Il punto di vista della psicologia su famiglie, genitorialità, omogenitorialità. Quali domande?
1. Famiglie omosessuali come “nuove” famiglie?
È tuttora in uso utilizzare come qualificazione per designare le famiglie same-sex il riferimento all’aggettivo “nuovo”. Si parla di nuove famiglie e nuove configurazioni genitoriali. Dal punto di visto simbolico, il rimando a tale termine si fonda indirettamente sull’assunzione di sistemi di significato che implicano criteri di categorizzazione tesi a inglobare la rappresentazione dell’oggetto famiglia/genitorialità entro codici normativi e di giudizio implicitamente dati. Cosa si intende, infatti, per “nuovo”? Nuovo rispetto a che cosa? Qual è l’oggetto della comparazione? Quale la norma standard? Se ci si riferisce al termine “nuovo” nell’accezione estesa (recuperabile in vari dizionari della lingua italiana) di “singolare”, “insolito”, “originale”, “inatteso”, “strano”, “inusitato”, “inedito”, “straordinario”, appare alquanto evidente che è come se utilizzassimo tale aggettivo come contrario di “normale”, “tradizionale”, “classico”, “usuale”, “atteso”, “regolare” e, quindi, “legittimo”. Su questo piano semantico appare, pertanto, evidente la subliminale applicazione di un pensiero dicotomico che, nella contrapposizione tra il “nuovo” così inteso e il vecchio posto come termine di paragone, lascia intravedere in ciò che si discosta da un supposto idealtipo standardizzato, universale e generalizzato, la matrice generativa di elementi di disordine, sovvertimento e decostruzione dello status quo.
Può essere ancora questo l’approccio che deve orientare l’analisi delle odierne morfologie familiari e genitoriali? È oramai ineludibile la considerazione che la famiglia non può più essere considerata un concetto monolitico da definire al singolare, quanto, più che altro, un costrutto complesso, che implica il richiamo a declinazioni plurali, proprio in relazione alla registrazione delle diverse forme che attualmente hanno assunto i sistemi di organizzazione dei rapporti primari. È, pertanto, auspicabile, a livello metodologico, acquisire paradigmi inclusivi che non tendano più a interpretare come nuove e quindi “devianti” (rispetto a un’ipotetica norma base) quelle realtà familiari che non rispondano a un univoco modello di famiglia ontologicamente definita “per natura”.
Parlare ancora di “famiglia naturale” attribuendo alle “nuove” famiglie una connotazione di “configurazione contro natura”[1] implica un orientamento interpretativo che assume la natura/naturalità come assioma, ossia come un principio postulato come vero, in quanto ritenuto di per sé evidente, senza alcuna problematizzazione rispetto alla sua applicazione alla realtà in atto. Sarebbe, al contrario, interessante sviluppare il rapporto tra natura e famiglia, acquisendo come cardine della discussione l’attribuzione di rilevanza alle dimensioni sociali e culturali in cui i fenomeni naturali trovano la loro produzione, attuazione ed espressione. Il riferimento è alla differenza che è doveroso fare, in termini discorsivi, tra natura/naturalità – ossia l’insieme di dati immediati, fisici, sensibili, appartenenti a istanze ritenute scontate e ovvie – e naturalizzazione - ossia la trascrizione socio-culturale dei dati immediati, fisici e sensibili stessi entro un ambito di attribuzione di significati prodotti da una determinata cultura o ideologia. Come scrive Chiara Saraceno (2012), citando Durkheim: «Il potere dei fatti sociali è tale che essi sono così consolidati da far sì che noi li assumiamo come naturali. Ce li aspettiamo così e non pensiamo che possano essere in altro modo. Il fatto che queste costruzioni sociali determinino delle aspettative non significa che diventino più naturali. L’ovvietà non significa naturalità. Perché è un’ovvietà che comunque ha una sua origine storica contestualizzata»[2].
Assumere questa prospettiva discorsiva implica la sospensione di quel processo che tende a tracciare una correlazione tra forme familiari e genitoriali “nuove” in quanto “non tradizionali” e disfunzionalità, respingendo nell’area dell’anormalità, della patologia o della marginalità tutte quelle strutture che si discostano da un supposto prototipo universale, sino alla negazione stessa del diritto di esistenza, come ad esempio avviene, nel contesto italiano, per le famiglie omosessuali. Espressione, quella di famiglia omosessuale, peraltro impropria rispetto alla capacità performativa del nostro discorso sociale, che vede ancora la famiglia come solo ed esclusivamente riferita/riferibile alla coniugalità eterosessuale e alla generatività biologica. Si pensi, a questo proposito, non solo alla negazione di statuto familiare ai nuclei a fondazione omosessuale, ma anche e soprattutto al non riconoscimento giuridico, in essi, del genitore non biologico.
Come ampiamente dimostrato dagli studi di matrice antropologica, sociologica, giuridica e psicosociale, la famiglia, lungi dall’imporsi come un’entità naturale, si configura come un’istituzione in continuo divenire, in stretta relazione con le processualità socio-culturali in cui è inserita, ovvero come un prodotto socio-culturale e storicamente definito, sottoposto a continui processi di modificazione delle sue possibili strutturazioni esterne e interne. Su questo piano della riflessione, è possibile rilevare che «non vi è nulla di meno naturale della famiglia. Famiglia e coppia sono tra le istituzioni sociali più oggetto di regolazione che ci siano. È la società che di volta in volta definisce quali dei rapporti di coppia e di generazione siano legittimi e riconosciuti come famiglia, e quindi abbiano rilevanza sociale e giuridica»[3].
L’esito di tali argomentazioni è, pertanto, la considerazione che la famiglia nucleare eterosessuale è una delle tante forme possibili di organizzazione dei rapporti primari nel nostro contesto socio-culturale, ma di certo non l’unica. Si consente, in tal modo, l’accesso alla legittimazione di modelli familiari e genitoriali che devono essere visti nella loro specificità e peculiarità. Esistono oggi famiglie differenti per struttura, per modalità di articolazione dei processi relazionali interni, per organizzazione delle dinamiche di gestione dei compiti di sviluppo dei singoli componenti e di tutto il sistema, per capacità di attuazione di strategie di coping o resilienza rispetto alle sfide poste dalla contemporaneità[4]. Ogni sistema familiare e genitoriale ha un proprio statuto di realtà ed esistenza nel continuum delle variegate configurazioni note (famiglie nucleari, estese, multiple, intatte, separate, ricomposte e ricostituite, famiglie di fatto, monogenitoriali, omologhe o miste dal punto di viste etnico, eterosessuali, omosessuali, etc.).
