Rapporti di lavoro e impresa in crisi
1. Lavoro e impresa in crisi: due precarietà a confronto
A differenza degli altri rapporti giuridici, che pure costituiscono la trama giuridica della realtà economica dell’impresa, i rapporti di lavoro sono in essa intimamente implicati, alla stregua di una componente intrinseca.
Ciò non soltanto perché il diritto al lavoro è regolato in un unico libro (quinto del codice civile: «Del lavoro»), che lo disciplina tanto nell’impresa, anche societaria (titolo II e titolo V), tanto nella prestazione lavorativa subordinata (titolo IV) o libero–professionale (titolo I e titolo III), sicchè la sua tutela riguarda tanto il lavoratore subordinato, o comunque collaborante, tanto il datore di lavoro; ma anche perché il rapporto di lavoro non è isolabile dal contesto economico e relazionale dell’impresa[1], rilevando anzi sempre più come elemento costitutivo del complesso aziendale piuttosto che come destinatario di forme di tutela[2]. Addirittura, qualora sia espressiva di una specifica organizzazione, la capacità del personale può assumere, in particolare nell’ipotesi di trasferimento del ramo d’azienda, una rilevanza tanto peculiare da configurare il nucleo identificativo “aziendale” (e quindi del valore di impresa)[3]. E ciò sia che si tratti di un gruppo stabilmente coordinato di lavoratori, organizzati tra loro, la cui capacità operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare know how (o, comunque, dall’utilizzo di copyright, brevetti, marchi, etc.)[4]; sia che si tratti di settori essenzialmente fondati sulla mano d’opera, potendo un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comunecorrispondere a un’entità economica, idonea a conservare la sua identità al di là del trasferimento[5].
È chiaro che il diritto al lavoro sia cosa diversa dal diritto al posto di lavoro, che è oggetto di disciplina specifica nel rapporto interno all’impresa (artt. 2118 e 2119 cc; art. 3 l. n. 604/1966 e successive modifiche; art. 18 l. n. 300/1970 e successive modifiche). Certamente, l’art. 4 Cost. non garantisce a ciascun cittadino né il diritto all’occupazione, per l’evidente influenza sull’indirizzo politico dello Stato dell’esistenza di una situazione economica insufficiente a offrire un lavoro a tutti, né il diritto alla conservazione del posto di lavoro, che un tale diritto presupporrebbe[6].
Su questo piano, quando si configura una situazione di crisi, si pone allora il confronto tra le due diverse, ma complementari precarietà: da una parte, quella dell’impresa, che da una condizione di crisi ha esigenza di ripristinarne una di efficiente funzionalità in vista di una ricollocazione competitiva sul mercato, attraverso un’opportuna ristrutturazione economica e organizzativa, quasi sempre comportante interventi di riduzione anche del personale in essa occupato; dall’altra, la situazione di precarietà del lavoratore, innestata nella prima quale sua componente, ma con la peculiare caratterizzazione – che la emancipa da quella – della titolarità di una posizione giuridica soggettiva meritevole di particolare protezione, non soltanto di natura economica[7]. Ed essa deriva dalla natura di diritto-dovere propria del lavoro, quale fondamento dello statuto di cittadinanza come tale costituzionalmente tutelato (art. 4 Cost.), con riflesso sulla condizione personale e sociale di ogni prestatore[8], per la garanzia della possibilità, per sé e la propria famiglia, di un’esistenza libera e dignitosa (art. 36, comma 1, Cost.)[9].
In questa prefigurata prospettiva, è opportuno il richiamo alla ancora recente conferma, nella giurisprudenza eurounitaria, di come la tutela dell’occupazione e dei diritti dei lavoratori sia ragione imperativa di interesse generale prevalente, nel bilanciamento dei diritti derivanti dalle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, in quanto rientrante tra gli obiettivi di politica sociale pure perseguiti dall’Unione europea, per la sua finalità non soltanto economica ma anche sociale[10].
2. Armonizzazione delle regole della concorsualità con la tutela dei rapporti di lavoro
Per i rapporti di lavoro, la novità più importante della regolamentazione organica del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) è averne finalmente previsto la disciplina all’interno dell’ambito concorsuale. Prima dell’odierno intervento di riforma, essi trovavano la regola di relazione con le procedure concorsuali al di fuori della normativa fallimentare (essenzialmente, nell’art. 2119 cc): in questa essendo i contratti o i rapporti di lavoro subordinato (art. 50, comma 4, lett. a, d.lgs n. 270/1999; art. 169-bis, comma 4, l.fall.) menzionati soltanto ad excludenda, ossia per esplicitare l’inapplicabilità a essi delle disposizioni in materia di contratti pendenti, tanto nell’amministrazione straordinaria, quanto nel concordato preventivo.
