La continuità aziendale nelle procedure concorsuali
1. Il regio decreto n. 267/1942
Se è possibile definire con un’espressione il regio decreto n. 267/1942, quella che forse più si avvicina alla realtà è “legge processuale”. Sua caratteristica è proprio il fatto di essere una legge soprattutto processuale – qualcuno ha detto «panprocessuale»[1]. Come veniva sottolineato dai grandi giuristi dell’epoca, «Il fallimento è l’organizzazione procedurale della difesa collettiva dei creditori di fronte all’insolvenza del mercante, il cui patrimonio deve essere liquidato ed erogato a favore dei creditori»[2]. Negli stessi termini, Cesare Vivante osservava proprio che il fallimento non appartiene al diritto sostanziale, ma piuttosto alla legge processuale, perché ha lo scopo di riconoscere e di accertare dei diritti che già esistono all’apertura della procedura, per poi soddisfarli con quella “misura di dividendo” che corrisponde ai limiti fisico-naturalistici del patrimonio costituente la garanzia patrimoniale per i creditori. Il fine era l’attuazione della responsabilità patrimoniale in un clima di parità di trattamento. In sostanza, il binomio costituito dagli artt. 2740 e 2741 cc costituiva la funzione essenziale del fallimento. Tutela privatistica del credito che ben si sposava con la matrice di carattere pubblicistico, con l’interesse superiore di natura pubblica economica consistente nella soppressione e nell’espulsione dal mercato dell’impresa inefficiente. La visione del legislatore del 1942 era dichiaratamente quella di favorire l’espulsione dell’imprenditore insolvente dal mercato, imprenditore qualificato come un virus infetto in grado, se non emarginato, di diffondersi fra le imprese sane, ma coinvolte nel dissesto. Questa visione traspare da una pluralità di fattori concorrenti: a) il soggetto passivo è l’imprenditore (non l’impresa); b) il processo non conosce (in origine) un sistema di garanzie del debitore; c) la revocatoria fallimentare è costruita per formare un “cordone sanitario” attorno all’imprenditore, in modo da generare un allarme tale da indurre i partner commerciali a non fornire più risorse così da prosciugare l’impresa; d) il termine “azienda” è, di fatto, sconosciuto e il valore della conservazione del tutto negletto; e) il sistema penale è fortemente dissuasivo nei confronti dei creditori (cfr. la cd. “bancarotta preferenziale”). Questi e altri elementi portano a concludere che, al legislatore del 1942, il valore-impresa era sconosciuto e si risolveva nella sommatoria dei singoli beni (sia chiaro, beni materiali tangibili) di cui l’imprenditore fosse proprietario secondo una ben precisa logica proprietaria decisamente coerente con l’impronta del coevo codice civile. I rimedi alternativi – concordato preventivo e amministrazione controllata – scontavano, invece, lo scoglio dell’alta percentuale di crediti di cui garantire la soddisfazione, senza poter contravvenire alla regola di uguale trattamento tra i creditori[3]. Anche la disciplina del concordato venne, quindi, plasmata sulla spinta di un forte credo ideologico, incentrato sulla concezione pubblicistica del fallimento. Questo sembra aver caratterizzato naturalmente anche tutte le altre procedure concorsuali e si traduceva, in estrema sintesi, in una più energica tutela degli interessi generali rispetto agli interessi particolari dei singoli creditori e del debitore. Interessi generali rappresentati, come detto, dalla tutela dei creditori nel loro complesso, che erano assicurati dal pervicace controllo del tribunale durante tutto il corso della procedura: un controllo di legittimità e di merito, che si poneva su un piano superiore rispetto alla volontà delle parti, tanto che, ad esempio, il tribunale poteva negare l’omologa a una proposta ritenuta poco conveniente anche se la stessa fosse stata approvata da tutti i creditori. Le singole disposizioni esprimevano, quindi, una perfetta coincidenza tra interesse privato (attuazione della responsabilità patrimoniale del debitore) e utilità sociale (espulsione dal mercato dell’impresa malata)[4].
2. La crisi del modello tradizionale
La convergenza di interessi pubblici e privati inizia a incrinarsi sul finire degli anni settanta del secolo scorso, al mutare delle condizioni economiche e sociali del Paese. In tale contesto, l’impostazione liquidatoria della legge fallimentare del 1942 cominciò a mostrare tutti i suoi limiti e alle nuove esigenze che emergevano venne data una qualche forma di soddisfazione, essenzialmente attraverso due strade: la prima è stata la forzatura del dato normativo, dando vita a quello che è stato ribattezzato l’«uso “alternativo” delle procedure concorsuali»[5]; la seconda, invece, l’introduzione di una disciplina specifica[6] per regolare la crisi dei grandi complessi produttivi del nostro Paese[7]. Sotto il profilo soggettivo, entra in crisi il modello dualistico imperniato sul rapporto credito/debito, dato che il diritto del creditore deve coordinarsi (talora sino a piegarsi, in alcuni tipi di procedure) con le posizioni giuridiche di soggetti non creditori comunque coinvolti nel dissesto (si pensi ai contraenti di negozi pendenti come, soprattutto, i lavoratori dipendenti). Sotto il profilo pubblicistico, l’eliminazione dal mercato dell’impresa insolvente lascia il passo alla protrazione dell’attività, anche a prescindere dalle effettive possibilità di risanamento. Tale fenomeno produsse i suoi effetti sulla disciplina del concordato preventivo[8], con l’esaltazione dei profili negoziali dell’accordo tra le parti, che divenne il fulcro di tutta la procedura, facendo passare in secondo piano l’indagine officiosa circa la reale tenuta giuridico-satisfattiva dell’accordo in questione[9]. L’emblema delle letture più spinte degli istituti della legge fallimentare è sicuramente il modo in cui venne interpretata l’amministrazione controllata[10]. In piena crisi economica, sul finire degli anni settanta l’amministrazione controllata diviene il primo tassello di un mosaico che rappresenta, alla fine, la disgregazione dell’impresa attraverso le tappe intermedie della medesima procedura, del concordato preventivo e del fallimento. Quel fenomeno definito “consecuzione di procedure”, che di fatto si risolve in una lesione dei diritti dei creditori, visto che le risorse dell’impresa finiscono con il remunerare solo (o quasi) i debiti che maturano durante questo processo, costituisce un “punto di non ritorno” perché ci si avvede che le procedure, se vogliono essere indirizzate verso il valore della conservazione dell’impresa, debbono stabilire anche dei poteri di controllo affidati ai creditori, onde evitare che si possa arrivare, sì, a un risanamento, ma pagato dal ceto creditorio. Sull’uso “alternativo” delle procedure concorsuali si spesero molte parole perché, perduto l’obiettivo della tutela primaria del credito, si cercava di alimentare il polo opposto, quello rappresentato dalla teoria della conservazione e del risanamento (fondata sull’analisi della crisi economica di quegli anni, sulla centralità del tema dell’occupazione e, dunque, della necessità dell’assistenzialismo di Stato)[11]. Decisioni che, forzando i connotati di tipo pubblicistico – che, come detto, connotavano tutta la legge fallimentare e quindi anche la disciplina del concordato preventivo –, piegavano l’istituto ad esigenze di carattere “pubblico” quali il mantenimento di livelli occupazionali e, più in generale, di conservazione dell’impresa in crisi per scopi diversi da quelli di tutela delle ragioni dei creditori. Una volta mutato il quadro politico ed economico in cui erano sorte quelle interpretazioni “evolutive”, la Suprema corte, in una fondamentale pronuncia, ribadì la centralità delle ragioni dei creditori, negando che potesse essere individuato nel «salvataggio della impresa» il fine istituzionale e primario del concordato preventivo, affermazione che, secondo i giudici di legittimità, non trovava sicuro riscontro nei testi normativi né, implicitamente, nella struttura dell’istituto[12].
