Non è raro che, raggiunto un traguardo a lungo perseguito, magari con grandi sforzi, il ricordo di questi ultimi si faccia sbiadito, e sembri quasi che la vittoria fosse inevitabile, e indipendente dal tempo e dall'impegno spesi.
Accade anche con le grandi sconfitte.
Non più di venticinque anni fa l'avventato gesto d'iscriversi a giurisprudenza poteva comunque essere perdonato, se accompagnato alla dichiarata ambizione di diventare un magistrato, figura che evocava con affidabile automatismo il coraggio antimafia, il rigore antiterrorista, l'impegno anticorruzione.
Se ci si sofferma a pensare a quell'epoca dovrebbe apparire sorprendente che la figura del magistrato si sia a tal punto opacizzata, ingrigita, illividita nell'immagine che, forse non del tutto disinteressatamente, ne restituisce la discussione pubblica, e quella tra gli stessi magistrati.
E' accaduto; appare persino ovvio, adesso, che dovesse accadere. Eppure, a pensarci meglio, a considerare quanta negativa energia è stata necessaria per raggiungere queste profondità, dovremmo sbalordire: davvero, come è potuto succedere?
Tentiamo una chiave di lettura non immediatamente ovvia: da quell'epoca (meno in)felice la magistratura, come molte altre cose, è stata investita dagli effetti di quella che chiamerò la 'secessione'.
In breve: il movimento economico-politico-sociale degli ultimi trent'anni può essere riletto come un tentativo (riuscito) di "secessione" delle élites finanziarie-industriali dal resto della società, con recisione dei legami che le univano a questa. La finanza e la grande industria, attraverso la "libera circolazione", la "globalizzazione", la "caduta delle frontiere", la "global governance", hanno creato un proprio spazio giuridico sovrano, sottratto all'emprise degli ordinamenti classici (anche sovranazionali) e attratto a uno pseudo-ordinamento proprio, fondato in primo luogo sul dogma dell'incomunicabilità (prima di tutto fiscale, lavoristica, solidaristica e regolamentare) con il dominio del pubblico, relegato all'incombente di coordinare il mutuo soccorso di quelli che, non possedendo capitali finanziari o industriali, non potevano affrancarsi dal 'diritto comune' proprio dei 'radicati' in un dato territorio, se non emigrando (pratica, non casualmente, oggetto d'inusitato odio, in quanto usurpatrice del diritto, esclusivamente elitario, di fuggire il servaggio della localizzazione e la 'condanna' della solidarietà tra sfavoriti).
La secessione ha privato le strutture costituzionali tradizionali del potere di progettare il futuro delle comunità rappresentate; private di potere nel campo fiscale, bancario, monetario, industriale, della programmazione economica, queste strutture sono state "svuotate dall'interno", e sono divenute gusci, ombre di se stesse. Le prime vittime sono state i più deboli. Non sono state le uniche.
A governi e parlamenti politicamente "esausti" corrisponde una società infiacchita, anemica, abbacinata dalla rapidità con la quale le sono state sottratte le basi materiali della propria auto-individuazione, della propria riproduzione.
Prima della secessione, lo stato non ancora "amputato" aveva necessità di allevare classi intellettuali, ceti che professionalmente elaborassero, teorizzassero, sistematizzassero, progettassero. La secessione li ha fortemente debilitati. Il giornalismo non è più né mestiere, né professione; precarizzato, impagato, caporalizzato, dislocato su piattaforme incontrollabili, è divenuto hobby. Con quale coraggio sarebbe possibile, oggi, indicare a un giovane il giornalismo come percorso lavorativo?
L'accademia, la carriera universitaria, è anch'essa sostanzialmente preclusa; a chi abbia la sfrontatezza di aspirare all'insegnamento universitario viene brutalmente opposto un calvario fatto di lustri di precariato, malpagato e fonte di ogni sorta di asservimento. Quale genitore si augurerebbe questo per un figlio?
