1. Inderogabilità della giurisdizione: breve premessa sulla genesi di un principio
Senza poter in questa sede effettuare un’analisi diacronica troppo risalente, in ordine alla genesi della giustizia amministrativa in Italia, tuttavia, al fine di poter compiutamente svolgere alcune considerazioni circa le attuali problematiche legate al riparto di giurisdizione, si impone un breve esame delle ragioni che hanno condotto alla nascita del sistema di giustizia amministrativa.
Come noto e in via di estrema sintesi, all’indomani dell’unificazione politica del 1861, il Parlamento italiano era chiamato a scegliere tra il sistema del contenzioso amministrativo di ispirazione piemontese, da estendere, eventualmente migliorato, a tutto lo Stato italiano, e la creazione di un nuovo sistema fondato sulla giurisdizione unica e ordinaria.
La scelta cadde, sulla scia del dottrinarismo liberale, sul modello monistico, che si concretizzo nell’adozione dell’allegato E) della legge di unificazione amministrativa del 20 marzo 1865, n. 2248, che abolì il sistema del contenzioso amministrativo e attribuì la decisione delle contravvenzioni al giudice penale e delle controversie sulle imposte e sulle questioni in cui fosse parte una pubblica amministrazione al giudice civile [1].
Il pur apprezzabile, ancorché non unico [2], intento ispiratore della riforma, volta a realizzare la separazione dal potere esecutivo del giudice che giudica dell’amministrazione e dell’eguaglianza e della parità davanti a questo giudice dell’ente pubblico e del soggetto privato, condusse ad una situazione di fatto nella quale venivano ad essere prive di tutela giurisdizionale situazioni giuridiche soggettive diverse dal diritto soggettivo, e meno pregnanti, perché poste in relazione alla potestà della pubblica amministrazione, i.e. una posizione attiva, non già a posizioni passive, quali obblighi o oneri. Tali posizioni, tuttavia, risultavano assolutamente rilevanti per l’esercizio di fondamentali attività − specie economiche − dei destinatari [3].
A fronte di una tale situazione e al fine di garantire piena tutelabilità giudiziale alle posizione giuridiche soggettive vantate dai privati di fronte al potere amministrativo, nell’ormai acclarata impossibilità che tali posizioni venissero qualificate come diritti, si scelse di istituire un organo che potesse offrire tutela a questa area di interessi, che aveva ormai acquisito una sua sempre maggior ampiezza, anche a fronte della teoria della degradazione del diritto soggettivo ad interesse legittimo per effetto dell’esercizio del potere amministrativo [4].
Si scelse allora di affidare la tutela giurisdizionale di queste posizioni ad un organo terzo rispetto all’amministrazione, ma «specializzato e avvezzo alla considerazione del continuo fluire dell’azione pubblica» [5]: il Consiglio di Stato in funzione giurisdizionale. Nacque così la IV Sezione del Consiglio di Stato nel 1889, affermando il ruolo della Corte dei conti quale giudice contabile.
In particolare, l’art. 3 della legge 31 marzo 1889, n. 5992, cd. Legge Crispi, prevedeva che «spetta alla sezione quarta del Consiglio di Stato di decidere i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione della legge contro atti e provvedimenti di un’Autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici, quando i ricorsi medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria, né si tratti di materia spettante alla giurisdizione od alle attribuzioni contenziose di corpi o collegi speciali» ed esonerando dai suddetti ricorsi «gli atti o i provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico».
Posta questa premessa di carattere storico, è altresì noto, e non può essere qui analizzato funditus, il travagliato percorso dottrinale e giurisprudenziale condotto al fine di individuare criteri interpretativi per determinare la sussistenza, in concreto, di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo in capo al privato di fronte alla Pa, essendo esso il discrimine (cd. petitum sostanziale) per determinare il riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.
Ci si può limitare a rilevare come tale scelta, operata con il noto “concordato giurisprudenziale” del 1930 tra Corte di cassazione (sentenza n. 2680/2013) e Consiglio di Stato (A.P. n. 1/1930), sia stata recepita dalla Costituzione, la quale, attraverso il combinato disposto degli artt. 24, 103, 113, ci consegna proprio un sistema giurisdizionale di riparto delle funzioni tra giudice ordinario e amministrativo fondato proprio sulla dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo.
Ciò che invece si deve sottolineare è che, alla luce di tali ragioni storiche, ben si comprende allora la scelta del legislatore del codice di procedura civile di prevedere, da un lato, la rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione del giudice adito in ogni stato e grado del procedimento (art. 37 cpc); dall’altro, la proponibilità, fino a che la causa non sia decisa nel merito in primo grado, da ciascuna parte, del regolamento preventivo di giurisdizione innanzi le Sezioni unite della Corte di cassazione (art. 41 cpc).
In tal senso, come si vedrà meglio in seguito, la stessa Corte costituzionale ha avuto modo di ricordare che «il principio della incomunicabilità dei giudici appartenenti ad ordini diversi», trovava il suo fondamento «in altri momenti storici, quale retaggio della concezione cosiddetta patrimoniale del potere giurisdizionale e quale frutto della progressiva vanificazione dell’aspirazione del neo-costituito Stato unitario (legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo) all’unità della giurisdizione, determinata dall’emergere di organi che si conquistavano competenze giurisdizionali» [6].
E ancora, la Corte di cassazione a Sezioni unite, nell’analizzare la ratio dell’art. 37 cpc ha sottolineato come lo stesso fosse inserito «in un contesto caratterizzato dal principio di inderogabilità delle regole sulla potestas iudicandi, sia con riferimento alla giurisdizione che con riferimento alla competenza per materia, per valore e territoriale inderogabile» (quella cioè ripartita sulla base di criteri di ordine pubblico), e che «la disposizione in esame, nella sua connotazione originaria, costituiva il fulcro di un sistema, di cui era anche norma di chiusura, in quanto individuava nell’esercizio della giurisdizione e nel suo riparto una tipica espressione della sovranità statale e del suo monopolio legislativo, insensibile ai comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia (salvo particolarissime eccezioni)» [7].
2. L’esperienza francese e tedesca in tema di riparto della giurisdizione
Ora, poste tali premesse sulla genesi del principio della inderogabilità della giurisdizione, può assumere interesse ai nostri fini, volgere brevemente lo sguardo ad altri ordinamenti europei, in particolare quelli dell’Europa continentale, a noi più affini dal punto di vista pubblicistico.
Orbene, il sistema francese, certamente ispiratore del nostro modello, adotta anch’esso un sistema dualistico, rispetto al quale appaiono di interesse due annotazioni. Una prima attiene ai criteri elaborati per determinare il riparto di giurisdizione, una seconda all’organo risolutore dei conflitti.
