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La Corte costituzionale e lo sciopero degli avvocati

di Simone Perelli
sostituto procuratore generale presso la Corte di cassazione
Sullo sciopero degli avvocati, la Consulta, oltre a dichiarare l’incostituzionalità della norma, sconfessa la Cassazione sulla sospensione del processo a quo. Nota alla sentenza n. 180/2018

1. Com’è noto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 180 del 10-27 luglio 2018, ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146 (relativa all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali), nella parte in cui consente che il codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, nel regolare l’astensione nei procedimenti e processi in relazione ai quali l’imputato si trovi in stato di custodia cautelare, interferisca con la disciplina della libertà personale dell’imputato.

È una sentenza tutt’altro che oscura [1] che fissa alcuni importanti principi passibili di sviluppi processuali interessanti, non messi in luce dai primi commentatori.

Il nucleo dispositivo della sentenza non si limita ad eliminare la facoltà riconosciuta all’imputato [dall’art. 4, comma 1, lett. b) del codice di autoregolamentazione] di chiedere espressamente che si proceda malgrado l’astensione del difensore, analogamente a quanto previsto dall’art. 420-ter comma 5 cpp [2].

La motivazione della sentenza chiarisce come la dichiarazione di incostituzionalità, sia pure indirettamente, faccia venir meno il diritto del difensore di astenersi dall’attività processuale quando il suo assistito sia in stato di custodia cautelare.

Ancorché la pronuncia incida espressamente sulla facoltà dell’imputato di prestare acquiescenza alla volontà del difensore di esercitare il suo diritto di astensione, onde evitare che tale assenso (recte: non opposizione) interferisca con la disciplina della sua libertà personale, l’effetto pratico di questa decisione è nel senso che il processo non possa subire sospensioni o differimenti a causa dello “sciopero” del difensore.

Ulteriore corollario è che nell'ipotesi di processo con più imputati, solo alcuni dei quali in custodia cautelare, con posizioni processuali tra loro connesse e non separabili, anche i difensori degli imputati liberi non potranno astenersi dall’udienza [3].

Onde evitare equivoci va sottolineato che la sentenza della Corte costituzionale riguarda unicamente i processi con imputati in custodia cautelare, mentre non ha alcun effetto sui processi con imputati detenuti per altra causa, relativamente ai quali il diritto di astensione del difensore non ha subito alcuna compressione.

La pronuncia della Consulta ha così eliminato una aporia del codice di autoregolamentazione insita nel fatto che, mentre per le udienze processuali con imputati sottoposti a custodia cautelare era riconosciuto al difensore il diritto di astenersi dall’udienza (salva la facoltà per l’imputato di chiedere espressamente la celebrazione dell’udienza nonostante l’astensione del suo difensore), tale diritto era (ed è) negato in caso di udienze afferenti misure cautelari (cfr. l'art. 4 del Codice di Autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati, adottato il 4 aprile 2007 e ritenuto idoneo dalla Commissione di garanzia dell'attuazione della legge sullo sciopero nei servizi essenziali con delibera del 13 dicembre 2007).

Con riferimento alle udienze relative alle misure cautelari la giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che la tesi negativa deve intendersi riferita anche alle udienze relative alle misure cautelari reali (Cass., Sez. unite., sent. n. 40187 del 27 marzo 2014, Lattanzio), e, più di recente, finanche nel caso in cui la misura richiesta non sia stata applicata ma ne sia in discussione la sua adozione [4].

Dunque la recente sentenza della Corte costituzionale inibisce al difensore dell’imputato sottoposto a custodia cautelare di potersi astenere (anche) dalle udienze dibattimentali o camerali nonostante la mancata opposizione del suo assistito [5].

È evidente che il vuoto creato dalla pronuncia della Consulta potrà (recte: dovrà) essere colmato mediante una nuova disciplina legislativa che regoli direttamente l’intera materia, ovvero mediante norma sub-primaria dello stesso codice di autoregolamentazione che si limiti a regolare l’astensione dalle udienze dei difensori di imputati in custodia cautelare.

