Famiglie e dignità delle relazioni: una lettura costituzionale
1. Tra diritto e vita: le relazioni familiari nella prospettiva costituzionale
Se riguardato dall’angolo visuale del costituzionalista, il diritto delle relazioni familiari appare collocato con precisione all’incontro tra diritto e vita, chiamando in causa fondamentali dinamiche di riconoscimento, intese sia nella loro dimensione verticale che nella loro dimensione orizzontale o intersoggettiva[1]. Si avverte infatti con particolare intensità, in tale ambito, la tensione – connaturata all’esperienza giuridica – tra l’istanza di riconoscimento di situazioni di vita, che a loro volta costituiscono la proiezione della fondamentale libertà di autodeterminarsi nella sfera affettiva, e la pretesa dell’ordinamento giuridico di rendere tali situazioni oggetto di qualificazione e disciplina. Il mutevole equilibrio tra questi due poli caratterizza l’evoluzione del diritto delle relazioni familiari, ripetendo alcuni snodi problematici che sono tipici della storia del costituzionalismo e si legano al rapporto stesso tra autorità e libertà, e al diverso atteggiarsi dell’equilibrio tra di esse, che si traduce nella tensione tra declinazioni dogmatiche e autoritarie della disciplina dei modelli familiari e opposta istanza di riespansione e difesa della sfera dell’autonomia privata. In questa prospettiva, la relazione dinamica tra qualificazione giuridica e vita si manifesta quale figura della relazione dinamica tra la persona e l’ordinamento e investe, al fondo, la stessa costruzione dell’immagine costituzionalmente rilevante del soggetto, fino a ricomprendere in essa la capacità di amare.
Al crocevia di tali tensioni si colloca – come cornice di principio – il modello costituzionale di disciplina delle relazioni familiari, il quale opera in due direzioni: da un lato, le norme costituzionali individuano un ambito di garanzia della sfera privata e familiare rispetto a indebite ingerenze dell’ordinamento; d’altro canto, questa loro matrice antiautoritaria appare strumentale rispetto al libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali e dunque alla garanzia del principio pluralista, legittimando, al tempo stesso, interventi dell’ordinamento in chiave di promozione della personalità.
Esiste, pertanto, uno stretto legame tra modello costituzionale di famiglia e dimensioni della dignità: ancor più in profondità, l’inquadramento costituzionale delle formazioni familiari investe la stessa costruzione costituzionale delle soggettività. In quest’ottica, l’assenza di riconoscimento giuridico di determinate manifestazioni della vita familiare – come è avvenuto e avviene paradigmaticamente, ad esempio, in relazione alla vita familiare omosessuale – o, ancora, l’assenza di specifiche garanzie del libero svolgimento della personalità all’interno della formazione familiare stessa non determinano soltanto insicurezza[2], privando i soggetti interessati di presenza civile e di un «senso di legittimità»[3], ma acuiscono la vulnerabilità morale di tali soggetti – perpetuandone l’assenza – e appaiono idonee a incidere sulla stessa determinazione dei contorni dell’immagine costituzionalmente rilevante della persona.
Il rapporto tra diritto e relazioni familiari è pertanto attraversato da profonde tensioni e la classica immagine di Arturo Carlo Jemolo, secondo cui la famiglia è un’“isola che il diritto può solo lambire”, se pure traduce in termini efficaci, da un lato, il nesso tra diritto delle relazioni familiari e garanzia negativa della sfera privata rispetto all’intervento pubblico, d’altro canto deve essere problematizzata. Si pensi, ad esempio, che la medesima immagine viene utilizzata nella relazione introduttiva al ddl S. 735 in tema di affido dei minori a seguito della separazione tra i genitori[4]: un ddl in cui, come da più parti viene osservato, l’ispirazione di garantire l’autonomia privata nelle decisioni relative all’affido finisce, contraddittoriamente, per tradursi in strumenti di intervento autoritativo nella regolazione della crisi della famiglia[5]. Proprio l’esempio appena fatto mette in luce la complessità del rapporto tra diritto e relazioni familiari, il quale trascende – evidentemente – una logica soltanto difensiva e fondata sulla netta separazione tra autonomia privata e intervento pubblico. Come l’isola e il mare, anche la famiglia e il diritto non sono rigidamente separati, ma in relazione dinamica: e così come l’isola può esser parte di un arcipelago, o presentare una costa frastagliata, fatta di promontori e profonde insenature che accolgono il mare in diversa misura – e al mare si adattano, traendone, quando è possibile, alimento e ricchezza – anche le relazioni familiari, complesse come lo è la vita stessa, sovente hanno bisogno che il mare del diritto non si limiti a lambirle, ma intervenga a conformarle secondo le ben precise finalità consacrate dal quadro costituzionale di riferimento.
La sfera definita dall’assenza di intervento giuridico – la superficie emersa dell’isola – non è, infatti, un luogo privo di disuguaglianze e conflitti, e dunque «si è giustamente domandato se questo ritrarsi del diritto non lasci irrisolte, e affidate al solo costume, le difficili questioni del rapporto tra amore e diritto»[6], considerando soprattutto che «il non intervento tende a rafforzare lo status quo»[7].
Dunque, accanto alla necessaria garanzia dell’autonomia dei privati – anche nella sfera familiare –, l’intervento del diritto non rappresenta necessariamente una «indebita espansione della dimensione giuridica», bensì può costituire «una forma di liberazione da regole costrittive» a carattere non giuridico che qualificano le concrete situazioni di subordinazione e vulnerabilità che percorrono la sfera privata[8].
Peraltro, proprio in considerazione dell’innesto di principi e norme costituzionali sul tronco dei classici paradigmi privatistici, si è aperto uno spazio assai significativo per l’intervento positivo del diritto in chiave di promozione del libero svolgimento della personalità individuale, ponendolo al riparo da condizioni di diseguaglianza di fatto e proteggendo la persona nelle dinamiche di relazione determinate dalla sua appartenenza a comunità intermedie[9]: in altri termini, al tradizionale paradigma difensivo, basato cioè sull’astensione dello Stato dall’ingerenza nella sfera privata, si è sostituito un paradigma per cui «la tutela della personalità» sollecita «l’intervento attivo dei poteri pubblici per la sua integrale realizzazione»[10], e si pongono le basi per il superamento di una dimensione esclusivamente formale del principio di eguaglianza.
In questa chiave deve essere letto lo sviluppo del diritto delle relazioni familiari, declinando cioè la sua fondamentale matrice antiautoritaria (affermata e chiarita senza ambiguità dalla Costituzione stessa) sia nella dimensione verticale delle dinamiche di riconoscimento, vale a dire nel rapporto tra la persona – e la comunità familiare cui intenda dare vita – e il pubblico potere, sia nella dimensione orizzontale della protezione della persona rispetto a dinamiche di subordinazione e a diseguaglianze di fatto che, anche nella comunità familiare, ben possono palesarsi[11].
Si assiste, pertanto, a un doppio movimento, profondamente condizionato dall’impatto della Costituzione sulle dinamiche privatistiche: per un verso, la disciplina delle relazioni familiari viene sottratta all’ambito del diritto pubblico – al quale era stata affidata secondo un paradigma di tipo funzionalistico, che aveva avuto nelle premesse ideologiche delle politiche fasciste sulla famiglia il momento più rappresentativo[12] – per essere riconsegnata con nettezza alla sfera dell’autonomia privata, in chiave esplicitamente antiautoritaria; per altro verso, il ritorno alla sfera dell’autonomia privata non coincide con una delega in bianco, che limiti il ruolo del diritto al mero riconoscimento formale di assetti ricevuti dal libero atteggiarsi dell’autonomia medesima. Tutto al contrario, se «al diritto è legittimo chiedere un’assenza», ciò non implica che esso abdichi «al suo ruolo di garanzia di libertà e diritti – dunque pure del diritto d’amore», giacché resta chiamato a «rimuovere ostacoli (…) per rendere concretamente possibile, in ogni momento della vita, l’eguaglianza»[13].
Da un lato, dunque, si assiste a una revisione dei paradigmi – quello matrimoniale su tutti – al fine di renderli coerenti con il quadro costituzionale e la centralità della persona, apprestando «le strutture necessarie per l’autodeterminazione, grazie alle quali le persone possano effettuare liberamente le proprie scelte e costruire liberamente la loro personalità»[14], vedendosi riconosciuta pari dignità sociale sul piano simbolico e su quello strettamente giuridico; dall’altro, si rende necessario un intervento sulla concreta disciplina degli istituti e delle relazioni che a essi danno vita e corpo, per correggere disuguaglianze e assicurare effettività alla funzione propria di queste (tra le altre) formazioni sociali, e cioè la garanzia del libero svolgimento della personalità. Entrambi i movimenti, pertanto, sono governati dal principio di pari dignità sociale (che si completa con l’obbligo costituzionale di rimozione delle disuguaglianze di fatto) e dalla garanzia del libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali: così, entro la medesima cornice, si articolano il più ampio riconoscimento delle esperienze di vita familiare cui l’autonomia personale dà vita e l’effettiva garanzia di tale autonomia all’interno delle formazioni familiari riconosciute dall’ordinamento.