Quanto al primo, la dottrina e la giurisprudenza francese, in un percorso evolutivo non dissimile, sotto questo aspetto dal modello italiano, sono partite dalla distinzione tra actes de puissance publique et actes de gestion, poi si sono soffermate sull’esistenza o meno di un service public, quindi sulla differenza tra service public administratif e service public industriel et commercial.
Tutti i succitati criteri, rispetto ai quali non val la pena soffermarsi, essendone peraltro intuibili i caratteri, anche solo per la comunanza con quelli elaborati in Italia, sono stati però seguiti da un ulteriore criterio, più votato all’oggettività, al fine di far fronte ad una incertezza, ben nota anche all’ordinamento italiano, in ordine al riparto di giurisdizione fondato sui criteri citati.
Il sistema è noto come dei blocs de compétences, nel quale è direttamente il legislatore a stabilire se una controversia su di un atto che non sia puramente sussumibile in quelli esercizio di puissance publique o di service administratif né totalmente sottoposto alle norme del code civil, o che comunque presenti profili di ambivalenza e di problematicità nel suo inquadramento, spetti alla cognizione del giudice amministrativo o del giudice ordinario. E in mancanza di una espressa indicazione legislativa, è un “concordato giurisprudenziale” tra i due ordini giurisdizionali, favorito, presidiato o suggellato dal Tribunal des conflits, a completare i blocs de compétences normativi delle fattispecie più controverse [8].
Ora, appare evidente, a chi scrive, che si tratti della medesima scelta che il legislatore italiano aveva adottato con gli artt. 33 e 34 del d.lgs n. 80/1998, i cd. “blocchi di materie”, il quale, come noto, non ha tuttavia superato il vaglio di costituzionalità, venendo abrogato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, la quale ci ha consegnato il principio per cui, a fronte del sistema delineato dagli artt. 24, 103 e 113 Cost., la attribuzione di giurisdizione su una controversia al g.a. o al g.o. non può che essere condotta, anche da parte del legislatore, sulla scorta del binomio potere-carenza di potere, al fine di determinare la sussistenza di un diritto soggettivo o di un interesse legittimo, senza che possano essere le “materie” in discorso a determinare il giudice munito di giurisdizione.
La notazione è di sicuro rilievo, poiché, come rilevato in dottrina, l’adozione del criterio dei blocs de compètences, è volto non più soltanto a rispettare il tradizionale principio della separazione tra potere esecutivo e potere giudiziario nel contesto della salvaguardia oggettiva dell’interesse pubblico, ma anche e soprattutto ad assicurare la pienezza e l’effettività della tutela del soggetto, come impone la centralità dei diritti soggettivi dell’individuo nei moderni ordinamenti democratici e come richiedono l’ordinamento comunitario (art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (artt. 6 e 13) [9].
Inoltre, la medesima dottrina amministrativistica ha altresì rilevato che quest’ultimo metodo di riparto si è rivelato particolarmente interessante e significativo, perché, nei suoi risultati, finisce per considerare assolutamente equiordinate le due giurisdizioni, reputandole entrambe idonee ad assicurare una tutela piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive ed emancipandole dai vincoli di certe tradizionali “riserve di giurisdizione” e dall’ossequio al noto principio di separazione dei poteri [10].
Il funzionamento del modello in esame è stato sicuramente favorito altresì dal secondo profilo inizialmente indicato come di interesse, i.e. la presenza, in Francia, del Tribunal des conflits. Detto organo, istituito nel 1872, è composto paritariamente da magistrati della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato e col potere del Ministro della giustizia di decidere nel caso di parità di voti [11].
Quindi, il modello francese, a differenza del nostro, non attribuisce alla Corte di cassazione il compito di decidere i conflitti di giurisdizione, bensì istituisce un organo appositamente dedicato che coinvolge giudici ordinari e giudici amministrativi. Ciò non può che aver favorito una più efficiente determinazione del riparto di giurisdizione e, non a caso, è infatti un modello apprezzato dalla dottrina amministrativistica italiana [12].
Con brevissima digressione, non intendo in alcuna misura valutare, a livello astratto, la bontà di un modello siffatto, ma ritengo doveroso rilevare che in Italia il dibattito sul punto non è sicuramente sconosciuto, pur tuttavia dovendosi evidenziare come le posizioni critiche rispetto ad un sistema simile, le quali, allo stato, non possono che condividersi, si fondino su ragioni storiche e costituzionali profonde, giacché, come è stato rilevato, il sistema di giustizia amministrativa, con la nomina governativa di un quarto dei membri del Consiglio di Stato, non ci consegna un organo connotato da piena indipendenza e separazione dal potere esecutivo.
Le medesime argomentazioni valgono peraltro per ciò che concerne la Corte dei conti, rispetto alla cui composizione, l’art. unico del dPR 8 luglio 1977, n. 385, prevede che: «I posti di consigliere, non riservati ai primi referendari della Corte dei conti, possono essere conferiti (…) ad estranei alle amministrazioni dello Stato, che, per attività svolta o gli studi giuridico-amministrativo-contabili compiuti, e per le doti attitudinali e di carattere, posseggano piena idoneità all’esercizio delle funzioni di consigliere della Corte dei conti. Per la nomina è prescritto il parere del consiglio di presidenza della Corte dei conti, su richiesta motivata della Presidenza del Consiglio dei Ministri».
Anche recentemente la dottrina, stimolata dall’adozione del Memorandum sul dialogo tra le giurisdizioni [13], sottoscritto dai presidenti della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, e dai procuratori generali presso la Corte di cassazione e la Corte dei conti, per l’ipotesi di costituzione di un organo a composizione mista, proprio con riferimento all’indipendenza esterna, ha avuto modo di rilevare che «il collegio giudicante delle Sezioni unite dovrebbe essere integrato da magistrati provenienti dalle due Giurisdizioni speciali; i quali inevitabilmente “importerebbero” all’interno del collegio stesso (in atto del tutto indipendente) il tasso congiunto di dipendenza esterna che caratterizza ciascuna di esse, per tal via assestandosi allora l’intero sistema giudiziario al livello più basso di indipendenza» [14].
Venendo alla Germania, sempre procedendo per sommi capi, utili unicamente a comprendere le principali problematiche e modalità di soluzione adottate dai Paesi a modelli a noi affini, emerge come il principale criterio di riparto della giurisdizione si fondi sulla distinzione tra controversie di diritto privato (§ 13 GVG) e controversie di diritto pubblico non costituzionale (§ 40 VwGO).
