La funzione del contratto nella gestione della crisi: atti di autonomia privata e attività d’impresa
1. Una premessa sulla cosiddetta “privatizzazione” delle procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza come motivo dominante della riforma
Se si volesse sintetizzare la filosofia di fondo della riforma che, dopo circa quindici anni, sembra aver trovato un suo assestamento (forse non definitivo, ma tendenzialmente organico e auspicabilmente stabile) nel “codice” (della crisi d’impresa e dell’insolvenza, d.lgs 12 gennaio 2014, n. 19), tornerebbero probabilmente ancora utili i concetti – affermatisi, invero, quasi a mo’ di slogan, quando muoveva i primi passi il lungo iter di novellazione percorso dal diritto della crisi d’impresa, dell’insolvenza e delle procedure per la relativa gestione – di “privatizzazione” e “de-giurisdizionalizzazione” delle tecniche e delle soluzioni per la regolazione della crisi e, più in generale, delle vicende in cui versa l’imprenditore in difficoltà[1].
Non v’è dubbio che la prospettiva negoziale privatistica, operante nello spazio di volta in volta concesso dall’ordinamento all’autonomia, ha visto ampliarsi sempre più orizzonti e potenzialità, con il definitivo superamento della tradizionale – si direbbe, atavica e sostanzialmente pregiudiziale – ostilità di un “sistema” tutto incentrato sulla valenza pubblicistica (e, di conseguenza, prevalentemente procedurale) dell’esecuzione collettiva sul patrimonio del debitore (ossia l’imprenditore) insolvente[2]. È noto, del resto, che ai tempi delle codificazioni napoleoniche la “statualizzazione” del diritto fallimentare si presentasse come una sorta di dogma, peraltro perfettamente rispondente alla cultura (giuridica e non solo) dell’epoca[3]. Se è vero che, guardando al versante italiano, espressivo della medesima cultura, si poteva incontrare all’interno del codice di commercio del 1882 anche il cd. “concordato amichevole di fallimento”[4], la compressione dell’autonomia negoziale rappresentava il proverbiale risvolto della medaglia, costituita dalla concezione statalistica e corporativa della legge fallimentare del 1942.
A fronte dell’incontestabile rilancio dell’autonomia privata, si può notare come la diversa (e, in linea di principio, antitetica) prospettiva giurisdizionale, lungi dall’essere soppiantata o anche soltanto ridimensionata dai nuovi ambiti d’azione dell’autonomia dei privati, si sia al contrario arricchita di inedite e articolate dimensioni, destinate a esprimersi in funzione – e, comunque, sempre in considerazione – delle opzioni dei privati, in ordine ai diversi e variegati strumenti utilizzabili per la gestione della situazione di crisi o insolvenza.
È evidente che anche la più rivoluzionaria riforma – come quella realizzatasi in questa materia in termini e forme davvero radicali, da ritenere, realisticamente, ancora in corso d’opera, posto che sembra più che verosimile ritenere che il nuovo codice necessiterà di un lungo periodo di consolidamento nel diritto vivente delle corti – non può nascere dal nulla (ovvero, se si preferisce, sul nulla). Sicché può apparire persino banale ricordare che le composizioni negoziali della crisi e/o dell’insolvenza non erano certo ignote al nostro ordinamento, essendo disciplinate dal legislatore sin dai primi del Novecento (è stata non a caso appena ricordata la figura, all’epoca innovativa, del “concordato amichevole di fallimento”)[5]. La centralità del fallimento (e del relativo “processo” esecutivo sul patrimonio) del debitore insolvente finiva per rendere, tuttavia, “minori” (per rifarsi allo stesso gergo legislativo, in linea, del resto, con la loro scarsa rilevanza pratica) le procedure “concordatarie”, le quali in ogni caso, stando sempre alle rilevazioni empiriche e fattuali, avevano essenzialmente carattere liquidatorio.
La forza del paradigma civilistico fondamentale, ritenuto ineludibile sul piano tanto sostanziale quanto processuale, dell’obbligazione inadempiuta, caratterizzata (e, in un certo senso, integrata) dallo stato d’insolvenza del debitore, quale fonte del diritto del creditore di agire esecutivamente sui beni del primo assoggettati alla garanzia patrimoniale, era tale da impedire alle vicende dell’impresa in crisi (e dell’imprenditore insolvente, considerando la variabile soggettiva della situazione) di affrancarsi dal diritto comune (e generale) delle obbligazioni, della responsabilità patrimoniale e dell’esecuzione forzata, in funzione degli interessi di diversa natura e consistenza giuridica ricollegabili all’attività d’impresa[6].
Nel momento in cui la posizione dell’impresa, quale attività oggettivamente espressiva di (al tempo stesso, incidente su) interessi diversi, non di rado in conflitto tra loro, diviene centrale e determinante[7], per definire le (nuove) regole della responsabilità patrimoniale dell’imprenditore (poi estese, seppure con le opportune varianti, al debitore non imprenditore, definito tradizionalmente, sempre in negativo, come “non fallibile”), ecco che il sistema dei principi e delle regole inizia a ricomporsi – senza farsi più condizionare dal radicamento del suddetto paradigma, così come dei concetti fondanti la disciplina generale delle obbligazioni – mediante l’introduzione di norme non di rado in contrasto con gli assetti tradizionali sia del rapporto obbligatorio fra debitore e creditore, sia della tutela dei diritti dei soggetti terzi, rispetto agli atti di disposizione del patrimonio potenzialmente pregiudizievoli ai creditori.
Non v’è dubbio che lo spirito e le finalità della riforma, nel suo lungo e coerente sviluppo quasi quindicennale, possano meglio comprendersi, riflettendo per un momento sul nuovo rapporto tra attività d’impresa e attività negoziale tra privati, in estrema sintesi tra impresa e contratto. Un rapporto che il legislatore della stessa riforma, per un verso, sembrerebbe registrare come oramai consolidato nella normativa, soprattutto quella di matrice comunitaria (consumeristica e non) dell’ultimo ventennio o poco più; per altro verso, contribuisce a definire (e rifinire), con riferimento alle specifiche vicende relative alla crisi e all’insolvenza. In questo senso, può essere opportuna una breve digressione sul punto, che dia conto, sia pure in poche battute, di tale rilevante mutamento di rotta, prima di riprendere il discorso sui nuovi spazi dell’autonomia e del contratto nella riforma ora confluita nel codice.
2. Un nuovo rapporto tra concetti: il contratto, quale atto negoziale, e l’impresa, come attività economica produttiva
Conviene muovere dalla constatazione secondo la quale la relazione tra l’attività d’impresa, da sempre al centro degli studi di matrice economico-aziendale, e la disciplina dell’atto (e/o del negozio) giuridico – indipendentemente dalla possibile, un tempo almeno, variante dell’atto “di commercio” – sembrerebbe rovesciarsi, in qualche modo, rispetto alla tradizione del pensiero giuridico: la prima non è più considerata una mera variabile della seconda, ossia una sorta di accidente dell’atto e/o del rapporto negoziale (in qualche modo rilevante sul piano soggettivo ovvero oggettivo, per giustificare una regola più o meno divergente rispetto al diritto generale e comune a tutti i soggetti privati), ma diviene criterio di selezione degli interessi da tutelare, attraverso (nuove) disposizioni sul diritto della crisi e dell’insolvenza, organizzate in una normativa autonoma e dunque “speciale” rispetto al diritto comune, cui non si può tuttavia non dover rendere ragione sul piano sistematico complessivo.
Ragionando sempre in termini generali, ma con un doveroso sguardo alla storia del pensiero giuridico, si può muovere dall’assunto secondo il quale, tanto nell’economia (moderna) quanto nella teoria del diritto, i due concetti fondamentali di impresa e contratto hanno dato luogo alle analisi della figura (forse, potrebbe trattarsi anche di una relativamente recente categoria ordinante) dei “contratti di impresa”. Attraverso la considerazione della dimensione imprenditoriale si concettualizza, infatti, il contratto, sia nella dimensione teorica che come figura di diritto positivo (con un’indagine che, svolgendosi nella prospettiva dei “contratti del mercato”, può estendersi oggi dai contratti dei consumatori a quelli tra imprese).