Nella nuova prospettiva della riforma, il rapporto di lavoro trova invece un adeguato spazio, in attuazione dei criteri direttivi della legge delega n. 155/2017, contenuti: nei principi generali, di armonizzazione «[del]le procedure di gestione della crisi e dell’insolvenza del datore di lavoro con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori che trovano fondamento nella Carta sociale europea e nelle Direttive 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio (tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza dei lavoratori), nonchè nella Direttiva 2001/23/CE del Consiglio europeo (mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti), come interpretata dalla Corte di Giustizia»(art. 2, comma 1, lett. p); nella procedura di liquidazione giudiziale, di coordinamento «[de]gli effetti della procedura sui rapporti di lavoro subordinato con la vigente legislazione di diritto del lavoro, per quanto concerne il licenziamento, le forme assicurative e di integrazione salariale, il trattamento di fine rapporto e le modalità di insinuazione al passivo» (art. 7, comma 6).
Il mantenimento delle tutele previste dal diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori, garantito in particolare dalla direttiva 2001/23/CE del Consiglio, con specifico riferimento all’ipotesi in cui il piano di ristrutturazione comporti il trasferimento di una parte di impresa o di stabilimento, è pure previsto dal 34° e 35° «considerando» della proposta di direttiva della Commissione Ue riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva, la seconda opportunità e le misure volte ad aumentare l’efficacia delle procedure di ristrutturazione, insolvenza e liberazione dai debiti, a modifica della direttiva 2012/30 Ue[11].
2.1. Le forme di tutela dell’occupazione e del reddito
Nella prefigurata armonizzazione delle procedure concorsuali con le forme di tutela dell’occupazione e del reddito dei lavoratori, l’art. 190 riconosce il trattamento NASpI («Nuova assicurazione sociale per l’impiego»), introdotto dal d.lgs n. 22/2015 (riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati), nella ricorrenza dei requisiti e nel rispetto delle disposizioni in esso previsti, anche ai lavoratori dipendenti da imprenditori nei cui confronti sia stata aperta la liquidazione giudiziale. E ciò realizza attraverso l’estensione alla sospensione (impropriamente designata come «cessazione») del rapporto di lavoro, per effetto della procedura, in virtù del richiamo appunto dell’art. 189, comma 1, della nozione di «perdita involontaria dell’occupazione», che presuppone l’inattività derivante dall’estinzione o dall’interruzione del rapporto. La condizione istituita dall’apertura della liquidazione giudiziale è infatti temporanea e suscettibile di evoluzione nel senso della continuità dell’attività d’impresa, anche attraverso il trasferimento dell’azienda (e, pertanto, del rapporto di lavoro, nel secondo caso a determinate condizioni), in virtù della scelta del curatore di subentro (con assunzione dei relativi obblighi dalla comunicazione ai lavoratori), ovvero di scioglimento attraverso il recesso (con effetto dalla data di apertura della liquidazione) secondo l’ordinaria disciplina dei rapporti pendenti[12], già (e tuttora per l’ampia vacatio legis[13]) prevista nel fallimento[14].
Si tratta dunque di una forma di sostegno al reddito del lavoratore, che rimane sprovvisto della retribuzione nello spatium deliberandi riservato al curatore in assenza del trattamento di integrazione salariale, non più previsto, a decorrere dal 1° gennaio 2016[15], nei casi di cessazione dell’attività produttiva dell’azienda o di un ramo di essa, a norma dell’art 21, comma 1, lett. b, d.lgs n. 148/2015.
Appare evidente come, anche opportunamente, l’istituto di integrazione straordinaria salariale abbia perso il carattere assistenziale che negli anni l’aveva progressivamente connotato, per essere restituito a una finalità di intervento temporaneo in funzione di una ripresa effettiva dell’attività economica, così da ricollocare l’impresa sul mercato. Tuttavia, anche secondo una condivisibile opinione critica, appare restrittiva l’interpretazione ministeriale (circolare n. 24 del 26 luglio 2016 del Ministero del lavoro) della norma, nel senso della limitazione dell’accesso all’integrazione straordinaria alle ipotesi di fallimento con esercizio provvisorio o di concordato con continuità aziendale (per favorire la cessione dell’azienda, o di una sua parte, e il trasferimento dei lavoratori) e quindi di concreto esercizio di impresa, anziché nel senso di cessazione definitiva dell’attività: ben essendo meritevole di risanamento e ancor più di sostegno al reddito una procedura in cui persista un’azienda, anche nella componente della forza lavoro, temporaneamente inattiva per ragioni non di intrinseca irrecuperabilità e potenzialmente idonea alla ripresa dell’attività d’impresa[16].