Terza, si sarà compreso, è la magistratura. Insieme al giornalismo e all'accademia, contribuisce a strutturare la "coscienza intellettuale" della società, l'istanza di ripensamento e riflessione funzionale a un'esistenza che non si riduca alla sopravvivenza.
Per sopravvenuta mancanza di strumentalità a scopi che il pubblico aveva abbandonato (aveva dovuto abbandonare), e perché il progetto della secessione non potrebbe tollerare qualcosa di diverso, era necessario impedire a queste 'menti collettive' di pensare.
Certo, la magistratura, per ovvi motivi, non poteva essere neutralizzata attraverso l'iper-precarizzazione e la pauperizzazione. Si è provveduto altrimenti: cattiva stampa, imposizione dell'ossessione (ormai psicosi) quantitativa, gerarchizzazione, privazione di mezzi. Ha funzionato. Il magistrato oggi sa, o sente inconsciamente, di non essere "potere" dello stato, perché, come detto, lo stato che si immaginava nelle aule dell'università non esiste più, è pallido riflesso di quel che era, e perché il potere è stato de-localizzato, de-statualizzato, de-territorializzato. L'ordinamento che il magistrato rappresenta non è più concepito per razionalizzarlo, per regolarlo, ma per evitarlo ossequiosamente, lasciandolo (come infatti intende essere lasciato) nella propria sfera "seceduta", libero di "giocare" gli ordinamenti statali (e sovranazionali) l'uno contro l'altro, affannati come sono a governare un relitto territoriale-personale privo di nerbo, di risorse, di controllo su di sé.
Ci si stupisce se i magistrati (quelli già in servizio da molto tempo come quelli appena creati) sono "diversi", non sono più "quelli di una volta"? Stupirebbe molto di più il contrario.
Un esempio d'attualità, e volutamente non italiano, per capire a qual punto esattamente siamo giunti: nel novembre del 2020 il presidente degli Stati Uniti d'America perde le elezioni, e invoca l'intervento della Corte Suprema per "aggiustare" il risultato. E' quella stessa Corte Suprema presso la quale ha fatto insediare, una settimana prima delle elezioni, un giudice con tre anni d'esperienza in magistratura, laureata in università rispettabili, ma lontane molte leghe da quelle dalle quali solitamente si traggono i giudici di quella Corte.
Durante le audizioni per la conferma della sua nomina da parte della commissione giustizia del Senato le viene chiesto se ritiene che la sentenza che impedisce ai singoli stati di vietare l'aborto sia "good law". Nessuna risposta, non è questione sulla quale si possa pronunciare, precisa. Le viene chiesto se la sentenza che impedisce ai singoli stati di vietare il matrimonio tra persone dello stesso sesso sia "good law". Nessuna risposta, non è questione sulla quale si possa pronunciare, precisa. Le viene chiesto se le sentenze che impediscono ai singoli stati di vietare i matrimoni interraziali e di separare gli alunni neri da quelli bianchi, nelle scuole e tra le scuole, siano "good law". Sì, è la risposta. Le viene chiesto perché all'ultima domanda ha potuto rispondere. Perché, è la replica, le ultime due sentenze sono "super-precedents". Cos'è un super-precedent?, le viene chiesto. Un super-precedent, risponde, è una decisione che è talmente poco contestata socialmente e politicamente da rendere impensabile un suo overruling.
Ci si augura che la portata del ragionamento sia immediatamente evidente nelle sue conseguenze logiche: un giudice, che in Italia non sarebbe ancora giunto alla prima valutazione di professionalità, si accinge a fare ingresso alla corte suprema del paese più potente del mondo affermando che il motivo per il quale non se la sente di tenersi aperte tutte le opzioni in materia di segregazione razziale non è rappresentato dal (chiarissimo, si sarebbe pensato) testo della Costituzione degli Stati Uniti, ma dal fatto che (per il momento, si direbbe) i suprematisti bianchi non hanno un sufficiente seguito sociale e politico (mentre i movimenti antiabortista e omofobico lo avrebbero, parrebbe di capire).
