Opponibilità dello status familiae, identità biologiche e buona fede nei procedimenti di ricongiungimento familiare
1. I poteri consolari di indagine
Come è noto, le verifiche riguardo all’effettività delle relazioni familiari dichiarate al momento della richiesta di nulla osta al ricongiungimento familiare sono svolte dagli uffici consolari nel Paese di origine o di residenza del chiamato/i al ricongiungimento.
Quest’ultimo, quindi, entro sei mesi dal rilascio del nulla osta (a pena di decadenza dal procedimento), dovrà recarsi presso l’ufficio consolare italiano competente per il rilascio del visto di ingresso, sottoponendosi alla verifica dei requisiti anagrafici e di stato civile richiesti dalla legge. Peraltro, un secondo termine di decadenza di un anno (a partire dalla data del primo appuntamento presso gli uffici consolari) per il deposito della documentazione richiesta per il rilascio del visto è invalso presso la rete consolare, benché la sua legittimità sia stata contestata dalla giurisprudenza[1].
Il rilascio del visto da parte dell’ufficio consolare competente (quello situato nel Paese di residenza, non necessariamente coincidente con il Paese di cittadinanza dell’interessato) è subordinato all’accertamento dell’autenticità della documentazione comprovante i presupposti di parentela, coniugio, minore età[2], nonché – nei casi richiesti – della documentazione comprovante lo stato di salute e la vivenza a carico.
Ai sensi dell’art. 29, comma 1-bis, Tui, se gli stati riguardanti i figli minori, i figli maggiorenni e i genitori «non possono essere documentati in modo certo mediante certificati o attestazioni rilasciati da competenti autorità straniere, in ragione della mancanza di una autorità riconosciuta o comunque quando sussistano fondati dubbi sulla autenticità della predetta documentazione, le rappresentanze diplomatiche o consolari provvedono al rilascio di certificazioni, ai sensi dell’art. 49 dPR 5 gennaio 1967, n. 200, sulla base dell’esame del DNA, effettuato a spese degli interessati».
L’art. 29, comma 1-bis, subordina quindi l’espletamento degli esami del DNA alla mancanza dell’autorità competente al rilascio della documentazione di stato civile, oppure alla sussistenza di fondati dubbi sull’autenticità della documentazione presentata, dove il requisito di autenticità riguarda l’effettiva legittimità del potere documentativo da parte dell’autore del documento, mentre tutt’altra questione è quella della verità o affidabilità delle dichiarazioni contenute nel documento. Al riguardo, può osservarsi che, almeno in linea di principio, l’art. 29 del testo unico richiama l’autorità consolare, una volta verificata l’autenticità del documento, a considerare quest’ultimo valido ed efficace ai fini della procedura di rilascio del visto.
La norma – al pari di quella contenuta all’art. 2, comma 2-bis, del regolamento, che a breve verrà esaminata – pone un onere squilibrato sui richiedenti il visto, addossando loro i costi degli accertamenti ulteriori anche nel caso che non siano loro a mancare della documentazione di stato civile autentica, ma sia invece l’autorità consolare a nutrire dubbi su tale autenticità.
Il problema riguarda soprattutto l’attività più onerosa, che è costituita oggi dall’esame del DNA, spesso imposto agli interessati anche al di fuori dei casi in cui ne sarebbe prevista la necessità. La direttiva 2003/86/CE, all’art. 5, par. 2, prevede infatti che «ove opportuno, per ottenere la prova dell’esistenza di vincoli familiari, gli Stati membri possono convocare per colloqui il soggiornante e i suoi familiari» e solo in via residuale è menzionata la possibilità di altre indagini che siano ritenute necessarie[3]. Tale disposizione è interpretata dall’Unione europea nel senso che gli Stati membri possono valutare se occorre raggiungere la prova del rapporto di famiglia attraverso interviste o altre indagini, compreso il test del DNA, ma tali indagini non sono ammesse se ci sono «altri mezzi idonei e meno invasivi per stabilire l’esistenza di un rapporto di parentela»[4].