In questa vicenda culturale, le cui ricadute applicative è persino superfluo ricordare, il ruolo centrale sembrerebbe quello svolto non dall’impresa, ma dal contratto: se l’attività (d’impresa) caratterizza – nel senso di qualificare e definirne i tratti normativi essenziali – l’atto (che dà vita al rapporto contrattuale), la prospettiva dell’attività d’impresa finisce per essere uno dei modi per leggere e costruire le regole del contratto, anche con riferimento al cd. “nuovo diritto dei contratti”. L’approccio metodologico – le cui ragioni sono piuttosto semplici da individuare, radicandosi la centralità dell’atto di volontà nella tradizione dogmatica civilistica – dava sostanzialmente per scontata la subordinazione, sempre in termini concettuali e metodologici, dell’attività d’impresa rispetto al contratto, come se il contratto dovesse essere la figura o, se si preferisce, la categoria ordinante immancabile, l’attività d’impresa costituendone una semplice variabile, utile a determinarne uno specifico carattere o una particolare configurazione normativa. Ciò, beninteso, con alcune costanti che valgono a giustificare gli sforzi che taluno – non molti, per la verità, e comunque con ben minore convinzione rispetto a quanti hanno in passato approfondito gli aspetti teorico-generali del contratto in chiave civilistica – ha profuso per tentare di ricostruire la categoria, che rimane pur sempre discussa, dei contratti d’impresa.
Dal punto di vista oggettivo, tuttavia, è difficile dubitare che i due paradigmi siano equivalenti. Se perciò, da un lato, è parso legittimo in passato studiare il contratto utilizzando la variabile per così dire dell’attività d’impresa, con una linea di pensiero tutt’altro che continua e omogenea[8], sino agli sviluppi dei nostri giorni, che giungono alla formulazione di una nuova ipotesi di lavoro relativa a un “terzo contratto”[9] – ancor più di recente, al tentativo di tipizzazione dell’ancora evanescente, benché legislativamente prevista, figura del “contratto di rete” –, incentrato sulla rilevanza dell’attività d’impresa e delle distorsioni cagionate dall’abuso della (fisiologica) dipendenza economica[10], dall’altro lato sembrano ormai maturi i tempi per analizzare la teoria dell’impresa avvalendosi del paradigma del contratto.
L’utilità di studiare il contratto attraverso l’impresa e, viceversa, l’impresa attraverso il contratto è data dal fatto che, così come attraverso lo studio dell’impresa può implementarsi e arricchirsi il concetto di contratto, allo stesso modo lo studio del contratto potrebbe contribuire a consolidare una più moderna e adeguata concezione dell’impresa.
Per poco che si rifletta, si scorge che l’impresa esprime un suo preciso modo di essere, assai rilevante per il diritto, proprio attraverso il contratto. Del resto, una simile prospettiva culturale, non ancora adeguatamente indagata in ambito giuridico, risulta da tempo accolta e sviluppata nei più importanti e innovativi contributi di teoria economica del secolo appena appena trascorso, come dimostrano esemplarmente gli studi di Ronald Coase sulla «natura dell’impresa»[11].
L’opzione teorica ipotizzata deve, tuttavia, farsi carico di un’avvertenza preliminare. Il successo della ricerca impone che il rapporto tra i due concetti sia chiarito e delimitato, pur nella fisiologica mobilità e incertezza dei confini, insuscettibili di essere disegnati aprioristicamente e durevolmente. Se il contratto può dunque essere considerato alla stregua di un elemento di base del ragionamento giuridico sull’impresa, soltanto in un’ottica riduzionistica si potrebbe incentrare ed esaurire la riflessione con riferimento al paradigma contrattuale. L’artificiosa costrizione della realtà sociale in uno schema teorico insufficiente, e perciò visibilmente inadeguato, pregiudicherebbe la corretta impostazione del ragionamento finalizzato alla soluzione di problemi che esigono, invece, il riordino dei concetti come operazione preliminare alla concreta applicazione delle norme giuridiche.
Con questa consapevolezza, si può meglio comprendere come il contratto, grazie al quale si organizza e si svolge l’attività d’impresa, realizzi una pluralità di funzioni. Il contratto serve a dar vita, innanzitutto, al soggetto dell’imputazione giuridica (nell’esempio più emblematico, la società: il contratto costituisce l’imprenditore, ma analogamente potrebbe dirsi per il “gruppo”, come modalità ancora una volta di matrice contrattuale per svolgere l’attività, benché in assenza di un’autonoma nuova soggettività giuridicamente rilevante). Ma il contratto è a fondamento del mezzo tecnico (come complesso organizzato, rilevante nelle tradizionali classificazioni in termini oggettivi e non soggettivi) per la concreta realizzazione dell’impresa, ossia l’azienda, diventando esso stesso strumento – il principale, a ben vedere, connotando la stessa “natura dell’impresa” – per lo svolgimento dell’attività economica organizzata in termini di produzione e distribuzione di beni e servizi. Il contratto funge, poi, da strumento per l’aggregazione di più imprese, che non assumono per ciò stesso una diversa e autonoma soggettivizzazione (come nel già richiamato caso dei gruppi, ma anche delle Ati e, in modo ancor più semplificato, delle reti)[12].
Non v’è dubbio che il contratto costituisce inoltre il fondamentale strumento per il finanziamento dell’impresa, sino al limite estremo dei cd. (contratti e/o) strumenti finanziari, la cui caratteristica è quella di esprimere, in termini oggettivi, l’attività stessa, in tal caso finalizzata non più a produrre beni e/o servizi, ma – quali beni o servizi – ancora contratti (il che aiuta a comprendere il tentativo di classificarli come nuovi beni). Il contratto è, infine, il mezzo per affrontare la crisi dell’impresa, prima che intervenga il momento giurisdizionale o anche durante lo svolgimento di una procedura concorsuale in senso proprio ossia sotto il controllo, di indole inevitabilmente pubblicistica, del tribunale[13].
In tutti questi casi, il contratto assicura una funzione cognitiva senza dubbio importante, ma non certo esaustiva, rappresentando un paradigma privilegiato per ricostruire la teoria dell’impresa, la quale però abbraccia un ambito giuridico evidentemente più ampio[14]. Il filo conduttore della riflessione scientifica, destinata ad avere un immediato impatto sull’applicazione delle norme, dovrebbe essere, dunque, nel senso che il contratto (come costruzione teorica e come disciplina generale) può essere d’ausilio per meglio comprendere l’attività d’impresa (e non viceversa, come è sempre avvenuto sinora).
La teoria dell’impresa potrebbe essere ricostruita attraverso il contratto, che tuttavia non potrebbe mai identificarsi con l’attività d’impresa. Può essere emblematico l’esempio della già ricordata vicenda della subfornitura – da tempo estesa, dalla giurisprudenza, a tutti i contratti tra imprese, caratterizzati dallo squilibrio di potere negoziale – ove il contratto (o anche il semplice patto), attraverso cui si realizza l’abuso di dipendenza economica, non è certo il solo e unico momento di emersione della dipendenza economica, con il potenziale rischio della condotta abusiva del contraente in condizione di dominanza, avendo lo stesso legislatore enunciato fattispecie di condotta potenzialmente abusiva sganciate dal contratto in senso proprio (ad esempio, il rifiuto di vendere)[15].
Negli studi più recenti, l’angolo d’osservazione privilegiato per l’analisi della teoria dell’impresa si è spostato rispetto al passato ed è diventato quello del soggetto, grazie al rilievo sempre maggiore che ha assunto la disciplina delle società e degli altri enti organizzati, mentre è mancato un analogo approfondimento per gli aspetti oggettivi, relativi all’attività in senso proprio, che implica lo studio (non dei soggetti, bensì) dei rapporti tra i soggetti (che si svolgono, s’è appena visto, anche attraverso l’esecuzione dei contratti).
Tramite il contratto si può osservare e riconsiderare, a ben vedere, la vicenda (della teoria) dell’impresa: una sorta di lente, che consente di riflettere sull’impresa, ancorché non certo in modo esaustivo. Il contributo che può offrire la prospettiva appena indicata è comunque significativo, posto che tramite il contratto possono essere messi a fuoco ed esaminati tutti i problemi, sia pure talvolta in modo parziale, mediante una sorta di sezione trasversale della materia. Ma si tratta di un punto di vista, che necessariamente lascia scoperti, s’è detto, altri aspetti (della teoria) dell’impresa[16].
Alla luce di quanto appena espresso, in estrema sintesi naturalmente, si avverte l’esigenza di un rinnovato contributo alla teoria dell’impresa attraverso lo studio delle implicazioni attuali della disciplina del contratto, in termini generali e settoriali, sull’attività d’impresa, mentre chi ha sinora riflettuto sui “contratti d’impresa” ha di norma seguito il procedimento logico (e metodologico) inverso, arricchendo lo studio dei principi e delle regole generali sul contratto con l’esame delle ricadute dell’attività d’impresa.