E tuttavia non appare particolarmente utile esaminare i diversi criteri elaborati per distinguere tra le prime e le seconde, perché, come rilevato in dottrina, il problema del riparto di giurisdizione, che in altri ordinamenti dualistici determina «aspri contrasti di “politica giudiziaria” tra i distinti plessi giurisdizionali e dottissimi dibattiti accademici, risulta in Germania alquanto stemperato dalla presenza di due istituti ammirevolmente coerenti col disegno», delineato nella Grundgesetz, della pariordinazione (Gleichwertigkeit) tra le diverse giurisdizioni e della “ordinarietà” di tutti i giudici [15].
Il primo istituto è quello disciplinato dal § 17a della GVG (legge federale sull’ordinamento giudiziario) che muove dall’intento di evitare i conflitti di giurisdizione sia positivi che negativi. La norma dispone, in particolare, che se il giudice adito si ritiene privo di giurisdizione, con un’ordinanza motivata declina la propria giurisdizione, indicando il giudice che ritiene esserne munito, la quale, se non impugnata dalle parti entro termini decadenziali particolarmente brevi, vincola in punto di giurisdizione il giudice ad quem, il quale, dunque, non può né rimandare la causa al giudice a quo o ad altro giudice, né sollevare conflitto di giurisdizione davanti un organo giurisdizionale superiore. E la questione di giurisdizione non può essere sollevata per la prima volta né riproposta nei successivi gradi di giudizio.
È appena il caso di rilevare come ciò sia diametralmente opposto da quello che accade in Italia, ove, come noto, ai sensi dell’art. 59, comma 3, della legge 18 giugno 2009, n. 69, «se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le Sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare d’ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito». Medesima disciplina è stabilita dall’art. 11, comma 3, cod. proc. amm. per il caso in cui il giudice ad quem sia il giudice amministrativo.
Pienamente in linea con questa impostazione, è il secondo istituto che in Germania contribuisce a ridimensionare il problema del riparto di giurisdizione: l’esistenza del Senato congiunto (gemeinsamer Senat), dei Tribunali supremi federali prevista «per assicurare l’unitarietà della giurisprudenza» in caso di contrasto tra le Corti federali al vertice delle cinque giurisdizioni, composto dai presidenti dei cinque Tribunali supremi e da quattro magistrati che, di volta in volta, rappresentano le due giurisdizioni in conflitto.
Come sottolineato in dottrina, tale organo, espressione, nella sua formazione paritetica, della pariordinazione costituzionale delle cinque giurisdizioni, dirime gli eventuali contrasti giurisprudenziali che dovessero sorgere sulla natura di diritto privato o di diritto pubblico di una questione, finendo in tal modo per svolgere, sia pure indirettamente e con l’autorevolezza dell’imparzialità di una composizione super partes, anche la funzione di arbitro nel riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo [16].
Ora, all’esito di tale breve viaggio in Europa, mi sembra evidente che i modelli descritti abbiano adottato, più o meno apertamente, una scelta di privilegio a favore della efficienza e funzionalità del sistema nel momento di crisi della determinazione della giurisdizione.
Mi pare che entrambi gli ordinamenti citati, tramite l’adozione di criteri a matrice oggettiva (Francia) o mediante la vincolatività delle decisioni dei primi giudici in punto di giurisdizione (Germania), si cerchi di dirimere a monte i conflitti di giurisdizione.
Laddove essi permangano, la soluzione che entrambi gli ordinamenti analizzati adottano, a valle, per individuare la giurisdizione secondo dinamiche condivise, volte a chiarire, si potrebbe dire “una volta per tutte” la problematica, è affidata alla presenza di un organo a composizione mista, formato da giudici di entrambe le giurisdizioni.
Non è mio interesse commentare la bontà o meno di tale scelta in chiave politica del diritto che, come visto, sembra sacrificare, almeno in parte, il principio della separazione dei poteri, equiordinando le giurisdizioni e, il dato sembra certo, garantendo così una maggior fluidità tra i plessi giurisdizionali, con conseguente maggior tenuta del principio di effettività della tutela e ragionevole durata del processo.
Ho già anticipato le perplessità di fondo che animano i critici di un sistema che, a composizione delle strutture giurisdizionali immutata, disciplini i conflitti di giurisdizione al pari di quelli di competenza, sostanzialmente determinando una sorta di irrilevanza del giudice, ordinario o amministrativo, che decida la controversia, posta l’equiordinazione tra gli stessi; sistema che condurrebbe, evidentemente, alla creazione di un organo a composizione mista per la decisione degli eventuali conflitti.
Ciò che preme invece rilevare, quale dato oggettivo, è che la globalizzazione e il sistema normativo che ci è oggi consegnato dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea, disvelano un ulteriore profilo da valutare: quello comparato.
È evidente infatti che, anche senza scomodare profili di politica economica del diritto, facilmente intuibili in punto di attrattività di un determinato Paese in tema di investimenti, laddove appaia addirittura incerto non tanto l’esito del processo, quanto anche solo il giudice competente a decidere la lite, un ulteriore elemento assume centrale rilevanza: quello, appunto, dell’effettività della tutela, intesa soprattutto in termini temporali (durata del processo), la quale coinvolge, in fondo, diritti fondamentali dei cittadini.
E allora, poste tutte queste premesse, è lecito chiedersi se il nostro sistema, evidentemente ben più rigido, sul piano dello stretto diritto positivo, in ordine all’intangibilità della giurisdizione, a seguito della europeizzazione del diritto nazionale, sia rimasto fermo anche sotto questi profili, o si stia in qualche modo innovando.
3. Il bilanciamento tra inderogabilità della giurisdizione e giusto processo nella giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale
In tema, mi è sembrato di poter rilevare, almeno, quattro tappe evolutive della rilevanza della giurisdizione nella recente giurisprudenza della Corte di cassazione, che ha fornito rilevanti soluzioni in ordine al bilanciamento tra intangibilità della giurisdizione − e suo conseguente rilievo officioso in ogni stato e grado del giudizio − e i principi di effettività della tutela e giusto processo, sub specie, in particolare, di ragionevole durata dello stesso.
La prima tappa non può che essere analizzata assai rapidamente, essendo divenuta ormai ius receptum con la legge n. 69/2009. Ci si intende riferire, all’evidenza, alla applicabilità della regola della translatio iudicii − con gli effetti che vi si ricollegano della salvezza degli atti compiuti davanti al giudice inizialmente adito – non solo nel caso in cui il giudice fornito di giurisdizione sia il giudice ordinario, ma anche quando sia il giudice amministrativo o speciale.
Sul punto, ai nostri fini, è pero assai rilevante richiamare quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 77 del 12 marzo 2007, dalla quale poi è scaturita, unitamente a quanto già aveva affermato la Corte di cassazione a Sezioni unite 22 febbraio 2007, n. 4109, la legge n. 69/2009, che, all’art. 59, comma 3 cpc, ha espressamente previsto che «il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle Sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in altro processo» e che «se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall’instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione al rito applicabile».