3. Liquidazione giudiziale e rapporti di lavoro
L’art. 189 regola gli effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale sui rapporti di lavoro, come già anticipato nel solco della consolidata regola generale “di procedura” della sospensione, opportunamente calibrata sulla loro specificità e tutela di interessi costituzionalmente rilevanti. Essa è introdotta dalla previa esclusione dell’integrazione dalla suddetta apertura di un motivo di licenziamento: con opportuna generalizzazione della causale (non più soltanto di “non coincidenza” con la giusta causa, come secondo il già citato art. 2119 cc), da specificare dal curatore all’atto dell’intimazione del licenziamento, evidentemente non individuabile nella dichiarazione di apertura ex se.
Il solo effetto peculiare, tipico della procedura, è costituito dall’inerzia del curatore che non decida di subentrare né di recedere dal rapporto: in tal caso, a differenza della disciplina generale[17], decorsi quattro mesi dalla data di apertura della procedura, i rapporti si intendono risolti di diritto[18]. E ciò si spiega per una più forte esigenza di stabilità della condizione del lavoratore, eventualmente legittimato, insieme con il curatore e con il direttore dell’ispettorato del lavoro competente, alla richiesta (non già, come d’ordinario il contraente in bonis, di un termine perchè il curatore decida, ma) di una proroga del termine di quattro mesi, valevole soltanto nei confronti del lavoratore richiedente, pure indennizzata[19]. Una tale proroga risponde all’esigenza, debitamente valutata dal soggetto che la richieda e dal giudice delegato nell’autorizzarla, di favorire una possibilità di ripresa o di trasferimento a terzi dell’azienda o di un suo ramo, in funzione del ripristino di un’attività d’impresa, che è finalità primaria di orientamento della scelta del curatore[20].
L’inerzia del curatore combinata con le dimissioni rassegnate dal lavoratore produce, poi, l’effetto di attribuire a esse una giusta causa, ai sensi dell’art. 2119 cc (art. 189, comma 5): ovviamente da intendere come dovute a un’obbiettiva improseguibilità del rapporto, sussumibile nella norma per la residualità nel suo ambito precettivo di uno spazio non interamente assorbito dalla natura disciplinare del licenziamento[21].
Il legislatore introduce poi la puntuale regolamentazione del licenziamento collettivo cui intenda procedere il curatore, secondo le previsioni degli artt. 4, comma 1 e 24, comma 1, l. n. 223/1991, con deroga di quelle dell’art. 4, commi da 2 a 8, l. cit. (art. 189, comma 6), opportuna per la scansione procedimentale specificamente indirizzata al curatore, tenuto conto della compatibilità della disciplina generale con la condizione di liquidazione giudiziale dell’impresa[22].
Nel caso, infine, di esercizio dell’impresa, i rapporti di lavoro proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderli o esercitare la facoltà di recesso ai sensi della disciplina lavoristica vigente (art. 189, ultimo comma), coerentemente con la disciplina dei contratti pendenti durante l’esercizio d’impresa (art. 211, comma 8), per il loro innesto nel ciclo economico dell’attività, in applicazione della regola della sua continuità; dovendosi poi ritenere, alla cessazione, la loro soggezione al regime di sospensione, secondo la regola generale (art. 211, comma 9).
4. Concordato preventivo e rapporti di lavoro
In merito al concordato preventivo, rilevata l’assenza di alcuna novità in tema di rapporto di lavoro pendente per la ribadita inapplicabilità della disciplina concorsuale (art. 97, ultimo comma), secondo l’odierna previsione dell’art. 169-bis, comma 4, l.fall., mi preme essenzialmente segnalare – anche tenuto conto del limitato spazio del contributo – una delicata questione di problematica compatibilità della disciplina lavoristica con lo stesso paradigma costitutivo della continuità indiretta[23].