Tuttavia, la nuova norma non potrà ignorare gli importanti snodi argomentativi di questa sentenza.

A cominciare dal fatto − indubitabile − che l’astensione dalle udienze dei difensori di imputati in stato di custodia cautelare finisce per interferire con la disciplina della durata massima della custodia stessa presidiata da riserva di legge (art. 13, comma 5 Cost.).

Come si legge nella sentenza in commento, la tutela della libertà personale, che si realizza attraverso i imiti massimi di custodia cautelare, che l’art. 13, quinto comma, demanda alla legge di stabilire, è «un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali» (Corte cost., sent. n. 299 del 2005).

In definitiva, alla luce di questi importanti principi, pare inevitabile concludere nel senso che il diritto di sciopero degli appartenenti alla classe forense non possa essere riconosciuto nei processi con imputati sottoposti a custodia cautelare, onde evitare un vulnus alla libertà personale dell’imputato ossia al diritto fondamentale espressamente definito inviolabile dall’art. 13 comma primo della Cost.

2. Come accennato, la sentenza che si commenta è particolarmente importante anche per le considerazioni contenute nella premessa della parte motiva laddove, nel delineare la fisionomia del procedimento incidentale di legittimità costituzionale, mette a confronto il secondo comma dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953, nella parte in cui prevede che, dopo la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, il giudice «sospende il giudizio in corso», col principio costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2 Cost.).

3. Per una migliore comprensione del ragionamento della Corte costituzionale è però necessario inquadrare brevemente la vicenda processuale che ha indotto i giudici delle leggi ad occuparsi anche di questo aspetto.

È infatti accaduto che il Tribunale di Reggio Emilia, che stava celebrando un processo con numerosi imputati sottoposti a custodia cautelare per gravi reati [6], nelle due ordinanze con le quali aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis della legge 146 del 13 giugno 1990, non avesse sospeso il processo e si fosse limitato a sospendere le due sole udienze nelle quali alcuni difensori avevano manifestato la volontà di aderire all’astensione indetta dall’associazione di categoria (infatti il processo proseguì regolarmente nelle udienze successive già in calendario).

La prima ordinanza del tribunale reggiano veniva poi ricorsa per Cassazione dal difensore di due imputati che ne denunciava l’abnormità per violazione dell’art. 23 legge 83/1953, posto che tale norma avrebbe imposto − a giudizio del difensore − la sospensione del giudizio principale e non solamente del giudizio incidentale sull’istanza di rinvio dell’udienza, fondata sull’adesione dei difensori all’astensione dalle udienze proclamata dall’organismo unitario dell’avvocatura.

La 5^ sezione della Corte di cassazione, con la sentenza n. 25124 del 30 marzo 2018, accoglieva il ricorso annullando senza rinvio l’ordinanza del tribunale emiliano bollata come abnorme.

Nella motivazione di questa decisione i giudici di legittimità, dopo avere brevemente riepilogato le categorie dell’atto abnorme, richiamano una (risalente) pronuncia delle Sezioni unite secondo la quale: «La pregiudiziale costituzionale, per espressa previsione normativa (legge 11 marzo 1953 n. 87, art. 23, secondo comma) determina la sospensione obbligatoria del procedimento che priva il giudice della potestas decidendi fino alla definizione della pregiudiziale medesima, né alle parti è attribuito alcun potere di rimuovere tale stasi processuale, essendo immodificabili e insindacabili sia l’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale sia il pedissequo provvedimento di sospensione» (Sez. unite, Sent. n. 8 del 17 aprile 1996, Vernengo, Rv. 205258).

La stessa Corte di cassazione, dopo avere ribadito che l’adesione del difensore all’astensione proclamata dagli organismi rappresentativi della categoria costituisce un diritto di rilievo costituzionale (Sez. unite, Sent. n. 40187 del 27 marzo 2014, Lattanzio, Rv. 259927), osserva come il rigetto dell’istanza di rinvio dell’udienza motivata dall’adesione del difensore all’astensione collettiva, determini una nullità assoluta, riconducibile all’art. 178 comma 1, lett. c) e all’art. 179 cod. proc. pen., rilevabile anche d’Ufficio in ogni stato e grado del procedimento, per violazione del diritto di difesa.