In altri termini, in questa prospettiva il riconoscimento giuridico delle diverse e nuove dimensioni della vita familiare si salda con la necessaria correzione di eventuali squilibri e diseguaglianze che all’interno della famiglia possono manifestarsi, in termini antidiscriminatori ma anche, e soprattutto, in chiave di garanzia dinamica del libero svolgimento della personalità: si allarga così «il perimetro costituzionale all’interno del quale collocare l’amore», il quale descrive «un insieme di punti di riferimento, che progressivamente convergono verso il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione della persona, del suo diritto a governare liberamente la propria vita e il proprio corpo»[15].
Una garanzia, lo si ribadisce, che non opera soltanto secondo i paradigmi classici della libertà negativa, ma che, appunto, fa premio anche sulla possibilità – e, talora, sull’imperativa necessità – che il diritto intervenga nella sfera delle relazioni private e familiari per assicurare la piena operatività dei precetti costituzionali di cui all’art. 2 e all’art. 3. Il rapporto tra diritto e vita, nell’ambito delle relazioni familiari, appare così multidimensionale e sfaccettato, ma i suoi diversi aspetti vengono ricondotti a unità nel comune ancoraggio all’immagine della persona, che gli artt. 2 e 3 assumono a vero e proprio obiettivo di una costruzione (giuridica e) costituzionale: un individuo riconosciuto in tutte le sue complesse sfere di esperienza ed esistenza come attore e attrice capace di autodeterminarsi e di svolgere liberamente la propria personalità in condizioni di pari dignità sociale. Ma un individuo non isolato, e che pertanto non può esercitare la propria libertà e la propria autonomia se non in una trama di relazioni personali, economiche e sociali che finiscono, inevitabilmente, per limitarle secondo una logica solidaristica, combinando diritti e doveri (verso se stessi e verso gli altri)[16]: come è stato affermato, «l’abbandono di una visione costrittiva ha spostato l’accento sulla reciprocità, sulla solidarietà»[17].
2. Status, appartenenza, relazione: alcune considerazioni preliminari
Un primo e suggestivo campo di prova delle richiamate tensioni tra diritto, vita e libertà è rappresentato dal concetto di status e dalla sua rielaborazione critica proprio nell’ambito del diritto delle relazioni familiari. In particolare, nella prospettiva del costituzionalista, lo status appare quale strumento giuridico di riconoscimento della soggettività e, come tale, è pervaso originariamente dalla tensione tra autorità (della pretesa qualificatoria) e libertà (intesa come medium di affermazione della propria soggettività) o, ancora, tra dimensione individuale e dimensione di appartenenza a un gruppo.
Infatti, alla radice stessa del concetto di status vi è la funzione di tradurre, in termini giuridici, una specifica situazione o condizione di vita, o ancora uno specifico modo che il diritto ha di considerare aspetti della vita (spirituale o materiale) della persona, per renderli oggetto o criterio di imputazione di norme[18].
Al fondo, peraltro, «il contenuto degli status è rappresentato da esigenze fondamentali della persona umana soggetto dell’ordinamento»[19] ed è a queste esigenze che deve guardarsi quando si indaghi la funzione, la portata e l’evoluzione degli status medesimi, con una ben precisa opzione a proposito dell’equilibrio tra autorità e libertà, tra pretesa qualificatoria e riconoscimento delle situazioni di vita, e dunque tra diverse declinazioni e costruzioni della soggettività in relazione al diritto[20].
Un equilibrio che è stato descritto, in dottrina, con diversi accenti, volti ora a recuperare la matrice storica del concetto di status, saldamente ancorata a premesse di tipo organicista[21], ora a sottolineare il progressivo indebolirsi del concetto, a causa dell’affermazione del principio individualistico[22].
La matrice organicistica del concetto di status è molto presente, ad esempio, nella riflessione classica di Antonio Cicu, il quale valorizza il nesso tra status e appartenenza a una comunità organizzata[23]. E tuttavia, nella misura in cui il rapporto tra il singolo e le comunità in cui la sua personalità liberamente si svolge diviene complesso e, soprattutto, orientato dinamicamente alla realizzazione del principio costituzionale di pari dignità, una declinazione del concetto di status incentrata esclusivamente sul dato statico dell’appartenenza «non è più sufficiente a tradurre, anche in termini giuridici, le coordinate che indicano il rapporto tra singolo e comunità»[24].
In altri termini, accanto al dato dell’appartenenza va considerato – specie in ottica costituzionalistica e con importanza crescente nell’evoluzione storica del rapporto tra autorità e libertà – l’altrettanto fondamentale dato della relazione tra il singolo e la comunità cui appartiene, nelle sue diverse dimensioni.
Peraltro, la consapevolezza del diverso atteggiarsi della relazione tra il singolo e il potere pubblico, a seconda delle situazioni di vita concretamente evocate, è alla base della riflessione giuridica sull’evoluzione del rapporto tra costituzionalismo e diritti fondamentali[25], ed è già implicata – seppure in nuce – nella stessa quadripartizione degli status fondamentali risalente all’opera di Georg Jellinek. Da un lato, infatti, la premessa di tale costruzione è che gli status descrivano diverse declinazioni della «gliedliche Stellung» dell’individuo rispetto alla comunità statuale[26]; d’altro canto, l’idea stessa che i diritti pubblici soggettivi siano il frutto di una autolimitazione dello Stato in relazione agli status medesimi, unitamente alle diverse dimensioni dell’appartenenza considerate, pone le basi, a ben vedere, per una declinazione dinamica dell’appartenenza. Quest’ultima, sebbene fondi la costruzione giuspubblicistica degli status, si qualifica allo stesso tempo in termini relazionali, sicché da una mera condizione di Zugehörigkeit (appartenenza declinata in termini meramente passivi) si trascorre progressivamente verso la diversa condizione di Mitgliedschaft, e cioè di appartenenza qualificata dalla relazione partecipativa alla vita della comunità statale[27].
In questa prospettiva, porre l’accento sulla relazione, piuttosto che sull’appartenenza, incide profondamente sul legame tra dinamiche degli status e costruzione della soggettività o, se si vuole, tra status e libertà di autodeterminarsi nella relazione solidale con l’altro e con la dimensione comunitaria: in questa prospettiva, il concetto di status assume una profondità in parte inedita e, lungi dal qualificare un destino o – in termini giuridicamente più precisi – una relazione tra pretesa qualificatoria dell’ordinamento e condizione soggettiva tutta sbilanciata sul primo termine, rende possibile includere nelle dinamiche di attribuzione (e modifica) degli status l’esplicarsi della libertà del soggetto, della sua libera determinazione.
In altri termini, dalla indisponibilità degli status – dallo status inteso cioè come conseguenza dell’appartenenza a una comunità organizzata sul piano della qualificazione giuridica di una condizione soggettiva – si vira progressivamente verso una flessibilizzazione dello status e un suo maggiore dinamismo, condizionato anche dalla sua disponibilità da parte del soggetto[28]. In altri termini, una concezione pan-pubblicistica dello status lascia il posto, per effetto di simili evoluzioni, a una sua declinazione sensibile al peso specifico della libertà e dell’autodeterminazione individuale – e al loro nesso con il principio di solidarietà – e dunque, se si vuole, a una sua concezione costituzionalmente orientata.
Nella sfera politico-costituzionale, ma a ben vedere anche in quella civilistica, tale dinamizzazione coincide con l’approfondimento del nesso tra riconoscimento e protezione della dignità personale e sviluppo della democrazia costituzionale: se, come è stato affermato, la dignità della persona rappresenta la premessa antropologico-concettuale dello Stato costituzionale, e la democrazia la sua conseguenza organizzativa[29], ciò si rifrange necessariamente – e in primo luogo – proprio sul rapporto tra istanze di riconoscimento di condizioni soggettive e pretesa qualificatoria dell’ordinamento giuridico, e dunque anche sulla configurazione e sulle trasformazioni degli status giuridici delle persone. Nell’esperienza costituzionale italiana, l’impatto del principio personalistico e solidaristico sui percorsi di costruzione della soggettività si traduce, d’altro canto, nella decisa valorizzazione costituzionale dei concetti di libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali e di libero sviluppo della persona umana come finalità prima della promozione dell’eguaglianza non solo sul piano formale, ma anche e soprattutto sul piano delle materiali condizioni di esistenza[30].