Tale decisione[13] non risolse, però, i molti dubbi circa l’effettiva capacità del concordato preventivo di contemperare i diritti dei creditori con le esigenze di prosecuzione dell’attività d’impresa.
I dubbi erano alimentati dalla considerazione che, sempre più spesso, era messa in discussione la stessa capacità del concordato preventivo di soddisfare efficacemente sia il principale interesse perseguito, quello dei creditori alla massima realizzazione dei loro crediti, che quelli correlati.
3. Tutela giurisdizionale e libertà negoziale
La critica alla disciplina del concordato preventivo e, più in generale, a quella del fallimento, ritenuta non più attuale rispetto al vorticoso mutare del quadro politico ed economico di riferimento, finiva per incentrarsi essenzialmente in una censura all’intervento dell’autorità giudiziaria[14] e si alimentava sull’affermata (e spesso indimostrata) convenienza della gestione stragiudiziale della crisi d’impresa, e ciò sia in un’ottica liquidatoria che in un’ottica di risanamento e rilancio dell’impresa.
In questo quadro, nell’ultimo decennio del secolo scorso, si è fatta strada una diversa visione volta a esaltare il ruolo e la funzione degli accordi stragiudiziali per la soluzione della crisi dell’impresa.
Le ragioni per le quali, sovente, nella vigenza della originaria disciplina della legge fallimentare, il debitore privilegiava la soluzione stragiudiziale rispetto al concordato preventivo[15] risiedevano, essenzialmente: nei rilevanti costi delle procedure concorsuali[16] (compenso del commissario e dell’eventuale liquidatore, imposta di registro relativa alla sentenza di omologazione del concordato, etc.)[17]; nella drastica limitazione dei poteri del debitore nella gestione dell’impresa a causa della presenza del commissario giudiziale, oltre che del particolare regime autorizzativo previsto per una serie di atti ex art. 167 l.fall.; nella necessità di pagare i creditori privilegiati integralmente e immediatamente, subito dopo l’omologazione (mentre, in caso di concordato stragiudiziale, la posizione dei creditori garantiti poteva essere negoziata con la massima elasticità); nella difficoltà di procurarsi le garanzie reali o personali necessarie per l’ammissione alla procedura (garanzie spesso richieste nella prassi giudiziaria anche per l’ammissione all’amministrazione controllata), che non potevano consistere in beni del debitore, ma dovevano provenire da terzi[18].
Il ricorso alla soluzione stragiudiziale si presentava quasi obbligato in tutte le ipotesi, di certo non infrequenti, nelle quali la crisi coinvolgeva più società tra loro collegate, a fronte della sostanziale indifferenza della legge fallimentare nei confronti dell’insolvenza di gruppo[19].
La critica verso l’intervento dell’autorità giudiziaria non tendeva a portare definitivamente la soluzione delle crisi d’impresa fuori dai tribunali, quanto piuttosto a limitare drasticamente il potere d’intervento dei giudici nelle procedure concorsuali.
L’intervento dell’autorità giudiziaria era, infatti, ritenuto comunque necessario a dare una garanzia di certezza giuridica, al riparo da rischi di revocatoria o di imputazioni penali[20]. Secondo tale impostazione, esso doveva limitarsi a prendere atto del fatto che le categorie interessate avevano raggiunto l’accordo con l’imprenditore, evitando il prodursi della crisi definitiva. In tali ipotesi, non vi sarebbe ragione di sovrapporre valutazioni di merito autoritative alle intese raggiunte dal debitore con i suoi creditori.
Attraverso il definitivo abbattimento dell’“idolo” dell’indisponibilità dell’insolvenza, queste considerazioni miravano ad affermare la centralità dell’autonomia privata nella soluzione delle crisi d’impresa.
Il brodo di coltura ideologico in cui si è formata e sviluppata la stagione della prima grande riforma della legge fallimentare, attuata nel biennio 2005-2007, si è costituito proprio a partire da queste riflessioni dottrinali.
4. La prima stagione delle riforme (2005/2007)
In linea di principio, la scelta di fondo del legislatore della riforma è lasciare alla negoziazione delle parti la gestione delle scelte di merito, senza interferenze del giudice. E ciò sia quando lo squilibrio economico, patrimoniale o finanziario può ancora lasciar presagire un risanamento dell’impresa (o, comunque, è tale da consentire una sistemazione concordata del passivo), sia quando il dissesto si è tramutato in insolvenza definitivamente accertata con la dichiarazione di fallimento.
Il margine lasciato all’autonomia privata avrebbe dovuto (come logica conseguenza) non comprimere, ma anzi esaltare ancor più il ruolo dei creditori nelle procedure concorsuali, viste come “strumenti” per il trasferimento del controllo dell’impresa ai creditori medesimi[21].
