Responsabilità patrimoniale e procedure concorsuali nella “società del debito”: oltre la tutela (esclusiva) del creditore
1. Notazioni iniziali
a) responsabilità patrimoniale e rapporto obbligatorio
La “responsabilità patrimoniale”[1] – secondo la concezione tradizionale – è un mezzo di tutela del diritto di credito e, per così dire, l’estremo presidio offerto al creditore quando il debitore inadempiente non abbia eseguito neanche l’obbligazione risarcitoria in cui si risolve la sua “responsabilità personale” ex art. 1218 cc (e quando – per altro verso – non si versi in una delle ipotesi in cui è ammessa la cd. esecuzione in forma specifica). Essa dà contenuto a quella “garanzia” (generica) che il creditore ha – appunto – sul patrimonio del proprio debitore, risolvendosi nella soggezione dei beni che costituiscono tale patrimonio (anche di quelli che vi entreranno a far parte in futuro) all’azione esecutiva del creditore[2], possibile sino a quando non sia stato interamente adempiuto l’obbligo risarcitorio che (come detto) consegue all’inadempimento dell’obbligazione.
Non importa, in questa sede, analizzare in maniera più dettagliata il contenuto del “rapporto” di responsabilità patrimoniale, né occuparsi delle varie teorie che sono state formulate al riguardo. Val la pena, forse, solo di sottolineare come la prospettazione del “lato attivo” di tale rapporto – lato attivo rappresentato dal potere del creditore di sottoporre a esecuzione forzata i beni (costituenti il patrimonio) del debitore – non dovrebbe indurre a confinare il fenomeno della responsabilità patrimoniale nell’ambito del diritto processuale, dovendosene riconoscere la natura “sostanziale”, non diversamente da quanto si direbbe di qualsiasi “diritto potestativo”, quale sembrerebbe potersi configurare il diritto del creditore di procedere esecutivamente sui beni del proprio debitore inadempiente – ammesso che, a tale “diritto”, si intenda attribuire (ma pur si tratta di un punto controverso) una portata “sostanziale” e autonoma rispetto al rapporto di credito/debito[3].
b) la natura di “ordine pubblico” del principio che sancisce la responsabilità patrimoniale del debitore
Più importante ancora, ai fini del discorso che dovrà essere qui condotto, è accennare in limine a un altro dato che appartiene al tradizionale modo di concepire la responsabilità patrimoniale, ossia alla connotazione di tale principio come appartenente all’ordine pubblico, sul presupposto che la sua funzione sia quella di garantire la giuridicità del vincolo obbligatorio e, in tal modo, di soddisfare un’esigenza di tutela del credito e (più in generale) dell’economia[4].
È noto come da questa (generica) connotazione si sia, per lungo tempo, fatta discendere l’inammissibilità di deroghe convenzionali alla “responsabilità patrimoniale”[5]: inammissibilità che, tuttavia, la dottrina più recente tende (variamente) a mettere in discussione, ridimensionando la portata di ordine pubblico del principio della responsabilità patrimoniale, e individuando comunque spazi sempre più ampi in cui l’autonomia privata può essere ammessa a operare anche in questa materia[6].
Non solo si sono moltiplicate, negli ultimi tempi, le ipotesi di “patrimoni separati” – moltiplicazione che, pur non mettendo (formalmente) in discussione il principio di “tipicità” (e, quindi, la necessaria autorizzazione legale a dar vita a forme negoziali di separazione patrimoniale), ha finito comunque per far apparire sempre più eroso il principio di unicità e universalità del patrimonio[7] –, ma è stato altresì “ricalibrato” (e circoscritto) anche il principio del monopolio pubblico della tutela esecutiva (principio sovente invocato, per esempio, quale fondamento del divieto delle pattuizioni “commissorie”), aprendo la strada anche in questo caso a sempre più ampie esplicazioni dell’autonomia privata nel campo della (auto-) tutela esecutiva (e, questa volta, in funzione “ampliativa” della tutela dei creditori, o almeno di alcuni di essi)[8].
Vedremo, nei paragrafi seguenti, come il processo volto a ridimensionare la portata “di ordine pubblico” del principio della responsabilità patrimoniale (per lo meno, nel modo tradizionale di intenderlo) abbia trovato, negli ultimi anni, significative espressioni anche nel campo delle procedure concorsuali.
2. Responsabilità patrimoniale e procedure concorsuali: una premessa. La previsione della cd. esdebitazione dell’imprenditore soggetto alle tradizionali procedure concorsuali
Le procedure concorsuali – di per sé – non sembrerebbero destinate a incidere necessariamente sulla responsabilità patrimoniale del debitore (divenuto “insolvente”). Esse incidono – certamente – sui modi del soddisfacimento delle ragioni creditorie (si pensi, ad esempio, all’effetto della cd. “decadenza del debitore dal beneficio del termine”: effetto che l’art. 1186 cc enuncia con riferimento al singolo rapporto obbligatorio, e che, nel caso di fallimento, si verifica comunque[9] per tutti i rapporti obbligatori di cui è parte il debitore insolvente), soprattutto per la ragione che esse sostituiscono a una prospettiva di esecuzione individuale promuovibile da ciascun creditore sui beni del debitore un meccanismo di esecuzione collettiva, nel quale consiste essenzialmente la procedura fallimentare (o, per usare la terminologia del nuovo codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, la procedura di «liquidazione giudiziale» del patrimonio del debitore).