La differenza tra forme familiari/genitoriali non deve presupporre logiche di contrapposizione e reciproca esclusione, ma possibili dinamiche di integrazione e attuabile convivenza, sulla base della reificazione di una cultura delle differenze che guardi alla pluralità come valore, ricchezza, opportunità, e non come minaccia, disordine, crisi. Tale orientamento pone le premesse non solo per depatologizzare i contesti genitoriali differenti da quelli tradizionali, ma soprattutto per individuare i punti di forza, le specifiche modalità di esercizio delle funzioni genitoriali che in essi prendono forma. All’interno di questa prospettiva, la famiglia e la genitorialità omosessuale rappresentano, rispettivamente, una delle possibili composizioni del sistema familiare e una delle possibili espressioni della genitorialità, al pari di tutte le altre, inclusa quella basata sulla consequenzialità tra coniugalità, eterosessualità dei partner, matrimonio, generatività.
Un ulteriore elemento sui cui è doveroso fermare l’attenzione è la considerazione che l’individuazione delle sovrastrutture attraverso cui è stato costruito l’ideal-tipo di famiglia naturale porta ad aprire uno spazio di interrogazione sulle radici concettuali dell’“oggetto famiglia”. Quali sono gli elementi fondativi e costitutivi della famiglia, una volta riconosciuto che la struttura, la configurazione sono dimensioni socialmente costruite, esiti di dispositivi culturali, e non elementi primari e strutturanti? Ciò che definisce la famiglia è il sistema delle relazioni, il mondo degli affetti, la comunità dei legami. Sono queste le dimensioni che tagliano trasversalmente tutte le configurazioni esistenti.
La famiglia funzionale è quella in cui le relazioni offrono sicurezza, cura, contenimento, protezione, sostegno, supporto, adeguati processi educativi e di sviluppo. Quella in cui i legami implicano reciprocità, soddisfazione di bisogni, responsabilità, sensibilità, sintonizzazione affettiva, sforzo nella mediazione e ricomposizione di inevitabili conflitti, compenetrazione di vissuti, condivisione, co-costruzione di efficaci processi di sviluppo e crescita. Quella in cui gli affetti sono positivi e amplificano gli effetti dell’amore e della cura. Sono questi gli elementi in grado di definire se una famiglia sia composta da genitori competenti o incompetenti, se sia un sistema relazionale efficace o patologico. Questo sposta completamente l’asse dei significati. Oggi non dovremmo più chiederci quali sia la forma di famiglia che deve essere assunta a icona o prototipo del costrutto universale di "famiglia", ma, proprio a partire dalla pluralità dei modelli e contesti familiari e genitoriali esistenti, focalizzare l’attenzione sulle modalità attraverso le quali, in ogni tipologia di famiglia, si possono attualizzare e articolare, in modo assolutamente efficace e funzionale, quelle processualità relazionali che definiscono l’adeguatezza dell’esercizio delle competenze e delle funzioni genitoriali.
2. Famiglie omosessuali dal punto di vista dei genitori. Quale lettura?
Una volta chiariti gli ancoraggi metodologici e concettuali per la legittimazione della famiglia/genitorialità omosessuale, un imprescindibile interrogativo da cui partire per approfondire la riflessione secondo un approccio psicologico che guardi ai singoli componenti del nucleo omoparentale (i genitori da un lato, i/le figli/e dall’altro) potrebbe essere il seguente: gay e lesbiche possono essere buoni genitori?
Rispondere in modo diretto a tale quesito, senza chiarirne gli elementi sottostanti, espone al rischio di non riuscire a disvelare le distorsioni del pensiero che portano alla sua formulazione. Effettuando un’analisi dei correlati impliciti che sono alla base di tale domanda, è possibile rilevare che chiedersi se gay e lesbiche possano esercitare la genitorialità in modo valido e competente vuol dire, in realtà, domandarsi se le persone omosessuali possano svolgere tale funzione al pari degli/delle eterosessuali. Si collude, in tal modo, con l’idea che la genitorialità sia un costrutto strettamente connesso all’eterosessualità. Non ci si chiede mai, infatti, se gli/le eterosessuali possano essere o meno dei buoni genitori, o meglio, se l’orientamento eterosessuale possa esercitare in qualche modo un’influenza negativa sulle competenze genitoriali. L’implicito è che, in termini interpretativi, debba essere esplorato il nesso tra genitorialità e omosessualità. Ma qual è la relazione tra l’esercizio della funzione genitoriale e l’orientamento omosessuale? Esiste tale relazione? E, se esiste, può essere in grado di spiegare la reciproca influenza di tali costrutti? Il punto su cui si intende centrare la discussione è che non si possa semplicemente dare una risposta alla domanda relativa alle competenze omogenitoriali, ma che sia necessario chiarire, a livello preliminare, quali siano i criteri fondativi o caratterizzanti una buona o cattiva genitorialità, per vedere successivamente se tali criteri possano esplicitare, in termini di costrutto, in che modo l’orientamento sessuale (omo o anche etero) possa incidere o non incidere o sull’esercizio delle competenze genitoriali.
Entrando nel merito di tale analisi, è possibile rilevare che a definire la genitorialità, oltre alla funzione della cura, è tutto un sistema di competenze costituito da diverse sotto-funzioni[5]. Tali sotto-funzioni sono strettamente collegate, come afferma Graziella Fava Vizziello (2003)[6], sintetizzando i contributi più rilevanti in letteratura, alle capacità dell’individuo di: a) garantire le funzioni di base (nutrimento, accudimento, protezione dai pericoli), assicurando in itinere presenza, sostegno emotivo-affettivo, educazione e supporto nei processi di sviluppo; b) entrare in risonanza e sintonizzazione affettiva con l’altro/a, garantendo la regolazione delle emozioni; c) dare dei limiti, una struttura di riferimento, attraverso norme, regole e routine strutturanti; d) consentire al figlio/a l’interiorizzazione di positivi modelli operativi interni di sé, dell’altro e delle relazioni; e) garantire una funzione transgenerazionale, ossia la capacità di far sentire l’altro/a ancorato a una radice relazionale fatta di storie e narrazioni condivise e da condividere.