Tale impianto legislativo trova la sua ratio nelle parole con cui la Corte costituzionale aveva, appunto, rilevato l’incostituzionalità del sistema che negasse la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda già proposta innanzi ad un giudice poi rilevatosi non munito di giurisdizione, anche laddove questi fosse il giudice amministrativo.
In particolare, si legge nella sentenza della Corte, già citata in precedenza, che «se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti − per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato − è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale» [17].
Appare cristallina la mutata concezione della stessa ragion d’essere di una diversità di giurisdizione, essendo essa vista servente rispetto all’esigenza di tutela delle posizioni giuridiche soggettive e, si badi bene, di tutte le posizioni giuridiche soggettive, tanto dei diritti soggettivi, quanto degli interessi legittimi. In questa direzione, perciò, diventa faro, attraverso il quale illuminare le zone d’ombra dell’ordinamento, il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che viene, a ben vedere, considerato prevalente nel bilanciamento con il rigido criterio di riparto della giurisdizione fondato sulla distinzione di posizione giuridica soggettiva. E ciò proprio perché, in realtà, tale distinzione esiste in quanto funzionale a fornire una più completa e piena tutela ai cittadini; e allora, laddove essa potrebbe diventare viatico per una, di fatto, limitazione o “complicazione” di detta tutela, non può che essere necessario rileggere il sistema alla luce della sua, attuale, ratio, fondata su valori che, ancorché, eventualmente, non esplicitati, risultano comunque sottesi alla Costituzione [18].
La strada era stata aperta, il terreno maturo per una evoluzione interpretativa del sistema in tema di rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo del difetto di giurisdizione, in passato fondato, come detto, proprio sull’assunto della inderogabilità della giurisdizione stessa, come dire, “ad ogni costo”, poiché non erano ancora emersi, nel diritto vivente, appunto, i valori costituzionali sopra descritti.
E gli interventi della Corte di cassazione non si sono fatti attendere.
Ancor prima dell’entrata in vigore della legge 69/2009 infatti, le Sezioni unite hanno affrontato, con la nota e già citata sentenza n. 24883 del 9 ottobre 2008 la questione in ordine allo spettro applicativo dell’art. 37 cpc e, in particolare, al rapporto tra giudicato (implicito) e rilevabilità d’ufficio in ogni stato e grado del processo del difetto di giurisdizione.
Ai nostri fini, in particolare, meritano attenzione, poiché idonei ad assumere portata ermeneutica generale, alcuni passaggi argomentativi della sentenza in esame, che, per chiarezza espositiva, meritano di essere riportati:
«Questa Corte “ritiene che la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo imponga all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione del detto obiettivo costituzionale” (Cass. n. 4636/2007). L’art. 37 cpc, dunque, va letto ed interpretato nel contesto delle altre regole processuali e della “sostenibilità” degli effetti cronologici”;
(…)
“il principio costituzionale di ragionevole durata del processo si rivolge non soltanto al giudice quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti effettivamente controversi (Cass. n. 1540/2007)».
E ancora, proprio con riferimento all’argomento comparato sopra citato, la Corte di cassazione richiama, con affermazioni che appaiono particolarmente forti, financo non condivisibili laddove sembrano subordinare principi di sicura rilevanza giuridica a logiche, sostanzialmente, imprenditoriali che nulla hanno a che vedere con la giustizia, «l’esigenza di sburocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva del potere statale, ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l’efficienza delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici)» [19].
E la Corte, nell’affermare il principio per cui si forma il giudicato (implicito) sull’eventuale difetto di giurisdizione del giudice adito, laddove tale questione, su cui non si sia esplicitamente pronunciato il giudice di prime cure, non sia stata fatta valere come motivo di impugnazione della sentenza in grado d’appello, evidenzia come «il principio della ragionevole durata del processo, invece, diventa l’asse portante della nuova lettura dell’art. 37 cpc, la quale, peraltro, trova conforto, come già osservato, anche sul piano della comparazione sistematica con l’art. 38 cpc», argomentando come «nel bilanciamento tra i valori costituzionali della precostituzione per legge del giudice naturale (artt. 25 e 103 Cost.) e della ragionevole durata del processo, si deve tenere conto che una piena ed efficace realizzazione del primo ben può (e deve) ottenersi evitando che il difetto di giurisdizione del giudice adito possa emergere dopo che la causa sia stata decisa nel merito in due gradi di giudizio. L’art. 37 cpc, comma 1, nell’interpretazione tradizionale, basata sulla sola lettera della legge, non realizza un corretto bilanciamento dei valori costituzionali in gioco e produce una ingiustificata violazione del principio della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela (artt. 24 e 111 Cost.), in quanto comporta la regressione del processo allo stato iniziale, la vanificazione di due pronunce di merito e l’allontanamento sine die di una valida pronuncia sul merito».
Su tali basi argomentative e interpretative, le quali non possono che assumere valenza generale, due ulteriori recenti pronunce delle Sezioni unite acquisiscono, a mio avviso, rilievo centrale nella progressiva erosione del mito della intangibilità della giurisdizione.
In primo luogo, con la sentenza n. 9936 dell'8 maggio 2014 le Sezioni unite statuiscono che «in applicazione del principio processuale della ragione più liquida (che trae fondamento dalle disposizioni di cui agli artt. 24 e 11 Cost., interpretati nel senso che la tutela giurisdizionale deve risultare effettiva e celere per le parti in giudizio), ritiene di poter esaminare (nonostante la pregiudizialità della prima censura, che pone al collegio una questione di giurisdizione) il secondo motivo di ricorso, la cui fondatezza conduce ad una decisione di merito di rigetto della domanda risarcitoria» [20].
E, ancor di più, con al sentenza n. 21260 del 20 ottobre 2016, le Sezioni unite, in contrasto con la propria precedente consolidata giurisprudenza, hanno affermato che l’attore, soccombente in primo grado, non possa, in grado d’appello, sollevare per la prima volta la questione di giurisdizione, essendo tale domanda inammissibile per violazione del principio del divieto di abuso del diritto e del processo [21].
La precedente tesi, in sintesi, veniva argomentata in ragione della circostanza per cui, «il pentimento secundum eventum litis è dichiarato ammissibile quale esercizio del diritto di avere torto: si richiamano, al riguardo, la natura oggettiva dell’interesse sotteso all’universalità della legittimazione a proporre ricorso per regolamento preventivo ex art. 41 cpc, la sufficienza di un interesse impugnatorio correlato alla posizione di merito e l’irrilevanza della rinuncia nella materia indisponibile della giurisdizione. L’incoerenza del comportamento processuale, quando è idonea a pregiudicare il diritto fondamentale della controparte ad una ragionevole durata del processo ai sensi dell’art. 111 Cost., può essere stigmatizzata con il governo delle spese, per trasgressione al dovere di lealtà e probità ex art. 88 cpc, secondo la disciplina dettata dall’art. 92 cpc, comma 1, ultima parte».