Il tentativo di ripercorrere la vicenda dei rapporti tra impresa e contratto invertendo i termini della visione tradizionale e così ponendo l’impresa e la relativa attività (economico-aziendale) al centro, mentre il contratto verrebbe considerato un modo per ordinare ed esaminare i rapporti giuridici nascenti in relazione (se si preferisce, intorno) all’attività d’impresa, non deve sembrare dunque destabilizzante, tanto meno arbitrario, anche se potrebbe dare l’impressione di adottare una prospettiva originale. L’originalità dell’approccio, in tal senso, non potrebbe che arricchire la riflessione dottrinale sul piano tanto dell’analisi della disciplina, quanto del metodo giuridico e, in ogni caso, offre nella materia in esame il più corretto e coerente punto di partenza.
3. Insolvenza e autonomia privata: una relazione tradizionalmente difficile e complessa
Da quanto appena esposto, sia pure nella sinteticità che il contesto impone, ossia dalla decisiva centralità dell’impresa, sempre più consolidata nella cultura giuridica del nostro tempo e, di conseguenza, riflessa nella normativa novellata attraverso il lungo itinerario riformistico iniziato nel 2005, discende l’esigenza di riconsiderare anche – e in primo luogo – l’intero sistema della responsabilità patrimoniale, delle procedure concorsuali e dell’autonomia privata operante in occasione (e in funzione della gestione) della crisi e dell’insolvenza. È innegabile che l’opera di ridefinizione e, soprattutto, razionalizzazione del sistema sia complessa e perciò destinata a svolgersi in tempi lunghi, inevitabilmente affidata all’operato congiunto del legislatore e del giurista: innanzitutto l’interprete che, in sede giurisdizionale, ha il compito di far funzionare coerentemente ed efficacemente le novità normative.
Per chi si fosse accostato al tema del rapporto tra autonomia privata e insolvenza agli esordi della riforma – si tratta di risalire, ormai, a circa tre lustri addietro, quando tuttavia il legislatore aveva già gettato le fondamenta del nuovo sistema, dettando nuove (si direbbe nuovissime) norme in tema di concordato preventivo, da incentivare secondo le linee di politica del diritto prescelte, e di azione revocatoria fallimentare, da depotenziare invece attraverso esplicite esenzioni e drastiche riduzioni dei termini qualificanti il cd. “periodo sospetto” –, si sarebbero presentati immediatamente alcuni problemi d’indole spiccatamente metodologica. In primo luogo, quello relativo alla diversità dei piani degli interessi e delle relative forme di tutela rispetto al verificarsi dell’insolvenza (non a caso distinguibile, nei tempi passati, nelle forme “civile” e “commerciale”): a) all’interno del rapporto obbligatorio (in ipotesi, contrattuale), con la disciplina dei rimedi, in forma innanzitutto di autotutela, a favore della parte in bonis; b) rispetto ai diritti dei terzi, con riferimento agli atti di disposizione posti in essere dal debitore in crisi o già decotto, la cui tutela poteva far conto (anche) sul rafforzamento dell’azione revocatoria in sede fallimentare.
Le norme di tutela, ovvero di autotutela, contro l’insolvenza (o anche soltanto il pericolo d’insolvenza, rappresentato dal mutamento delle condizioni patrimoniali del debitore e/o controparte contrattuale) rilevante all’interno del rapporto tra debitore e creditore caratterizzano la disciplina delle obbligazioni (ad esempio, l’art. 1186 cc sulla decadenza dal beneficio del termine), così come quella del contratto (ad esempio, l’art. 1461 cc sull’eccezione d’inadempimento) e di alcuni contratti (emblematicamente, l’art. 1953 cc, sulla liberazione del fideiussore, ma anche l’art. 1822 cc in materia di mutuo), con l’obiettivo di rendere effettiva la tutela del diritto di credito, anche attraverso le forme di autotutela, ammissibile nella logica del rapporto obbligatorio bilaterale. Se diversa è la logica della tutela del creditore quale soggetto terzo rispetto al rapporto attraverso cui si compie un atto di disposizione del patrimonio del debitore, in relazione all’insolvenza che inficia (non più il rapporto obbligatorio bilaterale, facendo scattare le forme di tutela appena ricordate, bensì) la stabilità dell’atto di disposizione, rendendolo così soggetto all’azione revocatoria, rimane pur sempre il dato comune della frizione, sul piano sistematico, tra l’insolvenza e l’autonomia privata[17].
La possibilità e le nuove opportunità che la riforma ha inteso offrire al debitore per gestire l’insolvenza (o anche la fase preliminare di “crisi” dell’attività d’impresa, così da prevenire la situazione irreversibile di decozione) all’interno del rapporto obbligatorio, con il sostegno del tribunale in funzione di controllo della rispondenza della soluzione proposta (anche) all’interesse generale del ceto creditorio (composto da soggetti tanto privati, quanto pubblici), non poteva non andare di pari passo con un altrettanto nuovo e, anzi, fortemente innovativo approccio al problema – se si preferisce, al giudizio tradizionalmente di netto disvalore – degli atti di disposizione del patrimonio posti in essere dall’insolvente.
Di qui, l’opportunamente coeva introduzione delle nuove disposizioni sul concordato preventivo (cui si aggiungeva la previsione generalizzata, anch’essa innovativa, degli accordi di ristrutturazione da sottoporre all’omologazione, in sintonia con il concordato) e delle “esenzioni” dall’azione revocatoria, all’interno di una più generale opzione di politica legislativa per il suo depotenziamento, così da conferire stabilità agli atti negoziali (dispositivi e dunque, in linea di principio, lesivi degli interessi dei creditori) compiuti dal debitore insolvente nell’esercizio normale e ordinario dell’attività aziendale, ovvero nei confronti di soggetti per principio estranei a qualsiasi ipotesi di scientia o addirittura partecipatio fraudis o ancora, e anzi a maggior ragione si direbbe, nel tentativo di gestire convenzionalmente la situazione di crisi o d’insolvenza al fine di superarla[18].
In tal senso, particolarmente istruttivo appare il percorso della vicenda – si ricorderà: di matrice dapprima dottrinale, per poi diventare problematica giurisprudenziale, suscitando significativi interventi anche in sede di legittimità – relativa alla cd. “concessione abusiva di credito”, che non ha ricevuto attenzione da parte del legislatore della riforma, proprio nel momento in cui ferveva il dibattito[19]. Un dibattito complesso, senza alcun dubbio, in quanto, a fronte dell’oggettiva esigenza dell’imprenditore di ricorrere al finanziamento bancario per gestire e, auspicabilmente, superare la situazione di crisi, reclamava tutela l’interesse del ceto creditorio a non ricevere “informazioni” fuorvianti dal mercato, proprio per il fatto della concessione del credito, prima facie espressiva della fiducia goduta dall’imprenditore presso il sistema finanziario e creditizio, che si esprimeva in dottrina, ma anche s’è detto in giurisprudenza (tanto di legittimità, alla ricerca dei principi, quanto di merito, con riferimento alla considerazione delle circostanze rilevanti per valutare la condotta del finanziatore), sulla responsabilità del finanziatore nel caso in cui l’operazione creditizia fosse stata qualificata “abusiva”[20].
L’evoluzione della riforma ha tuttavia dimostrato in modo sufficientemente esplicito, nonostante l’iniziale indifferenza del legislatore, come il finanziamento all’imprenditore in crisi, ove inquadrato nell’ambito di un’operazione intesa al salvataggio dell’impresa (e dei valori aziendali direttamente connessi alla prosecuzione dell’attività), non potesse subire sommariamente il giudizio di disvalore derivante dall’immagine falsata dello stato di salute dell’imprenditore finanziato ancorché in crisi, occorrendo al contrario calibrare, con una normativa che si è rivelata sempre più articolata e sofisticata, la posizione dell’ordinamento, oramai tendenzialmente positiva rispetto al finanziatore che avesse riposto fiducia nel programma di risanamento predisposto dall’imprenditore in difficoltà e consegnato a un “piano”, di natura evidentemente economico-aziendale, decisivo per il buon esito della procedura concordataria, così come di quella tendente all’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Non è un caso, del resto, che anche il legislatore francese, con la loi n. 2005-845 in tema di «sauvegarde des entreprises» (cfr. Code de commerce, art. L.650-1), in linea con la filosofia di fondo della sostanzialmente coeva riforma francese e per incoraggiare il sostentamento finanziario alla entreprise en difficulté, aveva fissato il principio della “non-responsabilità” del banchiere (rectius, del finanziatore), salve le ipotesi specifiche di frode, di ingerenza della banca nell’attività del debitore, di concessione di garanzie sproporzionate (nel qual caso, oltre alla responsabilità, è disposta la nullità delle garanzie ricevute dalla banca).