Sulla base di tali aspetti, secondo quali presupposti si può asserire che un soggetto omosessuale possa essere un individuo incapace di garantire protezione, affetto, cura e sicurezza, etc.? Quali sono le variabili in grado di chiarire in modo inequivocabile che un soggetto eterosessuale è, per definizione, in grado di agire in modo adeguato la protezione, l’affetto, la cura e la sicurezza, etc., sulla scorta di caratteristiche innate e naturali? Secondo quali principi è possibile affermare che un individuo eterosessuale sia inconfutabilmente capace di esercitare la funzione di format, di normatività, di garanzia di regolazione, di sostegno/supporto alla costruzione di schemi mentali ed emotivo-affettivi efficaci e idonei per l’altro/a? Quali sono gli elementi che riescono a esplicitare l’impossibilità dell’esercizio di tali funzioni da parte di padri gay o madri lesbiche?
Non ci sono, in realtà, presupposti teorico-concettuali, al di là di visioni preconcette, sulla base dei quali è possibile asserire che un soggetto con orientamento omosessuale sia un individuo incapace di esercitare la funzione genitoriale. In modo ancora più incisivo è possibile rilevare, allo stesso modo, che non ci sono variabili in grado di chiarire, in modo inequivocabile, che un soggetto eterosessuale è “di default” competente rispetto a tale funzione. I casi di maltrattamento e abuso presenti in famiglie nucleari con genitori eterosessuali dimostrano, ad esempio, che l’eterosessualità non sia garanzia di adeguata genitorialità, sottolineando, inoltre, che la grave disfunzionalità di tali famiglie sia da collegare a complessi fattori di rischio interagenti tra loro e non all’orientamento sessuale dei genitori. Ne consegue che la variabile orientamento sessuale è completamente autonoma e indipendente rispetto all’esercizio (funzionale o disfunzionale) delle capacità insite nel costrutto di genitorialità (sia eterosessuale, sia omosessuale).
Se, inoltre, per puro esercizio del pensiero, si volesse ammettere che l’orientamento sessuale incida sul sistema psicologico individuale che sottende l’esercizio della funzione genitoriale, rimarrebbe tuttavia da dimostrare in che modo sussista la supposta correlazione tra eterosessualità e funzionalità, così come tra omosessualità e disfunzionalità, prescindendo da posizioni cariche di pregiudizio che tendono a considerare l’omosessualità stessa non come uno degli orientamenti sessuali possibili, come riconosciuto e sancito dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), quanto più che altro come una condizione patologica, disfunzionale, malata e perversa. Concezione, quest’ultima, dichiarata assolutamente erronea e inconsistente dalle maggiori associazioni mondiali che si occupano di salute mentale.
L’opposizione all’omogenitorialità cela, in realtà, un atteggiamento di ostilità e rifiuto nei confronti dell’omosessualità, sulla base del riferimento a uno specifico modello culturale che individua nell’eterosessualità l’unico modo legittimo e convenzionalmente accettato di espressione dell’orientamento sessuale (eteronormatività). Far saltare il paradigma eteronormativo vuol dire individuarne la radice ideologico-culturale, destrutturando i fondamenti di quel dispositivo di regolazione socio-simbolica che detta le regole per la continua esclusione di ciò che non si conforma al campo delle aspettative sociali e culturali legate alla sessualità e alle sue molteplici dimensioni. Decostruire tale dispositivo vuol dire minare alla base le radici dell’omofobia istituzionalizzata, ossia quel sistema di credenze, rappresentazioni, atteggiamenti, comportamenti, azioni anti-omosessuali che sono il chiaro riflesso di quel complesso di pregiudizi che si esprimono attraverso la reificazione di atti violenti e prassi discriminatorie nei confronti di gay e lesbiche e dei/delle propri/e figli/figlie.
È utile ribadire che l’obiettivo delle argomentazioni proposte non è, perciò, quello di rassicurare sul fatto che un soggetto omosessuale possa esercitare in modo adeguato la funzione genitoriale. Tale rassicurazione non ha motivo di esistere poiché risulterebbe fondata su un criterio di giudizio sbagliato in partenza, che non tiene conto del fatto che il codice ermeneutico di fondo, come già evidenziato, è l’assoluta indipendenza della variabile “orientamento sessuale” dalla funzione genitoriale e dal suo esercizio. Ciò che si intende affermare è che esistono adeguati genitori eterosessuali, così come adeguati genitori omosessuali e, allo stesso modo, pessimi genitori eterosessuali e pessimi genitori omosessuali, dal momento che l’orientamento sessuale non è una variabile da considerare nel momento in cui si pone la questione della valutazione delle competenze genitoriali (sia eterosessuali sia omosessuali).
Non vi sono, quindi, teorizzazioni valide, dal punto di vista metodologico ed epistemologico, in grado di supportare la supposta disfunzionalità della genitorialità omosessuale e non bisogna, nel contempo, trascurare la mole di evidenze empiriche che, come a breve avremo modo di approfondire, mostra chiaramente come l’orientamento sessuale dei genitori omosessuali non eserciti alcuna influenza negativa sui processi di sviluppo di figli e figlie.
3. I/le figli/e dei nuclei omoparentali. Cosa dice la ricerca psicologica?
Come stanno i/le bambini/e che vivono con genitori omosessuali? Che cosa dice la ricerca empirica sulla genitorialità gay e lesbica e sul rapporto tra genitorialità omosessuale e processi evolutivi dei bambini e delle bambine cresciuti/e in famiglie omoparentali?
Per rispondere a tale domanda è necessario fare riferimento agli esiti di una corposa mole di ricerche di matrice psicologica, che hanno ampiamente e rigorosamente esplorato tale specifica area di indagine.
I primissimi studi sull’omogenitorialità risalgono agli anni settanta e, nel corso del tempo, le domande di ricerca si sono modificate in relazione ai cambiamenti che sono intervenuti a livello sociale e culturale, ma anche in rapporto alla specializzazione dei domìni di interesse speculativo. A partire dalle istanze portate dall’incremento significativo del numero dei nuclei omogenitoriali a livello internazionale, la ricerca psicologica ha, infatti, avviato percorsi di esplorazione del fenomeno sempre più raffinati, in modo da verificare la realtà e le dinamiche interne delle strutture familiari omosessuali, secondo diversi livelli di indagine. In questa sede, non si intende presentare un resoconto analitico e dettagliato delle varie rassegne o meta-analisi presenti in letteratura, dal momento che i risultati sono, per la maggior parte, del tutto sovrapponibili. Si intende invece cercare di rispondere, attraverso il riferimento ai dati di ricerca presenti nella letteratura scientifica, a tutte quelle serie di opposizioni che rimanderebbero a presunte criticità inerenti alle famiglie omogenitoriali. Su questo piano del discorso, la prima area su cui si cercherà di fare chiarezza è quella inerente alla convinzione che i processi di sviluppo di bambini/e che crescono in nuclei omogenitoriali sarebbero compromessi a causa della disfunzionalità delle loro famiglie, considerate “anomale”, non convenzionali, in cui mancherebbe la naturale differenza dei sessi come supposto criterio di svolgimento di adeguate competenze/funzioni genitoriali, rispettivamente paterne e materne.