Si rivela così, per altro verso, il nesso molto stretto tra status e diritti fondamentali: nella misura in cui, nel quadro costituzionale, la persona è qualificata anzitutto quale soggetto di diritti fondamentali, dei quali deve godere in condizioni di pari dignità sociale, la costruzione degli status personali non potrà prescindere da tale premessa, la quale impone di evitare imposizioni autoritarie di status o rigide declinazioni dell’appartenenza a gruppi e comunità (come fonte di specifiche dimensioni della dignità personale, o di diritti e doveri), declinando piuttosto in termini di equilibrio il rapporto tra riconoscimento giuridico delle soggettività e istanze variamente implicate dal principio solidaristico. Se, da un lato, non può negarsi che «tensione dell’individuo verso la propria autorealizzazione ed impossibilità di sfuggire ad un quadro sociale di riferimento segnano (…) l’intera vicenda storica dei diritti costituzionali»[31], dall’altro è lo stesso articolo 2 della Costituzione che traccia una ben precisa linea di equilibrio tra libertà e solidarietà, articolando affermazione della soggettività e libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali, le quali possono così divenire occasioni di libertà, spazi di esperienza volti alla promozione della persona stessa.
3. Status e libero svolgimento della personalità
In questo scenario, l’evoluzione del concetto di status appare come figura dell’evoluzione del rapporto tra diritto e vita e condiziona anche, dal nostro punto di vista, l’evoluzione degli approcci al diritto di famiglia, contrassegnandoli per un diverso assetto dell’equilibrio tra libertà e autorità. Se così, paradigmaticamente in Cicu, l’elaborazione degli status familiari risentiva della progressiva impostazione pubblicistica dell’intero diritto di famiglia[32], ricostruzioni diverse permettono di includere nell’accesso allo status e nella sua conservazione il momento dell’autonomia e delle dinamiche di relazione, superandone così l’indisponibilità: con la conseguenza che, progressivamente, si passa anche in questo campo dalla sottolineatura dell’appartenenza (declinata in senso statico) alla comunità familiare, a una più avvertita considerazione delle concrete fattispecie (e dei concreti rapporti) in cui il singolo è coinvolto, sicché la configurazione dello status discende «dalla valutazione normativa dei rapporti personali e di convivenza del singolo con gli altri membri delle formazioni sociali, e non dalla valutazione normativa del concetto di famiglia e dal riconoscimento che il soggetto è membro della stessa»[33].
Il riconoscimento giuridico delle soggettività include, pertanto, il momento relazionale-associativo, ma in termini critici e non fino al punto di lasciare che l’appartenenza comunitaria assorba il momento individuale: com’è stato efficacemente affermato, «dall’originaria funzione dello status in termini di limitazione e differenziazione di ruoli e condizioni soggettive, si giunge così in età moderna a quella, opposta, di presidio della persona anche rispetto alla società e ai gruppi che la compongono»[34], e in tale mutamento di paradigma assume rilievo centrale l’ancoraggio degli status alla premessa della pari dignità sociale, nel suo rapporto con il libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali.
In conseguenza di un profondo mutamento di paradigma – che investe la stessa costruzione giuridica della soggettività, le sfere di vita riconosciute dal diritto, infine la stessa immagine costituzionalmente rilevante della persona e, in una parola, le dimensioni della dignità personale giuridicamente rilevanti – autodeterminazione e solidarietà, libertà, relazione e responsabilità entrano nella costruzione giuridica degli status, superandone l’indisponibilità e rendendoli flessibili, ma soprattutto coerenti con le esigenze derivanti dal riconoscimento e dalla protezione dei diritti fondamentali e degli inderogabili doveri di solidarietà della persona: così, «sono i diritti fondamentali (…) a dare il tono al discorso»[35], portando con sé «la necessità di collegare i diritti dell’amore con il principio di eguaglianza e con l’integrale rispetto della dignità della persona, che non può prescindere dalla rilevanza della sua volontà»[36].
Molto interessante, in questa prospettiva, il passaggio dalla neutralità del concetto giuridico di status, che lo rendeva idoneo a cristallizzare assetti gerarchici della società e correlativi equilibri di potere, a una «riedizione del termine status che esprime un concetto completamente diverso e che svolge (…) un ruolo di personalizzazione delle situazioni esistenziali e, al contempo, di riequilibratura delle situazioni patrimoniali»[37]. In altri termini, lo status può pure continuare a rilevare come forma espressiva di differenze individuali e sociali, ma la classificazione e la differenziazione che eventualmente possono derivarne non sono funzionali alla cristallizzazione di quelle differenze secondo gli assetti di potere esistenti, bensì piuttosto a farne oggetto di disciplina giuridica secondo l’obiettivo di emancipazione della persona sancito dall’art. 3 Costituzione, in entrambi i suoi commi e nel suo rapporto con l’art. 2[38]: una volta articolato in termini dinamici, dialettici e trasformativi il rapporto tra ordinamento giuridico e ordinamento sociale, il concetto di status da «presupposto di privilegi» diviene dunque «garanzia del libero perseguimento della propria personalità»[39] e, conseguentemente, la valutazione normativa delle condizioni personali appare funzionalizzata al «promovimento della personalità»[40].
Pertanto, l’ancoraggio del concetto di status alla personalizzazione delle situazioni esistenziali e alla riequilibratura delle situazioni patrimoniali vale a rendere coerente il concetto con il principio costituzionale di pari dignità sociale (con il suo corollario della necessaria soggettivizzazione dei giudizi di eguaglianza), ma anche con l’obiettivo (costituzionale) di rimozione delle disuguaglianze di fatto. Ora, tale rinnovata configurazione del concetto di status ne determina una intima trasformazione, che investe – per un verso – la sua funzione di strumento di qualificazione giuridica di esperienze e situazioni personali, e che appare per altro verso idonea ad accompagnare le trasformazioni del diritto delle relazioni familiari in conseguenza dell’impatto del quadro costituzionale. Anche nel diritto delle relazioni familiari si manifestano infatti – ad esempio, come meglio si vedrà, proprio sotto il profilo del rapporto tra l’art. 2 e l’art. 29 Cost. – le richiamate esigenze di personalizzazione, nell’ottica del superamento di costruzioni autoritarie che subordinano il singolo alla comunità familiare cui appartiene e che, al tempo stesso, tendono a cristallizzare i modelli e gli istituti familiari ricevuti dalla tradizione, sottorappresentando le nuove conformazioni impresse alle relazioni familiari stesse dalle vicende della libertà nel loro sviluppo storico; e si manifestano, altresì, le richiamate esigenze di riequilibrio – per esempio, sotto il profilo del rapporto tra l’art. 29 e l’art. 3 – in relazione all’eguaglianza giuridica dei coniugi, alla condizione della donna nell’esperienza di vita familiare, ma anche alla condizione del minore[41].
Se si consente la semplificazione, ad esempio, lo status di coniuge diviene disponibile, una volta liberamente assunto, nel momento in cui si supera la dogmatica dell’indissolubilità del matrimonio (e dunque la funzionalità del matrimonio stesso alla stabilizzazione delle relazioni sociali, facendone piuttosto un luogo di libero sviluppo della personalità); entro certi limiti, anche lo status indisponibile per eccellenza – lo status filiationis – conosce significativi temperamenti nella misura in cui si va allentando il nesso biunivoco e ritenuto, sin qui, inscindibile tra appartenenza a un gruppo sociale, biologia e filiazione[42].
4. Segue: procreazione medicalmente assistita, omogenitorialità e vicende dello status filiationis
Si pensi, per fare un esempio certamente paradigmatico, agli approdi della legislazione e della giurisprudenza in tema di rapporto tra biologia e intenzione nella costituzione dello status filiationis in caso di procreazione medicalmente assistita eterologa, sia in coppie eterosessuali che in coppie omosessuali. Proprio i casi della procreazione medicalmente assistita e dell’omogenitorialità, peraltro, dimostrano con estrema chiarezza che – nel silenzio del legislatore – lotta per il riconoscimento significa lotta per ottenere una qualificazione giuridica della propria condizione, cioè uno status, aderente alla concretezza delle situazioni e delle esperienze e per individuare, in altri termini, un punto di incontro tra diritto e vita adeguato alle esigenze della dignità personale[43].