Ma, a parte questa importante “novità” – che “trasforma” le situazioni creditorie, di cui, sino a quel momento, il singolo titolare avrebbe potuto pretendere il soddisfacimento (coattivo) integrale, in situazioni assoggettate alla regola del “concorso”, in ossequio al principio della par condicio creditorum –, per il resto la dichiarazione di fallimento non comporta di per sé un’incidenza sulla responsabilità patrimoniale del debitore (fallito)[10]. Almeno secondo la prospettiva tradizionale, infatti, con la chiusura del fallimento cessano gli effetti sul patrimonio del fallito, e in particolare – come recitava il secondo comma dell’art. 120 della legge fallimentare del 1942 – i creditori «riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale ed interessi».
Dunque, secondo la norma appena citata, la “parentesi” della procedura fallimentare – con la sottoposizione del patrimonio attuale del debitore alle regole dell’esecuzione collettiva – non fa(ceva) venir meno il principio secondo cui il debitore risponde dei propri debiti con tutti i suoi beni, anche futuri. Detto altrimenti, e in sintesi: la sottoposizione a fallimento non modifica(va), nella sua essenza, il principio della responsabilità patrimoniale del debitore. Solo gli effetti personali della dichiarazione di fallimento erano suscettibili di venir meno attraverso la cd. sentenza di riabilitazione, per ottenere la quale – peraltro – uno dei presupposti era quello che il fallito avesse pagato interamente tutti i crediti ammessi nel fallimento, compresi gli interessi e le spese (art. 143, n. 1, l. fallimentare del 1942)[11].
Com’ è noto, la riforma della legge fallimentare realizzata con il d.lgs 9 gennaio 2006, n. 5 ha introdotto anche nel nostro ordinamento l’istituto dell’“esdebitazione”, conosciuto da tempo in altri ordinamenti[12]. In particolare, il nuovo art. 142 l.fall. – quale risultante a seguito della suddetta riforma – ha disposto che il fallito persona fisica[13] è ammesso, ricorrendo determinate condizioni che ne attestino la “meritevolezza”[14], al «beneficio della liberazione dei debiti residui nei confronti dei creditori concorsuali». L’ultimo comma dell’art. 142 fa salvi, comunque, «i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso»[15]: disposizione, questa, che conferma (come diremo meglio fra poco) che ci si trova di fronte proprio a una vicenda che concerne direttamente (ed esclusivamente) il “rapporto di responsabilità patrimoniale”, e non anche la (sottostante) “obbligazione”, la quale ultima non si estingue neanche parzialmente (altrimenti sarebbe inspiegabile che sopravvivano rapporti accessori, come quelli di garanzia).
Dunque, la possibilità di “esdebitazione” prevista per il debitore fallito costituisce un istituto che incide direttamente (e profondamente) sulla responsabilità patrimoniale, sebbene l’insieme delle “condizioni” cui è subordinato il riconoscimento di tale beneficio non solo circoscriva notevolmente (almeno, in via di fatto) le ipotesi in cui in concreto l’imprenditore (commerciale) tornato in bonis potrà usufruire del beneficio, ma soprattutto “giustifichi” la concessione dello stesso (giustificazione che, come noto, è comunemente individuata nell’offrire all’imprenditore, “onesto ma sfortunato”[16], un’opportunità di cd. fresh start), evidenziandone il carattere in definitiva eccezionale.
Peraltro, va anche aggiunto che l’esdebitazione – che, con riguardo alla procedura fallimentare (o, per usare la terminologia del CCII, di «liquidazione giudiziale») può scaturire solo da un provvedimento giurisdizionale (all’esito dell’accertamento della sussistenza delle condizioni richieste per la concessione del beneficio) – costituisce effetto che consegue invece, naturaliter, ad altre procedure basate sull’accordo con i creditori (il riferimento, naturalmente, è soprattutto – anche se non solo – al concordato preventivo). Sotto questo profilo, è legittimo affermare che le procedure “concordatarie”, ancor prima dell’introduzione dell’esdebitazione del debitore dichiarato fallito, costituivano (e costituiscono) una vistosa deroga all’art. 2740, comma 2, cc, almeno per chi veda consacrato in questa norma il principio della sottrazione all’autonomia privata delle regole relative alla responsabilità patrimoniale del debitore[17].
3. Il nuovo istituto del “sovraindebitamento” e l’ampliamento dell’effetto esdebitativo anche al cd. “debitore civile”. Prime considerazioni
Se l’esdebitazione dell’imprenditore (commerciale) fallito costituisce una deroga significativa, ma comunque limitata (sotto il profilo dei soggetti coinvolti), al principio della responsabilità patrimoniale (quale racchiuso nel precetto secondo il quale il debitore risponde dei propri debiti con tutti i suoi beni, anche futuri), ben più ampia è la deroga che rispetto al medesimo principio è stata introdotta con la l. n. 3/2012, che ha disciplinato l’istituto del cd. “sovraindebitamento” del debitore civile (recte: del debitore “non fallibile”), estendendo il beneficio dell’esdebitazione anche ai debitori che sono esclusi dalle tradizionali procedure concorsuali (consumatori, professionisti, imprenditori agricoli, imprenditori commerciali “piccoli”)[18].
L’esdebitazione del debitore sovraindebitato allarga notevolmente – e, anzi, rende potenzialmente coestensiva all’intera categoria dei debitori – la deroga al principio secondo cui la responsabilità patrimoniale grava su tutti i beni, anche futuri, del debitore. Ci troviamo, dunque, di fronte a un intervento normativo che sembrerebbe essere idoneo a revocare in dubbio la natura di “principio (generale)” della previsione contenuta nel primo comma dell’art. 2740 cc, e addirittura a ribaltare quel rapporto tra “regola” ed “eccezione” su cui si fonda l’elevazione di una norma al rango di “principio (generale)”.