Nella visione liberista, apparentemente sposata dal legislatore, le procedure concorsuali dovrebbero assicurare l’effettività del trasferimento del controllo dell’impresa in crisi dal debitore ai creditori, con la conseguente necessità di predisporre «strutture che organizzino il controllo in capo ai creditori e regole che diano un quadro normativo certo ai tempi della transizione, forme in cui questo controllo deve essere esercitato e mezzi con i quali si intende conseguire l’obiettivo finale dei creditori: quello di soddisfare i loro crediti»[22].
In questa prospettiva, l’interesse dei creditori al massimo realizzo dei loro crediti avrebbe dovuto rappresentare ancora il principale obiettivo di tutte le procedure concorsuali, pur non essendo escluso che a tale obiettivo venisse affiancato quello della conservazione dei valori aziendali.
Anche la conservazione delle componenti positive dell’impresa (beni produttivi e livelli occupazionali) costituisce infatti, nella disciplina riformata, un obiettivo meritevole di tutela nell’ambito delle procedure concorsuali[23].
Il considerare le procedure concorsuali non più in termini meramente liquidatori-sanzionatori, ma piuttosto come destinate anche a un risultato di conservazione dei mezzi organizzativi dell’impresa, assicurando la sopravvivenza, ove possibile, dell’impresa in crisi, non può rappresentare comunque il fine ultimo delle procedure medesime[24], ma soltanto un obiettivo mediato, per procurare ai creditori una più consistente garanzia patrimoniale attraverso il risanamento e il trasferimento a terzi delle strutture aziendali[25].
In altre parole, vari possono essere gli interessi perseguiti dalle procedure concorsuali (quello dei lavoratori, quello della stabilità del mercato o, più in generale, dell’economia) ma non tutti possono essere posti sullo stesso piano.
La selezione tra più interessi eventualmente confliggenti deve, infatti, sempre risolversi a favore di quello dei creditori.
Il diritto di garanzia dei creditori sul patrimonio del debitore è assistito da tutela costituzionale, con la conseguenza che esso non può essere espropriato, neppure indirettamente, a vantaggio dell’interesse pubblico al buon andamento dell’economia o alla salvaguardia dei valori aziendali[26].
Principi che sono stati coerentemente applicati nella disciplina del fallimento, dove l’esaltazione del ruolo dell’autonomia privata si è tradotta nel dichiarato scopo di mutare il precedente rapporto tra gli organi della procedura, il bilanciamento di poteri tra gli stessi. E ciò a tutto vantaggio del comitato dei creditori, che ha visto espandersi le sue prerogative e la sua funzione, prima limitata a quella di organo meramente consultivo, dispensatore di pareri aventi una rilevanza meramente interna al procedimento fallimentare[27].
Altrettanto non può dirsi per quanto riguarda il concordato preventivo.
La vaghezza di intenti del legislatore si è avvertita sin dai primi vagiti della riforma. La relazione illustrativa al dl n. 35/2005 si limita infatti ad affermare, assai laconicamente, che «il concordato diviene lo strumento attraverso il quale la crisi dell’impresa può essere risolta anche attraverso accordi stragiudiziali che abbiano a oggetto la ristrutturazione dell’impresa».
Che il concordato sia uno dei possibili strumenti di soluzione della crisi d’impresa appare affermazione a dir poco pleonastica. Che il legislatore abbia inteso, anche qui, ridurre drasticamente i poteri di controllo dell’autorità giudiziaria sul merito della proposta è convinzione comune in dottrina e giurisprudenza, ed è basata su inequivoci dati testuali. Questi ultimi sono rappresentati dall’eliminazione del sindacato del tribunale sulla meritevolezza e dalla residualità di quello sulla convenienza della proposta, limitato, dopo il decreto correttivo del 2007, alla sola ipotesi di opposizione di un creditore appartenente a una classe dissenziente.
Parimenti evidente è l’ampio margine di autonomia negoziale garantito al debitore il quale, a differenza di quanto accade nel concordato fallimentare, è ancora l’unico soggetto legittimato al deposito di una proposta, la cui presentazione non richiede più alcun requisito di meritevolezza da parte dell’imprenditore e il cui contenuto è ormai quasi del tutto svincolato da indicazioni cogenti circa le modalità di soddisfacimento dei creditori (quanto meno, dei creditori chirografari).
A tal proposito va considerato che, in merito alla possibilità di soddisfare i creditori – almeno quelli chirografari – con modalità alternative al pagamento in termini monetari, la facoltà del debitore di proporre una modifica non solo quantitativa, ma anche qualitativa dell’obbligazione introduce oggettivamente un vulnus al profilo della convenienza del concordato, sotto il profilo della sua economicità. In relazione all’economicità della convenienza, appare indubbio che il primo elemento di convenienza attiene a quella forma satisfattiva che più si avvicina alla legittima aspettativa dei creditori che, secondo la tutela generale offerta dall’ordinamento, è l’aspettativa all’adempimento integrale e puntuale (tempestivo) del credito in termini monetari.
Conseguentemente, la possibilità satisfattiva che più si avvicina, in percentuale e nel tempo di attuazione, al massimo della tutela normativa del creditore, delinea in maniera essenziale e primaria la situazione di “convenienza economica”.
Né possono essere dimenticati gli ulteriori vantaggi che il concordato preventivo tuttora assicura al debitore, quali: il blocco delle azioni esecutive collegato al solo deposito della domanda (pur se condizionato alla successiva ammissione); l’efficacia del concordato omologato che si estende ancora, indistintamente, a tutti i creditori anteriori all’ammissione; l’effetto liberatorio dalle obbligazioni residue rimaste insoddisfatte a seguito dell’adempimento del concordato.
Vantaggi cui si contrappongono i perduranti svantaggi che derivano ai creditori dal deposito del ricorso e dal successivo decreto di ammissione.
Proprio con riferimento agli effetti sui creditori, si rinviene una quasi totale omogeneità tra fallimento e concordato preventivo. I creditori si vedono, infatti, negare il diritto alle azioni esecutive individuali e al contempo a quelle concorsuali, sospendere il decorso degli interessi, negare la rivalutazione monetaria, regolare la compensazione e gli altri istituti del pegno, della rendita, della solidarietà e dei crediti di qualsiasi natura.
Ai gravosi effetti sostanziali, si aggiunge l’evidente difficoltà pratica dei creditori di far valere le loro ragioni nell’ambito della procedura.