Gli studi che hanno inteso indagare, a livello comparativo, nuclei familiari con genitori omosessuali ed eterosessuali dimostrano che l’orientamento sessuale dei genitori (e, quindi, la specifica configurazione strutturale della famiglia) non ha alcuna ricaduta disfunzionale sui/sulle figli/e e sul loro percorso evolutivo. I risultati delle ricerche condotte evidenziano che i/le bambini/e cresciuti/e in famiglie omosessuali siano del tutto comparabili, in termini di sviluppo, ai/alle figli/e di coppie eterosessuali, senza alcun aspetto di disfunzionalità o compromissione dei processi di crescita. Non si sono riscontrate differenze statisticamente significative tra bambini/e cresciuti/e in nuclei eterosessuali e omosessuali, rispetto a costrutti quali autostima, benessere psicologico, benessere fisico e mentale, presenza di sintomatologie psicologiche/psichiatriche, adattamento personale, sociale e familiare, adattamento scolastico, assunzione di condotte o comportamenti devianti[7]. La conclusione è che l’adattamento socio-psico-relazionale infantile dipende dalla qualità delle relazioni e dal funzionamento familiare, indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori.
Le indagini svolte nel corso di più di quarant’anni non consentono, inoltre, di riscontrare differenze significative rispetto ai comportamenti di genere, alle preferenze e ai comportamenti sessuali, all’orientamento sessuale di bambini/e cresciuti/e da genitori omosessuali. Più nello specifico, non è stata riscontrata in alcun modo l’influenza, in senso disfunzionale, dell’omosessualità dei genitori stessi sull’identità di genere e sull’identità di ruolo di genere dei/delle figli/e. Differenti indagini hanno infatti evidenziato che, relativamente all’identità di genere, i/le figli/e di persone omosessuali hanno uno sviluppo considerato regolare, riportando un buon grado di soddisfazione per la propria identità sessuale e, comunque, senza differenze significative rispetto a quanto accade per i/le figli/e di genitori eterosessuali[8].
Anche rispetto alla variabile “ruolo sessuale” e gender expression, emerge che i/le figli/e di gay e lesbiche adottano ruoli sessualmente connotati che non si configurano come differenti rispetto a quelli assunti da figli/e di persone eterosessuali[9]. Tuttavia, su questo piano del discorso, è possibile rilevare che l’orientamento sessuale dei genitori non è del tutto ininfluente: i/le figli/e di genitori omosessuali manifestano una predisposizione al superamento degli stereotipi sessuali e di genere nei comportamenti di ruolo fortemente tipizzati in senso tradizionale. Questo dato, più che essere inteso come segno/sintomo di una confusione nell’identità di genere o una disfunzionalità nell’ambito dell’identità sessualmente connotata, deve essere, invece, interpretato come capacità di acquisire una maggiore flessibilità comportamentale inerente all’identità di genere. Tale capacità è fortemente legata al benessere individuale, dal momento che l’interiorizzazione di atteggiamenti socialmente (e non naturalmente o biologicamente) riferiti al maschile o al femminile, in modo non congruente al sesso biologico, implica il superamento della coercizione ad aderire a rigide prescrizioni stereotipiche presenti in pratiche educative e di socializzazione basate sulla riproposizione di tradizionali visioni legate alle differenze di genere; prescrizioni che, il più delle volte, sono causa di malessere anche per uomini e donne eterosessuali. Su questo piano del discorso, i/le figli/e di genitori omosessuali rispetto ai/alle bambini/e di coppieeterosessuali, appaiono più liberi e percepiscono meno pressioni rispetto alle tradizionali gender based norms, ossia le norme di genere; questo perché vivono in un contesto relazionale caratterizzato da maggiore apertura e meno esposto agli effetti negativi della pressione a prescrizionicomportamentali fortemente ancorate agli stereotipi sessuali e di genere. Questoaspetto può essere legato a un processo che potremmo definire di trasmissione intergenerazionale dei sistemi di credenza stereotipici: genitori che condividonomaggiormente gli stereotipi di genere li trasmettono in misura maggiore ai/alle propri/efigli/e; genitori, invece, più flessibili rispetto alle questioni di genere e di orientamentosessuale (come i genitori omosessuali potrebbero essere), trasmettonomodelli comportamentali e identitari meno stereotipati, favorendo peraltro unamaggiore apertura mentale nei confronti delle differenze[10].
Dalle ricerche si evince che la percentuale di figli/e cresciuti/e con genitori omosessuali e che si identificano, rispettivamente, come gay o lesbiche nella tarda adolescenza è del tutto comparabile a quelle dei figli/e di genitori eterosessuali. A questo punto del discorso, è doveroso fare una precisazione, affinché la restituzione di tale risultato non si traduca, di fatto, in una trappola discorsiva che ricalchi pregiudizi omofobici. Affermare che non esiste una correlazione tra orientamento sessuale dei genitori e orientamento sessuale dei/delle figli/e non vuol dire assolutamente mettere in campo un atteggiamento di rassicurazione rispetto all’esito della genitorialità omosessuale relativamente all’orientamento sessuale stesso di questi ultimi; ossia non vuol dire rassicurare sul fatto che i figli/le figlie di genitori omosessuali non siano a loro volta omosessuali. Affermare questo sarebbe come colludere con l’idea che l’omosessualità sia una disfunzione e che la genitorialità omosessuale non produca effetti disfunzionali. Il risultato in oggetto consente di rilevare solo ed esclusivamente l’autonomia tra orientamento sessuale dei genitori e orientamento dei/delle figli/e, dal momento che anche i/le figli/e di eterosessuali possono essere omosessuali e i/le figli/e di omosessuali possono essere eterosessuali. L’unica conclusione a cui è possibile addivenire è che l’orientamento sessuale dei genitori non è, in alcun modo, predittivo dell’orientamento sessuale dei/delle figli/e e non esercita su di esso alcuna influenza. Qualora, infatti, le ricerche avessero restituito un dato contrario (ossia una sorta di equivalenza tra omosessualità dei genitori e omosessualità dei/delle figli/e), di certo questo non avrebbe autorizzato a interpretare il dato stesso come un effetto disfunzionale dell’omoparentalità. Vi è da aggiungere, infine, che riflettere sul nesso causale tra omosessualità dei genitori e omosessualità dei/delle figli/e farebbe ricadere nell’errore categoriale di voler individuare una causa dell’omosessualità. Questo atteggiamento, ancora una volta, risponderebbe a una distorsione del pensiero, dal momento che l’omosessualità è una variante normale e naturale del comportamento sessuale umano, rispetto alla quale non è necessario applicare paradigmi di tipo eziologico (ossia centrati sulla ricerca di cause), i quali celano in realtà, il più delle volte, intenti eziopatologici (ossia una tendenza a rilevare le cause dell’omosessualità stessa, considerata alla stregua di una patologia).
