La coralità in luogo del solipsismo. Il confronto, l’interlocuzione, l’apertura contro l’individualismo, la diffidenza, il pregiudizio. Il palcoscenico dell’aula d’udienza contro il palcoscenico mediatico. E la toga non come abito di scena ma come abito mentale, in cui si fondono l’uomo giudice e l’uomo sociale.
L’ultimo discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai giovani magistrati merita una riflessione ulteriore rispetto a quanto riferito dai media, che hanno enfatizzato solo un passaggio («La toga non è un abito di scena») sul presupposto che fosse stato scritto per richiamare all’ordine il giudice Piercamillo Davigo dopo le sue ultime esternazioni in Tv.
La smentita del Quirinale non è bastata ad evitare questa lettura distorsiva, ma soprattutto riduttiva di un “messaggio” di ben altro respiro. Le parole di Mattarella, infatti, propongono un modello dinamico di magistrato contrapposto a quello individualistico ed eroico molto in voga in alcuni strati della magistratura, che rischia di attecchire anche tra le giovani toghe.
Il Capo dello Stato ha esordito ricordando la «complessità» dell’attività del magistrato, perché «complessa è la realtà nella quale si colloca». E già qui si coglie la dimensione sociale della giurisdizione. Che diventa «dimensione europea» nel momento in cui si deve assicurare la piena ed effettiva tutela dei diritti. Di qui la necessità di una costante «interlocuzione» con le Corti sovranazionali.
Ma il dinamismo si coglie anche là dove Mattarella descrive «l’essenza» della funzione giurisdizionale. Che consiste nella «capacità di discernere le “regole” di legge da applicare al caso concreto; mediante un’attività sempre originale non adagiata sulla mera ripetizione; perché variegata, e costantemente in trasformazione, è la realtà» sulla quale il magistrato interviene. Segue un avvertimento: affinché l’interpretazione non si trasformi in creazione del diritto e quindi in arbitrio, il giudice deve muoversi nel «perimetro» della norma. Il passaggio si presta ad equivoci ma Mattarella, forse consapevole del rischio, più avanti precisa che il giudice non è «uno strumento meccanico, chiamato ad esercitare in modo automatico la sua funzione. A lui si chiede di valersi della sua sensibilità e del suo sapere per tradurre nella decisione la volontà sociale espressa nella legge».
C’è, in queste parole, un’eco di quelle scritte sessant’anni fa da Piero Calamandrei: «Fu detto una volta che l’opera d’arte è “une tranche de vie”, un pezzo di realtà riflessa attraverso la sensibilità dell’artista; ugualmente si potrebbe dire che la sentenza è un articolo di legge filtrato attraverso la coscienza di un giudice». Quindi: il giudice deve stare sì nel perimetro della legge ma, per applicarla fedelmente, «deve ricercarne le ragioni nella sua stessa coscienza e, quando sta per tradurla in comando concreto, ricrearla con il suo partecipe sentimento». Calamandrei sosteneva infatti che «ogni interpretazione è una ricreazione»; e che «in ogni interpretazione l’ispirazione individuale è decisiva». Perciò è indispensabile che il giudice sia «indipendente», a cominciare dai suoi «stimoli psicologici di natura egoistica».
Mattarella parla di affrancamento dalle «personali convinzioni», se non nascono dalla conoscenza dei fatti acquisiti e dalle norme dell’ordinamento. Quindi: affrancamento dalle idee preconcette, non certo dal bagaglio culturale che ogni magistrato si porta dietro e che invece è importante per cogliere l’aspetto essenziale della vicenda da giudicare.
In questo processo di «ripensamento della legge», secondo Calamandrei il giudice deve sentirsi «unicamente uomo sociale», partecipe e interprete della realtà in cui vive e non spinto a giudicare in un senso piuttosto che in un altro dal «suo particulare». La toga, aggiungeva, è «il simbolo di questa riduzione dell’uomo privato a uomo-giudice: uomo in cui il sentimento individuale è ammesso ad operare solo in funzione della sua missione sociale di giudicante».
E in questa prospettiva va letto anche il riferimento di Mattarella alla toga, che «non è un abito di scena» ma dà il «senso» della funzione giurisdizionale: anzitutto perché è «uguale per tutti» (i magistrati, infatti, si distinguono solo per funzioni) e poi perché «riveste» il magistrato facendogli dismettere i panni del pregiudizio personale.
Come la toga, anche l’aula di udienza non è un mero simbolo della tradizione ma il luogo – l’unico – nel quale «va assicurata la realizzazione delle garanzie dettate dalla legge a tutela non solo delle parti ma anche dell’imparzialità del giudice». È nelle aule, ricorda Mattarella, che i fatti vengono ricostruiti secondo l’ordinato svolgersi del processo, non altrove.
Del resto, luogo, tempi, procedure, regole sono garanzie di trasparenza. «Doverosa» la qualifica il Capo dello Stato, fermo restando che l’attenzione dell’opinione pubblica «non può e non deve condizionare» assolutamente le decisioni.
Infine, c’è un altro versante della dimensione dinamica del magistrato ed è quello dell’ufficio giudiziario in cui è inserito. Mattarella torna a battere il tasto del confronto, della collaborazione, dell’interlocuzione con i colleghi giovani e anziani e con i dirigenti, cui spetta «doverosamente promuovere la condivisione delle scelte attraverso riunioni periodiche dell’ufficio, in modo da potenziare l’efficacia di ogni singolo provvedimento e dell’azione giudiziaria nel suo complesso». In sostanza, secondo il presidente della Repubblica, occorre «rifuggire da una visione individualistica della propria funzione, che può far correre il rischio di perdere di vista la finalità della legge e l’interesse generale della collettività».
Quest’idea dinamica di giurisdizione è oggi messa in pericolo da spinte burocratiche e da visioni eroiche della magistratura, che si nutrono entrambe di individualismo, oltre che di risentimento, di diffidenza, di pregiudizio, rifiutando ogni forma di confronto e di interlocuzione nonché di apertura verso la società. Sono facce diverse di un populismo giudiziario che sembra avanzare progressivamente nella magistratura, proprio perché si è smarrito il “senso” più profondo della toga. Perciò, forse non è azzardato pensare che, più che alle giovani toghe, il discorso di Mattarella fosse rivolto soprattutto ai novemila magistrati in servizio.
Donatella Stasio