Il ruolo sostanziale rivestito dai creditori non può, invero, essere esaminato disgiuntamente dalle prerogative processuali loro attribuite nel procedimento, prerogative che, a differenza di quanto accade nel fallimento, non sono veicolate da un soggetto che tuteli i loro interessi collettivamente considerati. Il commissario giudiziale non è infatti titolare di un interesse pubblico a difesa della massa dei creditori, né li rappresenta come singoli o come massa[28].
A fronte di tali inequivoci dati testuali, appare evidente come il legislatore, con le riforme attuate nel biennio 2005/2007, abbia disegnato una disciplina fortemente squilibrata, a tutto vantaggio delle ragioni del debitore e, in subordine, della sola maggioranza dei creditori, posto che il potere dei creditori di incidere sulle sorti del concordato si esprime essenzialmente nel diritto di voto, con scarsa attenzione ai creditori silenti, opponenti o estranei che subiscono, al pari degli altri, gli effetti del concordato.
Il potere di voto rappresenta, almeno astrattamente, l’arma finale in mano ai creditori, ma in concreto risulta spesso spuntata alla luce dell’obiettiva incertezza sulle garanzie offerte a tutti i creditori circa l’effettiva corretta formazione del consenso e, quindi, delle maggioranze.
Appare dunque evidente come la riforma del concordato ponesse, ab initio, delle esigenze di riequilibrio del sistema attraverso un’interpretazione che avesse come stella polare la tutela del diritto di garanzia di tutti i creditori sul patrimonio del debitore, diritto che non può essere, neppure indirettamente, espropriato a vantaggio degli interessi del debitore medesimo.
Il concordato preventivo, quale procedura concorsuale alternativa al fallimento in presenza di presupposti e condizioni disciplinati tassativamente dalla legge, pur costituendo un indubbio beneficio per il proponente, sottratto al fallimento, non ha la funzione di sottrarre l’imprenditore al generale principio di responsabilità ex art. 2740 cc, al quale egli, dopo il deposito della proposta (depositata sul presupposto oggettivo della crisi e/o insolvenza dell’imprenditore medesimo), soggiace.
Per il fatto stesso della sussistenza dell’insolvenza o della crisi[29] (che si traduce nella manifesta confessione attuale o, quanto meno, prospettica di non poter adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni), il debitore soggiace alla necessaria destinazione del suo patrimonio, e di tutto il suo patrimonio, alla soddisfazione dei creditori, sia che lo stato di crisi e/o l’insolvenza portino alla concorsualità sistematizzata nel fallimento, sia che si addivenga alla diversa procedura concordataria.
Da quel momento, il debitore soggiace alla necessaria destinazione del suo patrimonio, e di tutto il suo patrimonio, alla soddisfazione dei creditori.
Il che evidenzia come fosse necessario ricercare un giusto equilibrio tra autonomia privata ed eteronomia, tra volontà del debitore e della maggioranza dei creditori e controllo giurisdizionale[30].
5. La riforma permanente
L’intervento riformatore attuato nel biennio 2005/2007 non ha portato a un equilibrio soddisfacente tra i valori in gioco, tanto che la normativa della disciplina concorsuale è rimasta un “cantiere sempre aperto”, su cui il legislatore è intervenuto apportando correzioni continue, molte delle quali non prive di rilievo sistematico.
Pur senza ripercorrere analiticamente le numerose modifiche apportate alla legge fallimentare, va sottolineato come tali interventi, non sempre coerenti tra loro, hanno visto il pendolo legislativo oscillare paurosamente tra l’esaltazione della negozialità e, quindi, dell’interesse del debitore a regolare liberamente la propria crisi e/o insolvenza, e la tutela del diritto di credito. Il che è reso evidente sol che si consideri che le due principali miniriforme, quella del 2012 e quella del 2015, rispondono a esigente diametralmente opposte.
Con le modifiche introdotte con il cd. dl “sviluppo”, al fine di sviluppare l’utilizzo dello strumento concordatario veniva enormemente potenziato il margine di autonomia negoziale garantito al debitore, con la facoltà di depositare la domanda di concordato riservandosi di depositare la proposta, il piano e la documentazione in un secondo tempo, entro un termine fissato dal giudice non superiore a 120 giorni e prorogabile di altri 60.
Dalla pubblicazione nel registro delle imprese della domanda decorrono gli effetti protettivi sul patrimonio del debitore di cui all’art. 168 l.fall., estesi anche alle azioni cautelari. Sempre in una prospettiva di favor debitoris è stata introdotta una disposizione, l’art. 169-bis l.fall., che disciplina la sorte dei rapporti giuridici pendenti al momento del deposito della domanda di concordato. In analogia con quanto previsto nel fallimento, il debitore può chiedere che il tribunale lo autorizzi a sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione ovvero a sospenderne l’esecuzione per 60 giorni. In tali casi, il contraente ha diritto a un indennizzo in moneta concordataria, pari al risarcimento del danno conseguente al mancato adempimento del debitore. Parimenti significativa è l’introduzione di un meccanismo di approvazione del concordato fondato sul silenzio assenso dei creditori. Simili interventi sulla disciplina del concordato preventivo sono volti a stimolare l’utilizzo dell’istituto in funzione conservativa dei valori aziendali. Il legislatore, a tal fine, ha quindi forgiato una specifica disciplina per il concordato preventivo, che preveda continuità aziendale da parte del debitore ovvero la cessione dell’azienda in esercizio. Il concordato in continuità può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa. L’incremento numerico dei concordati non ha, però, determinato un corrispondente innalzamento qualitativo dei piani e delle proposte. Precise istanze, provenienti in larga misura dal mondo bancario[31] e confindustriale, hanno spinto per un cambio di rotta, dato che la direzione intrapresa non è risultata funzionale né ai fini della migliore realizzazione del diritto di credito, né ha prodotto significativi risultati in termini di salvaguardia dei valori aziendali. La miniriforma del 2015 ha quindi prodotto un nuovo riequilibrio del rapporto creditore/debitore, ritenuto sbilanciato a favore del secondo dalla riforma del 2012. In quest’ottica va letta la fissazione di una soglia minima (20 per cento) per il soddisfacimento dei creditori chirografari nel concordato liquidatorio e l’abolizione del meccanismo del silenzio assenso.
6. Il codice
Questo altalenante percorso legislativo ha dimostrato, senza ombra di dubbio, la difficoltà di trovare un’adeguata soluzione che soddisfi tutti i diversi e, spesso, contrastanti interessi in gioco in caso di dissesto dell’impresa.