L’evoluzione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita – prima e dopo l’entrata in vigore della legge n. 40/2004 – ha progressivamente sottoposto a profonde tensioni, infatti, i criteri di attribuzione dello status di figlio disciplinati dal codice civile e ancorati, in estrema sintesi, a un sistema di presunzioni (per la filiazione nel matrimonio) e a dichiarazioni di riconoscimento (per la filiazione fuori dal matrimonio) che presupponevano e presuppongono, in ogni caso, che la filiazione sia avvenuta spontaneamente all’interno della coppia. E tuttavia, tanto il favor legitimitatis (che ha caratterizzato per lungo tempo la disciplina della filiazione, almeno fino alla riforma realizzata con il d.lgs. n. 154/2013) quanto il favor veritatis (che, in sempre più intensa concorrenza con il primo, ispirava invece in prevalenza l’attribuzione dello status di figlio nato fuori dal matrimonio) sono apparsi progressivamente inidonei a restituire in termini giuridici, con sufficiente precisione, le complesse fattispecie relazionali collegate alla procreazione medicalmente assistita, sia nel caso di ricorso a gameti interni alla coppia, sia nel caso di ricorso a gameti esterni. Accanto ad essi, si è dovuto infatti tenere conto di altre variabili, evocate proprio dalle concrete modalità della procreazione e legate, in particolare, alla non necessaria corrispondenza tra verità della procreazione e interesse del minore all’acquisizione e alla conservazione di uno status corrispondente alla concretezza delle proprie relazioni familiari e, dunque, a un concetto di identità personale derivante non solo e non tanto dal patrimonio genetico, quanto anche – e soprattutto – dal concreto atteggiarsi delle scelte procreative che lo hanno portato al mondo e della comunità di affetti in cui è accolto/a.
La cornice istituzionale e giuridica delle relazioni tra i genitori (favor legitimitatis) e la verità della procreazione (favor veritatis) hanno così progressivamente ceduto spazio al favor minoris e al favor affectionis, come reso evidente da una consolidata giurisprudenza costituzionale[44] e dall’evoluzione legislativa in materia.
Si è assistito, in altri termini, a un significativo rovesciamento di prospettiva[45], particolarmente evidente – ad esempio – nella formulazione e nella portata degli artt. 8 e 9 l. n. 40/2004, i quali, saldamente ancorati al principio della responsabilità procreativa, dispongono – per un verso – che il minore nato a seguito del ricorso a tecniche di PMA acquisti lo stato di figlio della coppia che ha prestato il consenso alla pratica e – per altro verso – che, nel caso di PMA realizzata mediante ricorso a gamete esterno alla coppia, il genitore non genetico non possa esercitare l’azione di disconoscimento. Si ricordi peraltro, a tale riguardo, che una recentissima giurisprudenza di merito e di legittimità – correttamente ritenendo che gli artt. 8 e 9 della legge n. 40 abbiano la funzione di garantire e tutelare la posizione del minore indipendentemente dalla liceità o meno, in Italia, delle tecniche procreative grazie alle quali sia venuto al mondo – ha ritenuto tali disposizioni applicabili al caso del ricorso alla PMA da parte di coppia di donne[46], ma anche al caso di minore nato grazie a PMA effettuata con utilizzo del gamete maschile di un uomo deceduto (cd. “PMA post mortem”)[47], individuando come unico limite all’operatività di tale criterio il peculiare disvalore ascritto dal legislatore alla surrogazione di maternità[48]. Come ritenuto dalla dottrina[49] e da una importante pronuncia[50], i criteri di attribuzione dello status filiationis non corrispondono ormai, nel sistema, a un modello univoco, ma si differenziano a seconda delle modalità procreative, sicché alla filiazione cd. “spontanea” continuano ad applicarsi le norme del codice civile, mentre alla procreazione “artificiale” si applica lo schema regolatorio recato dalla l. n. 40/2004, che si fonda sul principio della responsabilità procreativa e, dunque, della genitorialità intenzionale.
L’evoluzione della giurisprudenza deve peraltro essere letta assieme alle più recenti innovazioni legislative che hanno interessato la disciplina giuridica della filiazione, e che hanno notevolmente allentato il nesso biunivoco tra consolidamento dello status e mera realizzazione delle condizioni poste dalla legge per la sua costituzione: si pensi, solo per fare un esempio, alla revisione della disciplina delle azioni di stato, oramai imprescrittibili solo in favore del figlio (che intenda promuovere l’accertamento o il disconoscimento dello status) e assoggettate, in relazione agli altri legittimati, a termini di decadenza[51].
I descritti mutamenti consentono di svolgere alcune riflessioni sulla sorte del principio di indisponibilità dello status filiationis che rappresenta, nel quadro dell’analisi che si viene svolgendo, uno snodo davvero paradigmatico per verificare la concreta articolazione del rapporto tra diritto e vita in relazione alla disciplina delle relazioni familiari.
Sembra di poter affermare, in particolare, che da uno status indisponibile – perché etero-determinato dall’appartenenza alla famiglia cd. legittima[52] o dal fattore biologico – si muova progressivamente verso uno status disponibile, almeno in parte, alla libera autodeterminazione e, soprattutto, alla solidale assunzione di responsabilità da parte dei soggetti coinvolti, fino a configurare compiutamente lo «status quale relazione intersoggettiva»[53]. Non si tratta dunque soltanto di un passaggio dal cd. «modo comunitario» al «modo individuale» dello status[54], ma di un movimento più profondo, che investe e riguarda la stessa articolazione del rapporto tra diritto, vita e libertà nella costituzione dello status. Ciò non esclude, peraltro, che la costituzione dello status possa – e debba – andar soggetta a norme a carattere cogente, ove si tratti di dare protezione a soggetti vulnerabili quali soprattutto i minori; ma implica allo stesso tempo che il rapporto tra diritto e vita ha abbracciato, della vita, porzioni sempre più vaste e condizionate dall’autonomia individuale.
In altri termini, la tutela delle situazioni soggettive attraverso l’articolazione degli status di diritto familiare resta «affidata al sistema»[55], ma ciò che muta è il presupposto – o, se si vuole, la causa di giustificazione – di tale opera di protezione, che si sposta dall’ambito dell’appartenenza necessaria (e dunque da premesse di tipo dogmatico e latamente autoritario) a un diverso equilibrio tra autodeterminazione dei singoli in ordine alla costruzione delle relazioni personali e familiari, solidarietà e responsabilità verso i soggetti vulnerabili.
In sintesi, lo status – per l’innanzi risultante da una qualificazione autoritativa, da parte dell’ordinamento, dei fatti rilevanti per la sua costituzione – ha progressivamente recuperato una fondamentale matrice relazionale, più coerente con le dinamiche di protezione dei diritti fondamentali in uno Stato costituzionale democratico e pluralista, temperando la rigidità di qualificazioni automatiche a favore della disponibilità dello status medesimo, derivante a sua volta dal riconoscimento di più complesse vicende e situazioni di vita e rispondente – nel caso di minori – al loro migliore interesse.
Una simile ricostruzione del concetto di status – che ripete dal quadro costituzionale di riferimento la sua intima coerenza con il principio del libero svolgimento della personalità – appare altresì coerente con la funzione attribuita ai registri e agli atti dello stato civile, i quali documentano «non le situazioni giuridiche attinenti allo status personae, bensì alcuni fatti che l’ordinamento considera presupposti di effetti giuridici»[56]: il che comporta, da un lato, la netta distinzione tra «situazione giuridica status personae» e «situazione giuridica scaturente dalla relazione dell’atto dello stato civile» e, d’altro canto, vale a escludere una posizione di assoluta subordinazione del comparente rispetto al potere dell’ufficiale di stato civile, limitando in altri termini la rilevanza pubblicistica delle funzioni anagrafiche alla mera funzionalità rispetto alla certezza e conoscibilità delle situazioni riferite alla persona[57], piuttosto che all’accertamento e/o alla costituzione di status personali[58]. Pertanto, l’esatta delimitazione della natura e delle funzioni dei registri e degli atti dello stato civile rinvia a questioni propriamente costituzionali, in quanto attinenti agli equilibri stessi tra autorità e libertà, piuttosto che meramente amministrative.
Le implicazioni di una simile lettura sono rese evidenti, ad esempio e per contrasto, dalla recente rimessione alla Corte costituzionale, da parte del Tribunale di Pisa, della questione di costituzionalità della norma risultante dal combinato operare degli artt. 449 cc, 29, comma 2, dPR n. 396/2000 («Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile»), dell’art. 250 cc e degli artt. 5 e 8 l. n. 40/2004, nella parte in cui non consente all’ufficiale di stato civile di formare l’atto di nascita di un bambino, cittadino straniero, con l’indicazione di due genitori dello stesso sesso, qualora ciò sia corrispondente allo status a questo riconosciuto dalla sua legge nazionale, applicabile in base all’art. 33 l. n. 218/1995[59]. Secondo il remittente, in particolare, in ragione della natura pubblica della funzione disciplinata, le norme relative alla formazione degli atti di nascita – interpretate nel senso che impongano l’indicazione di due genitori di sesso diverso – debbono essere qualificate come norme di applicazione necessaria, idonee a escludere l’operatività dell’ordinario criterio di collegamento da cui discenderebbe, invece, l’applicazione della legge nazionale del figlio anche in sede di registrazione anagrafica. In questo tipo di operazione interpretativa, la concezione pan-pubblicistica delle attività di formazione degli atti dello stato civile sembra presupporre una declinazione autoritativa delle relative attività amministrative, la quale – oltre a porsi in tensione con l’attinenza della materia alla tutela di diritti fondamentali dell’individuo – a sua volta riposa sul concetto dell’indisponibilità dello status filiationis, che abbiamo visto essere però sottoposto a tensioni profonde.
