosessuali. Siamo ancora lontani dal matrimonio paritario, ma è indubbio che si sia scritta una pagina di espansione della tavola dei diritti e arricchimento delle forme di convivenza riconosciute. Sicuramente per quel che riguarda le relazioni tra adulti, i rapporti orizzontali; più problematica la questione di quelli verticali, dei rapporti di genitorialità, non essendo stata approvata la “stepchild adoption” prevista nella proposta di riforma, ma venuta a cadere durante il dibattito parlamentare[4]. La scorsa legislatura, nell’ambito del diritto familiare, sarà comunque ricordata per l’approvazione del divorzio breve e della legge che regolamenta le unioni civili tra persone dello stesso sesso.
2. Il contrattacco
Qui preme sottolineare quanto appaia oggi lontana quella stagione. Eppure, era appena ieri. A soli tre anni di distanza, registriamo una torsione del dibattito politico sulle famiglie, tutto incentrato a ristabilire “ordini naturali”, teso ad affermare il riconoscimento della bigenitorialità perfetta, l’assoluta parità tra coniugi e genitori. Tale sembra essere la preoccupazione del legislatore. Per quel che riguarda la bigenitorialità, siamo di fronte a un punto programmatico del “contratto di governo” stipulato tra i due partiti di maggioranza, il Movimento 5 stelle e la Lega. In questo documento, sul diritto di famiglia si sostiene che «nell’ambito di una rivisitazione dell’istituto dell’affidamento condiviso dei figli, l’interesse materiale e morale del figlio minorenne non può essere perseguito se non si realizza un autentico equilibrio tra entrambe le figure genitoriali, nel rapporto con la prole. Pertanto sarà necessario assicurare la permanenza del figlio con tempi paritari tra i genitori, rivalutando anche il mantenimento in forma diretta senza alcun automatismo circa la corresponsione di un assegno di sostentamento e valutando l’introduzione di norme volte al contrasto del grave fenomeno dell’alienazione parentale»[5]. Tale impegno ha preso corpo nel disegno di legge (Atto Senato n. 735) «Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità», primo firmatario il senatore leghista Simone Pillon, ma non è l’unico progetto di legge che interviene sulla materia[6]. I punti qualificanti delle proposte legislative si riassumono nell’introduzione delle procedure di Alternative Dispute Resolution (ADR) nel diritto di famiglia e in quello che viene proposto come un completamento del percorso di riforma avviato con la legge n. 54 del 2006, in materia di affido condiviso, attraverso la previsione di misure per il rafforzamento del principio della bigenitorialità (previsione di tempi paritetici, mantenimento diretto della prole, doppio domicilio) e per il contrasto del fenomeno dell’alienazione genitoriale. L’intento dichiarato è quello di muoversi «verso una progressiva de-giurisdizionalizzazione, rimettendo al centro la famiglia e i genitori e, soprattutto, restituendo in ogni occasione possibile ai genitori il diritto di decidere sul futuro dei loro figli e lasciando al giudice il ruolo residuale di decidere nel caso di mancato accordo, ovvero di verificare la non contrarietà all’interesse del minore delle decisioni assunte dai genitori»[7]. Il risultato è un disegno di legge paternalista, che disciplina le vite dei soggetti coinvolti e li tratta come incompetenti e irresponsabili. Sullo sfondo c’è il ritorno all’indissolubilità del matrimonio, sicuramente la fine della separazione consensuale, rendendo difficilissimo e costoso il percorso della separazione. È un disegno che non dà voce ai soggetti coinvolti: madri, padri, figli. Non c’è ascolto del minore, di cui tanto si evoca il diritto alla bigenitorialità, ma che in realtà viene trattato come una proprietà in condivisione. Nessuna attenzione è rivolta alla peculiarità delle diverse situazioni. La mediazione familiare viene imposta, introducendo l’obbligo di affidarsi a figure private, le cui spese sono divise a metà. Anziché tutelare i membri “deboli” della famiglia, il disegno di legge fotografa e consolida le disparità, è così ossessionato dalla bigenitorialità che prevede la mediazione anche nei casi in cui la separazione è causata dalla violenza del coniuge, in aperta violazione della Convenzione di Istanbul[8]. In nome del contrasto alla discutibile “alienazione parentale”, della cui esistenza si dibatte[9], si estende il sospetto su ogni denuncia di violenza contro un marito e si obbligano di fatto i figli a mantenere la relazione con il padre, anche quando il rifiuto di vederlo deriva dall’aver assistito alla sua violenza sulla madre.