In estrema sintesi, la previsione, nel contratto o nel titolo di gestione dell’azienda da un soggetto diverso dall’imprenditore istante l’ammissione alla procedura, del mantenimento o della riassunzione di un numero di lavoratori pari «ad almeno la metà» della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso (art. 84, comma 2), per un anno dall’omologazione, presuppone l’evidente derogabilità dell’art. 2112 cc.
Inoltre, il legislatore ha risolto la delicata questione dell’individuazione della “prevalenza” del ricavato, nei casi di concordati a natura mista[24], ravvisandola in via presuntiva proprio su tale presupposto, ossia quando i ricavi attesi dalla continuità per i primi due anni di attuazione del piano derivino da un’attività d’impresa alla quale siano addetti almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il momento del deposito del ricorso (art. 84, comma 3).
Tuttavia, l’art. 47, comma 4-bis, lett. b-bis, l. n. 428/1990, applicabile nell’ipotesi in cui un concordato preventivo trasferisca un’azienda attiva e sia stato raggiunto un accordo in ordine al mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, prevede l’applicazione dell’art. 2112 cc «nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo»:ossia di modificazione delle condizioni di lavoro idonee ad agevolare il mantenimento di un maggior numero di occupati presso il cessionario (quali, per lo più, l’orario di lavoro, l’anzianità di servizio, la retribuzione, nei limiti di rispetto dei criteri di sufficienza e proporzionalità). Sicché un tale accordo, diversamente da quello previsto dall’art. 47, comma 5, l. cit., non può incidere sulla continuazione del rapporto di lavoro né sulla solidarietà tra cedente e cessionario ai sensi dell’art. 2112, commi 1 e 2, cc[25]. Per giunta, la limitata deroga dell’art. 2112 cc è stata ribadita dall’art. 368, comma 4, lett. b, sostitutivo dell’art. 47, comma 4-bis, lett. b-bis, l. n. 428/1990, in termini del tutto analoghi[26].
Mi pare che la disciplina, al di là di ulteriori profili bene evidenziati in un recente contributo[27], si ponga in aperto contrasto, oltre che interno alla stessa legge di riforma, anche con il diritto europeo, che postula, per la derogabilità dei contratti collettivi agli obblighi stabiliti dall’art. 2112 cc, il carattere necessariamente liquidatorio della procedura[28].
5. I rapporti di lavoro nella circolazione concorsuale dell’azienda
E infatti, l’art. 191, nel disciplinare il trasferimento di azienda nell’ambito delle procedure di liquidazione giudiziale, concordato preventivo e al trasferimento d’azienda in esecuzione di accordi di ristrutturazione, ribadisce l’applicazione dell’art. 47 l. n. 428/1990, oltre che dell’art. 11 dl n. 145/2013, convertito in l. n. 9/2014[29] e delle altre disposizioni vigenti in materia.
Come noto, e per quanto appena anticipato, nel fallimento è consentita al curatore, nella cessione d’azienda, la deroga al regime stabilito dall’art. 2112 cc, per la possibilità, nell’ambito delle consultazioni sindacali a essa relative, di un accordo per il mantenimento anche parziale dell’occupazione (art. 47, comma 5, l. n. 428/1990).
È vero, d’altro canto, che, a differenza dell’imprenditore il quale, sia pure sotto la vigilanza del commissario giudiziale, mantiene l’esercizio dell’impresa nell’esperimento della procedura di concordato preventivo (art. 94, comma 1, come già l’art. 167, comma 1, l.fall.), il curatore fallimentare assume l’amministrazione e la disponibilità dei beni (e, tra essi, di eventuali aziende) del fallito (artt. 128, comma 1 e 142, comma 1, già artt. 31, comma 1, e 42, comma 1, l.fall.) senza averne alcuna conoscenza. Questo dato, di indubbia rilevanza, dovrebbe in qualche modo far riflettere l’imprenditore in condizione di crisi sull’inopportunità strategica di mantenere a ogni costo la titolarità della propria impresa, pur di evitare di perderne l’autonomia (anche se spesso ridotta a mero simulacro formale, per essere stata di fatto già trasferita ai creditori[30]), piuttosto che adire una soluzione di ristrutturazione.
Per l’individuazione della disciplina dei rapporti di lavoro nella circolazione aziendale nel concordato preventivo, occorre distinguerne, come detto, la natura: se liquidatoria, ovvero con continuità aziendale.