E tuttavia, nel superare tale argomentazione, le Sezioni unite evidenziano come, da un lato, la soluzione dell’inammissibilità dell’appello, «non si pone in contrasto con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge o in contraddizione con l’attinenza del riparto di giurisdizione all’ordine pubblico processuale. Infatti, il valore costituzionale del giudice precostituito per legge è presidiato dall’obbligo del giudice di procedere d’ufficio in primo grado alla verifica della potestas iudicandi e va bilanciato con quello dell’ordine e della speditezza del processo. Pertanto, la quaestio iurisdictionis ben può non solo trovare anticipata soluzione endoprocessuale, ma anche conoscere una preclusione alla possibilità della relativa deduzione in appello ad opera di chi, avendo adito il giudice appartenente a quel dato plesso giurisdizionale, non è soccombente al riguardo».
E, con affermazione anch’essa di piena portata generale, sostiene ulteriormente che «d’altra parte, come è stato osservato in dottrina, il corretto riparto di giurisdizione, pur di interesse superindividuale, “non esprime più un valore processuale assolutamente imperativo, da garantire... a pena di veder nascere una sentenza inutiliter data”; e ciò a differenza di quanto avviene con riferimento ad altre questioni processuali “fondanti”, le quali non si possono considerare implicitamente risolte, e sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perché servono a salvaguardare l’ordinamento dal disvalore “di sistema” costituito dall’emissione di sentenze instabili (così Cass., Sez. unite, 4 marzo 2016, n. 4248)».
E, conclude, perciò, che l’appello per difetto di giurisdizione «è precluso perché l’ordinamento processuale non consente all’attore, una volta che la causa sia stata decisa nel merito, la contraddittorietà rispetto all’originaria scelta di giurisdizione, e gli impedisce, attraverso la dichiarazione di inammissibilità del motivo di giurisdizione sollevato con il gravame (al netto, quindi, di eventuali concorrenti motivi di merito), di conseguire l’utilità discendente dal ripensamento secundum eventum. Una soluzione preclusiva, questa, che appare in linea con la considerazione della giurisdizione come risorsa a disposizione della collettività, che proprio per tale ragione deve essere impiegata in maniera razionale, sì da preservare la possibilità di consentirne l’utilizzo anche alle parti nelle altre cause pendenti e agli utenti che in futuro indirizzeranno le loro controversie alla cognizione del giudice statale».
Alla luce questo lungo iter evolutivo in chiave interpretativa della portata del principio di inderogabilità della giurisdizione, come visto ormai riletto dalla giurisprudenza delle Sezioni unite, talvolta forse con troppa enfasi, alla luce del principio di ragionevole durata del processo e di effettività della tutela giurisdizionale, sembra innegabile una erosione dell’idea di riparto della giurisdizione come fondata su ragioni “superiori e insuperabili”, il che sembra condurre ad una ormai acquisita, quantomeno sul piano del diritto vivente, doverosa necessità, anche da parte del giudice di merito, di interpretazione del sistema di diritto positivo afferente al tema in esame in chiave di garanzia, per il cittadino, di ottenimento di una risposta di giustizia nel merito.
4. Domande connesse e inderogabilità della giurisdizione: una problematica aperta
Resta tuttavia aperto, anche nella giurisprudenza delle Sezioni unite, il tema, che ci si limita solamente ad accennare, inerente la necessità che domande connesse tra loro per oggetto o per titolo siano conosciute da giudici diversi in ossequio ai criteri di riparto della giurisdizione.
In tale ambito, la giurisprudenza ha sempre affermato il tradizionale principio per cui «non può, peraltro, non ricordarsi come le Sezioni unite, nella loro veste di giudice del riparto, hanno in più occasioni disatteso la tesi dello spostamento della giurisdizione per motivi di connessione (anche in presenza di connessione tra domande contestualmente proposte di fronte ad un unico giudice, ma devolute a diverse giurisdizioni), affermando l’opposto principio secondo cui “salvo deroghe normative espresse, vige nell’ordinamento processuale il principio generale dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, potendosi risolvere i problemi di coordinamento posti dalla concomitante operatività della giurisdizione ordinaria e di quella amministrativa su rapporti diversi, ma interdipendenti, secondo le regole della sospensione del procedimento pregiudicato” (cfr., da ultimo, Cass., Sez. unite, 19 aprile 2013, n. 9534; Cass., Sez. unite, 7 giugno 2012, n. 9185)» [22].
Tuttavia, il principio ora esposto, ha talvolta trovato deroga nella stessa giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione.
In particolare, in un caso in materia espropriativa, in cui l’attore aveva proposto una domanda di retrocessione totale e/o parziale del fondo [23], le Sezioni unite, con la sentenza n. 14805 del 24 giugno 2009 [24], hanno, in primo luogo, effettivamente ricordato che «in caso di domande e cause connesse soggette a diverse giurisdizioni, si è attribuita ciascuna delle due cause introdotte con un diverso petitum a ognuno dei giudici che sulla domanda ha i poteri di conoscerla (tra molte, Sez. unite, 18 luglio 2008 n. 19805, ord. 5 marzo 2008 n. 5914, 28 dicembre 2007 n. 2169, 27 febbraio 2008 n. 5078, da Sez. unite, 16 dicembre 1974 n. 4285 e 11 marzo 1989 n. 1108). La decisione sulla giurisdizione va adottata, anche dopo l’introduzione con legge di più materie riservate alla giurisdizione esclusiva del g.a. (d.lgs n. 80 del 1998 come poi modificato), sulla base dell’oggetto della domanda e non pregiudica “le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda” (art. 386 cpc), che sono e restano di merito, e comportano accertamenti di fatto e di diritto su cui si forma il giudicato sostanziale con effetti vincolanti per le parti (art. 2909 cc)».