5. Libero svolgimento della personalità e modelli familiari: formazioni sociali e garanzie di istituto
Nel prisma dei complessi equilibri che caratterizzano il rapporto tra diritto e vita può essere letta, infine, la tensione tra dimensione individuale e dimensione istituzionale nei percorsi di interpretazione dell’art. 29 della Costituzione ai sensi del quale, come noto, «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Simile tensione è connaturata, peraltro, alle diverse interpretazioni della funzione delle garanzie di istituto, come specifico strumento di protezione dei diritti fondamentali: in altri termini, quando una Costituzione sceglie di garantire e tutelare un diritto fondamentale (o un insieme di diritti fondamentali) attraverso il riconoscimento e la speciale protezione dell’istituto che di tali diritti rappresenta la condizione di esperienza, l’interprete si trova di fronte al compito di individuare e isolare i diversi obiettivi che tale strumento mira a garantire. Attraverso la garanzia di istituto la Costituzione intende proteggere uno spazio di esperienza – un complesso di relazioni e assetti sociali rilevanti per il diritto – rispetto a indebite ingerenze del legislatore: tale finalità presenta, peraltro, una doppia dimensione, potendosi interpretare in senso garantistico (come presidio di sfere di libertà in chiave antiautoritaria) o in senso conservativo (nell’ottica, cioè, della difesa di assetti sociali ricevuti dalla tradizione rispetto a interventi di tipo trasformativo). Allo stesso tempo, se riguardata in ottica antiautoritaria, la garanzia di istituto appare preordinata, per un verso, alla garanzia del principio pluralista e non può prescindere, per altro verso, dall’articolazione di una relazione dinamica tra considerazione delle concrete vicende di libertà ed esperienza che all’istituto danno vita e corpo e possibilità di un intervento conformativo del diritto in chiave di promozione della personalità attraverso l’istituto e la sua evoluzione[60]. In altri termini, proprio perché legata all’affermazione del principio pluralistico, la garanzia di istituto resta preordinata alla garanzia della posizione del singolo e del libero svolgimento della sua personalità nelle formazioni sociali, ivi compresa la protezione della posizione individuale rispetto a eventuali abusi da parte del gruppo o della sua componente maggioritaria[61].
Simile lettura delle garanzie di istituto si lega molto strettamente al nesso tra dimensioni della dignità e svolgimento della personalità nelle formazioni sociali. In particolare, a un concetto di dignità che sembra insistere su una tutela della persona fermandone il valore «in termini statici», il riferimento al libero svolgimento della personalità nelle formazioni familiari «suggerisce l’idea di infinite potenzialità di svolgimento, che il sistema non dovrebbe sacrificare, impedire o conculcare»[62].
Da simile impostazione discende, peraltro, immediatamente la necessità di conciliare la salvaguardia del principio pluralista con la tutela dei diritti del singolo di fronte al gruppo, come espressione di una esigenza per così dire interna e connaturata allo stesso principio pluralista. Infatti, la dimensione dinamica della dignità – racchiusa nell’equilibrio tra dignità e libertà[63] e dunque nel rapporto tra dignità e libero svolgimento della personalità – appare strettamente funzionale alla garanzia del principio pluralista, nella misura in cui ne valorizza l’ancoraggio stesso al fine costituzionale di garanzia della pari dignità sociale delle diverse esperienze di vita e delle diverse rappresentazioni della vita e della dignità stessa cui dà luogo l’autodeterminazione di ciascuna e ciascuno, ma anche al compito della Repubblica, enunciato nell’art. 3, comma 2, di rimozione degli ostacoli al libero sviluppo della persona.
Per questa via, l’ancoraggio del principio pluralista alla dignità – per il tramite del libero svolgimento della persona e, dunque, dell’equilibrio tra dignità e libertà – rivela un significativo legame con la promozione dell’eguaglianza, non a caso declinata in Costituzione nei termini di pari dignità sociale. Se, come è stato autorevolmente insegnato, il significato della definizione costituzionale di eguaglianza in termini di pari dignità sociale risiede nel superamento di una declinazione esclusivamente formale dell’eguaglianza medesima, a favore di un suo più deciso ancoraggio alle concrete vicende della soggettività[64], il libero svolgimento della persona assume una posizione centrale e decisiva, sia nella sua dimensione individuale sia nella sua dimensione sociale, e dunque sia nel suo rapporto con il principio di dignità che con il principio pluralista.
Il complesso intreccio tra gli articoli 2 e 3 della Costituzione delinea, pertanto, una immagine del soggetto, il riconoscimento della cui dignità non è preordinata (solo) alla protezione di un’essenza statica, bensì alla promozione delle condizioni per la costruzione e la conservazione di relazioni e comunità intermedie che restino, però, saldamente funzionali al libero sviluppo della personalità[65]. Termine medio e strumento di garanzia di tale funzionalizzazione è, con ogni evidenza, il diritto, il cui rapporto con la vita non è declinato soltanto in termini oppositivi ma anche, e soprattutto, in termini di garanzia positiva di sfere di libertà e autodeterminazione. Un pluralismo, insomma, non impostato in termini massicci o latamente corporativi, ma sensibile alle molteplici porosità della dimensione sociale e comunitaria, al suo alimentarsi di relazioni che, a loro volta, inverano il principio di dignità come autodeterminazione e libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali; sensibile, in altri termini, al complesso intreccio tra autonomia individuale e autonomie collettive, alle tensioni e ai conflitti che tale intreccio apre e sui quali il diritto è chiamato a intervenire ogni qual volta ne risulti pregiudicato il nesso funzionale tra garanzia del pluralismo e garanzia della dignità individuale, o ancora ne venga pregiudicata la pari dignità sociale di tutte e tutti.
In questa prospettiva, pertanto, la garanzia di istituto può essere letta e interpretata privilegiando la dimensione istituzionale – muovendo, cioè, da un approccio di tipo dogmatico all’istituto per arrivare, solo in un secondo momento, alla posizione dei singoli e alle specifiche istanze di riconoscimento di cui sono portatori – oppure facendo il percorso contrario, mettendo in luce – in prospettiva critica – la strumentalità delle posizioni dogmatiche rispetto a precomprensioni di carattere ideologico e la loro radicale incoerenza rispetto al nesso funzionale tra art. 29 e art. 2, vale a dire la strumentalità della garanzia dell’istituto familiare rispetto alla liberazione e alla promozione della persona in condizioni di pari dignità[66].
6. Segue: per una rilettura dell’art. 29 della Costituzione
Con specifico riguardo all’art. 29, peraltro, si deve ricordare che la posizione di privilegio riconosciuta alla famiglia attraverso la garanzia di istituto non va disgiunta da «una prospettiva di evoluzione della società»[67] nella misura in cui la garanzia dell’istituto familiare si iscrive «nel quadro più generale di un progetto di riforma delle strutture della società civile»[68]. Di conseguenza, è agli artt. 2 e 3 che deve guardarsi al momento di individuare la portata storico-sistematica dell’art. 29: il modello costituzionale di famiglia, in altri termini, appare strettamente legato agli obiettivi di promozione della personalità e trasformazione della società accolti dalla Costituzione, e ad essi la sua interpretazione e le sue concrete vicende restano necessariamente ancorate[69]. In definitiva, è proprio l’ancoraggio all’art. 2 a rendere il diritto delle relazioni familiari sensibile alla «direzione dei processi di trasformazione della società italiana che sono necessari per assicurare consistenza reale al modello di famiglia in astratto prefigurato dall’art. 2»[70].
In tale ottica può essere riguardata, ad esempio, la stessa espressione «società naturale», utilizzata dal Costituente per descrivere la formazione sociale protetta dall’art. 29. Anche in questo caso, laddove una prospettiva di tipo dogmatico tenderebbe a cristallizzare nell’espressione assetti pregiuridici o addirittura premesse di tipo giusnaturalistico, l’ancoraggio dell’interpretazione dell’art. 29 agli artt. 2 e 3 consente di riconoscere nella formula, tutto al contrario, un dispositivo politico-costituzionale di garanzia delle formazioni familiari, in chiave antiautoritaria. Come suggestivamente affermato, in altri termini, con l’espressione società naturale «non si voleva evocare una essenza, si affrontava un problema politico»[71].
Di tale impostazione resta chiarissima traccia nei lavori della Prima sottocommissione dell’Assemblea costituente: fu, in particolare, Aldo Moro a escludere ogni implicazione di tipo giusnaturalistico, quando sostenne – nella seduta del 30 ottobre 1946 – che il futuro art. 29 perseguiva l’obiettivo di «riconoscere costituzionalmente che lo Stato ha dinanzi a sé delle realtà autonome da cui esso stesso prende le mosse, sia pure a sua volta influenzandole»[72]. E ancor più esplicitamente, proprio a proposito della formula «società naturale», nella successiva seduta del 6 novembre Moro chiarì che «essa corrisponde ad un’evidente preoccupazione di ordine politico (…) che riguarda la lotta contro il totalitarismo di Stato, il quale intacca innanzi tutto la famiglia, per potere, attraverso questa via, più facilmente intaccare la libertà della persona»[73].