4. L’atto giuridico, come accordo tra debitore e creditore, e la programmazione economico-aziendale, secondo il piano attestato, nelle dinamiche degli accordi di ristrutturazione e dei concordati
Quella che si è voluta indicare come tradizionale frizione (in un certo senso inevitabile, secondo i vecchi schemi) tra autonomia privata e stato d’insolvenza comincia a stemperarsi con la nuova disciplina del concordato preventivo e, in particolare, con la libertà concessa al debitore proponente, che può avvalersi di un’inedita atipicità dei contenuti della domanda – sull’esempio di altri ordinamenti, in special modo del più che collaudato modello statunitense offerto dal noto Chapter 11 del Bankruptcy Code –, sino alla derogabilità della regola generale (o principio, se si preferisce) della par condicio creditorum, mediante la suddivisione dei creditori per “classi”. Quel che il legislatore richiede, ormai, è soltanto la “omogeneità” delle classi (in considerazione degli interessi economici, così come delle posizioni giuridiche alla luce della collocazione del credito), in modo che il trattamento differenziato tra creditori appartenenti a classi diverse trovi una sua giustificazione, se non sul piano strettamente giuridico, almeno su quello della razionalità (sul piano economico-sociale, si direbbe) della proposta, ossia nella sua concretezza oggetto di valutazione del tribunale nel singolo caso.
Un’ulteriore elemento di novità, anch’esso in ogni caso fondamentale nella ricostruzione sistematica, oltre che connesso a quanto appena detto, si rinviene nella delimitazione dei poteri del tribunale – in fase di ammissione, così come di omologazione – a una forma di controllo che dottrina e giurisprudenza hanno voluto definire di mera legalità, con esclusione quindi di ogni valutazione del merito della proposta in generale e, soprattutto, della sua convenienza economica per i creditori[21].
Ma il dato probabilmente più significativo, nella direzione dell’ampliamento dello spazio concesso all’autonomia contrattuale, si rinviene nell’introduzione dell’istituto dell’accordo sulla ristrutturazione dei debiti omologabile (art. 182-bis l.fall., nel nuovo codice art. 57). Una peculiare “procedura” mediante la quale il debitore, il quale stipuli un accordo di ristrutturazione con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento della somma dei crediti, può poi chiederne l’omologazione al tribunale. La conseguenza del placet conseguito in sede giurisdizionale, come si è già avuto modo di considerare, si esprime in una sorta di trattamento premiale: gli atti esecutivi dell’accordo omologato sono esentati dall’azione revocatoria (grazie al riformulato art. 67 l.fall., un tempo simbolo dell’azione recuperatoria dell’attivo per antonomasia e oggi norma legittimante, in sostanza, le operazioni di “salvataggio” e i relativi atti negoziali: in particolare, si veda il comma 3, lett. e, diventato art. 166 nel nuovo codice), oggetto e ragione dell’accordo essendo proprio la ristrutturazione della finanza. Anche in questo caso, il debitore deve predisporre un piano, asseverato nella sua attuabilità da un esperto, ma la partita si gioca – in presenza di un “accordo” in senso proprio, ossia fondato sul consenso – tutta sul terreno dell’autonomia privata: l’omologazione avverrà, pertanto, soltanto se il piano appaia idoneo a soddisfare la superiore esigenza di garantire il pagamento regolare dei crediti sui quali non si è raggiunto l’accordo stesso, ossia i “creditori estranei”; e la medesima “idoneità” costituirà, come appena considerato, il criterio di valutazione fondamentale per affrancare dalla revoca gli atti esecutivi del piano.
Sempre all’insegna della cd. “privatizzazione” della crisi d’impresa – un altro degli slogan in voga, si diceva all’inizio, unitamente a quello della “de-giurisdizionalizzazione” –, la riforma procede con successivi interventi: nel 2006, nel 2007 e così via, sino all’ultimo (sinora almeno) del 2012, con una progressiva armonizzazione delle procedure necessarie (e finalizzate) a salvare l’impresa in crisi o comunque traghettarla verso la liquidazione attraverso un’attività negoziale che vede coinvolti debitore, creditori, eventuali terzi (come nel caso del concordato fallimentare, con la legittimazione ampliata a qualunque interessato) e, infine, il tribunale in funzione di “assistenza” e “sorveglianza” a tutela degli interessi dei creditori che, in punto di fatto, non hanno la possibilità di negoziare e si trovano, pertanto, esposti al rischio di “subire” la decisione della maggioranza.
Si coglie proprio su questo punto la netta distinzione tra gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il nuovo concordato preventivo: in quest’ultimo caso, il piano di ristrutturazione asseverato – che può anche essere oggetto di un accordo raggiunto con una parte dei creditori – non è offerto a un consenso, ma a una deliberazione a maggioranza[22]. Lo spazio in cui si manifesta l’autonomia privata non è più, una volta imboccata la via prettamente “procedurale” e dunque “giurisdizionale” del concordato, quello del contratto in senso stretto. Nondimeno, l’ampio margine di manovra concesso al debitore nell’organizzare la proposta (e dunque nell’organizzare il “piano”, che della proposta costituisce il nucleo) testimonia ancora il riconoscimento tributato all’autonomia privata anche in tale contesto[23].
Si conferma così l’idea secondo la quale il fulcro del nuovo assetto, inteso a migliorare l’efficienza delle soluzioni operative, deve essere individuato nel piano (di ristrutturazione) debitamente asseverato da un esperto (non legato da rapporti professionali al debitore proponente). L’autonomia dei privati nella gestione della crisi (e dell’insolvenza) procede attraverso la massima libertà nella strutturazione del piano (con la notevole novità rispetto al passato costituita dall’atipicità della proposta concordataria) e, per altro verso, il controllo sui dati esposti nel piano da parte degli osservatori esterni e interessati[24].
L’accordo per la gestione della crisi si presenta e si offre al debitore nella duplice versione, si sarebbe tentati di dire: in se stesso, ossia nelle forme comunemente definite come “accordi stragiudiziali” (da tempo praticati in funzione “preventiva” del fallimento, come si è avuto modo di considerare nelle battute iniziali) oppure “chiuso”, ossia operante nell’ambito di un “contenitore procedurale”, per così dire, predefinito e disciplinato nei suoi aspetti formali e sostanziali.
Nel primo caso, dunque, l’accordo prescinderà da qualsiasi struttura formale esterna (costituita da una procedura, appunto) e si presenterà, pertanto, come un vero e proprio contratto sulla crisi d’impresa, ossia “funzionale” alla gestione della crisi (e/o dell’insolvenza, ove concretamente ancora gestibile). Nel secondo, invece, l’accordo verrà (raggiunto, evidentemente, con le normali modalità negoziali per la “formazione del consenso”, ma poi sarà) inserito in una procedura, alternativamente: a) di omologazione semplificata, nelle forme poste dall’attuale art. 182-bis l.fall. (art. 57 del nuovo codice); b) decisamente più rigida e articolata, ossia il concordato preventivo. Va da sé che l’opzione del debitore tra le queste diverse modalità operative è di norma, in punto di fatto, conseguente alla gravità della situazione di crisi in cui versa l’attività d’impresa[25].
5. La rilevanza causale della gestione della crisi nei contratti e l’estensione dell’ambito negoziale nel nuovo codice
Se si volessero richiamare le categorie ordinanti tradizionali, tuttora utilizzate dalla giurisprudenza e anzi valorizzate dalla Suprema corte in questa materia – lo dimostra il noto intervento delle sezioni unite con l’appena ricordata Cass., n. 1521/2013 – con il riferimento alla “causa in concreto” da ricercare, in primo luogo, nel giudizio di ammissibilità del concordato preventivo, è proprio alla causa del contratto che occorre ritornare. Quest’ultima, infatti, può essere individuata nella (gestione della) crisi ossia di una condizione ritenuta dall’ordinamento superabile, mentre l’insolvenza della disciplina concorsuale esprime una qualificazione che attesta la definitività e irrecuperabilità dello stato di dissesto. Sin quando è reversibile, dunque, la crisi costituisce un concetto che non esprime una patologia, da cui la meritevolezza del contratto finalizzato al salvataggio dell’impresa in crisi.