E tuttavia, ha affermato la Corte che, «nel caso di specie, i due diversi petita su uno dei quali − quello di retrocessione totale − ha giurisdizione l’Ago, mentre sull’altro, per il permanere della utilizzabilità dalle aree su cui ha potere di decidere discrezionalmente la Pa, deve pronunciarsi il g.a., comporterebbero, ove si negasse rilievo alla connessione tra loro e alla giurisdizione esclusiva nella materia del giudice amministrativo, che ognuna di tali domande dovrebbe attribuirsi alla giurisdizione del proprio giudice, con potere di decidere su di essa e di rilevare la eventuale pregiudizialità dell’una rispetto all’altra causa, con sospensione conseguente di uno dei due processi. Sembra ovvio che, in rapporto al caso in cui l’oggetto delle domande attiene ad una materia di giurisdizione esclusiva, è di certo applicabile l’art. 40 cpc per la parte in cui determina il potere di decidere le cause in un solo processo, anche ai sensi dell’art. 274 cpc; tale processo unico dovrà svolgersi, come precisato nella norma di rito che precede, dinanzi al giudice con maggiori competenze, cioè a quello amministrativo, che può valutare la chiesta tutela degli interessi legittimi oltre che quella dei diritti soggettivi entrambe oggetto delle domande, indipendentemente dal riconoscimento nel merito delle situazioni soggettive il cui accertamento determinerà l’accoglimento dell’una o dell’altra richiesta di tutela» [25].
In altra fattispecie, in materia di pubblico impiego, alcuni lavoratori avevano convenuto avanti al pretore di Napoli, giudice del lavoro, un ente pubblico, al fine di ottenere:
a) il riconoscimento di un’illecita interposizione di manodopera in violazione della legge n. 1369 del 1960, art. 1 e, conseguentemente, la declaratoria giudiziale della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato direttamente con l’ente pubblico;
b) in subordine il riconoscimento del diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo dei dipendenti di detto ente, con condanna dell’appaltatore e dell’ente, in solido fra loro a norma della legge n. 1369 del 1960, art. 3, al pagamento delle differenze retributive tra quanto previsto nel citato contratto e quanto percepito.
Ora, la Cassazione a Sezioni unite, con la sentenza n. 4636 del 28 febbraio 2007 [26], ha affermato che, «in effetti questa Corte ha affermato in passato che la controversia promossa dal dipendente dell’appaltatore per far valere la responsabilità in solido dell’ente pubblico committente, ai sensi della legge 23 ottobre 1960, n. 1369, articolo 3, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario, perché la norma citata non attribuisce all’ente pubblico la posizione di datore di lavoro, bensì quella di coobbligato nei doveri dell’appaltatore verso i dipendenti (Cass., Sez. unite, 18 dicembre 2002 n. 18054, Cass., Sez. unite, 1 febbraio 1988 n. 928)», statuendo tuttavia che «l’applicazione dell’orientamento sopra riportato comporterebbe la devoluzione delle due domande, basate sulla esposizione dei medesimi fatti, ed attinenti alla medesima prestazione lavorativa, a due giurisdizioni differenti; la sospensione della causa sulla domanda dipendente fino al passaggio in giudicato della causa principale, la eventuale successiva riassunzione della causa sospesa».
Alla luce di tale evenienza, argomentando attraverso una nuova acquisita sensibilità rispetto al principio costituzionale della ragionevole durata del processo e dell’effettività della tutela, la Corte enuncia il principio per cui, «in coerenza con la propria giurisprudenza sulla centralità della esposizione dei fatti ai fini della risposta giudiziaria (Cass., Sez. unite, 3 febbraio 1998 n. 1099), ove il lavoratore proponga, sulla base della esposizione dei medesimi fatti attinenti ad una stessa prestazione lavorativa, due domande in via alternativa, la cui decisione dipenda dalla qualificazione giuridica dei fatti emersi in causa, una principale, appartenente alla giurisdizione amministrativa (legge 23 ottobre 1960, n. 1369, ex art. 1 con ente pubblico ante 30 giugno 1998), ed una subordinata (ex art. 3 cit. legge) in cui l’ente pubblico viene evocato non come datore di lavoro ma come coobbligato al rispetto dei minimi retributivi, il principio di concentrazione delle tutele insito nell’articolo 111 Cost. impone di ritenere che il giudice amministrativo avente giurisdizione sulla domanda principale possa e debba conoscere di tutte le pretese originate dalla situazione lavorativa dedotta» [27].
Tuttavia, la giurisprudenza successiva ha avuto modo di rilevare che tali possibilità debbono essere limitate ai casi di giurisdizione esclusiva del g.a., giacché «la prevalenza del potere cognitivo del giudice amministrativo presuppone, oltre che la contestuale proposizione delle domande, che egli sia titolare di giurisdizione esclusiva, a fronte della giurisdizione sui soli diritti propria del giudice ordinario. In questo caso, infatti, il giudice amministrativo è titolare di poteri maggiori che non quelli riconosciuti al giudice ordinario (cfr. Cass., Sez. unite, 24 giugno 2009, n. 14805; Cass., Sez. unite, 7 giugno 2012, n. 9185» [28].
Ora, alla luce dell’impostazione giurisprudenziale esaminata su tale ultima problematica, si può, in conclusione, ragionevolmente sollevare il dubbio circa la possibilità che la connessione tra domande sia idonea, unicamente per il tramite di una eventuale lettura dell’art. 40 cpc costituzionalmente orientata, a determinare la derogabilità della giurisdizione.
In tal senso, per quanto oggi costituisca, alla luce della giurisprudenza costituzionale, un dovere, per il giudice di merito, compiere tutti gli sforzi interpretativi che possano condurre ad una interpretazione della norma che si ponga in conformità con la Costituzione [29], ad avviso di chi scrive, non appare agevole ricondurre, su queste basi, l’art. 40 cpc come strumento idoneo a giustificare uno spostamento della giurisdizione per ragioni di connessione delle domande.
Indipendentemente da ciò, appare comunque a chi scrive come sia ragionevolmente prevedibile che anche tale ultima problematica potrà essere oggetto di contrasti interpretativi e applicativi, financo, eventualmente, a giungere al coinvolgimento della Corte costituzionale in tema.
In tal senso infatti, deve ricordarsi, richiamando quanto già affermato a proposito della translatio iudicii, come, anche in detta ipotesi, la Corte di cassazione avesse ritenuto di poter procedere ad una rilettura del sistema che ammettesse l’istituto unicamente in via interpretativa, laddove la Corte costituzionale aveva proceduto a dichiararne l’incostituzionalità, conducendo poi alla modifica legislativa operata con la legge n. 69/2009. Che la storia possa ripetersi?
[*] Lo scritto costituisce il testo, riveduto e corredato di minima bibliografia, della relazione svolta il 4 maggio 2018 al convegno “Il dramma della giurisdizione”, organizzato dall’Ordine degli avvocati di Nuoro e dalla Scuola superiore della magistratura-Formazione decentrata Distretto Corte d’appello di Cagliari.
[1] Cfr. N. Longhi, Verso una giurisdizione specializzata. I convergenti percorsi dei sistemi europei di giustizia amministrativa, Aracne editrice, Roma, 2017, p. 311.