La generale insoddisfazione verso gli strumenti di regolazione dell’insolvenza (manifestata dal continuo affastellarsi di miniriforme della legge fallimentare) ha reso evidente come la possibile soluzione del problema fosse la prevenzione piuttosto che la gestione della crisi aziendale. In questo contesto, si è quindi venuta formando in modo completo e consapevole l’idea della prevenzione delle crisi di impresa, attraverso la predisposizione di adeguati strumenti giuridici. Vi è sempre stata una generale ritrosia a concepire strumenti giuridici di intervento nelle determinazioni dell’impresa quando questa dà segnali di crisi, senza ancora essere in uno stato irreversibile di insolvenza[32] in quanto, da un lato, implica un ripensamento della concezione della impresa che, se rimane un valore sostanzialmente privatistico, non tollera interventi preventivi che suppliscano alle deficienze gestionali dell’imprenditore; dall’altro, presuppone un’alta efficienza dei meccanismi di gestione della crisi, onde evitare che l’allerta si traduca in una repentina caduta in stato di fallimento[33]. Una delle innovazioni di maggiore importanza contenute nel codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) consiste certamente nell’introduzione delle procedure di allerta e composizione assistita della crisi. Tutti gli analisti concordano sul fatto che solo individuando e fronteggiando precocemente i sintomi di crisi si può sperare di conseguire l’obiettivo del risanamento e, quindi, di salvaguardare al tempo stesso la continuità dell’impresa, evitando la dispersione di valore spesso insita nelle procedure meramente liquidatorie – condizione, questa, che appare indispensabile anche per realizzare il miglior soddisfacimento dei creditori[34]. Si tratta di una scelta dettata dalla giusta considerazione che, nel nostro Paese, le procedure concorsuali sono ancora vissute dagli imprenditori come un male in sé, da allontanare nel tempo ad ogni costo, con il risultato che le imprese che depositano domanda di concordato preventivo sono per lo più in condizione di ormai irreversibile decozione. Il codice apporta significative novità anche sulla disciplina della gestione della crisi d’impresa, con particolare riferimento al concordato preventivo. La prima disposizione del capo del codice dedicato al concordato preventivo, l’art. 84, è una “norma-manifesto” che evidenzia, come indicato nella rubrica, le finalità della procedura: la soddisfazione dei creditori mediante la continuità aziendale o la liquidazione del patrimonio del debitore. Viene qui ribadita la funzionalità della continuazione d’impresa alla miglior soddisfazione dei creditori. Il risanamento dell’impresa in crisi e/o il mantenimento dei posti di lavoro possono quindi essere perseguiti – se e in quanto compatibili –, ma mai contro l’interesse dei creditori stessi. La salvaguardia dell’azienda e la tutela dei posti di lavoro ricevono comunque una particolare attenzione dal legislatore delegato, con l’ampliamento dell’ambito di applicazione del concordato con continuità aziendale indiretta, caratterizzato dalla prosecuzione dell’attività in capo a un altro imprenditore in forza di cessione o conferimento d’azienda. Il concordato può ora essere preceduto da affitto[35], stipulato anche anteriormente purché in funzione della presentazione del ricorso. Sempre al fine di favorire la continuità aziendale, è stato esteso l’ambito di applicazione della norma che consente il pagamento dei crediti pregressi. Dal punto di vista dei soggetti beneficiari, l’art. 100 del codice, al fine di ovviare a una lacuna molto contestata, prevede che il tribunale possa autorizzare, alle medesime condizioni, anche il pagamento della retribuzione dovuta per la mensilità antecedente il deposito del ricorso ai lavoratori addetti all’attività di cui è prevista la continuazione. Sempre al fine di favorire la continuità, è stata introdotta una norma innovativa ed eccezionale, contenuta anch’essa nell’art. 100: in deroga alla regola della cristallizzazione del patrimonio, è consentito al debitore, quando è prevista la continuazione dell’attività aziendale, il pagamento alle scadenze convenute delle rate a scadere del contratto di mutuo con garanzia reale gravante su beni strumentali all’esercizio dell’impresa, a condizione che, alla data della presentazione della domanda di concordato, egli abbia adempiuto le proprie obbligazioni o che il tribunale lo autorizzi al pagamento del debito per capitale e interessi scaduto a tale data. Tutto ciò a condizione che un professionista indipendente attesti che il credito garantito potrebbe essere soddisfatto integralmente con il ricavato della liquidazione del bene effettuata a valore di mercato, e che il rimborso delle rate a scadere non lede i diritti degli altri creditori. La tutela dei posti di lavoro è favorita con l’imposizione dell’obbligo a carico del terzo – nell’ipotesi, quindi, di continuità indiretta – del mantenimento o della riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall’omologazione. La norma rappresenta una significativa novità rispetto all’attuale disciplina, che si disinteressa completamente della continuità successiva alla cessione o al conferimento (manca, invero, nella disciplina concordataria, come si è opportunamente rilevato in dottrina, una regola sulla valutazione dell’azienda che tenga conto del badwill, manca un riferimento all’affidabilità del cessionario e del piano di prosecuzione dell’attività imprenditoriale, non vi è alcun accenno al mantenimento dei livelli occupazionali né la previsione di un obbligo legale dell’acquirente dell’azienda di continuare l’attività, neanche per un tempo ridotto, che sono le caratteristiche richieste dal d.lgs n. 270/1999, art. 63, per la vendita dell’azienda in esercizio nell’amministrazione straordinaria). Questo vuol dire che, almeno in parte, va riconsiderata l’ottica della ricollocazione sul mercato dell’azienda ceduta/conferita al terzo dall’imprenditore in concordato. Mentre attualmente la continuazione dell’attività avviene, essenzialmente, quale strumento di mantenimento dei valori aziendali nell’ottica di un miglior realizzo nell’interesse dei creditori, nella visione del codice a tale finalità si accompagna anche quella della realizzazione del risanamento dell’attività produttiva attraverso il mutamento della titolarità dell’impresa. In altre parole, l’imposizione del mantenimento di determinati livelli occupazionali rende più tangibile la tutela della continuità nella ricollocazione sul mercato dell’azienda, affinché un nuovo imprenditore possa risanare l’impresa e possa proseguire l’attività imprenditoriale utilizzando il complesso aziendale acquistato, dopo averlo opportunamente riorganizzato. Precetto, però, privo