Diversi sono gli indici, tutt’altro che irrilevanti nella riflessione sulla meritevolezza degli accordi per il superamento della crisi di impresa, in relazione ai quali evidentemente non sono mancate le controversie, a livello dottrinale ma anche giurisprudenziale, a cominciare da quella sulla natura giuridica degli accordi di ristrutturazione dei debiti, sulla base della collocazione sistematica dell’istituto (nella legge fallimentare riformata inserito, come del resta era ovvio, nel capo dedicato al concordato preventivo) nonché della prevista omologazione dell’accordo da parte del tribunale, riconoscendo a tali accordi natura procedimentale, sulla scia della riconduzione logica all’ambito del concordato preventivo[26], ovvero, al contrario – era in tal senso la prevalente dottrina, contraddetta in tempi recenti tuttavia dalla Suprema corte –, sottolineando la natura intrinsecamente negoziale degli accordi di ristrutturazione[27]. Nel qualificare tali accordi in termini di contratti per il superamento della crisi, si osservava come a tale inquadramento sistematico non ostasse la circostanza che il ricordato art. 182-bis (art. 57 del nuovo codice) prescrive, anche per gli accordi per il superamento della crisi di impresa, la partecipazione di una percentuale di creditori pari al sessanta per cento[28].
Il riferimento alla categoria tradizionale civilistica della causa del contratto, in relazione alla sua funzione effettiva nel contesto della crisi d’impresa, vale anche a rendere ragione, sul piano sistematico, della già ricordata decisa inversione di rotta del legislatore rispetto alla giurisprudenza che andava sviluppandosi in tema di concessione abusiva del credito (in termini necessariamente punitivi per i soggetti finanziatori: gli istituti di credito, evidentemente, in primo luogo). È evidente, infatti, la rilevanza “causale” che, nel nuovo assetto normativo delle procedure concorsuali e, più in generale, del diritto negoziale della crisi d’impresa, assume la funzione dell’operazione finanziaria e/o creditizia rivolta espressamente a consentire la gestione della situazione di crisi/insolvenza, in vista del suo superamento.
La causa del contratto, in tal senso, lo rende “protetto” dalle conseguenze nefaste dell’azione revocatoria, ma altresì dai rischi dell’azione di danni cagionati ai creditori dall’esercizio dell’attività creditizia e finanziaria, da considerarsi “abusiva” rispetto alle circostanze del caso (che avrebbero dovuto indurre un finanziatore responsabile, evidentemente, a non concedere nulla al soggetto in crisi o, peggio ancora, insolvente).
L’evoluzione è davvero netta, così come appare incontrovertibile il mutamento di prospettiva da cui si pone il legislatore della riforma: l’imprenditore in crisi, anche se già in stato d’insolvenza, può dunque essere aiutato finanziariamente senza che tale attività si colori, quasi per principio (stante la crisi o l’insolvenza), di illiceità rispetto ai diritti dei creditori concorrenti. Peraltro, fatto il primo passo, il legislatore va ancora oltre, nell’opera di progressivo affinamento della nuova disciplina delle procedure concorsuali, anche con riferimento alla ‘riabilitazione’, per così dire, del finanziamento all’imprenditore in crisi.
Nel corso della riforma, infatti, si arricchisce il novero delle prededuzioni, con la qualificazione di credito “prededucibile” (anche) a favore del finanziatore dell’imprenditore in crisi (artt. 182-quater e -quinquies l.fall., ora art. 101 del nuovo codice). Si nota una sorta di continuità della linea, se non altro in punto di politica del diritto, che conduce dapprima all’esenzione dal rischio della revocatoria, poi al conseguimento della prededucibilità del credito, in ragione della “funzionalità” – alla stregua delle categorie civilistiche tradizionali, s’è già detto, si tratta della rilevanza causale della finalità specifica – del finanziamento nel contesto della crisi o dell’insolvenza.
La vecchia categoria della causa del contratto torna utile, così, alla razionalizzazione a posteriori dell’operato del legislatore, in sintonia con l’iter concettuale seguito dalla giurisprudenza di legittimità, quando si è trovata a dover fissare, a sezioni unite, la regola operazionale in tema di controllo giurisdizionale sulla “fattibilità” (in senso giuridico o economico) del concordato preventivo, ai fini della decisione sull’ammissibilità della proposta[29].
Sul piano della ricostruzione sistematica, si riesce così senza particolari difficoltà a razionalizzare il nuovo contratto avente come “causa” la finalità del superamento della crisi, sicché – ferme le norme di diritto comune che, in materia di obbligazioni e contratti, consentono al creditore e/o contraente (singolo, ossia atomisticamente considerato, nell’isolamento del suo rapporto dal contesto economico-aziendale del debitore) di operare in autotutela in occasione dell’insolvenza (ovvero del pericolo d’insolvenza) – va considerata una significativa acquisizione ed evoluzione la possibilità di negoziare sulle modalità di fornire il supporto finanziario all’imprenditore in crisi, in funzione del superamento della stessa[30].
Il percorso che si è tentato di ricostruire, nelle sue tappe più rilevanti sul piano della storia delle idee, si completa in un certo senso con il codice, che recepisce quelle fattispecie che possono essere indicate come figure ibride, per così dire, il cui significato, sul piano sistematico, va oltre la previsione normativa in se stessa considerata, in quanto le stesse possono dirsi espressive della propensione del legislatore a estendere gli effetti di una negoziazione (esitata, alla fine, in un accordo) parziale a una parte più ampia del ceto creditorio secondo criteri di omogeneità degli interessi economici, ma indipendentemente dall’adesione dello specifico creditore.
È il caso, ad esempio, della fattispecie disciplinata dall’art. 182-septies l.fall. (art. 61 del nuovo codice), per il caso in cui la metà dell’indebitamento sia nei confronti di banche o intermediari finanziari e il debitore decida di considerare tali creditori (raggruppandoli) per classi omogenee, al fine di avvalersi di un consenso “a maggioranza” (ossia il settantacinque per cento dei crediti), al fine di imporre l’accordo anche ai creditori non aderenti (e dunque “in minoranza”) appartenenti alla stessa classe, in deroga ai principi generali del diritto espressi, nella specie, in particolare dagli artt. 1372 e 1411 cc.
Tale tendenza trova oggi nel codice una qualche “sistemazione” nel capo I del titolo IV, intitolato agli «accordi», quali «strumenti negoziali stragiudiziali» puri, per così dire (art. 56, dedicato agli «accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento»), ovvero «soggetti ad omologazione» (artt. 57-64). Il titolo IV è destinato, invece, a contenere e disciplinare i diversi «strumenti di regolazione della crisi», comprendendo tanto le «procedure di composizione delle crisi da sovraindebitamento» (capo II), quanto il concordato preventivo (capo III).
Al di là della previsione dei contratti che (insieme, eventualmente, ad “atti unilaterali”) sono «posti in essere in esecuzione del piano», per i quali si conferma l’esenzione dalla revocatoria (anche quella ordinaria, si specifica per prevenire un non semplice contenzioso sui principi) ex art. 166, comma 3, lett. d ed e del codice, appare in linea con la tendenza espansiva dell’autonomia l’ammissibilità di accordi di ristrutturazione «soggetti ad omologazione» anche per l’imprenditore “non commerciale” che versi «in stato di crisi o di insolvenza» (art. 57 del codice), ove la logica della relatività degli effetti modificativi del contratto (recante la ristrutturazione del debito) è riaffermata a tutela del creditore estraneo (cfr. i commi 3 e 4 dello stesso art. 57).
Così come costituisce un’opportuna previsione, ancora una volta espressiva tanto dell’inscindibilità del rapporto tra il piano (quale strumento unitario della programmazione economico-aziendale) e gli accordi con i singoli creditori, quanto del favor mostrato dal legislatore per gli «strumenti negoziali stragiudiziali» nella «regolazione della crisi», quella relativa all’art. 58 del codice – «rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano»[31]. Il legislatore prende atto della verosimile difficoltà di attuare il piano ed eseguire i contratti così come omologati, specie nei casi, tutt’altro che infrequenti nella prassi, in cui il tempo dell’esecuzione si protragga per alcuni anni, e prevede il rinnovo dell’attestazione nelle ipotesi di «modifiche sostanziali» – la formula è inevitabilmente generale e, dunque, da riempire di significato in concreto, ossia nelle diverse e atipiche situazioni che si verificheranno –, valorizzando in tal modo il ruolo dell’attestatore, nella prospettiva dinamica dell’attuazione in concreto e nel tempo del programma (economico-aziendale e contrattuale). Si distinguono le due situazioni in cui possono darsi le modifiche sostanziali, prima o dopo l’omologazione, al fine di disciplinare le inevitabili forme di tutela dei creditori (aderenti, s’intende), i quali dovranno rinnovare il consenso (nel primo caso) o potranno opporsi al piano modificato (nel secondo caso).