[2] Cfr. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 63 ss.
[3] Così C. Malinconico, La diversità delle giurisdizioni e la concentrazione delle tutele. La translatio iudicii e il nuovo concetto di giurisdizione, in www.studiolegalemalinconico.it, p. 1.
[4] Cfr. N. Longhi op. cit., p. 320.
[5] Così C. Malinconico, op. cit., loc. cit..
[6] Cfr. Corte costituzionale, 12 marzo 2007, n. 77, in Giur. Cost., 2007, 2, p. 726, con nota di A. Mangia, Il lento incedere dell’unità della giurisdizione.
[7] Cfr. Cass. civ., Sez. unite, 9 ottobre 2008, n. 24883, in Giust. Civ., 2009, 1, p. 47, con nota di A. Nappi, Effetto devolutivo delle impugnazioni e giudicato interno sugli errores in procedendo.
[8] Cfr. N. Longhi, op. cit., p. 114.
[9] Si ricorda che l’art. 47 Carta di Nizza afferma che «ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare»; l’art. 6 Cedu, nella medesima direzione, statuisce che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge (…)», e l’art. 13 Cedu completa il sistema, per cui «ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali».
[10] Cfr. N. Longhi, op. cit., p. 120.
[11] Cfr. L. Maruotti, Questioni di giurisdizione ed esigenze di collaborazione tra le giurisdizioni superiori, in www.giustizia-amministrativa.it, ove l’A. afferma, a proposito della presenza del Ministro della giustizia nel Tribunal, «così i magistrati sono stimolati a trovare soluzioni condivise».
[12] Così, apertamente, L. Marotti, op. cit.
[13] Il testo del Memorandum è reperibile, con nota di presentazione di B. Caravita, al link http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?artid=34087.
[14] Così la critica di R. Russo, Un Memorandum immemore della Costituzione?, http://www.judicium.it/wp-content/uploads/2017/09/Russo.pdf, p. 10, che aggiunge che «“dunque di certo quei magistrati ‘contestatori’ non meritano di essere considerati strenui e miopi laudatores dell’esistente (al pari di una turris eburnea, un polo isolato da tutti gli altri che decide da solo, in silenzio…”, secondo Cassese); piuttosto essi vanno incoraggiati e sostenuti, giacché difendono la loro costituzionale indipendenza esterna nell’esclusivo interesse del Popolo Italiano (e così dell’Utente finale della Giustizia), nel cui nome sono tenuti a giudicare. E sarebbe infine un effimero ‘guadagno’ conseguire l’‘armonia’ giurisprudenziale (cui legittimamente aspira Cassese), a prezzo di mettere in crisi, o soltanto annacquare, il valore costituzionale dell’indipendenza esterna».
[15] Così ancora N. Longhi, op. cit., p. 252.
[16] Cfr. N. Longhi, op. cit., p. 253. Sul punto vds. altresì A. Proto Pisani, Appunti sul giudice delle controversie fra privati e pubblica amministrazione, pubblicato sul Foro it., 2009, V, p. 369.
[17] Chiarisce altresì la sentenza citata che «una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta. “Al medesimo principio gli artt. 24 e 111 Cost. impongono che si ispiri la disciplina dei rapporti tra giudici appartenenti ad ordini diversi allorché una causa, instaurata presso un giudice, debba essere decisa, a seguito di declinatoria della giurisdizione, da altro giudice”».
[18] Sul tema dei valori immanenti, ancorché non esplicitati, nella Costituzione e della loro rilevanza giuridica vds. gli illuminanti studi di Paolo Grossi, oggi raccolti in P. Grossi, L’invenzione del diritto, Laterza, Bari-Roma, 2017.
[19] Aggiunge ancora la Corte, in questa direzione che «il fenomeno del forum shopping testimonia, dunque, il superamento del monopolio statale della disciplina della giurisdizione e delle rigidità connesse, che appaiono incompatibili con l’avvento della “concorrenza internazionale e sopranazionale degli ordinamenti giuridici”. Questa premia la bontà e la celerità del servizio giustizia (attraendo investimenti e shoppers), quando venga affrancata dai viziosi meccanismi processuali, in cui talora resta intrappolata la giurisdizione (per riportare il pensiero di una recente dottrina). I regolamenti comunitari, lungi dal voler ripristinare i monopoli statali della giurisdizione sono stati adottati per esigenze di certezza del diritto e per evitare “abusi” di giurisdizione».
[20] Vds, in Diritto & Giustizia, 2014, 30 luglio. In consapevole contrasto con tale impostazione tuttavia, si rileva come Trib. Vercelli, 9 maggio 2016, in www.personaedanno.it, ha affermato, con ampia motivazione, che: «Il principio della ragione più liquida, infatti, pur rappresentando uno strumento tanto duttile quanto efficiente al fine di garantire il rispetto delle esigenze, ormai di rango costituzionale, di economia processuale e di celerità del giudizio, non può essere invocato e/o applicato al fine di stravolgere l’ordinata, e rigorosa, trattazione delle questioni sottoposte all’attenzione del Giudice nel rispetto di altri indefettibili presìdi processuali (anch’essi aventi rilievo costituzionalmente garantito). In primo luogo si fa riferimento al principio del giudice naturale, dal quale, come noto (art. 25 Costituzione), nessuno può essere distolto. L’interesse di ogni consociato ad essere giudicato dal Giudice precostituito dalla legge, a monte ed indipendentemente dall’esito del relativo giudizio, quale che sia, è infatti ancora oggi da ritenersi evidentemente sovraordinato rispetto ad ogni esigenza di “velocizzazione” del processo civile. Tale argomento, purtroppo, non è stato approfondito dalle Sezioni Unite nella pronuncia succitata, probabilmente per il fatto che la questione pregiudiziale di difetto di giurisdizione, liquidata con la tecnica dell’assorbimento cd. improprio, in quello specifico caso, appariva agli stessi occhi della Corte comunque infondata, ciò che è stato espressamente affermato nella parte motiva, e ribadito nella parte dispositiva. In secondo luogo, le pronunce di legittimità che hanno analizzato la tematica, illustrando il principio della ragione più liquida, hanno fatto applicazione del medesimo solo con riferimento ad una pluralità di eccezioni (o di domande), tra loro logicamente “sovra” o “sotto” ordinate, provenienti dalla medesima parte processuale, o comunque da più parti portatrici del medesimo interesse processuale e sostanziale (ad esempio, alla reiezione della domanda attorea). Nel caso in esame, e sulla base di una trasposizione pedissequa, ma irragionevole, delle coordinate tracciate dalle Sezioni Unite, la ragione più liquida – ossia quella, di merito, relativa alla fondatezza dell’opposizione – militerebbe a sostegno di una parte processuale diversa e soprattutto contrapposta a quella che ha interesse all’eccezione – pregiudiziale di rito – suscettibile di assorbimento improprio. Ciò determinerebbe l’inammissibile pregiudizio del diritto di difesa dell’opposta (art. 24 Costituzione), la quale, a titolo del tutto esemplificativo, non potrebbe beneficiare delle peculiarità connesse al rito innanzi al Giudice competente (per dirne una, l’interrogatorio libero ed il tentativo di conciliazione innanzi al Giudice di Pace, ex art. 320, comma 1, cpc), e, ancora a monte, non potrebbe riporre speranza alcuna nella (ipotetica, ma pur sempre possibile) mancata riassunzione del giudizio innanzi al Giudice competente, con conseguente vittoria “sostanziale” della controversia».