Una simile affermazione, unita a quella assai nota e relativa alla non esclusiva rilevanza del vincolo sacramentale per la configurabilità dell’istituto familiare quale garantito dalla Costituzione[74], vale a chiarire che, nella prospettiva dei lavori dell’Assemblea costituente, l’unica possibile funzionalizzazione della garanzia di istituto della famiglia è quella alla tutela della personalità.
In altre parole, la premessa antiautoritaria sottesa a tale formula non va letta (soltanto e riduttivamente) in un’ottica difensiva rispetto alle ingerenze dello Stato nella originaria conformazione della comunità familiare: al contrario, e in linea con il progetto di liberazione ed emancipazione della persona inaugurato dalla Costituzione repubblicana, la premessa antiautoritaria si svolge attraverso l’articolazione di una relazione dinamica tra diritto e vita familiare, laddove l’intervento positivo del diritto nella sfera delle relazioni familiari resta funzionale al perseguimento delle finalità di ordine costituzionale cui la stessa garanzia dell’istituto familiare è preordinata, e dunque – in definitiva – la piena effettività degli articoli 2 e 3 della Costituzione[75].
Nella medesima prospettiva del rapporto tra art. 29 e artt. 2 e 3 può essere rapidamente evocata la problematica questione dell’estensione dell’accesso all’istituto matrimoniale per le coppie formate da persone dello stesso sesso, vero e proprio snodo paradigmatico nell’evoluzione dei percorsi di interpretazione dell’art. 29. Le interpretazioni della garanzia costituzionale dell’istituto familiare in chiave evolutiva si sono, infatti, concentrate prevalentemente sulla sua applicazione esclusiva o meno alle sole famiglie fondate sul matrimonio, interrogandosi cioè sui limiti esterni della garanzia costituzionale[76], piuttosto che su quelli interni: in altri termini, ci si è chiesti se godessero di un qualche forma di protezione costituzionale le famiglie cd. di fatto o non matrimoniali e non anche, fino a tempi molto recenti, se al matrimonio potessero accedere anche coppie omosessuali.
L’attenzione alla storicità del matrimonio[77], d’altro canto, si è concentrata su aspetti interni alla disciplina dell’istituto – paradigmaticamente, la critica della sua indissolubilità e soprattutto, la condizione di donne e minori all’interno della comunità familiare – e solo di rado sui suoi confini, e dunque ad esempio sul suo carattere necessariamente eterosessuale. Ciò è stato dovuto in prevalenza a ragioni di carattere storico: si pensi, in particolare, alla progressiva stratificazione tra domanda di riconoscimento della libertà sessuale – tradottasi sul piano giuridico in rivendicazioni legate alla sfera del diritto alla vita privata e all’intimità – e progressiva presa di coscienza della specifica dignità delle relazioni omosessuali, sia sul piano dell’inveramento di una dimensione di autodeterminazione affettiva sia sul piano della loro proiezione di carattere familiare.
Di tale resistenza è rimasta traccia fin nella nota sentenza n. 138/2010, con la quale la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di estendere – in via interpretativa – l’accesso al matrimonio alle coppie omosessuali, ha ritenuto tale operazione preclusa in ragione del dato testuale, interpretato in chiave originalistica. Come è stato suggestivamente affermato, tuttavia, «costruendo un mondo chiuso attorno all’art. 29, i giudici costituzionali si sono chiusi essi stessi al mondo dove la persona deve essere considerata con il massimo rispetto e dove le parole giuridiche devono pur avere un significato»[78].
Sul punto, va ribadito che la strada per il superamento della discriminazione matrimoniale, più che fondarsi su un esclusivo riferimento all’art. 3 (e dunque al divieto di discriminazione in ragione delle condizioni personali, eventualmente interpretando tale ultima clausola, se necessario, anche alla luce del dato sovranazionale), non può prescindere da una lettura dell’art. 29 sensibile al combinato operare degli artt. 2 e 3, che consenta una soggettivizzazione del giudizio di eguaglianza, vale a dire il suo ancoraggio alla libertà di autodeterminarsi nella sfera affettiva e familiare. Detta soggettivizzazione risulta, per un verso, dallo stesso riferimento al divieto di discriminazione in ragione delle condizioni personali; per altro verso, essa pare imposta alla luce dello stretto nesso intercorrente tra la definizione di eguaglianza in termini di pari dignità sociale, da un lato, e il combinato operare del secondo comma dell’art. 3 e dell’art. 2, che trovano un punto di incontro nel comune riferimento al libero svolgersi e svilupparsi della persona. Solo attraverso una soggettivizzazione esigente del giudizio di eguaglianza – il suo deciso ancoraggio al principio dignità e al suo esplicarsi in formazioni sociali, nella concretezza di relazioni e differenze – si sarebbe potuta articolare una interpretazione dell’art. 29 Cost. davvero sensibile al suo nesso con l’art. 2, piuttosto che a una pretesa fissità storico-culturale dell’istituto matrimoniale[79].
Si tratta, in altri termini, di perseguire un duplice movimento, ispirato in entrambe le sue dimensioni al nesso funzionale tra art. 29 e artt. 2 e 3: per un verso, la tendenza a ricomprendere nella garanzia dell’istituto familiare forme di espressione dell’autodeterminazione relazionale e affettiva che non ambiscono al massimo riconoscimento pubblico dato dall’istituto matrimoniale; per altro verso, quella ad allargare le maglie dell’istituto matrimoniale stesso, sia per irrobustire la protezione del libero svolgimento della personalità dei singoli attraverso di esso, sia per rendere sempre più coerente tale istituto con la pari dignità sociale di tutte e tutti, prefigurata dall’art. 3 Costituzione come compito e fondamentale obiettivo della Repubblica.
D’altro canto, la flessione delle garanzie istituzionali e dello stesso principio pluralista verso il libero svolgimento della personalità fa sì che non possano opporsi – a nuove proiezioni sociali dell’autodeterminazione individuale – limiti diversi da quelli derivanti dai doveri di solidarietà, e in particolare fa sì che non possa opporsi al riconoscimento giuridico di tali nuove e diverse esperienze (comunitarie) di libertà il limite derivante dalla tipicità delle formazioni sociali esistenti (magari perché così ricevute dalla tradizione) o da una pretesa di esclusività delle stesse o, ancora, da una loro resistenza alle mutazioni storiche che possono esser loro impresse dalle dinamiche di autodeterminazione e libero sviluppo della personalità. Con il significativo corollario che, ad esempio, la restrizione all’accesso a un determinato istituto – paradigmaticamente, l’accesso al matrimonio per le coppie formate da persone dello stesso sesso – potrà essere perseguita unicamente se la restrizione medesima appaia ragionevolmente giustificata, vale a dire se vi siano elementi sufficienti per trattare la differenza in termini diseguali. Di nuovo, lo stretto legame tra principio pluralista e libero svolgimento della personalità nelle formazioni sociali rivela un nesso altrettanto intenso con le dinamiche dell’eguaglianza e, in modo del tutto particolare, con l’eguaglianza intesa come pari dignità delle differenze, e cioè come riconoscimento di eguale capacità di dar vita a esperienze di relazione a partire dalla propria autodeterminazione, anche in ambito affettivo.
L’esperienza delle relazioni resiste e si contrappone ad astratte ricostruzioni dogmatiche, in quanto solidamente ancorata agli articoli 2 e 3 della Costituzione: allo stesso tempo, essa invita il diritto a riconoscerla, incontrando la vita nella pluralità delle sue manifestazioni, che a loro volta sono espressione dell’autodeterminazione solidale del singolo nelle formazioni sociali[80].
In conclusione, solo un’evoluzione del diritto delle relazioni familiari che sia pienamente coerente con le richiamate linee di tendenza pare in grado di assicurare l’articolazione di una relazione tra diritto e vita che resti pienamente aderente alla molteplicità di esperienze che caratterizzano l’autodeterminazione in materia familiare. Dal momento che «la Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti»[81], soltanto modelli disciplinari ragionevolmente aderenti alla vita e alle sue diverse manifestazioni paiono idonei ad assicurare, in ultima analisi, la piena effettività degli obiettivi costituzionali cui la protezione della famiglia è preordinata.
[1] Per un approfondimento delle dimensioni giuridiche del riconoscimento, si consenta il rinvio ad A. Schillaci, Le storie degli altri. Strumenti giuridici del riconoscimento e diritti civili in Europa e negli Stati Uniti, Jovene, Napoli, 2018.