In questa direzione sembrano essersi orientati i primi interpreti (per la verità, non numerosi) di queste novità legislative, interpreti che – anzi – hanno addirittura intravisto nell’istituto dell’esdebitazione (del debitore “civile”) un dato capace di sovvertire (prima ancora che l’istituto della “responsabilità patrimoniale” del debitore) la stessa concezione tradizionale dell’obbligazione, facendo in sostanza della “incapacità patrimoniale” del debitore una nuova causa di estinzione (parziale) dell’obbligazione stessa, e così determinando un sensibile arretramento della tutela del credito nel nostro ordinamento.
Dico subito che questa “lettura” non mi sembra in alcun modo persuasiva, sotto molteplici punti di vista.
Anzitutto, non persuade l’idea che la normativa sull’esdebitazione del debitore “sovraindebitato” comporti un mutamento del concetto di obbligazione, attraverso l’introduzione di quell’inedita causa di estinzione dell’obbligazione che diventerebbe la or ora menzionata “incapacità patrimoniale” del debitore (che si porrebbe in netto contrasto con l’idea che solo una impossibilità “oggettiva” della prestazione può essere idonea a far venire meno il vincolo obbligatorio). Intanto, deve osservarsi che le tradizionali cause di estinzione dell’obbligazione (dalla poc’anzi richiamata “impossibilità sopravvenuta della prestazione”, alla remissione, alla confusione, alla compensazione, etc.) costituiscono ipotesi (astratte) suscettibili di trovare concreta applicazione con riferimento a qualsiasi obbligazione, e in qualunque momento questa sia sorta o debba essere adempiuta. Viceversa, la cd. “incapacità patrimoniale” (del debitore) determinerebbe – in ipotesi – l’estinzione (parziale) di un unico tipo di obbligazione, l’obbligazione pecuniaria[19], e – per di più – solo in un numero limitato di occasioni (almeno con riferimento a ciascun singolo debitore). L’art. 280 del CCII pone, infatti, tra le condizioni per poter ottenere l’esdebitazione la circostanza che il debitore non abbia già beneficiato dell’esdebitazione per due volte. Dal che si desume che – ove il debitore si trovasse nella situazione di aver già usufruito per due volte dell’esdebitazione – la sua “incapacità patrimoniale” non potrebbe avere alcuna incidenza (nel senso che non potrebbe determinarne la ipotizzata “estinzione”) sulle obbligazioni assunte successivamente. E già questa considerazione fa comprendere come abbia un fondamento assai fragile l’ipotesi che la normativa sul sovraindebitamento abbia introdotto una (nuova) generale causa di estinzione dell’obbligazione[20].
A voler approfondire questo profilo, potrebbe (e dovrebbe) poi osservarsi che il risultato di una regolamentazione come quella introdotta con la normativa sul sovraindebitamento si muove semmai in direzione (esattamente) opposta alla configurazione dell’incapacità patrimoniale del debitore come (supposta) causa generale di estinzione dell’obbligazione. Non c’è dubbio infatti che, mentre prima dell’introduzione di tale normativa potevano trovare spazio e (sia pur discutibile) legittimità concettuale e teorica (almeno in via astratta) orientamenti volti a costruire (per lo più sulla base della clausola generale di buona fede) un concetto di “inesigibilità”[21] del credito comprensivo anche della fattispecie di sopravvenuta, incolpevole incapacità patrimoniale del debitore[22] – e si sarebbe trattato, allora, di una causa di cd. “inesigibilità” suscettibile di essere invocata con riferimento al singolo rapporto obbligatorio e (soprattutto) sempre –, oggi questo non è più possibile. Ammesso pure, infatti, che si possa rinvenire negli evocati “principi” di “solidarietà sociale” (art. 2 Cost.) il fondamento/ratio dell’esdebitazione del debitore sovraindebitato, non v’è dubbio che la legge, regolando il fenomeno, ha inteso porre limiti ben precisi alla possibilità che il debitore possa sfuggire alle conseguenze patrimoniali del proprio inadempimento, in particolare stabilendo che egli non potrà usufruire del beneficio della esdebitazione per più di due volte nel corso della sua vita (secondo la previsione del già citato art. 280 CCII). In presenza di detti (precisi) limiti, non dovrebbe essere più consentito all’interprete argomentare, sulla base del principio di “solidarietà sociale” (e della clausola di buona fede, che ne sarebbe espressione), l’“inesigibilità” di un credito nei confronti di un debitore che abbia già utilizzato per due volte il beneficio dell’esdebitazione da sovraindebitamento.
Il riferimento al (dovere di) “solidarietà sociale” – per spiegare la ratio del nuovo istituto, e in particolare il sacrificio che, in presenza di una situazione di sovraindebitamento del debitore, viene imposto ai singoli creditori, chiamati a subire l’“esdebitazione” (per la parte dei loro crediti che non trovi capienza nell’attuale patrimonio del debitore) – può, allora, anche essere considerato appropriato, ma solo a condizione che esso venga correttamente inteso. Lo vedremo nel paragrafo che segue.
4. La ratio della normativa sul sovraindebitamento: un inedito favor debitoris o un “aggiornato” favor creditoris?
È, a questo punto, possibile – dopo aver chiarito che la cd. esdebitazione del debitore insolvente (si tratti dell’imprenditore commerciale soggetto alle tradizionali procedure concorsuali o del debitore “sovraindebitato”, di cui alle più recenti normative) non incide sul (concetto di “obbligazione” e) sul rapporto obbligatorio, ma si traduce piuttosto in una (eccezionale) limitazione della “responsabilità patrimoniale” – cercare di individuare la ratio di questo istituto, solo da pochi anni introdotto nel nostro ordinamento sotto la spinta della crisi economica e delle conseguenze che essa ha prodotto, sia per il fatto di aver determinato il fallimento di numerosi imprenditori (non tanto per l’incapacità degli stessi, quanto piuttosto per la “sfortuna” di aver operato in un contesto economico generale difficilissimo), sia per il fatto di avere dato luogo (con riferimento ai soggetti sottratti all’operare delle procedure concorsuali tradizionali) a fenomeni assai diffusi di “(crisi da) sovraindebitamento” (anche in questo caso determinata – assai spesso – non da imprevidenza o imprudenza dell’interessato, ma da fattori “esogeni” incidenti sulla capacità reddituale o patrimoniale dell’individuo o del suo nucleo familiare : basti pensare al licenziamento proprio o di un proprio congiunto, da parte di imprese versanti, a propria volta, in una situazione di crisi).