È un vero e proprio backlash, per usare il felice titolo del libro della giornalista americana Susan Faludi, che nel 1992 analizzava la reazione conservatrice all’affermazione delle nuove libertà e degli spazi di autodeterminazione ottenuti nei decenni ‘60 e ‘70 del secolo scorso, soprattutto grazie al movimento delle donne[10]. Il contrattacco, oggi, utilizza consapevolmente il linguaggio dei presunti avversari. «Tutta la grammatica dei diritti viene impiegata in nuovi contesti per mettere in discussione norme non condivise. L’aborto diventa la prima causa di femminicidio. L’educazione di genere nelle scuole è stigmatizzata come violenza. Le politiche antidiscriminatorie vengono osteggiate negando, per esempio a chi è oggetto di aggressioni e attacchi di stampo omofobico, lo status di vittime. Al contrario, i fautori dell’ordine naturale si presentano come vittime della rivoluzione sessuale e culturale egemone nelle nostre società secolarizzate. Lamentano la presunta discriminazione dei cristiani in Europa. Scelte consapevoli sono trasformate in costrizioni culturali, sociali o politiche»[11]. I padri, o semplicemente i mariti, diventano le vittime impoverite delle cause di separazione, le donne, madri o anche solo mogli senza figli, le aguzzine che sottraggono i figli agli uomini o usano il matrimonio per “sistemarsi”. Questo revanchismo paterno ispira le riforme dell’affido condiviso, peraltro oggi scelto nell’80 per cento dei casi di separazione[12].
«È un’offensiva culturale che si avvale del linguaggio della parità e dei diritti, dei padri e dei figli, e che costruisce le madri (le donne in generale) come onnipotenti prevaricatrici, in uno scenario antagonistico in cui i vari membri della famiglia si confrontano come soggetti privi di relazioni»[13].
È una strategia che, consapevolmente, gli estremisti religiosi e le organizzazioni contro i diritti delle donne e anti-LGBTI da tempo portano avanti[14]. Lo abbiamo visto in Italia, a Verona, in occasione del World Congress of Families tenutosi a fine aprile 2019. Una vera e propria internazionale dell’integralismo e dell’omofobia, che oggi trova sponda politica nelle destre illiberali.
C’è, nella proposta politica di questi movimenti, un’idea autoritaria di welfare familiare, che promette un ampio sostegno per la natalità, selezionando come base di distribuzione non le donne, ma la famiglia “naturale” («sola unità stabile e fondamentale della società», come recita la presentazione del Congresso), e distinguendo tra chi è degno e chi no di accedere a tale sostegno. In questo modo, è espunto dalla nozione di famiglia ciò che non è “naturale”: famiglie monoparentali, omogenitoriali, divorziate, allargate.
Viene offerta sicurezza in cambio di una libertà che, in mancanza di protezione sociale, rende oggi le vite fragili e precarie. Proprio come nella distopia di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella[15], che non caso è diventato il racconto cult delle femministe di oggi nel mondo. Nella Repubblica di Galaad, immaginata dall’autrice del libro (pubblicato in originale nel 1985, ma diventato una fiction di successo in questi anni), l’aborto è punito con la morte e le poche donne fertili, appunto le “ancelle”, sono al servizio dei “comandanti” e delle loro mogli, per consentire loro di avere figli. Simbolo dell’ideologia del ritorno alla maternità, alla sicurezza del ruolo in cambio della perdita della libertà, ancelle hanno sfilato nella contromanifestazione a Verona, negli Usa, in Polonia e in ogni luogo dove in discussione è la libera scelta delle donne.
3. Un mutamento antropologico
L’estendersi dei diritti dei singoli e della loro tutela dentro le relazioni familiari è stato un processo di segno progressivo. Di fatto, siamo ancora nell’onda lunga delle trasformazioni avvenute a partire dagli anni sessanta e settanta, una trasformazione dell’istituzione famiglia, degli stili di vita, dei comportamenti riproduttivi provocata dal mutamento antropologico iniziato nel secolo scorso, grazie alla rivoluzione femminista della seconda ondata[16]. Nonostante i processi di emancipazione e di modernizzazione, in quegli anni si viveva ancora in un mondo in cui stirpe e onore erano i beni tutelati, i corpi delle donne erano funzionali alla riproduzione, tutta la loro sessualità doveva esserlo e, se violati, l’offesa era all’onore. Nella sfera familiare vigeva il diritto patriarcale. Le donne avevano diritti in quanti cittadine/persone neutre. Quando il corpo eccedeva questa neutralizzazione, come nel caso della sessualità, della violenza, dell’aborto, non vi era cittadinanza femminile, anche perché tali aspetti dell’esistenza apparivano come appartenenti a una sfera altra, privata, prepolitica.