[21] La sentenza è reperibile in Foro it. 2017, 3, I, 966, con note di G. Poli, Ancora limiti al difetto di giurisdizione: le sezioni unite dall’abuso del processo al difetto di interesse ad appellare dell’attore soccombente nel merito; A. Travi, Abuso del processo e questione di giurisdizione: una soluzione conclusiva? e F. Auletta, La Corte di cassazione afferma il principio di coerenza nella difesa della parte: non si può contestare il potere del giudice dal quale si è già preteso (invano) di ottenere ragione. In tema vds. anche G. Verde, Abuso del processo e giurisdizione, https://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/532/Verde.pdf.
[22] Cons. Stato, Ad Plen, 25 febbraio 2014, n. 9, in www.giustizia-amministrativa.it.
[23] Sul punto, ci si limita solo a ricordare che la retrocessione totale, perché relativa ad un’opera pubblica mai realizzata, rientra tra quelle di cui alla legge n. 2359 del 1865, art. 63 norma in rapporto alla quale si è sempre affermata l’esistenza del solo diritto soggettivo perfetto alla retrocessione, cui la PA è comunque tenuta, a differenza di quanto accade per la retrocessione parziale. Solo in quest’ultimo caso, che si verifica in ipotesi di realizzazione incompleta ovvero completa ma in altre aree dell’opera pubblica per cui è avuto l’esproprio, occorre infatti la dichiarazione di inservibilità delle aree rimaste inutilizzate dalla PA perché esse possano retrocedersi agli espropriati che quindi sono titolari di interessi legittimi pretensivi alla retrocessione che per tale motivo si qualifica amministrativa.
[24] Vds. in Riv. giur. edilizia, 2010, 1, I, p. 102.
[25] Conclude la sentenza in esame: «Allorché in base ad un unico titolo e ad altre circostanze di fatto da accertare dal giudice adito, sia chiesta in via alternativa in sede giudiziaria la tutela di interessi legittimi e/o di diritti soggettivi, in rapporto a comportamenti della PA in una materia, come quella urbanistico-edilizia ed espropriativa, nella quale la legge prevede la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, poiché a quest’ultimo competono maggiori poteri che al giudice ordinario, deve dichiararsi il potere dello stesso di conoscere su tutta la domanda anche con eventuale accertamento negativo dell’esistenza di interessi legittimi in sede di merito, che escluderà la tutela di essi chiesta dall’istante, restando ferma la giurisdizione sui diritti soggettivi, che il d.lgs n. 80 del 1998, art. 34 come poi modificato, riconosce a detto giudice speciale».
[26] Vds. in Guida al diritto, 2007, 13, p. 75.
[27] La soluzione si fonda, in particolare, sul ragionamento interpretativo per cui «la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo imponga all’interprete una nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo, deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico concettuale, ma anche, e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione di detto obiettivo costituzionale. L’articolo 111 Cost., in combinazione con l’articolo 24, esprime dunque, quale mezzo imprescindibile al fine, un principio di concentrazione delle tutele (vedi, ad es., per la dichiarata incidenza del novellato art. 111 Cost. sulla estensione del principio di non contestazione al processo tributario: Cass. 24 gennaio 2007 n. 1540). Nel nostro ordinamento esiste già il principio della concentrazione processuale, di cui è espressione l’art. 40 cpc; esso però vale nei limiti della competenza (Cass. Sez. unite, 15 maggio 2003, n. 7621), e non vale a spostare la giurisdizione, salvo casi particolari, come quello previsto dall’art. 4 cpc, n. 3, sulla attrazione nella giurisdizione del giudice italiano di cause connesse dello straniero (Cass. Sez. unite, 17 maggio 1995, n. 5391), o sulla prevalenza della giurisdizione ordinaria su quella arbitrale (Cass. 23 agosto 1990 n. 8608, Cass. 18 maggio 1979 n. 3099). Il principio costituzionale della precostituzione del giudice secondo legge (art. 25 Cost., comma 1) non esclude però che il giudice amministrativo, avente giurisdizione esclusiva sulla pretesa di rapporto di lavoro con ente pubblico, possa conoscere delle domande comunque originate dalla situazione lavorativa sulla quale ha giurisdizione».
[28] Ancora Cons. Stato., Ad Plen., 9/2014, cit. E infatti, si legge nella giurisprudenza amministrativa che «per consolidato orientamento della Corte regolatrice della giurisdizione si ritiene che la connessione non costituisca valido strumento per derogare alle regole sulla giurisdizione. Fermo restando il principio generale dell’inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione, essendo il criterio di riparto fondato sulla separazione imposta dall’art. 103 Cost., comma 1, che rimette al giudice amministrativo la giurisdizione per la tutela nei confronti della PA degli interessi legittimi e, solo per le particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi (vds. Sez. unite, 28 dicembre 2007, n. 27169; Sez. unite, 20 aprile 2007, n. 9358; Sez. unite, 13 giugno 2006, n. 13659; Sez. unite, 15 maggio 2003, n. 7621), nel caso di domande e cause tra di loro connesse soggette a diverse giurisdizioni la via da seguire è in via di principio quella di attribuire ciascuna delle cause contraddistinte da diversità di petitum al giudice che ha il potere di conoscerne, secondo una valutazione da effettuarsi sulla base della domanda (vds. Sez. unite, 24 giugno 2009, n. 14805 in motivazione, con richiamo a Sez. unite, 18 luglio 2008, n. 19805 e, più di recente Cass. civ., Sez. unite, 7 giugno 2012, n. 9185)».
[29] Cfr. la capostipite sentenza Corte cost., 22 ottobre 1996, n. 356, in Giur. cost. 1996, 3096, che afferma che «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice decida di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali». In dottrina vds., ex multis, G. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale nel 2003, in Giur. Cost. 2004; G. Serges, L’interpretazione conforme a Costituzione tra tecniche processuali e collaborazione dei giudici, in Scritti in onore di Franco Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011.