Nella logica del contratto “protetto” o, se si preferisce, “agevolato” che caratterizza gli atti esecutivi del piano attestato appena considerati, figurano poi gli «accordi di ristrutturazione agevolati», di cui all’art. 60 del codice (con la riduzione alla metà, ossia il trenta per cento, della percentuali dei creditori aderenti, di cui all’art. 57, se non si propone la moratoria dei creditori estranei e non si richiedono misure protettive temporanee). Nondimeno, andrebbero anche ricordati gli «accordi con i creditori» raggiunti durante le procedure di allerta (art. 19 del codice)[32].
La grande novità, anche e soprattutto in termini di anomalia e deroga rispetto al sistema e ai principi, è tuttavia negli «accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa», di cui all’art. 61 del codice, che riprende in termini generali la tendenza dell’ordinamento, in questo senso costituendo innegabile conferma della filosofia di fondo della riforma, all’apertura nei confronti delle (diverse e innovative) manifestazioni dell’autonomia privata, intese alla gestione della situazione critica sul piano economico e finanziario, grazie alle potenzialità riconosciute al contratto di diritto privato, nel momento in cui quest’ultimo diventa lo strumento (se si preferisce, uno degli strumenti giuridici, ma con un ruolo di particolare rilievo) per disciplinare l’attività d’impresa in quella delicatissima fase rappresentata dalla crisi ovvero dall’insolvenza.
[1] In argomento, con riferimento ai primi passi della riforma, cfr., tra le voci più autorevoli: A. Nigro, «Privatizzazione» delle procedure concorsuali e ruolo delle banche, in F. Guerrera (a cura di), Le soluzioni concordate delle crisi d’impresa, Giappichelli, Torino, 2007, pp. 1 ss.; L. Rovelli, Un diritto per l’economia. Bilancio di una stagione di riforme. Una scelta di degiurisdizionalizzazione?, in F. Di Marzio (a cura di), La crisi d’impresa. Questioni controverse del nuovo diritto fallimentare, Cedam, Padova, 2010, pp. 38 ss.
[2] Si veda diffusamente, da ultimo, F. Di Marzio, Fallimento. Storia di un’idea, Giuffrè, Milano, 2018; tra gli studi di storia del diritto, si può rinviare a: A. Lattes, Il diritto commerciale nella legislazione statutaria delle città italiane, Hoepli, Torino, 1884, pp. 318 ss.; U Santarelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, Cedam, 1964, pp. 118 ss.; cfr. altresì R. Volante, Autonomia contrattuale e fallimento tra fondazioni medievali, diritto comune e codici, in F. Di Marzio e F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale e crisi di impresa, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 125 ss.; F. Mazzarella, Fallimento, autonomia contrattuale, impresa: itinerarii e figure fra Otto e Novecento, in F. Di Marzio e F. Macario (a cura di), Autonomia negoziale, op. cit., pp. 184 ss.
[3] Conviene rinviare alla ricostruzione proposta da L. Moscati, Aspetti e problemi del fallimento tra Antico Regime e codificazione commerciale, in A. Legnani Annichini e N. Sarti (a cura di), La giurisdizione fallimentare. Modelli dottrinali e prassi locali tra basso medioevo ed età moderna, Bononia University Press, Bologna, 2011, pp. 81 ss.
[4] Ricorda A. Rocco, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1902, p. 36, che il concordato nasceva «dalla consuetudine e trovò riconoscimento legislativo negli statuti delle città italiane».
[5] Tra le voci più autorevoli, G. Bonelli, Del fallimento. Commento al Codice di Commercio, vol I, Vallardi, Milano, 1926, pp. 3 ss.; A. Rocco, Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1902, p. 221, il quale sottolineava che «il concordato amichevole stragiudiziale ha il suo fondamento economico e pratico nel desiderio, naturale in ogni ordine di persone, ma vivissimo nei commercianti, di regolare i proprii affari in via privata ed amichevole»; L. Bolaffio, Sul cosiddetto concordato stragiudiziale, in Giur. it., n. 1/1932, I, col. 369 ss.; Id., Il componimento amichevole stragiudiziale non è concordato, ivi., n. 1/1934, I, col. 490 ss.; cfr. altresì, A. Nati, Del concordato con speciale riguardo al concordato stragiudiziale, Società editrice del Foro Italiano, Roma, 1936, pp. 211 ss.
[6] Si veda ancora, per un approfondito studio del tema, certamente decisivo nella ricostruzione sistematica della materia, F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, Giuffrè, Milano, 2019, spec. pp. 62 ss.
[7] S tratta di una nota vicenda, tipica della cultura giuridica degli anni settanta, allorché si discorreva di “uso alternativo del diritto”, anche con riferimento all’ “uso alternativo delle procedure concorsuali”. Gli atti del relativo convegno sono stati pubblicati in Giur. comm., 1979, I, pp. 222-329, mentre per una sintesi si veda G. Caselli, La crisi aziendale, in F. Galgano (diretto da), L’azienda e il mercato – Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. III, Cedam, Padova, 1979, p. 634. L’idea di fondo e la proposta innovativa erano nel senso di un’applicazione giurisprudenziale delle norme capace di dar voce e tutelare anche interessi ulteriori e diversi rispetto all’interesse dei creditori (considerando che il legislatore aveva elaborato una disciplina “speciale” della crisi e/o dell’insolvenza delle grandi imprese, con la veste della procedura concorsuale amministrativa, che si volle definire “amministrazione straordinaria”), all’interno di un dibattito che vide fronteggiarsi gli “innovatori” ovvero i fautori dell’uso alternativo, a quanti, invece, ritenevano la stessa nuova tendenza un’inammissibile distorsione del sistema. Si veda, ad esempio, F. D’Alessandro, Crisi dell’impresa e tutela dei lavoratori, in Id., Scritti di Floriano d’Alessandro, Giuffrè, Milano, 1997, pp. 736 ss.
[8] Per una ricostruzione della vicenda relativa allo studio dei “contratti d’impresa”, ci si permette di rinviare al lavoro di chi scrive, Dai “contratti delle imprese” al “terzo contratto”: nuove discipline e rielaborazione delle categorie, in Aa. Vv., Un maestro del diritto commerciale: Arturo Dalmartello a cento anni dalla nascita (atti del convegno di studi, Università Cattolica del Sacro Cuore, facoltà di giurisprudenza, Milano, 7 maggio 2009), in Jus, n. 2/2009, p. 215.
[9] Si veda, in proposito, G. Gitti e G. Villa (a cura di), Il terzo contratto. L’abuso di potere contrattuale nei rapporti tra imprese, Bologna, Il Mulino, Bologna, 2008.
[10] Ci si permette di rinviare alla sintesi svolta, di recente, nella prospettiva di studio delle clausole generali nel diritto dei contratti: F. Macario, Genesi, evoluzione e consolidamento di una nuova clausola generale: il divieto di abuso di dipendenza economica, in Giust. civ., n. 3/2016, pp. 509-546.
[11] Per l’elaborazione della nota teoria economica, secondo la quale l’attività (e la stessa nozione – ovvero, per riprendere l’espressione dell’Autore, la “natura”) di “impresa” non è, in punto di fatto, scindibile dalla conclusione di contratti a lungo termine, è d’obbligo il rinvio allo studioso insignito del premio Nobel R.H. Coase, La natura dell’impresa, in Id., Impresa, mercato e diritto, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 79 ss. (edizione originale: The Firm, the Market and the Law, University of Chicago Press, Chicago, 1990).
[12] Si veda, per lo sviluppo di questa prospettazione, F. Di Marzio, Obbligazione, op. cit., pp. 143 ss.
[13] Inutile aggiungere che il quadro così sommariamente delineato potrebbe arricchirsi ulteriormente se si volesse ampliare lo sguardo abbracciando anche l’attività d’impresa svolta, direttamente o indirettamente, dal soggetto pubblico e finalizzata alla realizzazione di interessi generali, pur sempre mediata dallo strumento del contratto (per la fornitura di beni, ma più spesso di servizi all’utenza), ancorché declinato secondo le peculiarità soggettive e funzionali di natura pubblicistica.