Il matrimonio era infatti un’istituzione gerarchicamente governata dal capofamiglia e i rapporti tra i coniugi erano regolati secondo categorie tipiche del diritto patrimoniale. Si pensi al rapporto con il corpo dell’altro, al debito coniugale. Vicende che non riguardano in egual modo entrambi i coniugi, ma obbediscono alla “naturale” asimmetria tra i generi. «Possesso e non amore, dunque, come regola giuridica di base. Proprietà e non appartenenza reciproca, come strumento per la legittimazione di un rapporto personale che, per questa ragione, si stenterebbe a definire amoroso»[17].
La trasformazione non è stata indolore. Solo nel 1956 la Corte di cassazione ha deciso che al marito non spettava, nei confronti della moglie e dei figli, lo jus corrigendi, ossia il potere educativo e correttivo del pater familias che comprendeva anche la coazione fisica, «fino al Novecento inoltrato ancora invocato nelle aule dei tribunali»[18].
Il processo di costituzionalizzazione della famiglia ha messo in crisi il modello gerarchico e organicista e ha guardato ai diritti inviolabili del soggetto libero di svolgere la sua personalità (art. 2) e all’affermazione del principio d’eguaglianza (art. 3). In questo percorso, la famiglia diventa sfera in cui i singoli possono liberamente organizzare le proprie relazioni e il richiamo all’intervento dello Stato è fatto «per ottenere la rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo di questa dimensione relazionale»[19].
Fece scalpore il caso di Franca Viola che, ad Alcamo, nella Sicilia del 1965, rifiutò il matrimonio riparatore, istituto che rimarrà in vita fino al 1981. Nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio, che sanciva una grande disparità tra i sessi. Nel 1970 fu approvata la legge sul divorzio e, finalmente, nel 1975 il nuovo diritto di famiglia mise fine alla figura del capo famiglia e riconobbe la corresponsabilità tra coniugi. Solo nel 1981 venne abrogato il delitto d’onore e siamo dovuti arrivare al 2012 per avere l’uguaglianza tra figli legittimi e naturali. Il cognome materno ai figli è un capitolo ancora da scrivere.
Nonostante la Costituzione, fino al 1975 la struttura gerarchica della famiglia non era stata toccata e veniva ribadita dal codice civile. Nell’Assemblea costituente, la formula che basava il matrimonio sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi aveva suscitato sconcerto tra gli uomini in modo trasversale agli orientamenti politici; solo la caparbietà delle donne ha consentito di arrivare a quella espressione[20]. Stefano Rodotà paragona la lettura chiusa dell’art. 29, nel caso della sentenza della Corte costituzionale n. 138/2010 – con la conseguente costituzionalizzazione del matrimonio eterosessuale, in realtà non scritta nell’art. 29[21] –, alla difficoltà che più di cinquant’anni fa vi fu nella Costituente ad accettare l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, perché non prevista dal codice vigente, che all’epoca sanciva la superiorità del marito[22].
Oggi come ieri, in nome di una tradizione che vuole avere forza di natura, si è restii a riconoscere il carattere evolutivo dei principi costituzionali. Si può arrivare al punto di non vedere che la Costituzione è fonte giuridica al di sopra del codice o di non mettere in relazione interna i diversi principi costituzionali, in questo caso – ma anche in quello del matrimonio tra persone dello stesso sesso – gli artt. 2, 3 e 29.
Dietro l’idea di famiglia come «isola che il diritto può solo lambire»[23] c’è il giusto rifiuto dell’ingerenza dello Stato nella vita amorosa delle persone, magari per motivi di ordine pubblico e buon costume, ma al «riparo dalla costruzione giuridica non si è per ciò più liberi (…) Al diritto è legittimo chiedere un’assenza, ma non di abdicare al suo ruolo di garanzia di libertà e diritti – dunque pure di diritto d’amore»[24]. Quindi, di intervenire per rimuovere gli ostacoli, radicati nei costumi e nella cultura, ma posti come “naturali”, che congelano nella famiglia sia rapporti di potere e di dominio tra i sessi e le generazioni che il paradigma eterosessuale. L’estensione dei diritti dei singoli nella famiglia è stata chiesta dalle donne per affermare, anche all’interno di essa, relazioni democratiche e di reciprocità. Tale istanza ha aperto la strada all’evoluzione verso la completa uguaglianza di questa istituzione.