Nel primo caso, ancora di netta prevalenza nella pratica operativa delle soluzioni delle crisi d’impresa[31], qualora il concordato con cessione di beni sia omologato, secondo l’espressa disposizione dell’art. 47, comma 5, l. n. 428/1990, l’art. 2112 cc è disapplicabile: sempre che, s’intende, esista nel nucleo organizzativo dell’impresa un’azienda inattiva, sulla base di un accordo sindacale sul mantenimento almeno parziale dell’occupazione, salvo che da esso risultino condizioni di miglior favore.
Nell’ipotesi di concordato preventivo con continuità aziendale, che è procedura di risanamento dell’impresa e dovrebbe godere di una maggiore flessibilità agevolativa, non è invece consentito disapplicare l’art. 2112 cc: almeno, secondo l’art. 191 qui in esame e salvo quanto più sopra osservato in ordine alla configurazione della continuità aziendale nell’art. 84. Indubbiamente, l’applicabilità o meno del regime di tutela dei lavoratori ancora occupati nell’impresa merita, sotto il profilo della convenienza economica dell’affitto e della successiva cessione di azienda, un’attenta valutazione di praticabilità nella scelta della procedura concordataria.
Giova, infine, sottolineare come l’esigenza di conformità – criterio direttivo esplicitamente indicato dal già richiamato art. 2, comma 1, lett. p, l. n. 155/2017 – alle regole dell’Unione europea, anche nella prospettiva di «salvaguardia dei posti di lavoro, con effetti positivi sull’economia in generale» (come, previa l’eliminazione «[de]gli ostacoli all’efficace ristrutturazione di imprese sane in difficoltà finanziaria», indica il 12° considerando della raccomandazione della Commissione Ue del 12 marzo 2014[32]), presupponga che il risanamento debba essere effettivo, nella verifica in concreto dell’idoneità dell’impresa alla continuità aziendale[33].
E ciò, se indubbiamente costituisce ulteriore testimonianza dell’ambito di estensione del sindacato giudiziale alla fattibilità economica del concordato[34], espressamente previsto dalla legge di riforma[35], ed è coerente con la garanzia di un ricorso antiabusivo alla procedura di ristrutturazione, pure indicato dalla raccomandazione della Commissione Ue[36], interroga seriamente sull’evoluzione del ruolo del giudice, nuovamente proiettato nell’ambito di un controllo di merito, e quindi gestorio, peraltro in un contesto profondamente mutato, di più dinamica e flessibile modulazione delle procedure.
Perché è assolutamente evidente come la sua odierna configurazione sia in netta controtendenza rispetto alla esplicita indicazione di recessività del ruolo giudiziale nella prospettiva eurounitaria, in particolare di ristrutturazione della crisi d’impresa: posto che l’indirizzo raccomandato dalla Commissione Ue si colloca in un quadro comune di ristrutturazione preventiva, di procedure che riservino il controllo della gestione al debitore, modulate secondo una flessibilità tendenzialmente senza intervento del giudice, il quale «dovrebbe limitarsi ai casi in cui è necessario e proporzionato per tutelare i diritti dei creditori e terzi eventuali»[37]. Nello stesso solco, la proposta di direttiva Ue del 22 novembre 2016 prevede, al 18° considerando, che: «Per promuovere l’efficienza e ridurre ritardi e costi, i quadri nazionali di ristrutturazione preventiva dovrebbero contemplare procedure flessibili che limitino l’intervento delle autorità giudiziarie o amministrative ai casi in cui è necessario e proporzionato per tutelare gli interessi dei creditori e terzi eventuali»[38].
Tanto detto, bene è stato chiarito come la raccomandazione si ponga nella prospettiva, non già di uniformità dei Paesi Ue, con eliminazione delle differenze normative per istituire una disciplina materiale unica per tutti gli Stati membri, ma di una maggiore coerenza, in un progressivo avvicinamento agevolato dal meccanismo del reciproco riconoscimento, nella comune finalità del recupero e del risanamento delle imprese e del mantenimento dei posti di lavoro[39]. Ed è proprio questo che occorrerà verificare nell’applicazione delle nuove norme esaminate, previo un decisivo chiarimento sui profili problematicamente posti.
[1] Cgue, 11 marzo 1997, Suzen, in Foro italiano, 1998, IV, 437: «in determinati settori in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla mano d’opera, un gruppo di lavoratori che assolva stabilmente un’attività comune può corrispondere ad un’entità economica» (punto 21 motivazione).
[2] Cass., 23 luglio 2002, n. 10761, in Foro italiano, 2002, I, 2278, part. 2288.