[2] Come osserva S. Rodotà, Diritto d’amore, Laterza, Roma-Bari, 2015, p. 46.
[3] Nell’espressione utilizzata da Corte europea dei diritti dell’uomo, 21 luglio 2015, Oliari e altri c. Italia, ricc. nn. 18766/11 e 36030/11, par. 174.
[4] S. 735, Pillon e altri, recante «Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità», consultabile al seguente link: www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/50388.htm (ultimo accesso 22 giugno 2019).
[5] Per una critica, cfr. M.R. Marella, Il ddl Pillon, o come una soggettività “suprematista” si fa diritto, in EuroNomade, 27 marzo 2019 (www.euronomade.info/?p=11862: ultimo accesso 22 giugno 2019), nonché L. Ronchetti, in questo Fascicolo e, nel dibattito politico, M. Cirinnà, Le famiglie, la vita, il diritto: riflessioni sul ddl Pillon, in Lo Stato presente, 22 novembre 2018 (www.lostatopresente.eu/2018/11/le-famiglie-la-vita-il-diritto-riflessioni-sul-ddl-pillon.html: ultimo accesso 22 giugno 2019).
[6] Così S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 18.
[7] Così M.R. Marella, La contrattualizzazione delle relazioni di coppia. Appunti per una rilettura, in Rivista critica del diritto privato, 2003, 1, pp. 57 ss., in particolare p. 81, nonché pp. 88-89.
[8] Così S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 19.
[9] Come sostenuto da S. Rodotà, Ipotesi sul diritto privato, in Id. (a cura di) Il diritto privato nella società moderna, Il Mulino, Bologna, 1971, p. 10: «il regno della libertà – il diritto privato – appare insidiato dalla presenza di pesanti disuguaglianze di fatto, che contraddicono la parità formale di situazioni ed il pari potere della volontà di ciascun individuo».
[10] Ibid., p. 15.
[11] Di «fiducioso ancoraggio al diritto privato» in chiave antiautoritaria (che non esclude, però, «la possibilità di taluni interventi legislativi nella materia o il controllo, almeno sotto specie del controllo giudiziale, a garanzia dei diritti del singolo e delle minoranze») parla P. Rescigno, Ascesa e declino della società pluralista, in Id., Persona e comunità, Cedam, Padova, 1987 (ristampa), p. 24.
[12] Sul tema, vds. ad esempio P. Ginsborg, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950, Einaudi, Torino, 2013.
[13] Così S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 12.
[14] Ibid., p. 48.
[15] Ibid., p. 71.
[16] Per questa declinazione dell’autonomia, vds. adesso L. Ronchetti, L’autonomia e le sue esigenze, Giappichelli, Torino, 2018.
[17] Così S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 115.
[18] Così, paradigmaticamente nella definizione di Rescigno, lo status è «strumento tecnico (…) capace di tradurre in una condizione rilevante per il diritto, e rilevante in maniera non precaria e non discontinua, una situazione che, nell’ambiente sociale e secondo l’apprezzamento comune, distingue un soggetto dagli altri soggetti, per ragioni strettamente individuali o in ragione dell’appartenenza ad un gruppo»: P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civile, vol. I, 1973, pp. 211-212.
[19] Così A. Palazzo, La filiazione fuori dal matrimonio, Giuffrè, Milano, 1965, p. 16; analogamente L. Iannelli, Stato della persona e atti dello stato civile, ESI, Napoli, 1984 pp. 69 ss. Sul punto vds. anche G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Laterza, Roma-Bari, 1993, specie pp. 38 ss.
[20] Sul rapporto tra articolazione degli status e superamento della concezione astratta della soggettività, cfr. A. Corasaniti, voce Stato delle persone, in Enc. Dir., vol. XLIII, Giuffrè, Milano, 1990, pp. 948 ss., specie pp. 955 ss. Sul punto vds. anche G. Alpa, Status e capacità, op. cit., specie pp. 3 ss.
[21] Sul punto vds. L. Iannelli, Stato della persona, op. cit., specie pp. 36 ss.
[22] Passaggio che, paradigmaticamente, si riassume nell’espressione “dallo status al contratto”; sul punto cfr. P. Rescigno, Situazione e status, op. cit., pp. 217 ss.; G. Alpa, Status e capacità, op. cit., pp. 24 ss.
[23] Ad esempio quando afferma che «il vincolo giuridico che è inconcepibile nell’individuo isolato, diventa possibile solo in grazia dell’aggregarsi, dell’organizzarsi: è vincolo organico»: A. Cicu, Il concetto di «status» (1917), ora in Id., Scritti minori, vol. I, Giuffrè, Milano, 1965, p. 189.
[24] Così G. Alpa, Status e capacità, op. cit., p. 4, il quale significativamente prosegue affermando che «occorre infatti aggiungere il modo in cui l’individuo concreto è differenziato rispetto agli altri» e, vorremmo aggiungere, continuamente reinterpreta la propria differenza, trasformandosi e per l’effetto trasformando la comunità di cui è parte.
[25] Sul punto vds. per tutti P. Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo, in Id., Il principio libertà nello Stato costituzionale, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 2 ss.
[26] G. Jellinek, System der Subjectiven Öffentlichen Rechte, Mohr, Heidelberg, 1882, p. 50.
[27] Coerentemente, peraltro, con la profonda tensione tra diritto e fattualità che percorre l’intera opera di Jellinek: sul punto, vds. P. Ridola, Germanesimo, statualismo e liberalismo nella fondazione del diritto pubblico dello stato nazione: Laband, Gierke e Jellinek, in Id., Stato e Costituzione in Germania, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 1 ss., specie pp. 19 ss.
[28] Spunti in questo senso in P. Rescigno, Situazione e status, op. cit., p. 218.
[29] Così, in particolare, P. Häberle, voce Stato costituzionale, in Enc. giur. Treccani, voll. IX e XXX, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma, 2000.
[30] Sul punto vds. C. Pinelli, «Nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità», in Id., Nel lungo andare. Scritti scelti 1985-2011, Jovene, Napoli, 2012, pp. 157 ss.; P. Ridola, Garanzie costituzionali e dimensioni dei diritti di libertà, in Id., Diritti di libertà e costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 1 ss., specie pp. 114 ss. nonché, se si vuole, A. Schillaci, Le storie degli altri, op. cit., pp. 160 ss.
[31] Così P. Ridola, Libertà e diritti, op. cit., p. 202.
[32] Lo osserva P. Rescigno, Situazione e status, op. cit., p. 219.
[33] Così L. Iannelli, Stato delle persone, op. cit., p. 52, corsivi aggiunti.
[34] Così S. Stefanelli, Caratteri e funzione dello status, in A. Sassi – A. Scaglione – S. Stefanelli, La filiazione e i minori, in R. Sacco (diretto da) Trattato di diritto civile. Le persone e la famiglia, vol. IV, Utet giuridica, Milano, 2018, p. 78.
[35] Così S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 76.
[36] Ibid., p. 77.
[37] L. Iannelli, Stato delle persone, op. cit., p. 19.
[38] Sicché, prosegue L. Iannelli, Stato delle persone, op. cit., «il ritorno al cd. diritto singolare (…) è soltanto apparente, da un lato perché le categorie sociali non hanno le caratteristiche della necessità e della permanenza, dall’altro perché tale tecnica non presuppone il ripudio del principio di eguaglianza formale (…), bensì la presa d’atto che la regola per essere effettivamente uguale per tutti deve tener conto delle diverse situazioni che viene a incidere» (p. 21).
[39] Ibid., p. 29.
[40] Ibid., p. 70.
[41] Sul punto, cfr. ancora ibid., pp. 38-41.
[42] Sul punto, vds. A. Sassi, Accertamento e titolarità nel sistema della filiazione, in A. Sassi – A. Scaglione – S. Stefanelli, La filiazione e i minori, op. cit., pp. 3 ss., specie pp. 40 ss.
[43] Mantenendo ferma la consapevolezza, richiamata da Rodotà, «di che cosa può divenire il diritto quando incontra la vita delle persone e si comporta come se non esistesse» (Diritto d’amore, op. cit., p. 17).
[44] Si pensi, ad esempio, alla sentenza n. 166/1998, nella quale la Corte per la prima volta affermò l’indifferenza della cornice giuridica del rapporto tra i genitori rispetto alla posizione dei figli; o, ancora, alla sentenza n. 347/1998, in tema di conseguenze sullo status filiationis del ricorso alla PMA con donazioni di gameti esterni alla coppia, ma anche alla più recente sentenza n. 272/17, la quale ha escluso ogni automatismo tra non corrispondenza dell’atto di nascita alla verità della procreazione e suo annullamento: su quest’ultima decisione vds. A. Schillaci, Oltre la “rigida alternativa” tra vero e falso: identità personale, verità biologica e interesse del minore nella sentenza n. 272/2017 della Corte costituzionale, in Giur. cost., n. 1/2018, pp. 385 ss.