[14] L’esigenza di sottolineare tale forma di relativizzazione del ruolo giocato dalla categoria del contratto deriva anche dall’osservazione del modo in cui la stessa materia contrattuale è stata trattata dalla civilistica del secolo scorso, attribuendosi un rilievo quasi assoluto alla dichiarazione di volontà e, dunque, alla vicenda giuridica genetica del vincolo, con le conseguenze incidenti sulla disciplina della validità e dell’efficacia, mentre assai meno si è riflettuto sulle problematiche dell’attuazione dei diritti e degli obblighi in fase esecutiva, ossia sulla dinamica dei rapporti tra i contraenti che si svolgono dopo la conclusione del contratto. La costruzione della disciplina generale del contratto nelle codificazioni civili ottocentesche rende esplicita questa opzione, in gran parte confermata anche dal codice italiano del 1942 che, nonostante la cd. “commercializzazione” del diritto privato (riscontrabile, ovviamente, in massimo grado nella disciplina dei contratti, contaminata in molti ambiti dalla logica del commercio e dell’attività d’impresa, soprattutto ove si consideri la materia dei “singoli contratti”), scandisce la normativa generale di cui agli artt. 1321-1469 cc all’insegna della risalente e tradizionale matrice del contratto di scambio istantaneo, idealmente riconducibile al modello della vendita “civile”. Un contratto, quest’ultimo, che non si caratterizza certo per la disciplina dell’esecuzione e dei rapporti tra le parti in tale fase (inesorabilmente ancillare rispetto all’obiettivo primario, rappresentato dall’effetto traslativo), mentre – in modo del tutto comprensibile, data la logica civilistica che prevale ampiamente in quella sorta di “Allgemeiner Teil” del diritto dei contratti nel nostro codice (artt. 1321-1469 cc) – per rinvenire i tratti essenziali di una normativa sull’esecuzione è necessario rivolgersi ai singoli tipi codificati che, per comune accezione e risalente tradizione scientifica e didattica, rientrerebbero nella categoria dei “contratti commerciali” (ad esempio: appalto, trasporto, agenzia, assicurazione etc.). Ragionare su questi ultimi contratti significa, tra l’altro, rendersi immediatamente conto della netta prevalenza, nella disciplina tipizzata, delle regole sull’esecuzione rispetto a quelle sulla formazione del consenso e sui vizi del volere; privilegiare, nel tentativo di una ricostruzione sistematica, l’esame della dimensione contrattuale relativa all’esecuzione, consente di cogliere più facilmente il nesso tra contratto e attività d’impresa, di cui il contratto, s’è detto, è uno degli strumenti.
Porsi nell’ottica dell’esecuzione, dove il contratto rileva non tanto come impegno e, dunque, atto di volontà – la logica prevalente, quasi assorbente, seguita per decenni dalla dottrina civilistica nell’esame dei temi relativi al contratto e all’autonomia privata in generale –, ma come programma o regolamento da realizzare, appare così uno dei modi più proficui per mettere a fuoco le connessioni tra impresa e contratto. L’attività d’impresa sembra, in questo senso, espressione anche della dimensione esecutiva del contratto. L’esempio più lampante è costituito dai contrati di durata, che vedono il realizzarsi dell’impresa proprio attraverso il contratto o, più precisamente, lo svolgimento del rapporto che dall’accordo ha origine.
[15] Cfr. F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti fra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Riv. dir. civ., 2005, I, p. 663.
[16] La disciplina della concorrenza e dell’antitrust, ad esempio, è uno dei più rilevanti angoli di osservazione dell’attività d’impresa, che incrocia anche la figura del contratto (intese, concentrazioni, abuso contrattuale), ma ancora una volta non vi si identifica, perché gran parte del territorio rimane occupato dalle regole della responsabilità civile. La logica antitrust non è contrattuale e anzi è tendenzialmente “anti-contrattuale”, nel senso della repressione degli accordi lesivi della concorrenza. Sia detto per inciso, e in qualche modo per completezza del discorso, che anche la materia dell’antitrust non riesce a esaurire il quadro, trattandosi ancora una volta di un angolo di visuale del fenomeno più ampio dell’impresa.
[17] La riflessione è stata sviluppata più ampiamente in F. Macario, Insolvenza, crisi d’impresa e autonomia contrattuale. Appunti per una ricostruzione sistematica delle tutele, in Rivista delle società, n. 1/2008, p. 102.
[18] Per tutti, M. Fabiani, L’alfabeto della nuova revocatoria fallimentare, in Fallimento, 2005, p. 573; Id., L’inattualità dell’azione revocatoria fallimentare e i nuovi strumenti rimediali, in Foro it., 2009, I, p. 397.
[19] Cfr. F. Di Marzio, voce «Concessione abusiva di credito», in Enciclopedia del diritto. Annali, vol. VI, Giuffrè, Milano, 2013, p. 178 (in forma di efficace sintesi di numerosi studi precedenti, a partire da Id., Abuso nella concessione del credito, ESI, Napoli, 2005).
[20] Per comprendere l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, si vedano: Cass., sez. unite, 28 marzo 2006, n. 7030, in Foro it., 2006, I, 3417 (secondo cui l’azione di risarcimento del danno extracontrattuale in relazione alla fattispecie di concessione abusiva di credito, se riferita al pregiudizio sofferto dai creditori, non è un’azione di massa esperibile dal curatore, ma spetta a ciascun singolo creditore nei limiti in cui dimostri l’esistenza di un danno connesso alla prosecuzione dell’attività d’impresa); nonché, di recente: Cass., sez. I, 20 aprile 2017, n. 9983, in Dir. fallim., 2017, 978 (secondo cui il curatore è legittimato ad agire contro la banca per concessione abusiva di credito, ai sensi dell’art. 146 l.fall., in correlazione con l’art. 2393 cc, allorquando la banca sia convenuta quale terza responsabile del danno cagionato alla società fallita in solido con gli amministratori per via della prosecuzione dell’attività e dell’aggravamento del dissesto, quindi un danno che si sia verificato nella sfera della società, e non di singoli creditori.
[21] In argomento, non si può non ricordare l’intervento delle sezioni unite della Cassazione, in assenza di un vero e proprio contrasto di giurisprudenza, al fine di fare il punto sulla questione e, così, indirizzare i giudici di merito con l’autorevolezza insita nella provenienza del decisum, al pari dell’articolata ratio decidendi, stabilendo che: «il sindacato del giudice in ordine al requisito di fattibilità giuridica del concordato deve essere esercitato sotto il duplice aspetto del controllo di legalità sui singoli atti in cui si articola la procedura, e della verifica della loro rispondenza alla causa del procedimento di concordato preventivo, la quale si sostanzia nella regolazione e nel superamento dello stato di crisi dell’imprenditore mediante il soddisfacimento delle ragioni dei creditori» e, ancora, che «nella procedura di concordato preventivo non rientra nell’ambito del controllo sul giudizio di fattibilità esercitabile dal giudice un sindacato sull’aspetto pratico-economico della proposta e, quindi, sulla correttezza della indicazione della misura del soddisfacimento percentuale offerta dal debitore ai creditori». Quelle appena riportate sono le massime cui viene presentata Cass., sez. unite, 23 gennaio 2013, n. 1521, in Foro it., 2013, I, 1534, ove si leggono i commenti particolarmente interessanti – perché muovono da diversi punti di vista della decisione e colgono spunti di varia natura – di M. Fabiani, Concordato preventivo e giudizio di fattibilità: le sezioni unite un po’ oltre la metà del guado, nonché di E. Scoditti, Causa e processo nel concordato preventivo: le sezioni unite alla prova della fattibilità. In argomento, si segnalano altresì le notazioni di: I. Pagni, Il controllo di fattibilità del piano di concordato dopo la sentenza 23 gennaio 2013 n. 1521: la prospettiva «funzionale» aperta dal richiamo alla «causa concreta», in Fallimento, 2013, p. 286; P.F. Censoni, I limiti del controllo giudiziale sulla «fattibilità» del concordato preventivo, in Giur. comm., 2013, II, p. 343.
[22] Cfr. F. Di Marzio, Il diritto negoziale della crisi d’impresa, Giuffré, Milano, 2011, spec. pp. 76 ss. e 166 ss.
[23] Un riconoscimento confermato dalla già accennata riduzione dei poteri di sindacato del tribunale in sede di omologazione, ove non potrà essere vanificata, con una decisione negativa sulla convenienza del concordato, l’approvazione della proposta da parte dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti.
[24] I creditori potranno pertanto verificare il piano, anche alla luce della relazione fornita dal commissario giudiziale, e acquisire facilmente (e senza impegno di risorse significative) elementi essenziali per la decisione sull’eventuale adesione alla proposta.