[3] Cass., 6 giugno 2007, n. 13270, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2007, 879; Cass., 6 aprile 2016, n. 6693 e Cass., 23 gennaio 2018, n. 1646, entrambe in Italgiureweb.
[4] Cass., 7 marzo 2013, n. 5678; Cass., 6 dicembre 2016, n. 24972, entrambe in Italgiureweb.
[5] Cass., 19 maggio 2017, n. 12720, in Italgiureweb: con specifico riferimento a ipotesi di successione nell’appalto di un servizio, con riassunzione anche di una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore ai medesimi compiti.
[6] Corte cost., 23 maggio 1965, n. 45,inGiurisprudenza costituzionale, 1965, 655, secondo cui dall’art. 4, comma 1, Cost. si ricava che il diritto al lavoro, dall’articolo stesso riconosciuto a ogni cittadino, per quanto non implichi un immediato diritto al conseguimento di una occupazione né, per coloro che già siano occupati, un diritto alla conservazione del posto, va considerato come un diritto fondamentale di libertà cui fa necessariamente riscontro, da parte dello Stato, l’obbligo di indirizzare l’attività dei pubblici poteri alla creazione di condizioni che consentano il lavoro a tutti i cittadini, onde l’esigenza che il legislatore, per ciò che a lui compete, circondi di garanzie e di opportuni temperamenti i casi in cui si renda necessario far luogo a licenziamenti.
[7] L. Gallino, Il lavoro non è una merce, Laterza, Bari, 2007, pp. 76 ss.: per una documentata riflessione sulla connotazione di precarietà non soltanto della natura del singolo contratto di lavoro atipico (nell’ormai imperante flessibilizzazione dell’occupazione e, con essa, della prestazione lavorativa), ma della condizione sociale e umana del lavoratore.
[8] A. Albanese, Il modello sociale costituzionale e la sua attuazione in tempo di crisi, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/2015/3/il-modello-sociale-costituzionale-e-la-sua-attuazione-in-tempo-di-crisi_258.php, sul criterio di sopportabilità (capability) aziendale in relazione ai diritti “comprimibili” e sul limite di comprimibilità dei diritti sociali, come finanziariamente condizionati.
[9] A. Proto Pisani, Note sulla tutela del lavoro e della persona nella Costituzione, in Foro italiano, 2018, V, 157, di breve ma intensa sottolineatura della progressiva erosione, dagli anni novanta, delle prerogative del lavoro in vista della valorizzazione della persona e dello sviluppo della sua personalità.
[10] Cgue, 16 dicembre 2016, C-201/15, Iraklis, in www.curia.europea.eu, secondo cui: «la tutela dei lavoratori rientra tra le ragioni imperative di interesse generale riconosciute dalla Corte di Giustizia» e che «ciò è altrettanto vero per quanto riguarda la promozione del lavoro e delle assunzioni che, mirando segnatamente a ridurre la disoccupazione, costituisce un obiettivo legittimo di politica sociale» (nn. da 73 a 77). Per una problematica lettura e stimolante riflessione su di essa: L. Ratti, Tutela del lavoro e libertà d’impresa alla prova del diritto europeo, in Il Lavoro nella giurisprudenza, pp. 433 ss, 2017.
[11] L. Panzani, La proposta di Direttiva della Commissione UE: early warning, ristrutturazione e seconda chance, in Fallimento, n. 2/2017, p. 129, per un primo commento.
[12] L’art. 172, primo comma, prevede infatti che: «Se un contratto è ancora ineseguito o non compiutamente eseguito nelle prestazioni principali da entrambe le parti al momento in cui è aperta la procedura di liquidazione giudiziale l’esecuzione del contratto, fatte salve le diverse disposizioni della presente sezione, rimane sospesa fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del comitato dei creditori, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del debitore, assumendo, a decorrere dalla data del subentro, tutti i relativi obblighi, ovvero di sciogliersi dal medesimo salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto».
[13] Essa è stata infatti stabilita in linea generale dall’art. 389, in diciotto mesi dalla pubblicazione del decreto legislativo sulla Gazzetta ufficiale, avvenuta il 12 gennaio 2019.
[14] A. Patti, I contratti di lavoro subordinato, in L. Panzani (diretto da), Il fallimento e le altre procedure concorsuali, vol. II, Utet, Torino, 2012, p. 451.
[15] L’abrogazione della Cigs per le procedure concorsuali, prevista dall’art. 3 l. n. 223/1991, con effetto dalla data suindicata, è stabilita dall’art. 2, comma 70, l. n. 92/2012.