4. Paradossi e rischi della parità
Bisogna, però, sapere che l’intervento può avere effetti contraddittori, a seconda dell’equilibrio tra i diversi principi costituzionali, il valore dato alla dimensione relazionale e alla differenza sessuale, l’attenzione al contesto sociale. Veniamo da una storia in cui il diritto si era impadronito del corpo femminile e della sua funzione riproduttiva – basti pensare ai reati contro l’integrità della stirpe. Ed è un conflitto sempre aperto quello sulla libertà e autonomia delle donne. Tanto più oggi, come abbiamo visto in aperura di questo intervento. La parità tra i coniugi, la bigenitorialità e persino il preminente interesse del minore, se non maneggiati accuratamente, possono trovare declinazioni che, invece di sostenere i diritti dei singoli e la loro autonomia, intervengono a reintrodurre modelli tradizionali, mettendo sotto controllo le scelte delle donne, oppure a rendere di nuovo socialmente irrilevante il lavoro di cura, quasi sempre ancora occupazione femminile, soprattutto nel nostro Paese[25].
Una tendenza che Tamar Pitch aveva già descritto negli anni novanta, nel saggio Un diritto per due[26],indicando il rischio che la svolta paritaria – voluta dai movimenti femminili degli anni sessanta e settanta del Novecento, sottesa alla critica della divisione sessuale del lavoro e della tradizionale separazione tra sfere pubblica e privata –, affermando il matrimonio come patto tra individui formalmente uguali, potesse trasformarsi per i partner economicamente e socialmente più deboli in un aggravamento della condizione di disuguaglianza sostanziale. Questo perché la parità tra coniugi «non si nega e non si afferma soltanto mediante norme relative ai rapporti familiari», ma ha a che fare con il modo in cui è organizzato il mercato del lavoro ed è strutturato il sistema di welfare. Oggi possiamo aggiungere più chiaramente che un altro esito della formale parità, ove non faccia i conti con le concrete soggettività, è la neutralizzazione delle differenze nella riproduzione, cancellando l’asimmetria che uomini e donne hanno riguardo alla gestazione e alla nascita di una nuova vita, con il possibile esito di mettere in discussione il riconoscimento dei diritti riproduttivi e sessuali delle donne e la loro autonoma scelta.
Soggettività libere di svolgere la loro personalità, dimensione relazionale, uguaglianza sostanziale: in termini di principi costituzionali, significa saper guardare insieme l’art. 2, l’art. 3 e l’art. 29, in particolare il secondo comma dell’articolo sull’uguaglianza, che impegna «la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana».
L’uguaglianza, anche nella famiglia, non può darsi senza concreta attenzione alle differenze dei corpi e all’ordine sociale ed economico, altrimenti si consolidano le disparità sociali o i destini esistenziali e di genere. Abbiamo visto tale rischio nel caso delle proposta di riforma dell’affido condiviso, ma si può leggere anche nel dibattito sull’assegno divorzile sviluppatosi a partire dalla sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 della Cassazione, che aveva mutato l’orientamento in materia, suscitando non poche reazioni. Tale sentenza aveva infatti ritenuto superato, nell’ambito dei mutamenti economico-sociali intervenuti, il riferimento al diritto a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, affermando che occorreva «superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva» perché è «ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità»[27]. Secondo la sentenza, il nuovo parametro per motivare l’assegno doveva essere il raggiungimento dell’indipendenza economica. È poi intervenuta la Cassazione a sezioni unite per dirimere le letture diverse che tale impostazione aveva avuto, con la sentenza n. 18287 dell’11 luglio 2018. Quest’ultima ha disatteso il criterio dell’indipendenza economica proposto dalla prima sezione, pur condividendo l’abbandono del criterio tradizionale del tenore di vita matrimoniale: le sezioni unite hanno, infatti, affermato che all’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge deve attribuirsi una funzione assistenziale e in pari misura compensativa e perequativa. Secondo le sezioni unite, «la funzione equilibratrice del reddito degli ex coniugi, anch’essa assegnata dal legislatore all’assegno divorzile, non è finalizzata alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale, ma al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale degli ex coniugi»[28]. La sentenza del 2018 introduce «un concetto di adeguatezza dei mezzi da valutare in concreto quale possibilità di beneficiare di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare»[29].
Nel dibattito sull’assegno divorzile si è vista all’opera un’idea della parità tra coniugi che mette tra parentesi condizione concrete e differenze di genere. Come sottolineava l’appello «Per una riaffermazione del principio di equità nella regolamentazione dei rapporti post-coniugali»[30]: «al fine di promuovere l’effettiva indipendenza e autonomia delle donne dentro e fuori alle relazioni familiari, non si può trascurare che il concetto di autosufficienza economica non può essere “decontestualizzato", ma caso per caso deve essere necessariamente ancorato alle perdite di opportunità e rinunce, nella sfera pubblica e lavorativa, che le donne accumulano nel corso del proprio vissuto familiare e relazionale, e ciò proprio in ragione di quei dati oggettivi afferenti il gender gap italico».