L’art. 29, comma 1-bis, Tui va, però, coordinato con la disposizione regolamentare (cronologicamente precedente) di cui all’art. 2, comma 2-bis, dPR n. 394/1999, applicabile, a differenza del primo, anche ai coniugi, ai termini del quale, «Ove gli stati, fatti e qualità personali (...) non possono essere documentati mediante certificati o attestazioni rilasciati da competenti autorità straniere, in ragione della mancanza di una autorità riconosciuta o della presunta inaffidabilità dei documenti, rilasciati dall’autorità locale, rilevata anche in sede di cooperazione consolare Schengen locale, ai sensi della decisione del Consiglio europeo del 22 dicembre 2003, le rappresentanze diplomatiche o consolari provvedono al rilascio di certificazioni, ai sensi dell’ articolo 49 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200, sulla base delle verifiche ritenute necessarie, effettuate a spese degli interessati».
A differenza dell’art. 29, comma 1-bis, la norma regolamentare non ha, quale presupposto, il dubbio sull’autenticità del documento amministrativo, ma la mancanza di un’autorità riconosciuta oppure la «presunta inaffidabilità dei documenti, rilasciati dall’’autorità locale».
Al riguardo va, però, osservato come l’art. 29, comma 1-bis, costituisca disposizione speciale rispetto all’art. 2, comma 2-bis del regolamento, in quanto riguarda specificamente le richieste di visto per ricongiungimento familiare e la prova dei relativi legami di sangue mediante analisi di laboratorio (vi rimane estraneo, quindi, lo stato di coniugio). Ciò dovrebbe – anche se nella prassi non è così – rendere residuale il ricorso da parte dei consolati all’art. 2, comma 2-bis, del regolamento, il cui ambito di applicazione, originariamente, avrebbe peraltro dovuto riguardare le procedure di rilascio dei visti di breve periodo (oggetto della cooperazione consolare Schengen)[5], al fine di contrastare il cd. “rischio migratorio”, ma è invece stato esteso, più genericamente, a tutte le procedure di rilascio del visto.
2. La prevalenza del requisito di autenticità dello status sulle verità biologiche
Malgrado nella prassi i consolati tendano ad abusare della facoltà di svolgere ulteriori indagini e di richiedere altra documentazione o analisi di laboratorio agli interessati (conseguenza, questa, più che ovvia del fatto che il costo di tali analisi rimane a esclusivo carico del richiedente il visto e, dunque, non costa nulla all’amministrazione che le pretende), l’oggettiva veridicità di quanto dichiarato nella documentazione presentata non dovrebbe normalmente essere oggetto di verifiche ulteriori, soprattutto se queste ultime sono mirate all’accertamento di mere verità biologiche, dato che gli stati familiari, per essere autentici, non devono necessariamente corrispondere al fatto naturale della filiazione, specie là dove sia comunque intervenuto (secondo le regole previste dalla legge del luogo) il possesso di stato[6]; o, comunque, quando l’atto di riconoscimento del figlio non sia stato o non sia più impugnabile e non vi siano elementi per ritenere che esso sia stato preordinato alla domanda di ricongiungimento familiare[7].
Insomma, là dove il sistema di stato civile straniero persegua il fine – ben conosciuto e condiviso dal nostro stesso sistema di stato civile – di privilegiare la stabilità e la realtà delle relazioni di filiazione premiandole rispetto alla ricerca della verità biologica (costituendo caso mai quest’ultima, entro i limiti e i modi fissati dalla legge, un diritto degli interessati, ma non certo una potestà pubblica svincolata dalle regole del diritto civile)[8], davvero non si vede perché, contraddicendo alle direttive del nostro diritto di famiglia, dovremmo negare l’autenticità dello status di filiazione che, sulla base di consimili direttive, è attestato dall’autorità straniera a ciò competente.
Può dunque essere approvato quell’orientamento giurisprudenziale che, anche in caso di risultato negativo del DNA, o di rifiuto degli interessati a sottoporvisi (spesso motivato dal costo economico dell’operazione), ha ritenuto di dovere comunque riconoscere l’efficacia dei documenti autentici di stato civile. Osserva la Cassazione che l’amministrazione consolare «non può negare in via di principio valore probatorio alla documentazione ufficiale dello status filiationis proveniente dalle competenti autorità del Paese di nascita dell’interessato» ancorché questa non sia assistita dalla medesima fede privilegiata riconosciuta agli atti di stato civile adottati dalle autorità italiane[9]. Spetta, di conseguenza, prima all’amministrazione ed, eventualmente, al giudice valutare caso per caso, e nella consapevolezza del summenzionato principio di efficacia probatoria, la forza di eventuali elementi contraddittori con la documentazione ufficiale e le plausibili ragioni di tale contrasto[10].