È utile, pertanto, ribadire che, per i bambini e le bambine che vivono in nuclei omogenitoriali, non sono tanto le dinamiche o la struttura familiare, quanto più che altro la stigmatizzazione, il pregiudizio e la discriminazione a esercitare un’influenza fortemente negativa. Un importante “effetto-cuscinetto” rispetto agli esiti disadattivi a livello soggettivo e intersoggettivo dello stigma omofobico è rappresentato dal grado di coesione familiare, dalla qualità del rapporto genitori-figli/e, dal grado di benessere psicologico dei genitori e dalla capacità del sistema familiare nel complesso di funzionare come contesto protettivo, in grado di contrastare l’impatto degli eventi negativi di vita dovuti alla discriminazione e al pregiudizio omofobico percepito e vissuto, attivando significativi processi di resilienza individuale e familiare al tempo stesso.
4. Omogenitorialità: position statement a livello mondiale. Quali pronunciamenti?
Sulla base della ricerche scientifiche condotte, importantissime associazioni internazionali, scientifiche e professionali hanno espresso la loro autorevole posizione in tema di omogenitorialità.
Nel 2006, l’American Academy of Pediatrics (AAP) ha dichiarato quanto segue: «I risultati delle ricerche dimostrano che bambini cresciuti da genitori dello stesso sesso si sviluppano come quelli cresciuti da genitori eterosessuali. Più di venticinque anni di ricerche documentano che non c’è una relazione tra l’orientamento sessuale dei genitori e qualsiasi tipo di misura dell’adattamento emotivo, psicosociale e comportamentale del bambino. Questi dati dimostrano che un bambino che cresce in una famiglia con uno o due genitori gay non corre alcun rischio specifico. Adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, eterosessuali o omosessuali, possono essere ottimi genitori».
Sempre l’AAP, nel 2013, attraverso il policy statement «Promoting the well-being of children whose parents are gay o lesbian», ha focalizzato l’attenzione sull’importante tema del rapporto tra benessere dei bambini e riconoscimento legale dell’unione familiare. Nello specifico, partendo dal presupposto che la famiglia è sempre stata l’unità sociale di base in cui i bambini crescono e si sviluppano attraverso relazioni supportive e di cura con adulti competenti, l’associazione sottolinea il carattere multiforme degli attuali sistemi familiari ed evidenzia il fatto che l’orientamento sessuale dei genitori non esercita alcuna influenza, dal momento che i/le bambini/e, per il raggiungimento di un ottimale sviluppo socio-emozionale e cognitivo, hanno bisogno di relazioni sicure e durature con adulti coinvolti emotivamente, competenti e capaci di dare cure, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Nel documento si attribuisce grande importanza al fatto che è nell’interesse del bambino che le istituzioni giuridiche e sociali riconoscano l’unione matrimoniale dei genitori, a prescindere dal loro orientamento sessuale; così come la possibilità che un bambino possa essere adottato da genitori amorevoli, senza distinzioni o discriminazioni rispetto all’orientamento sessuale degli stessi. Ne deriva, nella conclusione, un appello affinché le politiche pubbliche sostengano tutti i genitori, indipendentemente dall’orientamento sessuale e da altre caratteristiche, a costruire e mantenere forti, stabili e sane le famiglie che sono in grado di soddisfare le esigenze dei loro figli, ribadendo l’importanza del riconoscimento del principio di uguaglianza nell’accesso all’istituto del matrimonio e dell’adozione per le persone omosessuali.
Su questo stesso tema, nel 2004, si è espressa anche l’American Psychological Association (APA), dichiarando di opporsi a qualsiasi discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in materia omogenitorialità. Nel suo position statement, l’APA ritiene che i bambini cresciuti da una coppia di genitori dello stesso sesso debbano beneficiare dei legami giuridici con ciascun genitore, sostenendo la tutela delle relazioni genitori-figli attraverso la legalizzazione delle adozioni congiunte e delle adozioni di bambini da parte del co-genitore. L’APA si impegna ad assumere un ruolo di leadership nel contrastare ogni discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in materia di adozione, custodia dei figli e di visita, affido, e servizi di salute riproduttiva, incoraggiando gli psicologi ad agire per eliminare ogni discriminazione basata sull’orientamento sessuale in tale materia e ribadendo l’impegno a fornire risorse scientifiche e didattiche che informino il dibattito pubblico e lo sviluppo delle politiche pubbliche in materia di discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Nel medesimo position statement l’APA dichiara, inoltre, quanto segue: «Innanzitutto, l’omosessualità non è un disordine psicologico (Conger, 1975). Sebbene l’esposizione al pregiudizio e alla discriminazione basati sull’orientamento sessuale possano causare stress acuti (Mays & Cochran, 2001; Meyer, 2003), non c’è alcuna prova affidabile che l’orientamento omosessuale possa di per sé compromettere le funzioni psichiche. Inoltre, la convinzione che gay e lesbiche non possano essere genitori idonei non ha alcun fondamento empirico (Patterson, 2000, 2004a; Perrin, 2002). Tra le donne lesbiche e le donne eterosessuali non sono state trovate differenze marcate nel loro approccio verso l’educazione del bambino (Patterson, 2000; Tasker, 1999). I singoli componenti di coppie LGBT con figli si dividono in modo equo le questioni inerenti alle cure dei bambini e sono soddisfatti della loro relazione col partner (Patterson, 2000, 2004a). I risultati di alcuni studi suggeriscono che le capacità genitoriali di madri lesbiche e padri gay potrebbero essere superiori a quelle di genitori eterosessuali dello stesso livello. Non ci sono prove scientifiche per dimostrare che madri lesbiche e padri gay possano essere non idonei sulla base del loro orientamento sessuale (Armesto, 2002; Patterson, 2000; Tasker & Golombok, 1997). Al contrario, i risultati di queste ricerche suggeriscono che i genitori omosessuali sono abili tanto quanto quelli eterossessuali nel provvedere ad un ambiente solidale e salutare per i loro bambini».