In questo universo discorsivo, tra questi vettori di forza, la semplice affermazione, da parte dei magistrati, dei propri diritti all'autonomia interna ed esterna si mostra per quello che è, per quello che la secessione l'ha fatta diventare: anticaglia, chincaglieria, buona cosa di pessimo gusto. E la rivendicazione di un ruolo "intellettuale", di una dignità "filosofica", "riflessiva", "coscienziale", "razionalizzatrice", "sistematizzatrice" al lavoro del magistrato diviene pericolosa sovversione, e comico anacronismo, e rischiosa avventatezza.
Attualmente, anche a causa dell'appassire dello stato, avvelenato nelle sue radici dalla secessione, il concorso in magistratura non ha più rivali nell'attingere dalla schiera dei migliori laureati in giurisprudenza: come detto, la carriera accademica non è più carriera; l'impiego pubblico non magistratuale è in perpetua contrazione; l'avvocatura, soffocata da accessi incontrollati, è collassata economicamente su se stessa, vittima anch'essa di quel secessionismo che neanche della difesa, dei diritti individuali e della loro rivendicazione sa che farsene. Chi spera in una vita decorosa "deve" tentare la strada della magistratura. Pochissime ed assai impervie le alternative.
Ma come parlare a chi emerge da questa crudele, ansiogena, spietata selezione? Cosa insegnare a chi è, da un lato, senz'altro preparato, ma dall'altro (come tutti noi) disseccato dalla lunga stagione della secessione?
La tesi che si intende esporre e difendere è che la scuola, nei confronti dei magistrati in tirocinio, impiegherebbe più utilmente le proprie risorse incrementando, e non di poco, il tempo dedicato alla chiarificazione di ‘cosa sia’ (in un senso non banale) il magistrato, e quali siano i suoi diritti e doveri, e diminuendo (se non fosse possibile incrementare la durata della scolarità complessiva) il tempo dedicato alla formazione puramente giuridica.
Non solo. Questo ripensamento dell'attività formativa avrebbe un effetto assai salutare sul corpo magistratuale nella sua interezza, obbligandolo a chiarire a se stesso, prima (e allo scopo) di farlo coi suoi nuovi membri, una serie di questioni "esistenziali", "istituzionali" e "identitarie" che rischiano di corroderci e svilirci, se represse ulteriormente.
La tesi esposta si giustifica ponendo mente a chi entra in magistratura. Cosa se ne può dire?
Si tratta di persone che hanno vissuto sulla propria carne le ricadute più crudeli dell'epoca della secessione. Sono nate e cresciute in un mondo estremamente precarizzato; hanno vissuto in prima persona lo sgretolamento delle prospettive occupazionali degli studenti di giurisprudenza (e non solo di quelli); hanno sperimentato, su di loro o per conoscenza diretta di propri coetanei, gli effetti della liberalizzazione selvaggia del lavoro, e non presuppongono automaticamente che chi lavora venga effettivamente pagato, o riceva effettivamente assistenza e previdenza; hanno conosciuto numerosi coetanei emigrati e, peggio ancora, hanno conosciuto numerosi coetanei che hanno scelto il corso di laurea in funzione del fatto che potesse aumentare le loro possibilità di divenire emigrati "più appetibili"; conoscono un unico mondo del lavoro, dove a completa dominazione corrisponde completa sottomissione.