Sebbene sul punto la norma sembri chiara, la giurisprudenza ha inoltre dovuto ribadire che l’imposizione agli interessati di analisi di laboratorio è legittimata solo dalla mancanza di documentazione autentica o dall’emersione di adeguati elementi di contraddizione rispetto a essa, in modo da contemperare il disposto dell’art. 29, comma 1-bis, Tui con l’art. 33, comma 3, della legge n.218/1995[11].
Questo orientamento ha trovato applicazione, segnatamente, sia a casi nei quali le autorità consolari avevano dubitato dell’effettiva minore età del figlio da ricongiungere, sia casi nei quali era stata richiesta l’ulteriore prova del fatto della filiazione.
3. Il contrasto tra la minore età legale e l’età biologica
Riguardo, in particolare, alla prova del requisito della minore età, è anche da chiedersi se questa sia in sé da considerarsi un dato meramente biologico o se, invece, costituisca un dato amministrativo dotato di una sua verità autonoma rispetto al dato di natura rimasto oscuro.
È noto come la corrispondenza tra i dati risultanti dai registri dello stato civile e i fatti registrati possa essere variamente inesatta dal punto di vista cronologico e come, nei diversi ordinamenti giuridici, anche in ragione della loro efficienza, sia diversamente modulata la disciplina della dichiarazione (anche e, soprattutto, tardiva) della nascita, esistendo Paesi dove sono altissime le percentuali di mancata registrazione alla nascita.
A mio parere, dovrebbe certamente prevalere l’età anagrafica così come registrata in via amministrativa rispetto all’età biologica, ogni qual volta tale dato amministrativo abbia effettivamente regolato, scandendone i momenti salienti, la vita dell’interessato. Viceversa, dovrebbe essere considerato falso il dato amministrativo che attribuisca all’interessato un’età diversa da quella con la quale egli ha vissuto o sta vivendo le proprie relazioni sociali e giuridiche.
Esemplificando, non può dirsi falsa l’attribuzione in via amministrativa dell’età di diciassette anni a un soggetto che, in caso di esame densiometrico-osseo, risulterebbe invece avere un’età compresa tra i venti e i ventidue anni, se egli risulti essersi iscritto al liceo come quattordicenne tre anni prima e abbia ottenuto l’anno precedente un provvedimento amministrativo riferibile nel suo Paese ai minori che abbiano raggiunto i sedici anni di età. Diverso è, invece, il caso del ventenne straniero accreditatosi come minorenne mediante la presentazione di un atto di stato civile ottenuto corrompendo l’ufficiale di stato civile del suo Paese[12].
4. Accertamento delle verità biologiche e violazioni del diritto alla privacy
Non sembra che le prassi consolari si siano poste il problema del diritto alla privacy dei soggetti coinvolti nelle indagini genetiche. Emblematico il caso di una donna somala – cittadina di un Paese nel quale la cultura dei rapporti familiari non sempre garantisce l’incolumità della donna di cui si venga a conoscere l’adulterio – la quale, avendo ricevuto il riconoscimento dello status di rifugiato in Italia, aveva richiesto il ricongiungimento con i propri figli minori di età. Il consolato, non accontentandosi della dichiarazione di assenso dei due padri esercitanti la responsabilità genitoriale rispettivamente sul figlio più grande e su quello più piccolo, ha però richiesto la prova del DNA per appurare che anch’essi fossero i rispettivi genitori biologici. Ciò ha messo in pericolo – più che in imbarazzo – la madre (accertata tale anche sul piano delle risultanze del DNA), la quale ben sapeva che le indagini genetiche avrebbero dimostrato che il primo marito non era padre del suo primogenito, in quanto da lei concepito con quello che sarebbe poi divenuto il suo secondo marito.
5. Le violazioni del dovere di buona fede e correttezza nell’azione amministrativa
Il giudice ordinario ha dovuto spesso censurare la mancanza di correttezza e di diligenza degli uffici consolari, come nel caso in cui il consolato si era astenuto – per ben quattro anni – dal rilascio del visto per ricongiungimento familiare dei figli minori di età, giustificando il silenzio inadempimento con l’emergere di «alcune irregolarità formali concernenti il cognome dei figli apparentemente diverso da quello del padre (Abdulle invece che Cabdulle)» a fronte, però, dell’esame del DNA fornito dal richiedente e confermativo del rapporto biologico di procreazione, cui era peraltro seguita, nei successivi tre anni, l’inerzia dell’amministrazione. La violazione dell’obbligo di fornire una risposta in tempi ragionevoli, avendo leso un diritto fondamentale della persona «che, come tale, non può essere sacrificato a tempo indeterminato da un comportamento omissivo della p.a.», ha comportato la condanna, oltre che al rilascio del visto, al risarcimento del danno non patrimoniale subito dal ricorrente[13].