È stato istintivo, per i primi interpreti, “leggere” gli interventi normativi in esame – e, segnatamente, quello in tema di sovraindebitamento – come volti a tutelare il soggetto “debole” del rapporto obbligatorio (soggetto identificato a priori, peraltro discutibilmente, con il “debitore”[23]), e ciò sebbene si sia da subito messo in evidenza anche il dato – peraltro da tempo acquisito in ordinamenti che assai prima del nostro hanno sperimentato questo tipo di normative – per cui il fenomeno (della regolamentazione) del sovraindebitamento è «un fenomeno tipico di una credit society», nella quale il credito al consumatore opera come «leva insostituibile per la crescita delle imprese»[24].
Ma proprio questo dato avrebbe dovuto (e dovrebbe) indurre a riconsiderare con attenzione il profilo della ratio degli interventi normativi di cui stiamo discorrendo. Ratio che solo a una visione superficiale (o, comunque, parziale) può apparire riassumibile nella formula di un inedito favor debitoris (che ribalterebbe il tradizionale favor creditoris che si vuole sotteso alla disciplina codicistica dell’obbligazione)[25]. In realtà, e a ben vedere, si tratta di altro, e precisamente di una versione aggiornata (se si vuole, più evoluta e raffinata) di un favor creditoris, che però non si misura più tanto sulla tutela di questo soggetto con riferimento al singolo rapporto obbligatorio, ma guarda piuttosto all’interesse (per così dire “comune”) della categoria dei creditori (o, per essere più precisi, di alcuni creditori), o anche all’interesse generale dell’economia.
Volendo esprimere in forma più esplicita il concetto appena enunciato, si potrebbe dire che il “sacrificio” – ammesso che di questo veramente si tratti[26] – che il singolo creditore viene a subire in virtù dell’esdebitazione di cui benefici il proprio debitore[27], è compensato dal “vantaggio” che per la categoria dei (potenziali, futuri) creditori è rappresentata dal “recupero” al circuito economico (sia “produttivo”, sia di mero “consumo”) di un soggetto che, altrimenti, non avrebbe più gli stimoli e, talora, neanche la possibilità materiale e giuridica[28] per intraprendere nuove iniziative produttive o di consumo.
In questo senso, la normativa che prevede la possibilità per gli imprenditori (dichiarati) falliti di ottenere l’esdebitazione dopo la chiusura del fallimento, come pure l’analoga possibilità riconosciuta ai debitori che possono accedere alle procedure di sovraindebitamento, costituiscono tipiche normative a favore del mercato, tanto da potersi probabilmente affermare che è questo l’interesse che costituisce il nuovo criterio di ordine pubblico alla luce del quale intendere e applicare la disciplina in esame[29].
Dalla tutela del credito – quale si riteneva assicurata dal principio di “responsabilità patrimoniale” del debitore, come principio di “ordine pubblico” che implicava l’inammissibilità di limitazioni, per lo meno di fonte negoziale –, si può dire di essere passati a una tutela del credito (rectius: del mercato) garantita ora anche attraverso regole che, viceversa, presuppongono un (parziale) abbandono del principio secondo cui il debitore risponde con tutti i suoi beni, presenti e futuri. L’apparente contraddizione si scioglie considerando – come già abbiamo sottolineato – che il principio tradizionale tutela(va) il singolo creditore (con riferimento a un rapporto obbligatorio già in essere), mentre le normative che abbiamo esaminato e che presuppongono una “deroga” al principio della responsabilità patrimoniale sono destinate a tutelare l’interesse (collettivo) della categoria dei creditori, ossia l’interesse allo sviluppo degli affari e al massimo funzionamento del mercato.
[1] Sulla quale – per un quadro di sintesi assai efficace e puntuale – si veda, nella letteratura più recente, F. Macario, Responsabilità e garanzia patrimoniale: nozioni introduttive, in N. Lipari e P. Rescigno (diretto da), A. Zoppini (coordinato da), Diritto civile - L’attuazione dei diritti, vol. IV, tomo 2, Giuffrè, Milano, 2009, p. 169.
[2] Che il “rapporto” cui dà vita la “responsabilità patrimoniale” consista – essenzialmente –, a latere creditoris, nel potere (diritto potestativo) di sottoporre a esecuzione forzata i beni del debitore e, correlativamente (ossia, a latere debitoris), nella “soggezione” di quest’ultimo all’azione esecutiva del creditore non è contraddetto dalla circostanza che – solitamente – si facciano rientrare nella “responsabilità patrimoniale” (intesa) in senso lato anche l’azione revocatoria, l’azione surrogatoria e il sequestro conservativo, che sono per l’appunto mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale,ossia strumenti attraverso i quali il creditore cerca di mantenere integra l’utilità delle azioni esecutive che egli può esercitare sul patrimonio del proprio debitore.