Aggiungiamo noi che, se anche non ci fosse il gender gap, la finalità redistributiva dell’assegno divorzile trova la sua motivazione nel riconoscimento del valore dell’apporto di ciascuno/a alla vita condivisa. Anche in assenza di squilibri di potere, qualità e durata della vita insieme hanno determinato un patrimonio condiviso di benessere, un patrimonio relazionale a cui, in modo diverso, ciascuno ha contribuito.
5. Vedere le differenze
Siamo immersi nell’onda lunga della trasformazione degli stili di vita, delle relazioni tra generi e generazioni, della genitorialità. Con il matrimonio o la convivenza inizia una storia di coppia che ogni giorno viene scelta, confermata, rinnovata o portata a termine. Le famiglie sono una comunità di affetti in cui sempre più è centrale il benessere dei componenti, la qualità delle loro relazioni, a sostegno del pieno sviluppo della persona umana. C’è più autodeterminazione, ma questo non significa che l’apporto dei singoli componenti alla vita familiare sia uguale. Diversità di ruoli, scelte individuali condivise, retaggi culturali o struttura sociale giocano a differenziare l’investimento dei singoli nella famiglia.
Le separazioni e i divorzi impoveriscono uomini e donne e va scongiurata la possibilità che il fallimento dell’unione ricada solo su una parte, donna o uomo. Ha preso, però, piede una rappresentazione sessista che riduce le ex mogli a donne avide, le separate con figli a madri cattive che usano la prole come arma di ricatto. Gli uomini e i padri vengono raccontati come vittime di donne che usano i matrimoni e le separazioni per “sistemarsi” e procurarsi rendite parassitarie. Corollario di questa narrazione è quella che vede i giudici favorire le donne nelle separazioni, senza attenzione per i cambiamenti nella società, che non giustificherebbero più tale particolare attenzione. «Tale rappresentazione delle dinamiche post-matrimoniali risulta forse corrispondente al più recente “senso comune”, così come plasmato programmaticamente da forti gruppi di interesse che sostengono un impoverimento degli uomini riconducibile esclusivamente allo status di separato/divorziato e agli obblighi di mantenimento nei confronti dei figli e delle mogli/ex coniugi , ma non corrisponde di certo al quadro socio-statistico attuale, peraltro talmente notorio da potersi ritenere esso stesso massima di esperienza idonea a fungere da regola inferenziale più che affidabile. Basterebbe a svelare la mistificazione veicolata dalla sentenza in esame il fatto che l’assegno divorzile è riconosciuto soltanto nel 12% dei casi e ha un importo medio di circa 500 euro, che scende a 300 euro nei casi di redditi non superiori a 29.000 euro»[31].
Una delle tante spie del prevalere, nel dibattito pubblico, di una narrazione che opera “dalla parte” dei padri si trova anche nella relazione al progetto di legge appena approvato dalla Camera dei deputati per riformare l’art. 5 della legge n. 898/1970 e riformulare l’assegno di mantenimento. In essa si fa riferimento al fatto che la «cronaca segnala spesso casi di difficili condizioni di vita in cui vengono a trovarsi gli ex-coniugi (generalmente i mariti) in quanto costretti a corrispondere un assegno che assorbe parte cospicua del loro guadagno»[32]. Nessuno mette in dubbio che ci siano padri impoveriti dalle separazioni, ma i dati raccontano una realtà più complessa, in cui le difficili condizioni di vita post separazione sono esperienza soprattutto femminile. I separati legalmente in Italia sono 1,4 milioni, quasi triplicati in vent’anni. I separati che vivono con figli minori sono 387.000, di cui 300.000 donne (il 77 per cento) e 87.000 uomini. Il tasso di occupazione femminile tra le separate raggiunge il 59,2 per cento e, tra i separati, l’82 per cento. Separati e separate presentano un livello di povertà assoluta superiore alla media. Nel 2017, il 10,9 per cento dei separati è in povertà assoluta, contro l’8,9 per cento della popolazione nel suo complesso. Tuttavia, il rischio di impoverimento di donne e uomini è diverso e le donne separate stanno molto peggio. Nel 2017, le donne in povertà assoluta sono il 12,7 per cento del totale, contro l’8,7 per cento degli uomini, e il valore è ancora più alto se vivono da sole con i figli[33]. Eppure la narrazione dominante, e l’agenda politica delle riforme, come nel caso del “contratto di governo”, propongono lo sguardo e i bisogni degli uomini come priorità.