[45] Come osserva A. Sassi, Accertamento e titolarità, op. cit., p. 40; cfr. anche pp. 57 ss.
[46] Si tratta di Trib. Pistoia, decreto 5 luglio 2018, e Trib. Bologna, decreto 6 luglio 2018, entrambi consultabili sul portale Articolo 29 (www.articolo29.it).
[47] Cass., sez. I civ., 15 maggio 2019, n. 13000.
[48] Cass. civ., sez. unite, 8 maggio 2019, n. 12193.
[49] Cfr. M. Gattuso, Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40, in questa Rivista online, 16 gennaio 2018, www.questionegiustizia.it/doc/bambino_e_le_sue_mamme_gattuso.pdf (ultimo accesso 22 giugno 2019), specie par. 3; G. Ferrando, I bambini, le loro mamme e gli strumenti del diritto, in corso di pubblicazione su GenIUS – Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere (www.geniusreview.eu), fasc. 1/2019.
[50] Si tratta di Corte appello Napoli, 4 luglio 2018, n. 145 (Est. Casaburi), in Articolo 29, 5 luglio 2018, con commento di M. Gattuso, Corte di appello di Napoli: i bambini arcobaleno sono figli di entrambi i genitori sin dalla nascita (www.articolo29.it/2018/corte-appello-napoli-bambini-arcobaleno-figli-genitori-sin-dalla-nascita/; ultimo accesso 22 giugno 2019).
[51] Sul punto, cfr. A. Sassi, Azioni di stato, in A. Sassi – A. Scaglione – S. Stefanelli, La filiazione e i minori, op. cit., pp. 351 ss.
[52] Come ricorda A. Sassi, Accertamento e titolarità, op. cit., p. 45, ad oggi la situazione si è piuttosto ribaltata, e l’appartenenza non è più presupposto, ma conseguenza dell’accertamento dello status.
[53] Così S. Stefanelli, Caratteri e funzione dello status, op. cit., p. 70.
[54] Per questa distinzione, cfr. A. Corasaniti, voce Stato delle persone, op. cit.
[55] Così ancora S. Stefanelli, Caratteri e funzione dello status, op. cit., p. 78.
[56] L. Iannelli, Stato della persona, op. cit., pp. 146-147.
[57] Nonché alla loro opponibilità a terzi, cfr. sul punto ibid., pp. 154 ss.
[58] In conseguenza, prosegue Iannelli, ibid., alla redazione degli atti di stato civile può essere assegnata «da soli o unitamente ad altri elementi di fatto, efficacia costitutiva di particolari aspetti dello “stato civile” della persona, situazione giuridica autonoma e diversa da quella conosciuta come status personae» (p. 168).
[59] Per un commento, vds. A. Schillaci, L’omogenitorialità a Palazzo della Consulta: osservazioni a prima lettura dell’ordinanza del Tribunale di Pisa del 15 marzo 2018, in Articolo 29, 28 maggio 2018, www.articolo29.it/2018/lomogenitorialita-a-palazzo-della-consulta-osservazioni-a-prima-lettura-dellordinanza-del-tribunale-di-pisa-del-15-marzo-2018/ (ultimo accesso 23 giugno 2019).
[60] Sicché, ad esempio, come è stato suggestivamente affermato proprio in relazione alla famiglia e al matrimonio, «non è il diritto che riconosce il matrimonio, si potrebbe dire, sono piuttosto le persone che, grazie al diritto d’amore, riconoscono il diritto. Un processo di riconoscimento più profondo di qualsiasi formalismo” (S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 122). Per ulteriori approfondimenti sulle garanzie di istituto, oltre a P. Ridola, Garanzie costituzionali, op. cit., cfr. A. Di Martino, La doppia dimensione dei diritti fondamentali, in Gruppo di Pisa, 10 giugno 2016, https://www.gruppodipisa.it/8-rivista/38-alessandra-di-martino-la-doppia-dimensione-dei-diritti-fondamentali (ultimo accesso 22 giugno 2019).
[61] Sul punto, cfr. P. Rescigno, Persone e gruppi sociali, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, pp. 44-45, nonché Id., L’individuo e la comunità familiare, in Id., Persona e comunità, vol. II, Giuffrè, Milano, 1988, pp. 231 ss., dove, a p. 260, si legge: «la tutela del singolo nelle comunità è (…) un discorso imposto già dalla formula costituzionale, ove si rifletta non solo sulla materia della garanzia, materia costituita dai diritti inviolabili della persona, ma altresì sulla finalità del riconoscimento. Il fine è lo svolgimento della persona; e dunque l’esplicazione della personalità si presenta, ad un tempo, come la ragione ed il limite della garanzia apprestata ai gruppi».
[62] Così P. Rescigno, L’individuo e la comunità familiare, op. cit., p. 232.
[63] Sul punto, vds. per tutti P. Ridola, La dignità dell’uomo e il «principio libertà» nella cultura costituzionale europea, in Id., Il principio libertà, op. cit., pp. 236 ss.
[64] Il riferimento va a G. Ferrara, La pari dignità sociale (appunti per una ricostruzione), in Aa. Vv., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. II, Giuffrè, Milano, 1973, pp. 1087 ss. Per ulteriori considerazioni sul punto, si consenta il rinvio ad A. Schillaci, Pensiero delle donne ed esperienza giuridica, in B. Pezzini e A. Lorenzetti (a cura di), 70 anni dopo, tra uguaglianza e differenza. Una riflessione sull’impatto del genere nella Costituzione e nel costituzionalismo, Giappichelli, Torino, 2019 (in corso di pubblicazione).
[65] Sul punto, cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 194.
[66] Sul punto, cfr. diffusamente M. Bessone, Art. 29, in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Zanichelli–Il Foro italiano, Bologna-Roma, 1976, pp. 1 ss., specie pp. 13 ss.
[67] Ibid., p. 1.
[68] Ibid., p. 3.
[69] Si configura, pertanto, un legame strettissimo con gli artt. 2 e 3: in particolare, «il nuovo modello di società prefigurato dall’art. 3, 2° comma, nel disegno costituzionale si completa con un progetto di contestuale evoluzione verso un nuovo modello di famiglia, ordinato sul principio di libertà di espressione e di tutela dei valori della persona» (ibid., p. 4) e, di conseguenza, «l’art. 2 è (…) l’autentica norma di principio dell’intero ordinamento giuridico della famiglia» perché «indica le garanzie di tutela dei diritti inviolabili come elementi costitutivi dell’ordinamento della famiglia, e condizione necessaria alla sua funzione istituzionale di sviluppo ed espressione della personalità dei singoli» (ibid., p. 7).
[70] Ibid., p. 8.
[71] S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 117.
[72] Ass. Cost., I sottocomm., seduta del 30 ottobre 1946 (p. 335 del resoconto).
[73] Ibid, p. 347.
[74] E cioè: «il concetto del vincolo sacramentale (…) non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e di funzionalità umana, possa inserirsi nella vita sociale», ibid., pp. 339-340.
[75] Come osserva P. Rescigno, L’individuo e la comunità familiare, op. cit., p. 341: «nell’ambito della famiglia (…) il nodo centrale è la rivendicazione di diritti, libertà, interessi individuali» che subito si lega alla protezione dei soggetti deboli, all’interno (e che deve rimanere composta in equilibrio con la tutela della formazione sociale verso l’interno e verso l’esterno).
[76] Se essa si estendesse, cioè, al di fuori della “cornice matrimoniale”: cfr., ad esempio, F. Caggia e A. Zoppini, Art. 29, in R. Bifulco - A. Celotto - M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, Cedam, Padova, 2006, p. 609.
[77] Essa deriva dalla stessa storicità della “società naturale” e, dunque, della garanzia di istituto; cfr. ibid., p. 608: «se dalla formula “società naturale” appare più corretto ricavare una definizione di famiglia caratterizzata da relatività e storicità, aperta alle dinamiche sociali, le stesse caratteristiche possono essere attribuite al matrimonio indicato dall’art. 29 come atto fondativo del gruppo familiare».
[78] S. Rodotà, Diritto d’amore, op. cit., p. 108.
[79] Si consenta il rinvio, anche per ulteriori approfondimenti di dottrina, ad A. Schillaci, Costruire il futuro. Omosessualità e matrimonio, in Id. (a cura di), Omosessualità eguaglianza diritti, Carocci, Roma, 2014, pp. 195 ss.
[80] Cfr. ancora M. Bessone, Art. 29, op. cit., p. 64: «Il disegno costituzionale delinea una normativa che privilegia la famiglia, come “luogo degli affetti” e di espressione della personalità dei singoli (…) ormai soltanto queste funzioni le assicurano una legittimazione sociale».
[81] Corte cost., n. 494/2002, considerato in diritto, par. 6.1.