Come anticipato, la sentenza della Cassazione conclude il suo iter argomentativo ritenendo che la sospensione del solo giudizio incidentale, in ordine al rinvio dell’udienza, integra un provvedimento abnorme, posto che il giudice, dopo avere sollevato la questione di legittimità costituzionale, è tenuto a sospendere il giudizio, ai sensi dell’art. 23, secondo comma , legge n. 87 del 1953, essendo privo della potestas decidendi fino alla definizione della questione pregiudiziale da parte della Consulta.

La Corte costituzionale con la sentenza in esame ha preso le distanze da questa interpretazione dell’art. 23 (ancorché propugnata dalle Sezioni unite nella sentenza Vernengo cit.), fornendo una chiave di lettura costituzionalmente adeguata di questa norma, onde renderla maggiormente compatibile col principio della ragionevole durata del processo.

4. I giudici delle leggi, rispondendo all’eccezione di inammissibilità delle questioni di costituzionalità, formulata dai difensori delle parti private, sulla base della sentenza della Corte di cassazione, mettono alcuni importanti paletti.

In primo luogo, ribadiscono che il giudizio incidentale «una volta iniziato, in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente, non è suscettibile di essere influenzato dalle successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato» [7]. Dopodiché osservano come la sentenza di annullamento della Corte di cassazione non abbia travolto l’intera ordinanza di rimessione ma solo la parte in cui si limita a sospendere le udienze nelle quali i difensori avevano manifestato la volontà di aderire all’astensione collettiva.

Quindi soggiungono come l’atto di promovimento del giudizio incidentale di costituzionalità non sia suscettibile di alcuna impugnazione, né possa essere annullato da alcun giudice, spettando solo alla Corte costituzionale di verificarne la ritualità e l’idoneità ad attivare tale giudizio.

Riguardo poi alla corretta interpretazione dell’art. 23, secondo comma, legge n. 87/53, come accennato, i giudici della Consulta, disattendendo la Corte di cassazione, osservano:

a) Il giudizio incidentale di costituzionalità ha necessariamente carattere pregiudiziale, nel senso che la relativa questione si pone come antecedente logico di altra questione che il giudice rimettente deve decidere. Ciò comporta che il giudice non può definire l’attività processuale fin quando la Corte costituzionale non abbia deciso la questione pregiudicante. Pertanto il giudice, riservata la decisione della questione pregiudicata, sulla quale egli delibererà solo dopo la decisione dell’incidente costituzionale, «sospende il giudizio in corso» (art. 23, comma 2 cit.).

b) Nell’ipotesi in cui il giudizio si svolga in distinti momenti o segmenti processuali, identificabili in ragione del fatto che la rilevanza della questione di costituzionalità possa ragionevolmente circoscriversi solo a uno di essi, è sufficiente che il giudice rimettente sospenda anche solo quel distinto momento processuale in cui la questione è rilevante e che possa essere isolato nella sequenza procedimentale del giudizio a quo.

c) Il citato art. 23, interpretato alla luce del principio della ragionevole durata del processo che pervade ogni giudizio, non esclude che il giudice rimettente possa limitare il provvedimento di sospensione al singolo momento o segmento processuale in cui il giudizio si svolge, ove solo ad esso si applichi la disposizione censurata e la sospensione dell’attività processuale non richieda di arrestare l’intero processo, che può proseguire con il compimento di attività rispetto alle quali la questione sia del tutto irrilevante.

d) Alla Corte costituzionale compete comunque il controllo in ordine alla possibilità di circoscrivere la rilevanza della questione, che rimane pur sempre incidentale e, come tale, pregiudiziale rispetto a una decisione del giudice rimettente.