[3] L’inquadramento della posizione soggettiva del creditore nell’ambito del “rapporto di responsabilità patrimoniale” nello schema del diritto potestativo può considerarsi prevalente, risultando ormai superate concezioni precedenti che, per descrivere il potere del creditore di aggredire i beni del debitore, avevano evocato lo schema del diritto “reale”, come se si trattasse di una sorta di “pegno” su tutti i beni del debitore (si veda, in particolare, per questa posizione. A. Rocco, Studi sulla teoria generale del fallimento, in Riv.dir.comm., 1910, I, pp. 696 ss.), ovvero ipotizzato un qualche “potere di controllo gestorio” spettante al creditore sui beni del debitore e assimilabile ai diritti reali (è la posizione di G. Pacchioni, Delle obbligazioni in generale, in Diritto civile italiano, vol. I, parte II, Cedam, Padova, 1941, pp. 19 ss., 46 ss. e 58 ss.).
È stato agevole obiettare a queste concezioni che la cd. “garanzia generica” (formula che – come già ricordato – viene utilizzata per descrivere le prerogative del creditore sui beni costituenti il patrimonio del proprio debitore) non presenta alcuno dei caratteri tipici delle garanzie reali in senso tecnico e, più in generale, dei diritti reali (come – a tacer d’altro – il cd. “diritto di seguito”), e comunque non si traduce in alcun potere diretto del creditore sui beni del debitore.
Queste critiche hanno aperto la strada a due posizioni: la prima (divenuta prevalente) che nega l’esistenza di un diritto sostanziale del creditore sui beni del debitore, concependo la cd. “garanzia generica” come un insieme di poteri strumentali rispetto al diritto di credito – si veda, per tutti, R. Nicolò, Della responsabilità patrimoniale, in A. Scialoja e G. Branca (diretto da), Commentario del codice civile – Libro VI. Tutela dei diritti, sub art. 2740, Zanichelli-Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1955, pp. 7 ss.) –; la seconda (minoritaria), alla quale implicitamente aderiamo nel testo, che riconosce invece l’esistenza in capo al creditore di una situazione giuridica sostanziale e autonoma (rispetto al credito), in particolare riconducendo detta situazione allo schema concettuale del “diritto potestativo” – cfr. L. Barbiera, Responsabilità patrimoniale. Disposizioni generali, in P. Schlesinger(diretto da), Il Codice civile. Commentario, artt. 2740-2744, Utet giuridica, Milano, 2010 (seconda edizione), pp. 20 ss.; da ultimo aderisce a questo orientamento G. Rojas Elgueta, Autonomia privata e responsabilità patrimoniale del debitore, Giuffrè, Milano, 2012, p. 16, dove anche la precisazione che «come accade per tutti i rapporti potestativi anche quello derivante dall’art. 2740 c.c. presuppone un’ulteriore ed autonoma relazione giuridica fra le parti che, nel caso specifico, non si può che individuare nel rapporto obbligatorio».
[4] Cfr., su questo punto, ad esempio, V. Roppo, La responsabilità patrimoniale del debitore, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, vol. XIX, tomo 1, Utet, Torino, 1997, pp. 485 ss. e 508 ss.; Id., Sulle limitazioni della responsabilità patrimoniale del debitore. Spunti sistematici intorno all’art. 2740, 2° co. c.c., in Giur. comm., 1982, 250.
[5] Per la verità, un’autorevole (ma, sul punto, del tutto isolata) opinione dottrinale aveva, già in epoca risalente, sostenuto che l’art. 2740 cc non tanto impedisse deroghe (alla responsabilità patrimoniale del debitore) di tipo convenzionale (ossia, programmate con il consenso del creditore), quanto piuttosto che la disposizione in questione abbia come scopo di impedire che il debitore, con un proprio atto unilaterale di volontà possa, direttamente o indirettamente, determinare effetti pregiudizievoli per i propri creditori.
Di recente, la tesi secondo cui l’art. 2740, comma 2, andrebbe letto nel senso che soggette al principio di tipicità sarebbero solo le limitazioni negoziali della responsabilità patrimoniale “imposte” ai creditori per determinazione unilaterale del debitore, e non anche quelle “negoziate”, è sviluppata nel lavoro di G. Marchetti, La responsabilità patrimoniale negoziata, Cedam-Wolters Kluwer, Padova-Milano, 2017, passim (su cui si veda la Recensione di F. Macario, in Riv.dir.civ., 2018, pp. 762 ss.).
[6] Cfr., ad esempio, il contributo di G. Rojas Elgueta, Autonomia privata, op. cit., passim e, spec., pp. 75 ss., il quale argomenta la tesi secondo cui la previsione del secondo comma dell’art. 2740 cc pone una preclusione soltanto a limitazioni convenzionali della responsabilità patrimoniale aventi efficacia reale (ponendosi a fondamento di un principio di tipicità legale delle ipotesi di “patrimoni separati”, che costituirebbero pertanto un numerus clausus), mentre essa non riguarderebbe accordi (di vario contenuto) che contemplino limitazioni della responsabilità patrimoniale destinate a valere solo nei rapporti tra creditore e debitore.
Nell’ambito dei contributi che, negli ultimi anni, hanno esaminato gli spazi sempre più ampi che possono riconoscersi all’autonomia privata in relazione alla materia della responsabilità patrimoniale, può annoverarsi anche il volume di L. Follieri, Esecuzione forzata e autonomia privata, Giappichelli, Torino, 2016, passim (su cui vds. la Recensione di F. Macario, in Riv.dir.civ.,2018, pp. 757 ss.).
Tra i lavori non monografici, può consultarsi utilmente il saggio di G. Sicchiero, I patti sulla responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.),in Contratto e impr., 2012, pp. 91 ss.