Nel 2006, il Department of Justice canadese, in una relazione sullo «Sviluppo delle abilità sociali dei bambini attraverso i vari tipi di famiglia», dichiara che «la conclusione che si deduce dalla letteratura empirica è che la gran parte degli studi mostrano che i bambini che vivono con due madri e i bambini che vivono con un padre e una madre hanno lo stesso livello di competenza sociale. Pochi studi suggeriscono che i bambini con madri lesbiche potrebbero avere una migliore competenza sociale, ancora meno studi dimostrano l’opposto, ma la maggior parte degli studi fallisce nel trovare qualsiasi differenza. Anche le ricerche condotte su bambini con due padri supportano queste conclusioni».
Sulla stessa falsariga, l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry (AACAP), prima nel 2002, poi nel 2009, ha affermato che «non vi è evidenza scientifica a sostegno della tesi secondo cui genitori con orientamento omosessuale o bisessuale siano di per sé diversi o carenti nella capacità di essere genitori, di saper cogliere i problemi dell’infanzia e di sviluppare attaccamenti genitore-figlio rispetto ai genitori con orientamento eterosessuale. Da tempo è stato stabilito che l’orientamento omosessuale non è in alcun modo correlato ad alcuna patologia, e non ci sono basi su cui presumere che l’orientamento omosessuale di un genitore possa aumentare le probabilità o indurre un orientamento omosessuale nel figlio. Studi sugli esiti educativi di figli cresciuti da genitori omo- o bisessuali, messi a confronto con quelli cresciuti da genitori eterosessuali, non depongono per un diverso grado d’instabilità nella relazione genitori-figli o rispetto ai disturbi evolutivi nei figli». Ancora, la stessa associazione, nella revisione del «Gay, Lesbian, Bisexual, or Transgender Parents Policy Statement» del 2011, si oppone a ogni forma di discriminazione basata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere relativamente al diritto degli individui di essere genitori adottivi o affidatari, ribadendo quanto segue: «Tutte le decisioni relative alla custodia dei figli e ai diritti dei genitori dovrebbero essere basate sull’interesse del minore. Non ci sono evidenze che suggeriscano che genitori gay, lesbiche, bisessuali o transgender siano per sé diversi e incapaci nell’esercizio delle competenze genitoriali, che non siano in grado di essere centrati sulle esigenze dei bambini e che siano inadeguati nel favorire un attaccamento genitori-figli, se paragonati ai genitori eterosessuali. Non ci sono fondamenti sulla base dei quali sia possibile assumere che l’orientamento sessuale e l’identità di genere possano esercitare un effetto disfunzionale sullo sviluppo del bambino. Lesbiche, gay, bisessuali e transgender hanno affrontato storicamente prove molto più dure di quelle affrontate dagli eterosessuali rispetto al loro diritto di essere o divenire genitori». Sempre la stessa associazione, nel 2013, ha ribadito la medesima posizione nel position statement «Children with Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Parents».
Di rilevante importanza è anche il position statement del 2002 dell’American Psychoanalytic Association (APsaA), in cui viene ribadito che «è nell’interesse del bambino sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, capaci di cure e di responsabilità educative. La valutazione di queste qualità genitoriali dovrebbe essere determinata senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale». Nel 2012 l’ApsaA, in un nuovo position statement, ribadisce quanto segue: «L’APsaA sostiene la posizione che la considerazione più importante in tutte le decisioni riguardanti la custodia dei figli e la genitorialità, tra cui il concepimento, l’uso delle nuove tecnologie riproduttive, l’educazione dei figli, l’adozione e la visita, debba essere il migliore interesse del bambino. Si impegna, inoltre, a promuovere un ambiente sociale in cui tutti i bambini e le loro famiglie sono valutate, supportate e riconosciute, senza discriminazione e pregiudizio. Prove scientifiche suggeriscono che i fattori familiari che sono importanti per il benessere dei bambini sono i processi familiari e la qualità delle interazioni e relazioni. La valutazione di un individuo o di una famiglia rispetto alla qualità della genitorialità dovrebbe essere determinata senza pregiudizio per quanto riguarda l’orientamento sessuale, reale o percepito, l’identità di genere o l’espressione di genere. Non ci sono prove credibili che dimostrino che l’orientamento sessuale o l’identità di genere di un genitore possano influenzare negativamente lo sviluppo del bambino. L’APsaA si oppone a qualsiasi discriminazione basata sull’orientamento sessuale reale o percepito, sull’identità di genere o l’espressione di genere delle persone per quanto riguarda i loro diritti come genitorialità biologica, di custodia o adottiva. I bambini meritano di sapere che i loro rapporti con i loro genitori sono stabili e riconosciuti a livello legale». Quest’ultimo punto è stato fortemente ribadito nel 2013, nel «Position Statement on Civil Marriage and Civil Rights».
Un atteggiamento di sostegno e supporto alla genitorialità omosessuale viene anche ribadito: dall’American Academy of family Physician (2002, 2007), dall’American Bar Association (1995, 1999, 2003, 2006), dall’American Medical Association (2004), dall’American Civil Liberties Union, dalla Child Welfare League of America (2005), dal National Adoption Center (1998), dalla National Association of Social Workers (1996, 2005), dalla National Foster Parent Association (2007), dal North American Council on Adoptable Children (2005), dall’American Psychiatric Association (2002, 2013), dalla Canadian Psychological Association (2006), dall’American Association for Marriage and Family Therapy (2006), dall’Australian Psychological Society (2007), dalla British Psychological Society (2012)[11].