In media, le donne dedicano al lavoro non retribuito circa cinque ore al giorno, mentre gli uomini solo poco più di due ore[34]. «Esaminando come cambia per genere la composizione del tempo di lavoro totale tra lavoro retribuito e lavoro non retribuito, ritroviamo chiaramente come il modello culturale del male breadwinner - female caregiver sia ancora ben radicato nella società italiana: mentre per gli uomini il 62,4 per cento del tempo di lavoro totale è assorbito dal lavoro retribuito e il 37,6 per cento da quello non retribuito, la situazione è più che capovolta per le donne, che concentrano il 75 per cento del loro monte ore di lavoro quotidiano sul lavoro non retribuito»[35].
A questo si aggiunga che il 51 per cento delle donne separate ha subito violenza nel corso della vita: una quota molto più elevata delle donne coniugate o nubili[36]. La gran parte di loro non denuncia neanche al momento della separazione, anche per paura di perdere i figli.
Il riconoscimento dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi si invera, dunque, in un contesto profondamente cambiato, ma ancora fortemente segnato da rapporti di potere tra i sessi e divisione sessuale del lavoro. Libertà, consenso, autodeterminazione dei singoli si costruiscono giorno dopo giorno e incontrano continui ostacoli nell’organizzazione dei tempi, del lavoro, del welfare. Rimuovere gli ostacoli e sostenere la libertà e l’autodeterminazione delle persone impone, pertanto, di abbandonare astratti schemi paritari e di saper vedere le differenze. Tanto più nel caso della coppia eterosessuale, nella quale è essenziale cogliere come agisce la differenza sessuale[37].
Come spiega Luigi Ferrajoli, «l’uguaglianza è stipulata perché siamo differenti, inteso “differenza” nel senso di diversità delle identità personali»[38]. Ed è altresì stipulata «perché siamo disuguali, inteso “disuguaglianza” nel senso di diversità nelle condizioni di vita materiali. Insomma l’uguaglianza è stipulata perché, di fatto, siamo differenti e disuguali, a tutela delle differenze e in opposizione alle disuguaglianze»[39].
[1] Legge n. 76/2016.
[2] Corte cost., 14 aprile 2010, n. 138.
[3] Stefano Rodotà, Diritto d’amore, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 103. Si veda anche Angelo Schillaci, Costruire il futuro, omosessualità e matrimonio, in Id. (a cura di) Omosessualità, uguaglianza, diritti, Carocci, Roma, 2014, pp. 195-202.
[4] Dal testo approvato è stato appunto cancellato l’originario art. 5 (con cui si estendeva anche ai genitori dello stesso sesso la possibilità di adottare il figlio del partner, la cd. “stepchild adoption”), su cui si erano concentrate opposizioni da più fronti. Il dibattito sulle unioni civili e sulla genitorialità omosessuale, infatti, si è intrecciato con quello sulla gestazione per altri. Più forte della preoccupazione per i diritti dei minori è stata la paura che la stepchild adoption aprisse, anche nel nostro Paese, alla gestazione per altri (GPA), peraltro espressamente vietata dalla legge sulla riproduzione assistita. Purtroppo questo tema ha finito per viziare la discussione sull’adozione da parte del partner e lo sguardo si è spostato dai minorenni ai genitori e alle loro scelte. Si è, così, negata ai bambini che già crescono all’interno di famiglie omogenitoriali la possibilità di veder riconosciute le relazioni di cura che sostengono la loro vita quotidiana e la loro crescita, con tutti i rischi che questo comporta nel caso di morte prematura del genitore biologico.
La mancata approvazione della stepchild adoption ha di fatto messo la magistratura di fronte al difficile compito di dover decidere, caso per caso, se e come riconoscere dignità ai legami del minore con gli adulti di riferimento, senza pregiudizio per il loro orientamento sessuale, guardando piuttosto al supremo interesse del minore. Ci muoviamo inoltre su un terreno nel quale, più volte nel nostro Paese, sentenze della Consulta o decisioni della giurisprudenza di merito, dovendo rispondere a domande generate dall’incalzare della vita delle persone, hanno anticipato scelte del legislatore. Ed è questo che, a partire dalla pronuncia della Suprema corte del 24 maggio 2016, n. 12962, le corti di merito sono già state più volte chiamate a fare per i casi di bambini nati da surrogacy praticata all’estero da coppie di uomini, o bambini nati da PMA cosiddetta eterologa (anche questa praticata all’estero, essendo nel nostro Paese la procreazione medicalmente assistita consentita solo alle coppie eterosessuali) da coppie di donne – si veda M. Gattuso, Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40, in questa Rivista online, 16 gennaio 2018, www.questionegiustizia.it/doc/bambino_e_le_sue_mamme_gattuso.pdf.