di reale efficacia dato che il suo mancato rispetto non potrebbe da solo determinare la risoluzione del concordato. La tutela dei lavoratori è, parimenti, accresciuta anche nel concordato cd. “misto”. Secondo la regola generale dettata dal comma 3 dell’art. 84, la disciplina di favore della continuità si applicherà anche al piano di concordato che preveda la continuità aziendale e, nel contempo, la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale, ivi compresa la cessione del magazzino. La prevalenza si considera, però, sempre sussistente quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivino da un’attività d’impresa alla quale sono addetti un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti al momento del deposito del ricorso. Norma, questa, che appare poco in linea rispetto alla legge delega, che era di chiara e immediata interpretazione in relazione al criterio determinante per valutare se il concordato potesse o meno ritenersi in continuità aziendale (si legge, infatti,che «tale disciplina si applica anche alla proposta di concordato che preveda la continuità aziendale e nel contempo la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa, a condizione che possa ritenersi, a seguito di una valutazione in concreto del piano, che i creditori vengano soddisfatti in misura prevalente dal ricavato prodotto dalla continuità aziendale»). In altre parole, il parametro dei flussi di cassa dovrebbe al più aggiungersi alla regola dettata dalla legge delega e ripresa dal primo periodo dell’art. 84, comma 3, ma non sostituirsi ad essa, come invece avviene con l’attuale formulazione, dove la presunzione assoluta di prevalenza (chiaramente espressa con l’avverbio «sempre») fa sì che si consideri concordato con continuità quello in cui i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivino da un’attività d’impresa alla quale sono addetti un certo numero di lavoratori, anche se i creditori non sono sodisfatti in misura prevalente da tali ricavi Il concordato liquidatorio, fermo restando l’obbligo del soddisfacimento del 20 per cento dell’ammontare complessivo del credito chirografario, è ora ammissibile solo nel caso in cui ai creditori siano messe a disposizione risorse ulteriori rispetto a quelle rappresentate dal patrimonio del debitore. In particolare, tali risorse aggiuntive devono incrementare la misura del soddisfacimento dei creditori chirografari di almeno il 10 per cento rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale.
Il legislatore sembra quindi aver portato a compimento quel processo evolutivo che ha interessato la stessa fisionomia dell’impresa non più considerata come «riflesso dell’imprenditore e quindi come attività da esso esercitata (…), ma come autonoma organizzazione, suscettibile di vicende giuridiche unitarie, non identificantisi né con le vicende dell’azienda, come mero complesso di beni e rapporti giuridici destinati all’attività imprenditrice, né con le vicende giuridiche dell’imprenditore»[36]. La definitiva assunzione dell’impresa quale bene da preservare, in considerazione di quei valori economici connessi (anche) alla conservazione dei livelli occupazionali di cui la stessa è portatrice, muta o rischia di mutare anche il peso che può vantare l’impresa stessa nel gioco degli equilibri con gli altri interessi coinvolti, in particolare con la posizione dei creditori. E ciò perché non è affatto scontato che il mantenimento della continuità aziendale sia sempre nell’interesse dei creditori. Ove essa produca perdite e l’azienda, anche in prospettiva, non abbia alcun valore, oltre a quello che deriva dalla somma dei suoi beni, continuare l’attività imprenditoriale può solo aggravare il quadro, poiché l’impresa assorbe più valore di quello che crea. La continuità aziendalerappresenta un bene che, dal punto di vista dei creditori, merita tutela solo se il complessivo valore del patrimonio del loro debitore possa ridursi, qualora l’attività d’impresa venisse interrotta. In tutte le ipotesi di continuità, i creditori sono normalmente esposti, in misura e per tempi dipendenti dalla struttura del piano di concordato, a un duplice rischio: riduzione dei valori e maturare della prededuzione. Ne deriva che, a fronte di un tale rafforzamento della tutela del valore “continuità d’impresa”, ove non vanificare la sua funzionalità alla miglior soddisfazione dei creditori, il contenuto stesso del piano concordatario e le relative attestazioni dovranno essere puntuali e penetranti. Questo consentirebbe al tribunale di controllare in modo puntuale l’esistenza del vantaggio per i creditori nella continuità rispetto alla liquidazione[37] e la sua permanenza, con riferimento al periodo successivo al passaggio in giudicato del decreto di omologa, quando il controllo del tribunale sostanzialmente scompare in via definitiva, salvo eventualmente ricostituirsi a seguito del procedimento per la risoluzione del concordato che, ai sensi del novellato art. 119 del codice, può essere richiesta anche dal commissario giudiziale, su sollecitazione dei creditori.
[1] In questi termini, L. Rovelli, L’evoluzione del diritto concorsuale italiano nel quadro europeo, in Contratto e Impresa, n. 1/2017, pp. 22-30.
[2] G. Bonelli, Del fallimento (Commentario al codice di commercio), Vallardi, Milano, 1938 (1923), p. XV.
[3] Per tali rilievi, ex pluribus, A. Jorio, Introduzione, in A. Jorio (diretto da) e M. Fabiani (coordinato da), Il nuovo diritto fallimentare, vol. I, Zanichelli, Bologna, 2006, pp. 1 ss.
[4] P. Pajardi, Esecuzione concorsuale: unità e alternatività dei procedimenti (proposte per una riforma parziale), in Giur. comm., 1979, I, p. 228, offre questa sintesi efficace: «Sanzione e chirurgia nel fallimento (…), alternativa al processo esecutivo con una soluzione processual-volontaristica nel concordato preventivo, lodevole sensibilità per la prevenzione nell’amministrazione controllata, e ancora chirurgia e anzi ipersanzione nella liquidazione coatta amministrativa, concepita persino in caso di inesistenza dello stato di insolvenza e per imprese svolgenti attività di pubblico interesse nella cui liquidazione il potere esecutivo voleva intervenire in modi determinanti».
[5] A. Gambino, Sull’uso alternativo della procedura di amministrazione controllata, in Giur. comm., 1979, I, pp. 236 ss.; L. Lanfranchi, Uso “alternativo” delle procedure concorsuali, amministrazione controllata e prededucibilità dei crediti, in Riv. dir. civ., 1985, I, pp. 133 ss. Per un’attenta lettura del fenomeno, si veda V. De Sensi, Il sistema concorsuale italiano tra economia mista e di mercato, in Id., La ristrutturazione della impresa in crisi. Una comparazione tra diritto italiano e statunitense, LUISS-Archivio Ceradi, Roma, 2006, pp. 1-64 (Parte I).