[7] Sotto questo profilo, la previsione più ampia – tale da configurarsi, almeno apparentemente, come tendenzialmente eversiva del principio generale – può essere ravvisata nell’art. 2645-ter del codice civile. Sul punto sia consentito, tuttavia, per una valutazione meno drastica, rinviare a G. D’Amico, L’atto di destinazione (A dieci anni dall’introduzione dell’art. 2645-ter), in Riv. dir. priv., 2016, pp. 7 ss., spec. p. 16 e nota 23 (ove il richiamo all’autorevole opinione di A. Falzea, e alla distinzione che l’illustre Autore propone tra “limitazioni del patrimonio” e “limitazioni della responsabilità”).
Distingue opportunamente tra il caso in cui sia la legge a prevedere direttamente una limitazione della responsabilità patrimoniale del debitore, e il caso in cui questo effetto consegua a un atto negoziale (“legittimato” da una previsione legislativa), C. Granelli, La responsabilità patrimoniale del debitore tra disciplina codicistica e riforma in itinere del diritto societario, in Riv. dir. civ., 2002, II, pp. 507 ss.
[8] Il riferimento è alle ormai numerose previsioni legislative che ammettono esplicitamente i cd. “patti marciani”. Su queste ipotesi vds., anche per i necessari richiami all’ampia letteratura formatasi sul tema, i contributi raccolti nel volume di G. D’Amico - S. Pagliantini - F. Piraino - T. Rumi, I nuovi marciani, Giappichelli, Torino, 2017.
[9] Ossia, indipendentemente dalla circostanza che il debitore sia in grado ancora di adempiere il singolo rapporto.
[10] Sull’atteggiarsi, nelle procedure concorsuali (e, in particolare, nel fallimento) delle regole “comuni” in tema di responsabilità patrimoniale, cfr. – più in generale – G. Tarzia, La tutela dei creditori concorsuali dopo la riforma: ridotta o diversa?, in Il Fallimento, 2007, pp. 369 ss., spec. pp. 370 ss.
Sotto altro profilo, un’interessante riflessione sulle finalità che deve proporsi un moderno sistema di regolamentazione della crisi d’impresa, superando il carattere assorbente del paradigma del rapporto obbligatorio (e della tutela dei creditori, come finalità esclusiva), si legge in F. Di Marzio, Obbligazione, insolvenza, impresa, Giuffrè, Milano, 2019, passim.
[11] Il n. 2 dell’art. 143 l.fall. prevedeva altresì, nel caso in cui il fallito avesse proposto ai creditori concorsuali un concordato fallimentare, che la riabilitazione potesse essere concessa in caso di regolare adempimento del concordato, e sempreché il tribunale lo ritenesse meritevole del beneficio, tenuto conto delle cause e circostanze del fallimento, delle condizioni del concordato e della misura della percentuale (purché quest’ultima non fosse comunque inferiore al 25 per cento).
[12] In argomento cfr. L. Ghia, L’esdebitazione: evoluzione storica, profili sostanziali, procedurali e comparatistici, in U. Apice, (diretto e coordinato da), Trattato di diritto delle procedure concorsuali, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 654 ss.
[13] La riserva del beneficio della esdebitazione alle sole persone fisiche (che siano state dichiarate fallite) viene solitamente giustificata con la considerazione che la chiusura del fallimento determina l’estinzione della società e, dunque, la mancata sopravvivenza del debitore, che non potrà pertanto acquisire nuovi beni attraverso i quali soddisfare i debiti residui (ossia i debiti che non trovato soddisfazione in sede di procedura concorsuale).
[14] In particolare, occorre che il fallito abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all’accertamento del passivo, e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni, senza aver in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura, e così via.
[15] Nel codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, l’esdebitazione (dell’imprenditore soggetto a liquidazione giudiziale) è – ora – regolata dagli artt. 278 ss., con disposizioni in parte comuni anche all’esdebitazione dell’imprenditore “sovraindebitato” (su cui vds. quanto diremo infra, nel prossimo paragrafo). In particolare, l’art. 278 stabilisce (con una disposizione che vorrebbe avere carattere “definitorio”) che «L’esdebitazione consiste nella liberazione dai debiti e comporta la inesigibilità dal debitore dei crediti rimasti insoddisfatti nell’ambito di una procedura concorsuale che prevede la liquidazione dei beni» (comma 1), ribadendo, al comma 5, la salvezza dei diritti vantati dai creditori nei confronti dei coobbligati e dei fideiussori del debitore nonché degli obbligati in via di regresso. Le “condizioni” per ottenere l’esdebitazione sono invece dettate dal successivo art. 280, che riformula parzialmente l’art. 142 dell’attuale legge fallimentare.
[16] Sul paradigma dell’imprenditore “onesto ma sfortunato” (paradigma che poi transiterà nella figura del consumatore “onesto ma sfortunato”) – vittima di circostanze “esterne” e fuori dalla sua portata di controllo, cfr. G. Rojas Elgueta, L’esdebitazione del debitore civile: una rilettura del rapporto civil law-common law, in Banca, borsa e tit. cred., 2012, p. 310; Id., Profili sistematici dell’esdebitazione: dalla limitazione di responsabilità dell’imprenditore alla protezione sociale del consumatore, in Riv. dir. priv., n. 2/2014, p. 261.