[5] Contratto per il governo del cambiamento, p. 24.
[6] Si veda anche Atto Senato n. 45, di iniziativa dei senatori De Poli e altri, e Atto Senato n. 768, l’ultimo a essere stato assegnato alla Commissione giustizia, di iniziativa dei senatori Gallone, Modena e altri.
[7] Ddl n. 735, p. 2
[8] La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ovvero la cd. “Convenzione di Istanbul”, aperta alla firma l’11 maggio del 2011, ratificata dall’Italia con la legge n. 77/2013 e in vigore dal 1° agosto 2014, vieta sia l’affido condiviso sia la mediazione nei casi di violenza domestica e fissa una serie di linee guida (si vedano, in particolare, gli artt. 31 e 48).
[9] La “sindrome da alienazione genitoriale” o “sindrome da alienazione parentale” (PAS, dalla formula inglese “Parental Alienation Syndrome”) è un concetto che fu introdotto, per la prima volta, negli anni ottanta dallo psichiatra statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner, questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “programmazione” dei figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”), che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). Essa è molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo, non è nominata nel «Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali» (noto anche come “DSM-5”), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association).
[10] Susan Faludi, Contrattacco. La guerra non dichiarata contro le donne, Baldini & Castoldi, Milano, 1992.
[11] Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti, Verona non è il Medioevo, è un modernissimo contrattacco, in Femministerie, 29 marzo 2019, https://femministerie.wordpress.com/2019/03/29/verona-non-e-il-medioevo-e-un-modernissimo-contrattacco/#more-2502.
[12] Nel 2015 le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89 per cento di tutte le separazioni con affido. Soltanto l’8,9 per cento dei figli è affidato esclusivamente alla madre (fonte: Istat, Matrimoni, separazione e divorzi, 14 novembre 2016, https://www.istat.it/it/archivio/matrimoni+separazioni+e+divorzi).
[13] Tamar Pitch, I diritti fondamentali: differenze culturali, disuguaglianze sociali, differenza sessuale, Giappichelli, Torino, 2004, p.147.
[14] Su questi movimenti e la loro rete europea, si veda il dossier redatto dall’European Parlamentary Forum (EPF), rete di parlamentari di tutta Europa impegnati a tutelare la salute sessuale e riproduttiva delle persone, Ripristinare l’ordine naturale: la visione degli estremisti religiosi per mobilitare le società europee contro i diritti umani sulla sessualità e la riproduzione, tradotto in italiano dal Comitato di Torino «Se Non Ora Quando?» (C. Ballesio e E. Guglielmotti, 6 maggio 2018, www.senonoraquando-torino.it/2018/05/06/ripristinare-lordine-naturale-la-visione-degli-estremisti-religiosi-per-mobilitare-le-societa-europee-contro-i-diritti-umani-sulla-sessualita-e-la-riproduzione/). Le pagine mostrano bene obiettivi e strategie del gruppo denominato «Agenda Europa»: una rete che oggi coordina oltre 100 organizzazioni contro i diritti umani, contro i diritti delle donne e anti-LGBTI, provenienti da oltre 30 Paesi europei, e che ambisce a mettere in discussione diritti riconosciuti in ambiti come la sessualità, la riproduzione, la famiglia. Di mira sono presi, ad esempio: il diritto al divorzio; l’accesso alla contraccezione, alle tecnologie di riproduzione assistita o all’aborto; l’uguaglianza per le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali o intersessuali (LGBTI) o il diritto di cambiare genere o sesso senza temere ripercussioni legali. Tra i loro obiettivi, troviamo la volontà di impedire la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza di genere e di contrastare le legislazioni sulla parità. I membri di Agenda Europa hanno promosso un blog, organizzano summit annuali e si sono dotati di un manifesto politico, titolato «Ristabilire l’Ordine Naturale: un’Agenda per l’Europa» (https://www.epfweb.org/sites/epfweb.org/files/online_epf_italiano_definitivo_compressed_0.pdf). Nel testo, si condanna la dissociazione tra atto sessuale e procreazione e il ricorso alla contraccezione, lesiva della dignità della sessualità.
[15] M. Atwood, Il racconto dell’ancella, Ponte alle grazie, Firenze, 2017.
[16] La cd. “seconda ondata” femminista si è sviluppata nella seconda metà del secolo scorso, ha avuto al centro della propria azione la sfera privata, la sessualità femminile, le relazioni tra i sessi, le scelte procreative. Essa si distingue dal femminismo di fine Ottocento/inizio Novecento (la prima ondata), impegnato a lottare per il diritto di voto, richiesta che, peraltro, sottende il riconoscimento di cittadinanza, autonomia e identità femminile.