Rispetto al contesto italiano, nel 2011 l’Associazione italiana di psicologia (AIP), in un comunicato, ha ricordato che «i risultati delle ricerche psicologiche hanno da tempo documentato come il benessere psicosociale dei membri dei gruppi familiari non sia tanto legato alla forma che il gruppo assume, quanto alla qualità dei processi e delle dinamiche relazionali che si attualizzano al suo interno. In altre parole, non sono né il numero né il genere dei genitori – adottivi o no che siano – a garantire di per sé le condizioni di sviluppo migliori per i bambini, bensì la loro capacità di assumere questi ruoli e le responsabilità educative che ne derivano. In particolare, la ricerca psicologica ha messo in evidenza che ciò che è importante per il benessere dei bambini è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono loro, indipendentemente dal fatto che essi siano conviventi, separati, risposati, single, dello stesso sesso. I bambini hanno bisogno di adulti in grado di garantire loro cura e protezione, insegnare il senso del limite, favorire tanto l’esperienza dell’appartenenza quanto quella dell’autonomia, negoziare conflitti e divergenze, superare incertezze e paure, sviluppare competenze emotive e sociali».
Posizioni ribadite anche in un comunicato del 2014, in risposta alle dichiarazioni rilasciate dal Ministro della salute, Beatrice Lorenzin, nel corso della trasmissione “Porta a porta” andata in onda su Rai 1 il 17 settembre 2014. Per giustificare la propria contrarietà all’adozione e al ricorso alla fecondazione eterologa per le coppie omosessuali, il ministro Lorenzin aveva dichiarato che «tutta la letteratura psichiatrica, da Freud in poi, riconosce l’importanza per il bambino di avere una figura paterna e materna per la formazione della propria personalità». L’AIP è intervenuta dichiarando che tali asserzioni sono prive di fondamento empirico e disconoscono quanto appurato dalla ricerca scientifica internazionale e quanto espresso dalle più rappresentative società scientifiche a livello mondiale, invitando i responsabili delle istituzioni politiche a tenere in considerazione i risultati che la ricerca scientifica ha prodotto e messo a disposizione della società, in modo che si facciano promotori del rispetto delle persone e della corretta divulgazione scientifica, evitando di esprimere asserzioni infondate che hanno il solo risultato di rinforzare i pregiudizi e danneggiare le famiglie mono-genitoriali, le coppie omosessuali e, soprattutto, i loro bambini. Nel 2014, anche il Consiglio nazionale dell’Ordine degli psicologi (Cnop), sempre in risposta alle affermazioni del ministro Lorenzin, ha ribadito che la valutazione delle competenze genitoriali deve essere fatta senza pregiudizi rispetto all’orientamento sessuale ed affettivo degli individui e che «è necessario garantire la tutela dei diritti delle famiglie omo-genitoriali al pari di quelle etero-composte, senza discriminazioni e condizionamenti ideologici».
5. Famiglie e genitorialità omosessuali. Quali conclusioni?
Se i risultati della ricerca scientifica sono in grado di supportare potentemente che è mero pregiudizio considerare disfunzionale o pericolosa la famiglia omogenitoriale, su cosa si fondano o possono fondarsi le opposizioni e le resistenze politico-istituzionali o sociali rispetto a tale configurazione familiare/genitoriale? La risposta rimanda alla questione dell’omofobia istituzionalizzata; omofobia che non può e non deve essere considerata come un’opinione o un punto di vista, quanto più che altro un dispositivo che produce pregiudizio, discriminazione, stigmatizzazione, deumanizzazione, disconoscimento di incontrovertibili evidenze empiriche.
Le riflessioni sviluppate mettono, pertanto, nelle condizioni di riflettere sulla necessità di assumere modelli pluralisti e inclusivi in grado di leggere la complessità della realtà familiare e genitoriale oggi.
Assumere un approccio pluralista non vuol dire creare, come in modo manipolatorio si intende rimarcare, una presunta (nonché insensata e inesistente) dittatura delle minoranze, in cui il modello imperante diventi quello meno legittimato a livello sociale e politico, ma riconoscere a tutte le forme di famiglia e genitorialità pari dignità e pari opportunità, a prescindere dal fatto che siano eterosessuali o omosessuali.
Assumere un modello pluralista vuol dire riconoscere che la funzionalità o disfunzionalità delle famiglie non dipende dalla struttura (eterosessuale o omosessuale), ma dalla qualità dei legami e dei rapporti che in esse prendono forma. Viene, pertanto, spostato l’asse della valutazione del funzionamento familiare/genitoriale dal piano delle caratteristiche strutturali/morfologiche al versante dei processi interattivi e relazionali interni alle strutture stesse. Si tratta di modi diversi di organizzare i rapporti primari, ognuno dei quali ha proprie caratteristiche specifiche, ma tutti potenzialmente in grado di provvedere alle funzioni familiari e genitoriali. Rispetto a tali funzioni, nessuna forma familiare è di per sé più garantita di altre.
Assumere un modello pluralista vuol dire decostruire e contrastare le impostazioni pregiudizievoli tipiche di atteggiamenti negativi nei confronti delle famiglie omogenitoriali, che si fondano su posizioni che è possibile definire, in termini categoriali, come:
- naturalistiche: esiste un unico modello naturale di famiglia, ovvero la famiglia legittima è quella impostata sulla differenza biologica tra uomini e donne, condizione naturale per garantire la procreazione e, quindi, l’assolvimento delle funzioni genitoriali fortemente connesse alle differenze di genere dei coniugi/genitori;
- essenzialiste: esistono pochi elementi “essenziali” per descrivere un oggetto sociale; non esiste una complessità intrinseca all’oggetto famiglia, in quanto vi è un unico elemento che ne definisce essenza e struttura, ossia la differenza di genere dei coniugi;
- eterocentriche: l’eterosessualità è l’unico orientamento sessuale possibile; l’omosessualità è una deviazione patologica dell’orientamento sessuale; l’unica forma di famiglia possibile è quella costituita da una coppia eterosessuale.
La scelta di un modello pluralista consente di promuovere paradigmi di inclusione e valorizzazione delle differenze, in grado di superare ogni forma di dogmatismo che tenti di far passare per oggettive quelle credenze pregiudizievoli che sono frutto di processi di discriminazione storicamente e culturalmente determinati.