[17] Si osservi come non sarebbe corretto assimilare la previsione legislativa degli effetti delle fattispecie “concordatarie” a uno dei casi in cui la legge “autorizza” la formazione negoziale di “patrimoni separati”. Qui, invero, non ci si trova di fronte alla possibilità di precostituire ex ante ipotesi di sottrazione di alcuni beni alla responsabilità patrimoniale (nei confronti, almeno, di alcuni creditori), come avviene nel fenomeno dei cd. “patrimoni separati”. La limitazione della responsabilità patrimoniale è, invece, un effetto che si ricollega ex post a rapporti obbligatori sorti senza che, per essi, operasse alcuna preventiva limitazione della responsabilità patrimoniale (del debitore), e senza che la successiva limitazione di detta responsabilità (conseguente al “concordato” raggiunto con i creditori) possa dirsi conseguenza di una estinzione (parziale) dell’obbligazione, come è provato dal fatto che i creditori concordatari «conservano impregiudicati i diritti contro i coobbligati, i fideiussori del debitore e gli obbligati in via di regresso» (così l’art. 184, l.fall., nella formulazione attualmente vigente).
Si aggiunga che, nelle soluzioni “concordatarie” in senso stretto (quelle che danno vita a vere e proprie procedure “concorsuali”, tali perché coinvolgono necessariamente la totalità dei creditori), l’effetto esdebitativo è un effetto che si produce anche contro la volontà del singolo creditore (dissenziente) se la maggioranza dei creditori ha approvato la proposta del debitore e se il concordato abbia ricevuto l’omologazione da parte del tribunale.
[18] Non ci occupiamo, in questa sede, della disciplina delle procedure concorsuali che sono previste per la soluzione delle cd. “crisi da sovraindebitamento” (disciplina su cui vds., ora, le disposizioni contenute negli artt. da 65 a 83, da 268 a 277, e da 282 a 283 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza), argomento peraltro già oggetto di specifica trattazione nel presente fascicolo della Rivista. Accenniamo, qui, al tema del sovraindebitamento esclusivamente con riferimento alla prospettiva generale (“responsabilità patrimoniale” e “tutela del credito”) che costituisce oggetto delle nostre considerazioni.
[19] Obbligazione che, peraltro, può scaturire da molteplici rapporti, sia di natura contrattuale (ad esempio: debito di pagamento del prezzo di una compravendita, o del corrispettivo di una locazione o di un appalto, debito di rimborso di un mutuo, e così via esemplificando), sia di natura extracontrattuale. A quest’ultimo proposito, giova peraltro rilevare che sia la l. n. 3/2012 che il recente codice della crisi di impresa e dell’insolvenza escludono dall’esdebitazione i debiti per il risarcimento del danno da illecito extracontrattuale (vds. art. 278, comma 7, CCII).
[20] D’altra parte – vien voglia di osservare – non si capirebbe perché l’ “incapacità patrimoniale”, la quale non costituisce certamente una condizione ostativa al sorgere dell’obbligazione – e ciò non solo perché il vincolo obbligatorio è, di per sé, un vincolo “personale”, non direttamente condizionato dalla situazione patrimoniale del debitore (salvo che non si configuri ab origine una situazione di “impossibilità” della prestazione promessa), ma anche perché lo stesso patrimonio del debitore (elemento, si ripete, “esterno” rispetto al rapporto obbligatorio e oggetto esclusivamente di quel “rapporto di responsabilità patrimoniale” che subentra quando l’obbligazione rimanga inadempiuta), sebbene attualmente incapiente, può nel tempo incrementarsi di nuovi beni, che rendano effettiva la “responsabilità” cui va incontro il debitore che non adempia la propria obbligazione – possa diventare una causa estintiva dell’obbligazione medesima. Sui rapporti – e, soprattutto, sulla distinzione – tra Schuld e Haftung, cfr. le belle pagine di A. Di Majo, Debito e patrimonio nell’obbligazione, in G. Grisi (a cura di), Le obbligazioni e i contratti nel tempo della crisi economica. Italia e Spagna a confronto, Jovene, Napoli, 2014, pp. 23-24; sull’incidenza del dibattito circa i rapporti tra Schuld e Haftung, per un verso sulla costruzione del rapporto obbligatorio e, per altro verso, sulla configurazione della responsabilità patrimoniale, cfr. anche G. Rojas Elgueta, Autonomia privata, op. cit., spec. pp. 58 ss.
Certo, il discorso appena svolto potrebbe essere revocato in dubbio con riferimento all’ipotesi in cui l’incapienza patrimoniale sia prospetticamente individuabile – soprattutto in considerazione non del singolo rapporto obbligatorio (isolatamente considerato), bensì dell’insieme dei debiti esistenti in capo al soggetto in un certo momento – come (presumibilmente) definitiva – ossia tale da far prevedere che (esclusi eventi del tutto imprevedibili e “anormali”: un’ importante vincita ad una lotteria, un lascito ereditario inatteso, etc.) il debitore non sarà in grado comunque, nel corso della propria vita e secondo i prevedibili incrementi che il suo patrimonio potrà registrare, di far fronte ai debiti accumulati). In tal caso – e prescindendo dalla circostanza che i debiti, e la connessa responsabilità patrimoniale, sono di norma trasmissibili agli eredi (i quali peraltro avrebbero sempre la possibilità di accettare con beneficio d’inventario) – potrebbe giustificarsi l’inferenza secondo cui, venuta meno la possibilità del soggetto di “garantire” con il proprio patrimonio (anche futuro) l’adempimento dei propri debiti (recte : di poter rispondere patrimonialmente, in caso di loro inadempimento), risulta altresì compromesso quel legame che fa della possibilità che il debitore “risponda patrimonialmente” (del proprio inadempimento) la garanzia della (perdurante) effettiva vigenza del vincolo obbligatorio. Sotto questo profilo, potrebbe non essere casuale che proprio questo aspetto venisse evidenziato dalla definizione di “sovraindebitamento” dettata dall’art. 6, comma 2, l. n. 3/2012 («(…) la situazione di perdurante squilibrio tra le obbligazioni assunte e il patrimonio prontamente liquidabile per farvi fronte, che determina la rilevante difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni, ovvero la definitiva incapacità di adempierle regolarmente» – corsivi aggiunti). Tuttavia, non meno significativa, allora, deve ritenersi la circostanza che alla “definitiva incapacità” di adempiere l’obbligazione (concetto, comunque, ambiguo nella misura in cui torna a confondere il “rapporto di debito” e il “rapporto di responsabilità patrimoniale”) non faccia più riferimento la definizione di “sovraindebitamento”, che si legge ora nell’art. 2, lett. c, CCII.