Particolarmente emblematica è la vicenda conclusasi con la condanna della Francia, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, al risarcimento dei danni morali. Alla base della vicenda v’è, come spesso accade in Africa, la disorganizzazione del sistema di stato civile camerunese, tale da fare ritenere al consolato non veritieri i certificati di nascita presentati dalla madre nel richiedere il ricongiungimento familiare con i suoi due figli. Tuttavia, la donna aveva supplito sia mediante la rettificazione in via giudiziaria degli atti di nascita presso la magistratura camerunese, sia mediante la sottoposizione all’’esame del DNA, con esiti a lei favorevoli, senza però ottenere il rilascio del visto per i suoi figli, sopraggiunto solo a seguito della pendenza della sua azione davanti alla Corte europea, a quattro anni dalla richiesta di ricongiungimento[14].
6. L’accertamento dello stato coniugale
Riguardo alla prova dello stato di coniuge, si pongono soprattutto due questioni. La prima è quella relativa all’efficacia della documentazione autentica nei casi in cui il consolato sia in dubbio (e quanto possa essere ampio il margine del dubbio non v’è norma che possa specificarlo) o abbia il sospetto che, nonostante la sua autenticità, questa non sia tuttavia veritiera e, comunque, non sia pienamente attendibile.
In questi casi, la giurisprudenza tende a circoscrivere il compito dell’ufficio consolare all’accertamento della «autenticità della documentazione comprovante i presupposti di parentela, coniugio, minore età o stato di salute», ritenendo che, invece, non gli competa eccepire «l’inattendibilità delle certificazioni», salva, appunto, «la verifica dell’autenticità in sé del documento»[15].
La seconda questione riguarda invece la tutela del diritto all’unità familiare nei casi in cui la documentazione autentica manchi per cause non dipendenti dalla negligenza degli interessati i quali si dichiarino coniugi e attestino questo loro status con altri elementi di prova.
Al riguardo, va riscontrata la scarsa attitudine dei nostri consolati a considerare e tutelare le posizioni di buona fede dei richiedenti il visto per ricongiungimento familiare, intendendo con tale espressione l’evidenza dello sforzo collaborativo dei richiedenti nel dare informazioni e attuare comportamenti finalizzati a dare dimostrazione, almeno, del possesso di stato in quelle situazioni nelle quali la mancanza di documentazione ufficiale, avente ad oggetto la celebrazione del matrimonio, non sia a loro imputabile.
La scarsa attitudine degli uffici consolari a porsi in relazione con i richiedenti in ottemperanza al principio di buona fede trova limite e censura in un orientamento del Consiglio di Stato, il quale ha infatti da tempo affermato che, ove non sia possibile riconoscere valore fidefacente alle certificazioni di stato civile perché non provenienti dall’autorità locale competente (che, nel caso di specie, non esisteva più), l’ambasciata italiana non può per ciò solo rifiutare il visto di ingresso, ma è suo onere accertare se la documentazione presentata sia comunque idonea, in relazione alla genuinità della stessa e alle circostanze del caso[16].
[1] Cfr. Trib. Torino, 19 febbraio 2013, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2013, p.176 (testo integrale: www.francoangeli.it/Area_RivistePDF/getArticolo.ashx?idArticolo=48762).
[2] Sulle problematiche relative all’accertamento della minore età, cfr. M. Malena, Accertamento della minore età e diritto all’unità familiare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2007, pp. 66 ss. e P. Morozzo della Rocca, Il diritto al ricongiungimento familiare e le indagini consolari sulla veridicità delle attestazioni contenute nella certificazione di stato civile straniera, in Diritto di famiglia e delle persone, 2006, pp. 117 ss.
[3] Così C. Corsi,Lo Stato e lo straniero, Cedam, Padova, 2001, p. 293.
[4] Communication from the commission to the European Parliament and the council on guidance for application of Directive 2003/86/EC on the right to family reunification, Bruxelles, 3 aprile 2014, par. 3.2.
[5] Cioè della competenza del consolato del Paese membro presente nel Paese terzo in funzione di servizio rispetto a visti che riguardano soggiorni di breve durata programmati in altri Paesi membri. Peraltro, la decisione del Consiglio Ue del 22 dicembre 2003 ha nel frattempo perso efficacia a seguito dell’adozione del «codice visti» con il regolamento n. 810 del 2009.