[17] S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 8.
[18] S. Feci e L. Schettini (a cura di), La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secoli XV – XXI), Viella, Roma, 2017.
[19] M.R. Marella e G. Marini, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia, Laterza, Roma-Bari, 2014.
[20] Cfr. ancora S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit.,pp. 9-12.
[21] Cfr. C. D’Elia e G. Serughetti, Libere tutte. Dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio, Minimumfax, Roma, 207, pp. 107 – 114, e Vittorio Caporrella, La famiglia nella costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente, in Storicamente, n. 6/2010, https://storicamente.org/sites/default/images/articles/media/1347/famiglia_costituzione_italiana.pdf.
[22] Così recitava l’art. 144 del codice civile del 1942 (rubricato «Potestà maritale»): «ll marito è il capo della famiglia. La moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede di fissare la sua residenza».
[23] L’espressione è di Arturo Carlo Jemolo, in S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit, p. 18.
[24] S. Rodotà, ibid., p. 12.
[25] Si veda l’indagine sull’uso del tempo condotta dall’Istate raccolta nel volume I tempi della vita quotidiana. Lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo, 7 maggio 2019, https://www.istat.it/it/archivio/230102.
[26] T. Pitch, Un diritto per due. La costruzione giuridica di genere, sesso e sessualità, Il Saggiatore, Milano, 1998, in particolare pp. 101-146.
[27] Cass., sez I civ., 10 maggio 2017, n. 11504.
[28] Cass., sez. unite, 11 luglio 2018, n. 18287.
[29] M. Di Bari, Cassazione, i principi fondamentali di disciplina dell’assegno di divorzio: libertà, autoresponsabilità e pari dignità, in questa Rivista online, 4 dicembre 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/cassazione-i-principi-fondamentali-di-disciplina-d_04-12-2018.php.
[30] Appello promosso da giuriste, studiose e intellettuali, associazionismo femminile e femminista, e non solo, in La Stampa, Per una riaffermazione del principio di equità nella regolamentazione dei rapporti post-coniugali, 7 aprile 2018, https://www.lastampa.it/2018/04/07/italia/per-una-riaffermazione-del-principio-di-equit-nella-regolamentazione-dei-rapporti-postconiugali-0TDrWp1C331Bxch53rGb0K/pagina.html.
[31] I. Boiano, Dare a ciascuno il suo. Per una regolamentazione dei rapporti post-matrimoniali libera da stereotipi di genere, in Giudice Donna, n. 4/2017, pp. 6-7, www.giudicedonna.it/2017/quattro/articoli/Dare%20a%20ciascuno%20il%20suo.pdf.
[32] Pdl n. 506, approvato con modifiche dalla Camera dei deputati il 14 maggio 2019, con 386 sì, 19 astensioni e nessun voto contrario. La proposta prevede che l’assegno abbia lo scopo di equilibrare, per quanto possibile, la disparità delle condizioni di vita dei coniugi determinata dallo scioglimento del matrimonio – anche se tale carattere compensativo è stato soppresso da un emendamento leghista. I criteri sono: patrimonio e reddito netto di entrambi, durata del matrimonio, età e condizioni di salute di chi richiede il mantenimento, contributo fornito da ciascuno dei due «alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune», eventuale riduzione della capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, il contributo per figli minori disabili o non indipendenti a livello economico, la mancanza di un’adeguata formazione professionale quale conseguenza dell’adempimento di doveri coniugali. L’assegno decade in caso di nuovo matrimonio o convivenza.
[33] Sono dati riferiti in Commissione giustizia del Senato della Repubblica nella sua audizione sul ddl n. 735, il 14 febbraio 2019, dalla statistica sociale Linda Laura Sabbadini. Sui dati, si veda Istat, Condizioni di vita delle persone separate, divorziate e coniugate dopo un divorzio, 7 dicembre 2011, https://www.istat.it/it/archivio/47539.
[34] Istat, I tempi della vita quotidiana, op. cit.
[35] E. Aloè, Ma quanto lavoriamo?, in In genere, 20 maggio 2019, www.ingenere.it/articoli/ma-quanto-lavoriamo.
[36] Dati forniti da Linda Laura Sabbadini, ivi.
[37] Su differenza sessuale e diritti si veda T. Pitch, I diritti fondamentali, op. cit.
[38] L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Bari, 2018, p.3.
[39] Ivi,corsivo dell’Autore.