[21] Ma, sugli equivoci sottesi all’utilizzo che viene fatto – in queste impostazioni – del concetto di “inesigibilità” (della prestazione), sia consentito il rinvio a G. D’Amico, Esdebitazione e concorso dei creditori nella disciplina del sovraindebitamento, in Id. (cur.), Sovraindebitamento e rapporto obbligatorio, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 1 ss., spec. pp. 35 ss.
[22] Si veda, ad esempio, R. Bocchini, Profili civilistici della disciplina del sovraindebitamento del consumatore, in Giur.it.,2016, pp. 2130 ss., in particolare p. 2132, dove si individua la ratio dell’istituto nei principi di solidarietà sociale e di buona fede nell’esecuzione del contratto, sulla base della premessa secondo cui tali principi «costituiscono non solo il terreno culturale e normativo costituzionale dal quale trae origine il principio di proporzionalità delle prestazioni nel rapporto obbligatorio, ma impongono anche un atteggiamento di tolleranza dello stato di difficoltà, di bisogno e di necessità della parte di un rapporto soggettivo».
Di “inesigibilità” del credito, in base al principio di buona fede, nei confronti del debitore che versi in una situazione di “sovraindebitamento”, parla anche O. Clarizia, L’inadempimento non imputabile. Tre modelli a confronto: inesigibilità della prestazione, impossibilità sopravvenuta, eccezione di inadempimento, in G. Perlingieri e F. Lazzarelli (a cura di), Autonomia negoziale e situazioni giuridiche soggettive, ESI, Napoli, 2018, p. 547.
[23]E, invero, sfugge a questa semplicistica visione, che pretende di fare del debitore sempre il “soggetto debole” del rapporto obbligatorio, il fatto che vi siano assai spesso debitori che si trovano in una posizione di forza, contrattuale e normativa, nei confronti dei rispettivi creditori (basti pensare al caso della pubblica amministrazione, che è, oltre tutto, quasi sempre il più importante debitore “pecuniario” nell’ambito del sistema economico moderno).
[24] Così C. Camardi, Certezza e incertezza nel diritto privato contemporaneo, Giappichelli, Torino, 2017, p. 73; vds. anche Id., Il sovraindebitamento del consumatore e il diritto delle obbligazioni. Alcune riflessioni ai confini del diritto civile, in D’Amico (a cura di), Sovraindebitamento, op. cit., pp. 137 ss., spec. pp. 146 ss.)
[25] Se così fosse, oltre tutto – come in altra occasione abbiamo avuto modo di evidenziare –, il sistema normativo dovrebbe dirsi affllito da una palese “schizofrenia”, perché registrerebbe – nello stesso periodo – interventi volti a innalzare la tutela del credito, quanto meno sotto il profilo della rapidità e della certezza di realizzazione dello stesso (si pensi ai vari interventi che hanno variamente legittimato, in diversi contesti, i cd. “nuovi patti marciani”).
[26] Non bisogna sottovalutare la circostanza che il debitore “sovraindebitato” è, per definizione,un soggetto che non è in condizione (e, presumibilmente, non lo sarà neanche in futuro) di adempiere regolarmente i debiti di cui risulta gravato. Sicché i creditori rischierebbero di conservare nei suoi confronti una pretesa meramente “formale”, con la prospettiva di un soddisfacimento del loro credito comunque parziale, e collocata in un futuro che potrebbe essere anche abbastanza lontano. Per converso, a fronte dell’eventuale “sacrificio” che questi creditori subiscono, almeno rispetto a incrementi patrimoniali futuri – si badi, del tutto ipotetici – del loro debitore, essi dovrebbero poter contare quanto meno su un atteggiamento “collaborativo” e “leale”, che costituisce presupposto perché il debitore possa accedere alle procedure che gli consentano di ottenere l’esdebitazione.
[27] Sacrificio – bisogna aggiungere – che potrebbe risultare solo ipotetico, se si considera la sempre maggiore diffusione di forme di assicurazione del credito da parte dei soggetti che professionalmente operano in questo mercato (banche e intermediari finanziari in genere). Soggetti che, poi, sono in grado ovviamente di riversare i costi dell’assicurazione del credito sui propri clienti, chiamati ad assumersi – direttamente o indirettamente – tali costi. Per il che si può dire che, sotto il profilo adesso considerato, le normative sull’esdebitazione dei debitori insolventi finiscono per risolversi in forme di “socializzazione” del danno derivante dagli inadempimenti di codesti debitori.
[28] Si pensi ai limiti di accesso al credito per soggetti che risultino segnalati alla Centrale dei rischi gestita dalla Banca d’Italia, la quale fornisce mensilmente agli intermediari (banche e società finanziarie) le informazioni sul debito totale verso il sistema creditizio di ciascun cliente segnalato.
[29] Il che non toglie che si ponga anche un problema di ragionevolezza del sacrificio che viene imposto ai singoli creditori (attuali). Su questo profilo insiste particolarmente S. Pagliantini, L’insolvenza del consumatore tra debito e responsabilità: lineamenti sull’esdebitazione, in G. D’Amico, (a cura di), Sovraindebitamento, op. cit., pp. 49 ss., spec. p. 62 (ma il tema costituisce il leitmotiv dell’intero contributo).