[6] Figura, questa, declinante nel diritto europeo, ma ancora protagonista in Paesi dove, alla fragilità dei sistemi dello stato civile, si accompagna la difficoltà di contemperare il diritto formale (in gran parte, di derivazione europea) con il cd. “diritto tradizionale”. Il tema – ben studiato, soprattutto dai giuristi delle ex potenze coloniali – suscita sempre curiosità e sorprese sul piano antropologico e giuridico, come nel caso dell’obbligo del fratello della donna rimasta incinta da non coniugata ad assumere la paternità del nato, facendolo entrare nella propria famiglia. In argomento A. Deluz, Mès pères et mès mères. Arrangements familiaux chez les Gouro de Côte d’Ivoire, in Z.K.S. Dahoun, Adoption et cultures: de la filiation a l’affiliation, L’Harmattan, Paris, 1996, pp. 97 ss.
[7] Del resto, corrisponde alla stessa prospettiva assunta dal diritto italiano della filiazione – specie a seguito della riforma del 2012 – il consolidamento del rapporto di filiazione fondato sul riconoscimento non veritiero all’esaurirsi del termine di impugnazione dall’atto annullabile, che non può essere comunque superiore a cinque anni (beninteso, con la sola eccezione dell’impugnazione senza termine da parte del riconosciuto). È stato di conserva affermato, sia pure da una dottrina risultata minoritaria, che il mancato riconoscimento da parte del genitore biologico, sebbene consapevole, potrebbe non costituire un atto illecito omissivo ove il mancato riconoscente ne calcoli esattamente gli effetti non pregiudizievoli per il procreato, rendendo in tal modo possibile il formarsi di uno stato civile maggiormente corrispondente all’interesse del minore. Così P. Morozzo della Rocca, Sul riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio dopo la riforma del 2012-2013, in Famiglia e diritto, 2015, pp. 182 ss. In senso contrario però si vedano le argomentazioni formulate da E. Carbone, Sull’obbligatorietà del riconoscimento nella filiazione non matrimoniale, in Famiglia e diritto, 2015, pp. 519 ss.
[8] Sull’orientamento del diritto italiano della filiazione nel senso di un passaggio dal favor veritatis (affermato in modo non recessivo, in opposizione al favor legitimitatis) alla valorizzazione della stabilità del rapporto di filiazione, cfr. A. Cordiano, Il principio di autoresponsabilità nei rapporti familiari, Giappichelli, Torino, 2018, spec. pp. 108 ss.
[9] Anche riguardo all’atto straniero, occorre valutare se esso raccolga le dichiarazioni dei privati o giunga, invece, ad attestare i fatti costituenti il presuposto del diritto vantato dal soggetto. Al riguardo, cfr., tra gli altri, A. Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2011, pp. 693 ss.
[10] In tal senso Cass., 2 febbraio 2018, n. 4379; Cass. civ., 18 giugno 2013, n. 15234
[11] Corte appello Milano, sez. persone, minori e famiglia, 12 febbraio 2013, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2013, pp. 143 ss. (testo disponibile online: www.asylumlawdatabase.eu/sites/default/files/aldfiles/corte%20appello%20milano%20101%202012.pdf ).
[12] Opportunamente, Trib. Roma, 20 luglio 2015, n. 11006, in Immigrazione.it (https://immigrazione.it/giurisprudenza/ambito/32/4), ha ritenuto coerente la minore età anagrafica indicata nell’atto dello stato civile straniero del giovane risultato già maggiorenne dalle indagini mediche ordinate dal consolato italiano, in quanto tali risultanze vanno apprezzate tenendo conto del margine di errore che esse comportano e che è fissato in un range di due anni.
[13] Trib. Torino, sez. I civ., ord. 3 marzo 2015, in Immigrazione.it.
[14] Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. V, 10 luglio 2014, Senigo Longue e altri c. Francia.
[15] Cfr. Trib. civile e penale di Torino, sez. IX civ., ord. 6 dicembre 2011, in Gli stranieri, n. 1/2012, pp. 151 ss. Nel medesimo senso, su fattispecie pressoché identica, cfr. Trib. Genova, 1° agosto 2011, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 3/2011, pp. 164 ss.
[16] Così Cons. Stato, parere 3 dicembre 2003, n. 3280, in Foro it., 2004, III, 399 ss.