[25] Va considerato che il contratto sulla crisi presuppone la tendenziale unanimità dei consensi, oppure l’attenzione dei creditori aderenti all’adempimento esatto da parte del debitore nei confronti di tutti i creditori estranei all’accordo (i quali potrebbero altrimenti frustrarlo nelle finalità, ponendo in essere azioni cautelari o esecutive, oppure chiedendo il fallimento del debitore). Qualora l’accordo sia parziale, ma coinvolga comunque una parte rilevante dell’esposizione, sarà preferibile inserirlo in una “armatura” procedurale di sostegno: a seconda dei casi, nella struttura a maglie larghe disegnata nell’art. 182-bis l.fall. (nel nuovo codice, art. 57) o in quella molto più stringente del concordato preventivo. La scelta tra le varie soluzioni possibili può costituire anch’essa una variante frutto del negoziato e dell’accordo tra debitore e parte dei suoi creditori. Anzi, una gestione professionalmente avvertita e consapevole della crisi non mancherà di sottoporre la questione ai creditori, cercando l’accordo anche su questo fondamentale aspetto.
[26] In particolare, si è sostenuto che gli accordi di ristrutturazione avrebbero rappresentato una forma di concordato preventivo semplificato, cui andrebbe comunque applicata la disciplina dettata per il concordato preventivo: M. Ferro, Art. 182 bis, la nuova ristrutturazione dei debiti, in Il nuovo diritto delle società, 2005, p. 56.
[27] Tra le voci più autorevoli: F. Guerrera, Le soluzioni concordatarie, in Aa. Vv., Diritto fallimentare. Manuale breve, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 131 ss.; M. Fabiani, Il regolare pagamento dei creditori estranei negli accordi di cui all’art. 182 bis, in Foro it., 2006, I, p. 2564; G. Presti, Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Banca, borsa e titoli di credito, 2006, p. 23; G. Giannelli, Concordato preventivo, accordi di ristrutturazione dei debiti, piani di risanamento dell’impresa nella riforma delle procedure concorsuali. Prime riflessioni, in Dir. fall., 2005, I, p. 1170. La prima giurisprudenza di merito si era in qualche modo divisa: in senso favorevole alla natura autonoma degli accordi di ristrutturazione da intendersi quali contratti di diritto privato, cfr. Trib. Milano, decreto 23 gennaio 2007, in Fallimento, 2007, 701; Trib. Brescia, decreto 22 febbraio 2006; Trib. Bari, decreto 21 novembre 2005; in senso contrario, Trib. Milano, decreto 21 dicembre 2005, ma di recente la Cassazione ha esplicitamente riconosciuto la natura di procedura concorsuale (anche) degli accordi di ristrutturazione omologati: Cass., 18 gennaio 2018, n. 1182, nonché Cass., 12 aprile 2018, n. 9087.
[28] Non senza sottolineare come questa maggioranza non costituisca presupposto per l’efficacia del contratto di ristrutturazione, mentre sarebbe un presupposto per conseguire l’omologazione giudiziale e gli effetti protettivi a essa conseguenti, quali l’esenzione dalla revocatoria fallimentare ex art. 67, comma 3, lett. e, di atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo. In ordine al controllo giudiziale, si riteneva – evidentemente, alla luce del dettato normativo e della filosofia della riforma – che questo non potesse investire il merito, ossia la convenienza dell’atto, ma dovesse limitarsi al controllo di legalità formale e sostanziale (sulla ricorrenza dei presupposti procedurali per l’omologa, come la maggioranza del 60 per cento dei creditori, nonché l’attuabilità dell’accordo, inteso a garantire il regolare pagamento dei creditori estranei). In tal senso, F. Guerrera, Le soluzioni concordate., op. cit., p. 42, secondo il quale il controllo giudiziale degli accordi di ristrutturazione di debiti, anche in presenza di opposizioni, «può riguardare profili di legittimità, sia formale, sia sostanziale dell’accordo (…); senza tuttavia travalicare in un controllo “di merito”».
[29] Le disposizioni normative “di favore” nei confronti del finanziatore valgono così, per un verso, a offrire una sorta di alternativa, concreta ed efficiente sul piano contrattuale, alle forme di tutela (o autotutela) consentite dal diritto comune delle obbligazioni e dei contratti, in presenza dello squilibrio intervenuto nel rapporto, come vulnus all’aspettativa di adempimento che ciascun contraente dovrebbe poter avere nei confronti dell’altro; per altro verso, esse valgono a proteggere il finanziatore stesso dal rischio del giudizio di disvalore che può darsi, a posteriori, al credito erogato all’imprenditore insolvente, con una sorta di trattamento “premiale”, aggiuntivo per così dire, costituito dalla prededuzione, derogando così esplicitamente alla regola generale (e tradizionale, nel sistema della responsabilità patrimoniale) della par condicio creditorum.
[30] Può comprendersi, nella logica della riforma, l’ampliamento del novero delle ipotesi di esenzione dalla revocatoria con riferimento ai finanziamenti, purché si presentino funzionali al superamento della crisi, nella valutazione che delle relative operazioni può darsi nel contesto in cui le stesse sono avvenute (ossia con la non sempre semplice valutazione ex ante). Diversamente, ossia senza il tentativo di dare coerenza sistematica al quadro d’insieme, rimarrebbe di difficile giustificazione la concessione della prededuzione, in quanto essa si risolve in un trattamento premiale, s’è detto, che opera esclusivamente a vantaggio del finanziatore – nella prassi, la banca disposta a concedere credito all’imprenditore insolvente –, senza però che il detto trattamento preferenziale dipenda dalla natura del credito (come avviene, ad esempio, nella disciplina dei privilegi, ovvero nella figura giuridica che ha sempre costituito il modello della “preferenza” fissata dal legislatore arbitrariamente, anche se pur sempre in funzione di esigenze economico-sociali ritenute meritevoli di tutela).
Non è certamente un caso, a questo punto, che la recente «Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio» del 22 novembre 2016, in relazione alle «misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza e liberazione dai debiti» al capo 4, dedicato alla «tutela dei nuovi finanziamenti, dei finanziamenti temporanei e delle altre operazioni connesse alla ristrutturazione», dispone che «siano adeguatamente incoraggiati e tutelati i nuovi finanziamenti e i finanziamenti temporanei. In particolare, detti finanziamenti non possono essere dichiarati nulli, annullabili o inopponibili in quanto atti pregiudizievoli per la massa dei creditori nell’ambito di successive procedure di insolvenza, a meno che le operazioni siano state effettuate in modo fraudolento o in malafede» (comma 1). L’incoraggiamento dei nuovi finanziamenti, seguendo l’espressione della proposta di direttiva, comporta che gli Stati membri possano accordare «il diritto di ottenere il pagamento in via prioritaria, nell’ambito di successive procedure di liquidazione, rispetto agli altri creditori che altrimenti avrebbero crediti monetari o su attività di grado superiore o uguale» (comma 2), mentre i soggetti che concedono «nuovi finanziamenti o finanziamenti temporanei nel processo di ristrutturazione sono esonerati dalla responsabilità civile, amministrativa e penale nell’ambito della successiva insolvenza del debitore, a meno che tali finanziamenti siano stati concessi in modo fraudolento o in malafede» (comma 3). La conferma della precisa scelta di politica del diritto in ambito europeo viene dalla disposizione immediatamente successiva (art. 17), opportuna norma “di chiusura”, come si usa dire, che estende la tutela alle «altre operazioni connesse alla ristrutturazione», enunciando – esemplificativamente, sembrerebbe – le operazioni più ricorrenti e specificando che, per le nuove operazioni creditizie e finanziarie, gli Stati membri possano subordinare il beneficio alla loro preventiva “approvazione”: (a) da parte di un professionista nel campo della ristrutturazione – nel nostro gergo, si tratterebbe dell’attestazione – ovvero, ma anche in aggiunta (deve ritenersi), (b) da parte dell’autorità giudiziaria o amministrativa (da noi, si tratterebbe dell’omologazione).
[31] Ci si permette di rinviare, per un’analisi più approfondita delle problematiche che possono sorgere nell’esecuzione del piano e/o degli accordi con i creditori, a F. Macario, Il monitoraggio del piano: esecuzione e rinegoziazione, in Fallimento, 2014, p. 993.
[32] L’espressione contratto “protetto” o “agevolato” si ritrova nello studio, già ricordato, di F. Di Marzio, Obbligazione, op. cit., pp. 148 ss., ove la tematica è ampiamente esaminata.