[6] La disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (introdotta dalla l. 3 aprile 1979, n. 95 e generalmente conosciuta come “legge Prodi”) ha rappresentato una prima risposta alla necessità di coniugare l’intervento sulla crisi aziendale con la tutela delle classi lavoratrici nella più ampia cornice di intervento pubblico finalizzato a una politica industriale di respiro nazionale.
[7] In questi termini, L. Rovelli, L’evoluzione, op. cit.
[8] Sulla finalità del concordato preventivo e sul dibattito dottrinale che si è svolto su questo tema, si veda A. Bonsignori, Concordato preventivo, in F. Bricola – F. Galgano – G. Santini (a cura di), Legge fallimentare (Commentario Scialoja-Branca), Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1979, pp. 5 ss., il quale osservava che «la teoria classica, forse non inesatta alla luce della legislazione passata, non può più oggi essere accolta, perché l’espressa ammissibilità di un concordato con cessione dei beni impedisce che si possa coerentemente sostenere che la funzione del concordato preventivo sia di evitare al debitore la perdita dell’azienda». Altra dottrina, invece, collocava il concordato preventivo in un’ottica conservativa dell’impresa, in questo senso: R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, vol. IV, Giuffrè, Milano, 1974, p. 2210; P. Pajardi, Manuale di diritto fallimentare, Giuffrè, Milano, 1969, p. 644; G. Ragusa Maggiore, Diritto fallimentare, vol. II, Morano, Napoli, 1974, pp. 992 ss.
[9] In particolare, nel concordato con cessione dei beni erano gli stessi creditori che spesso fornivano la propria disponibilità a limare, anche ultra legem, la percentuale delle loro pretese pur di non scivolare nel procedimento fallimentare. In questi termini, R. Viale, L’uso alternativo del concordato preventivo, in Giur. comm., 1979, I, pp. 231 ss.; A. Jorio, Le procedure, op. cit., p. 520.
[10] Come correttamente sottolineato da V. De Sensi, Il sistema, op. cit., «A ben considerare, la procedura si prestava indubbiamente ad equivoci in punto di determinazione della sua funzione, appena si consideri il rapporto tra l’art. 187 e l’art. 193 l.fall., che prevedevano, rispettivamente, l’apertura della procedura quando vi erano comprovate possibilità di risanamento della impresa, e la cessazione della procedura quando il debitore dimostrava di essere in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».
[11] In questi termini, M. Fabiani, Diritto fallimentare, Zanichelli, Bologna, 2011.
[12] In questi termini, Cass., 12 luglio 1991, n. 7790, in Fall., 1991, p. 1248.
[13] Guardata con favore dalla dottrina – vds., ad esempio, L.A. Russo, Restituito ai creditori il concordato preventivo?, in Fall., 1992, p. 105.
[14] Fenomeno che si inserisce in una più vasta corrente di pensiero la quale, partendo dall’assunto che «l’amministrazione della giustizia non può reggere il peso, assolutamente sproporzionato, di un accesso libero ed incondizionato al processo da parte di chiunque, per qualsiasi tipo di conflitto», ritiene che anche nella materia concorsuale si debbano introdurre dei filtri «con i quali limitare e regolare l’avvio di procedure giudiziali», lasciando il tentativo di soluzione della crisi nelle mani dei privati «senza subire né le prevaricazioni dell’imprenditore decotto, né i tempi burocratici di scelte giudiziali su materie che completamente fuoriescono dalla competenza e dalla cultura dei giudici». In questi termini, P. Schlesinger, Crisi d’impresa e nuove regole: le esigenze dell’economia, in A. Jorio (a cura di), Nuove regole per le crisi d’impresa, Giuffrè, Milano, 2001, pp. 155 ss.
[15] Il fallimento dell’amministrazione controllata era reso evidente dal quasi totale abbandono del ricorso a tale istituto da parte degli imprenditori in crisi, e ciò ben prima della sua formale abrogazione.
[16] Secondo L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, Il Mulino, Bologna, 2007, pp. 305-306, le soluzioni stragiudiziali trovano la loro motivazione in primo luogo proprio nell’esigenza di evitare i costi delle procedure d’insolvenza, in quanto le parti hanno convenienza a risolvere privatamente la crisi tutte le volte che i costi attesi dall’attivazione di una procedura d’insolvenza siano maggiori del costo della soluzione basata su un accordo. L’autore sottolinea, però, come anche altre ragioni concorrano a tale scelta, in quanto «i vantaggi comparati di una ristrutturazione stragiudiziale rispetto a una procedura formale consistono nella sua rapidità, nella flessibilità nella gestione dell’attivo, nella possibilità di fare operazioni di finanza straordinaria (fusioni, scissioni, conferimenti ecc.) molto problematiche in una procedura d’insolvenza, nella possibilità di scambi diretti di informazioni rilevanti»; sull’argomento si veda, in particolare, M. Belcredi, Le ristrutturazioni stragiudiziali delle aziende in crisi in Italia nei primi anni ‘90, in L. Caprio (a cura di), Gli strumenti per la gestione delle crisi finanziarie in Italia, Milano, 1997, pp. 211 ss.
[17] Con particolare riferimento alla somma, che si presume necessaria per la procedura, che il tribunale imponeva di depositare entro otto (ora quindici) giorni dal decreto di ammissione ex art. 163 l.fall., dato che per un’impresa in difficoltà finanziaria poteva risultare assai oneroso procurarsi la liquidità necessaria.
[18] Cfr., per un’ampia disamina, C. Costa, La soluzione stragiudiziale delle crisi d’impresa, in Dir. fall., 1998, I, pp. 958-959.
[19] Vds. E. Bertacchini, Revocatoria fallimentare e stato di insolvenza, Cedam, Padova, 2001, p. 78, nota 83, che sottolinea come un «tale atteggiamento di indifferenza appare sorprendente e non del tutto giustificato dal momento storico, sol che si consideri che nello stesso anno in cui entrava in vigore la nuova legge fallimentare, nella relazione al libro quinto del codice civile si dava atto dell’esistenza di “raggruppamenti di società attorno ad una che le controlla”».