Assumere un modello pluralista vuol dire legare paradigmi di analisi politica, giuridica e istituzionale a forme familiari/genitoriali che già esistono e richiedono criteri di legittimazione e riconoscimento, riparando quello scollamento tra realtà e modelli di lettura della realtà stessa. In tal modo, si sottrae terreno e possibilità alla reiterazione di quei processi di discriminazione che sono intollerabili all’interno di società civili e democratiche che dovrebbero riconoscere il diritto di ogni individuo all’autodeterminazione, da intendersi come dinamica con profonde valenze relazionali, poiché essa non apre al relativismo, ma alla reciprocità, alla condivisione, al rispetto delle identità.
Assumere un modello pluralista vuol dire smontare la centralità di quel processo di “eterosessualizzazione” (estensione del modello eterosessuale) che investe le pratiche relazionali e i legami sociali inclusi in tale ambito, le configurazioni legittime dei legami non solo coniugali, ma soprattutto familiari e genitoriali.
Assumere un’ottica pluralista vuol dire addivenire a un’idea di famiglia omosessuale come dimensione che non determina disordine sociale, caos, minaccia, confusione, annientamento dei principi sociali, giuridici, antropologici su cui si regge la società, dal momento che tale concezione inerisce all’influenza di processi omofobici sulla base dei quali il sistema socio-culturale mette in atto una sorta di resistenza al cambiamento, favorevole al mantenimento dello status quo e capace di produrre la deumanizzazione delle persone omosessuali. Se il valore della famiglia è quello di consentire alla persona di realizzare la pienezza delle proprie relazioni, in base a quale criterio si può negare tale diritto, possibilità e opportunità alle persone omosessuali e ai/alle loro figli/e?
Assumere un modello pluralista vuol dire smantellare i concetti cardine dell’omofobia istituzionalizzata, che è ancora presente nella nostra contingenza storica e sociale. L’omofobia, così come la transfobia, non sono opinioni, ma forme di istigazione alla violenza legittimate da precisi dispositivi culturali. L’omofobia è un forte attivatore di pregiudizi che negano dignità, libertà, relazioni, democrazia, cittadinanza, civiltà.
Assumere un modello pluralista vuol dire affermare, rivendicare e tutelare inalienabili e inviolabili diritti umani di adulti/e e bambini/e.
[1] F. Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari, 2010.
[2] C. Saraceno, Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, Milano, 2012, p. 12.
[3] C. Saraceno, op. cit., p. 15.
[4] L. Fruggeri, La famiglia nella ricerca e nell’attualità sociale: tematiche emergenti e nuovi modelli d’analisi, in P. Bastianoni e L. Fruggeri, Processi di sviluppo e relazioni familiari, Unicopli, Milano, 2005, pp. 109-126; L. Fruggeri, Il caleidoscopio delle famiglie contemporanee. La pluralità come principio metodologico, in P. Bastianoni e A. Taurino (a cura di), Famiglie e genitorialità oggi. Nuovi significati e prospettive, Unicopli, Milano, 2007, pp. 41-67.
[5] A. Taurino, Famiglia e destrutturazione dei tradizionali ruoli di genere. La genitorialità omosessuale all’interno di una lettura decostruttiva in chiave ecologico-sistemica, in P. Bastianoni e A. Taurino, op. cit., 2007, pp. 89-116.
[6] G. Fava Vizziello, Manuale di psicopatologia dello sviluppo, Il Mulino, Bologna, 2003.
[7] Senza fare riferimento ai singoli studi, si rimanda ai seguenti volumi o articoli di rassegna della letteratura: A. Taurino, Due papà, due mamme. Sfatare i pregiudizi, La meridiana, Molfetta, 2016; F. Ferrari, La famiglia inattesa. Genitori omosessuali e loro figli, Mimesis, Milano, 2015; R. Baiocco – N. Carone – S. Ioverno – V. Lingiardi, Same-Sex and Different-Sex Parent Families in Italy: Is Parents’ Sexual Orientation Associated with Child Health Outcomes and Parental Dimensions?, in Journal of Developmental & Behavioral Pediatrics, vol. 39, n. 7/2018, pp. 555–563; R. Baiocco – F. Santamaria – S. Ioverno – C. Petracca – P. Biondi – F. Laghi – S. Mazzoni, Famiglie composte da genitori gay e lesbiche e famiglie composte da genitori eterosessuali: benessere dei bambini, impegno nella relazione e soddisfazione diadica, in Infanzia e adolescenza, vol. 12, n. 2/2013, pp. 99–112; R. Baiocco - N. Carone - V. Lingiardi, La famiglia da concepire. Il benessere dei bambini e delle bambine con genitori gay e lesbiche, Sapienza Università Editrice, Roma, 2017; V. Lingiardi - R. Baiocco - N. Carone, Il benessere dei bambini e delle bambine con genitori gay e lesbiche. In F. Corbisiero e R. Parisi (a cura di), Famiglia, omosessualità, genitorialità. Nuovi alfabeti di un rapporto possibile, Piemme, Velletri, 2016, pp. 77-83; C. Cavina e D. Danna (a cura di), Crescere in famiglie omogenitoriali, Franco Angeli, Milano, 2015.
Per le più importati rassegne della letteratura straniera: C.J. Patterson, Lesbian and gay parenting: Summary of research findings, American Psychological Association, Washington DC, 2005; C.J. Patterson, Children of lesbian and gay parents. Current Directions, in Psychological Science, vol. 15, n. 5/2006, pp. 241-244; C.J. Patterson e J.L. Wainright, Adolescents with same-sex parents: Findings from the National Longitudinal Study of Adolescent Health,in D. Brodzinsky - A. Pertman - D. Kunz (a cura di), Lesbian and gay adoption: A new American reality, Oxford University Press, New York, 2007; C.J. Patterson e C.J. Telingator, Children and Adolescents of Lesbian and Gay Parents. Clinical Perspectives, in Journal of American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, vol. 47, n. 12/2008, pp. 1364-1368.
[8] T.J. Blibarz e J. Stacey, How does the gender of parents matter?, in Journal of Marriage and Family, vol. 72, n. 1/2010, pp. 3-22; C.J. Patterson, op. cit ., 2005.
[9] Cfr. la rassegna della letteratura in A. Taurino, op. cit., 2016.
[10] H.M. Bos e T.H. Sandfort, Children’s gender identity in lesbian and heterosexual two-parent families, in Sex Roles, vol. 62, nn. 1-2/2010, pp. 114-126.
[11] È possibile reperire una rassegna dei policy statement promulgati dalle più importanti associazioni mondiali al seguente sito: www.nclrights.org/wp-content/uploads/2014/07/Adoption-Policy-Statements-REVISED-04-02-2009.pdf.