[16] R. Bellè, Il lavoro come variabile del risanamento concordatario, in Fallimento, 2017, p. 1081.
[17] L’art. 172 non fissa alcun termine al curatore per operare la scelta in questione, ma prevede che il contraente in bonis possa mettere in mora il curatore, facendogli assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende sciolto (comma 2).
[18] A. Patti, Licenziamenti e loro effetti dalla Legge Fornero al Jobs act tra diritto del lavoro e diritto fallimentare, in Fallimento, 2016, p. 1175, in merito alla delicata questione del rimedio avverso un tale effetto, se di diritto comune alla stregua di impugnazione di un licenziamento, ovvero piuttosto (per la peculiarità dell’ipotesi, originata dall’apertura della procedura) di natura endofallimentare sub specie di reclamo avverso un atto omissivo del curatore, a norma dell’art. 36, comma 1, l.fall. (art. 133, comma 1, d.lgs n. 14/2019).
[19] Ed infatti l’art. 189, comma 4, nell’ultima parte stabilisce che: «In tale ipotesi, a favore di ciascun lavoratore nei cui confronti è stata disposta la proroga, è riconosciuta un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a otto mensilità, che è ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale».
[20] L’art. 189, comma 3, prevede infatti: «Qualora non sia possibile la continuazione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo o comunque sussistano manifeste ragioni economiche inerenti l’assetto dell’organizzazione del lavoro, il curatore procede senza indugio al recesso dai relativi rapporti di lavoro subordinato».
[21] I. Fedele, Il licenziamento disciplinare, in L. Di Paola (a cura di), Il licenziamento. Dalla legge Fornero al Jobs Act, Giuffrè, Milano, 2016, p. 155, argomentando da Cass., 9 agosto 2012, n. 14326, in Giurisprudenza italiana, 2013, 1852, in ordine all’elaborazione di una nozione di licenziamento “ontologicamente disciplinare” solo in parte riferibile al recesso datoriale per giusta causa.
[22] L’art. 189, comma 7, ne ha espressamente escluso l’applicabilità alle procedure di amministrazione straordinaria.
[23] Per concordatopreventivocon continuità indiretta si intende, a norma dell’art. 84, comma 2, quello nel quale sia prevista «la gestione dell’azienda in esercizio o la ripresa dell’attività da parte di soggetto diverso dal debitore in forza di cessione, usufrutto, affitto, stipulato anche anteriormente, purché in funzione della presentazione del ricorso, conferimento dell’azienda in una o più società, anche di nuova costituzione, o a qualunque altro titolo».
[24] A. Patti, L’evoluzione normativa dell’affitto d’azienda a rischio di depotenziamento “competitivo”, in Fallimento, n. 5/2017, p. 520.
[25] Trib. Alessandria 18 dicembre 2015, in Il caso, 8 aprile 2016, http://mobile.ilcaso.it/sentenze/ultime/14682, secondo cui la deroga consentita dalla norma in esame opera nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, incidente esclusivamente sulle modalità di esecuzione del rapporto di lavoro (quali appunto mansioni, qualifica, orario, etc.); essendo invece necessario l’accordo stipulato con il singolo lavoratore a norma degli artt. 410 e 411 cpc per incidere sui diritti allo stesso assicurati dall’art. 2112, commi 1 e 2 cc.
[26] Esso recita: «Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo, nel corso delle consultazioni di cui ai precedenti commi, con finalità di salvaguardia dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile, fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione, per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo, da concludersi anche attraverso i contratti collettivi di cui all’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, qualora il trasferimento riguardi aziende».
[27] R. Brogi, Il concordato con continuità aziendale nella riforma Rordorf, di prossima pubblicazione in Fallimento, 2019.
[28] Direttiva del Consiglio, 12 marzo 2001, n. 2001/23/CE e prima direttiva del Consiglio, 14 febbraio 1977, n. 77/187/CEE, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: Cgce, 7 febbraio 1985, n. 179, in Foro it., 1986, IV, 112; Cgue, 11 giugno 2009, n. 561, ivi, 2010, IV, 20.
[29] Esso prevede particolari forme agevolative per le società cooperative costituite da lavoratori dipendenti dell’impresa sottoposta alla procedura e per questi medesimi.
[30] Per la formalizzazione di un tale trasferimento del controllo attraverso lo strumento delle procedure d’insolvenza: L. Stanghellini, Le crisi di impresa fra diritto ed economia, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 49 ss.