[20] Sotto tale profilo, si era denunciato il rischio che correvano coloro i quali gestivano la crisi senza «un ombrello di certezza giuridica che riduca in un ambito di maggiore percorribilità i sentieri della fantasia aziendale, finanziaria e giuridica»: in questi termini, A. Jorio, Dal concordato stragiudiziale alla soluzione giudiziale delle crisi d’impresa, in Fall., 1999, p. 759.
[21] In questi termini, L. Stanghellini, Le crisi di impresa, op. cit., pp. 49-50.
[22] Ibid., p. 52.
[23] Vds. a tal proposito la relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante: «la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali di cui al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267», dove si dice espressamente che la nuova disciplina «deve anche ispirarsi ad una nuova prospettiva di recupero delle capacità produttive dell’impresa, nelle quali non è più individuabile un esclusivo interesse dell’imprenditore, secondo la ristretta concezione del legislatore del ´42, ma confluiscono interessi economici e sociali più ampi, che privilegiano il ricorso alla via del risanamento e del superamento della crisi aziendale».
[24] La teoria individuante, nel concordato preventivo, la finalità di salvaguardare il valore dell’impresa del debitore mediante una riduzione del passivo non è accoglibile neppure dopo la riforma, in riferimento all’espressa perdurante ammissibilità di un concordato con cessione dei beni.
[25] Finalità peraltro mai esplicitata dal legislatore, neppure con la riforma: basti, a tale fine, rilevare che la cessione dei beni ai creditori per fini liquidatori e satisfattivi, integrante ancora oggi la modalità tipica del concordato preventivo, è altresì modalità implicante, di norma, la disarticolazione dell’azienda nella sua unità patrimoniale e funzionale e, come tale, certamente non diretta a quella finalità di conservazione funzionale dell’impresa.
[26] In questi termini, F. D’Alessandro, La crisi delle procedure concorsuali e le linee della riforma: profili generali, in Giust. civ., 2006, II, p. 331.
[27] Tutta la fase gestoria del procedimento fallimentare era incentrata nella figura del giudice delegato, vero dominus della procedura fallimentare. Nel sistema ante riforma, come è noto, il giudice delegato assumeva una rilevanza centrale, nella sua duplice veste di regolatore di conflitti, di organo giurisdizionale e di motore della procedura, di organo gestorio investito della direzione delle operazioni ex art. 25 l.fall.
[28] In questi termini, Cass., 12 luglio 1991, n. 7790, cit.; Cass., 14 gennaio 1987, n. 178, in Fall., 1987, p. 390. Contra, Cass., 26 marzo 1981, n. 1758, in Giust. civ. Mass., 1981, p. 674; Cass. 13 aprile 1977, n. 1379, in Giust. civ., 1977, I, p. 1151.
[29] Dall’inequivoco disposto dell’art. 160, ultimo comma, l.fall., si evince che il requisito dello «stato di crisi» per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo devesi ritenere comprensivo sia della situazione di insolvenza vera e propria, che di uno stato di difficoltà economico-finanziaria non necessariamente destinato a evolversi nella definitiva impossibilità di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni. In questi termini, Cass., 6 agosto 2010, n. 18437, in Fall., 2011, p. 30.
[30] La riforma della legge fallimentare, per quanto abbia accentuato i profili negoziali e privatistici della procedura, non ha eliminato gli aspetti pubblicistici che le sono propri. Pertanto, da ciò consegue la legittimità di un bilanciamento a opera del giudice fra le iniziative riconducibili alle espressioni di autonomia negoziale delle parti e le esigenze di tutela degli interessi al cui soddisfacimento è finalizzata la procedura fallimentare. In questi termini, Cass., 4 settembre 2009, n. 19214, in Giust. civ., 2010, p. 1151.
[31] Come è noto, la mostruosa crescita dei crediti bancari (i cd. NPL), che sono maturati prevalentemente verso imprese insolventi, ha fatto sorgere perplessità sull’attitudine di quella disciplina a costituire la forma più efficiente di realizzazione del diritto di credito
[32] V. De Sensi, Il sistema, op. cit.
[33] Cfr. P. Pajardi, Esecuzione concorsuale: unità ed alternatività dei procedimenti, in Giur. comm., 1979, I, pp. 223 ss., il quale affermava che «prevenire comporta una maturità mentale e sociale molto accentuata, vigendo ancora l’abitudine di intervenire per salvare il naufrago soltanto quando si è certi che non può più arrangiarsi da solo, cioè in definitiva quando è troppo tardi, mentre lo stesso naufrago non vuole aiuti condizionanti quando s’illude di poter fare con le proprie forze o con quelle reperite da lui».
[34] Si tratta di un’esigenza ormai riconosciuta da tutti gli ordinamenti, che si rispecchia anche nei principi elaborati dall’Uncitral e dalla Banca Mondiale per la corretta gestione della crisi d’impresa, oltre ad essere esplicitamente richiamata nella Raccomandazione della Commissione dell’Unione europea del 12 marzo 2014, 2014/135/UE, e nella proposta di direttiva del 22 novembre 2016 - COM(2016) 723, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52016PC0723&from=IT.
[35] Tematica che, ben prima dell’introduzione dell’art. 186-bis l.fall., aveva sempre rappresentato una delle problematiche centrali nell’analisi dei trasferimenti d’azienda in ambito concorsuale. Si vedano, in proposito, P. Liccardo, Fallimento e metodologie di acquisizione dell’azienda, in Fall., 1997, pp. 661 ss.; L. Panzani, Affitto d’azienda, in Fall., 1998, pp. 920 ss.
[36] In questi termini, A. Gambino, Profili dell’esercizio delle imprese nelle procedure concorsuali alla luce della disciplina dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese, in Giur. comm., 1980, I, pp. 564 ss.
[37] La prospettiva non dovrebbe mutare neppure a seguito dell’entrata in vigore della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio in corso di pubblicazione. Invero, ai sensi dell’art. 10, gli Stati membri provvedono affinché le condizioni per l’omologazione del piano di ristrutturazione da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa siano specificate chiaramente, e prevedano almeno che il piano di ristrutturazione superi la prova dell’interesse superiore del creditore, ovverosia «la prova che nessun creditore dissenziente uscirà dal piano di ristrutturazione svantaggiato rispetto a come uscirebbe dalla liquidazione, sia essa una liquidazione per settori o una vendita dell’impresa in regime di continuità aziendale» (vds. punto 27 della proposta già citata - supra, nota 34).