Da un punto di vista ordinamentale non facciamoci illusioni: i neo-magistrati ci guardano, e ci vedono benissimo. Ritenere che la lacerazione attuale dell'identità magistratuale - recata, da una parte, dal brutale rigetto che la società della secessione manifesta verso le professioni intellettuali non asservite ai meccanismi funzionali a quest’ultima, e, dall'altra, dallo smarrimento etico interno alla magistratura, dall'abbandono non solo di velleità ideali, ma anche della, tutto sommato, modesta e ragionevole pretesa di essere effettivamente indipendenti e di esercitare la propria funzione in maniera non "burocratica" (termine assai eufemistico, meglio sarebbe dire: in maniera non acriticamente appiattita sui desideri e capricci di chi ha mezzi, influenza, contatti, capacità di intimidire) - non sia avvertita dai magistrati in tirocinio, o che lo sia meno acutamente o più confusamente di quanto non lo sia da parte dei magistrati "d'esperienza", è sbagliato. I magistrati "figli della secessione" sono rassegnati al peggio (per abitudine, esperienza e necessità, non per vocazione), ma accoglierebbero con entusiasmo un ambiente di lavoro che li sorprendesse positivamente per non corrispondere al mondo nel quale hanno vissuto - senza le (residue) garanzie dei magistrati - fino a pochissimo tempo prima.
Si può organizzare una formazione per i vincitori del concorso presupponendo, o pretendendo di fingere, che i neo-magistrati giungano a Scandicci per il "primo giorno di scuola" senza interrogarsi, e interrogarsi con apprensione, profondità e inquietudine, su temi quali lo scadimento etico, il disimpegno morale, il carrierismo oltranzista, la fuga dal lavoro magistratuale "puro"? Senza interrogarsi su quale dovrà essere il proprio atteggiamento di "reclute", su cosa "ci si aspetterà" da loro, non già in termini di "libbre" di fascicoli "smaltiti" (mirabile termine, non a caso utilizzato normalmente in relazione ai rifiuti), bensì riguardo alla loro attitudine verso colleghi, dirigenti, interlocutori professionali e istituzionali? Senza interrogarsi se da loro la magistratura e, più in generale, il "potere", si attende professionalità, equidistanza, autonomia, intelligenza o quietismo, indifferenza, subordinazione morale e culturale, finta stupidità, ipocrisia?
Una settimana di pur importanti, e non banali, puntualizzazioni storiche, ordinamentali, costituzionali, con accenni alle sanzioni disciplinari, è certamente dovuta, ma è poco, pochissimo. Ad esaminare l'attuale programma formativo dei neo-magistrati si è forzati a trarre la conclusione che questi non abbiano quasi nulla da imparare su quel che è il loro ruolo, e all'interno di quale reticolo di relazioni si collochi, e quasi tutto da apprendere sul diritto sostanziale e processuale. E' vero il contrario. Presentarsi di fronte ai neo-magistrati - che legittimamente si aspettano di essere istruiti, e di discutere, su cosa sia la magistratura oggi, e quale sia il suo ruolo - pronunciando, coi fatti, una sorta di sbrigativo “circolate, non c'è nulla da vedere”, significa, per i magistrati in tirocinio, la conferma che anche in questo ambiente vige il "diritto del lavoro della secessione", fatto d'indebita prudenza, rinuncia e cortigianeria; e significa, per i magistrati già in servizio, avere abbandonato la prospettiva di interrogarsi per fornire, prima a se stessi e poi ai nuovi colleghi, una risposta articolata, condivisa e ragionata su quali siano i nostri attuali problemi, su cosa dovremmo fare per cercare di risolverli, su quali valori (se abbiamo ancora bisogno di valori) fondiamo la nostra analisi (se abbiamo ancora bisogno, e se ci è ancora richiesto, di esercitare la nostra capacità analitica per scopi estranei al carrierismo e allo "smaltimento").
Ricordiamo che la dannazione di Don Giovanni non è decretata dalla sua lascivia, dalla sua violenza, dalle sue menzogne, dal suo cinismo, bensì giunge nel momento stesso in cui si ripropone di diventare un maestro di virtù, per meglio continuare a coltivare quei vizi che, per tutta la vita, aveva praticato con un candore sfacciato, ma almeno sincero.