[31] Una ricerca dell’Osservatorio di crisi e risanamento delle imprese (OCRI), istituito presso il Centro di ricerca «Entrepreneurial Lab» (Elab) dell’Università degli Studi di Bergamo, in collaborazione con la sezione fallimentare del Tribunale di Milano, l’Università del Piemonte Orientale e la Scuola di alta formazione (Saf) dell’Ordine dei dottori commercialisti di Milano, segnala come, nel periodo di osservazione 2005-2014 e su un campione di 580 procedure di concordato preventivo, il 61 per cento sia costituito da concordati liquidatori, mentre il 35 per cento da concordati con continuità, di cui il 9 per cento diretta e il 26 per cento indiretta, rispetto alla quale ultima soltanto il 28 per cento realizzata con cessione diretta, mentre ben il 72 per cento preceduta da un affitto dell’azienda o di un suo ramo. Così A. Danovi - P. Riva - M. Azzola, Alcune osservazioni empiriche sui c.p. del Trib. Milano, in Giur. comm., 2016, I, 837 ss., part. 846.
[32] In Fallimento, n. 4/2014, p. 393, con Un commento a prima lettura, di U. Macrì, ivi, p. 398.
[33] Trib. Firenze, 12 febbraio 2018, in Fallimento, 2018, p. 889, che significativamente afferma che: «a fronte di una azienda che sia tecnicamente incapace di salvaguardare i propri fondamenti economici e sappia solo disperdere attivo, non può ritenersi che vi sia una reale continuità, quale contenuto della proposta concordataria, ma piuttosto una cessione secondo logiche difensive e di riduzione della (progressiva) perdita di valore, tale da giustificare la qualifica del concordato in termini di “liquidazione assistita».
[34] G.P. Macagno, Continuità aziendale effettiva verso apparente: i confini mobili del concordato preventivo hanno trovato un argine?, in Fallimento, 2018, p. 899.
[35] Così l’art. 47, in attuazione dell’art. 6, comma 1, lett. f, l. n. 155/2017, anche secondo una recente evoluzione interpretativa: Cass., 7 aprile 2017, n. 9061 e Cass., 27 febbraio 2017, n. 4915, in Fallimento, 2017, p. 923, con nota di commento di M. Tarenghi, Verso un superamento della distinzione tra “fattibilità giuridica” e “fattibilità economica” nel concordato in continuità?, ivi, p. 929, secondo cui, mentre il sindacato giudiziale sulla fattibilità giuridica (intesa come verifica di non incompatibilità del piano con norme inderogabili) non incontra particolari limiti, il controllo sulla fattibilità economica (intesa come realizzabilità nei fatti del piano medesimo) può essere svolto nei limiti di una manifesta inettitudine a raggiungere gli obiettivi prefissati, individuabile caso per caso in relazione alle specifiche modalità indicate dal proponente per superare la crisi.
[36] Come anche sottolineato da L. Panzani, L’insolvenza in Europa: uno sguardo d’insieme, in Fallimento, 2015, p. 1022, la raccomandazione della Commissione Ue del 12 marzo 2014 avverte, al 16° considerando: «onde evitare potenziali rischi di abuso della procedura, è necessario (…) che il piano di ristrutturazione sia tale da impedire l’insolvenza e garantire la redditività dell’impresa».
[37] Per una riflessione sulla congruità delle riforme nazionali con le richieste della raccomandazione: U. Macrì, La legislazione italiana e le misure di risanamento nella Raccomandazione UE 2014/135 e nel Regolamento 2015/848, in Fallimento,2015, p. 1049.
[38] L. Panzani, La proposta di Direttiva della Commissione UE: early warning, ristrutturazione e seconda chance, in Fallimento,2017, p. 129, secondo cui il sistema italiano non pare troppo lontano dalle scelte della proposta, in particolare per gli accordi di ristrutturazione, e di ristrutturazione finanziaria, trovando anche i piani attestati un implicito riconoscimento europeo, posto che, avendo uno sviluppo esclusivamente stragiudiziale, non incidono sui diritti di coloro che non aderiscono. L’intervento del giudice sin dal principio della procedura nel concordato preventivo è, invece, giustificato dall’automatica sospensione delle azioni esecutive all’atto della presentazione del ricorso (ivi, p. 132).
[39] P. De Cesari, Il Regolamento 2015/848 e il nuovo approccio europeo alla crisi dell’impresa, in Fallimento, 2015, p. 1028.