Nell’affermare questi importanti passaggi i giudici delle leggi osservano come, nel caso di specie, la questione di legittimità costituzionale, che ha investito l’art. 2-bis della legge 13 giugno 1990 n. 146, relativa all’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, si ponga solo con riferimento alle udienze nelle quali il difensore degli imputati ha inteso aderire all’astensione collettiva, mentre non abbia alcuna rilevanza nelle molte altre udienze (già programmate) non interessate da alcuna proclamazione di astensione collettiva.

Pertanto, prosegue la sentenza in esame, solo con riferimento alle udienze in cui ci sia stata, in concreto, l’adesione del difensore all’astensione collettiva il giudice è chiamato ad applicare una normativa della cui legittimità costituzionale egli dubita, e solo in queste udienze la pregiudiziale della questione incidentale di costituzionalità richiede che l’attività processuale sia sospesa.

La Corte costituzionale osserva ancora come il principio di economia degli atti processuali, che deriva da quello di ragionevole durata del processo, verrebbe in sofferenza se il dubbio di costituzionalità in ordine a un atto processuale da compiere in una singola udienza dovesse comportare una stasi generalizzata di ogni attività processuale, anche nelle udienze su cui il dubbio di costituzionalità non rileva. Con l’ulteriore rischio, di vedere frustrati sia il diritto dell’imputato alla rapida verifica processuale della presunzione di non colpevolezza, sia l’istanza punitiva riconducibile all’azione penale che tende anch’essa alla rapida conclusione del processo.

Alla fine di questo lineare percorso argomentativo i giudici della Consulta affermano come un’interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 23, comma 2, legge n. 87 del 1953 (nella parte in cui prevede che il giudice rimettente «sospende il giudizio in corso») implica che non possa escludersi un’attività processuale nel giudizio a quo successiva all’ordinanza di rimessione.

5. Provando a tirare le fila di questo ragionamento si possono fare alcune ulteriori brevi considerazioni.

In primo luogo, come si è visto, la Corte costituzionale non ritiene che dopo aver sollevato la questione di legittimità costituzionale il giudice a quo perda la potestas decidendi sino alla definizione del procedimento incidentale (come invece affermato dalla sent. della 5^ Sez. Sent. n. 25124/2018 in conformità alle Sez. unite, Vernengo Sent. n. 8/1996).

Anzi, la Consulta ritiene che una interpretazione costituzionalmente adeguata dell’art. 23, comma 2, legge n. 87 del 1953, comporti che l’ordinanza di sospensione del giudizio possa limitarsi all’attività pregiudicata dall’incidente di costituzionalità e che il giudice a quo possa svolgere attività processuale successiva all’ordinanza di rimessione (e di sospensione), sempre che la questione di costituzionalità sia circoscritta a un segmento dell’attività processuale.

Sono evidenti gli sviluppi positivi che questa decisione potrebbe avere sul terreno della durata dei processi nei quali vengano sollevate questioni di legittimità costituzionale: qualora si tratti di questioni circoscritte a un particolare segmento dell’attività processuale non sarà (più) necessario sospendere l’intero giudizio e il processo potrà proseguire, sia pure limitatamente al compimento delle attività non pregiudicate.

Ovviamente l’attività processuale non potrà giungere a conclusione prima della decisione della Corte costituzionale, sicché dovrà arrestarsi dopo avere esaurito il compimento delle attività non pregiudicate, ma nel frattempo il giudice a quo potrà compiere tutte le altre attività indipendenti dalla decisione relativa alla sollevata questione di legittimità costituzionale, con notevole risparmio di tempo.

Come osservano i giudici della Consulta, questa interpretazione restrittiva del secondo comma dell’art. 23 legge n. 87/1953, risponde alla necessità di adeguare tale norma al principio della ragionevole durata del processo, onde evitare una prolungata e ingiustificata stasi del processo e sottrarre il giudice «a quella che sarebbe un’estrema alternativa tra rispettare il principio di legalità costituzionale, sollevando l’incidente di costituzionalità, al prezzo di determinare un arresto di tutto il processo, oppure proseguire l’attività processuale per rispettare il principio della ragionevole durata del processo, tenendo in non cale un dubbio di legittimità costituzionale che pure egli nutre in ordine alla norma che va ad applicare» (cfr. § 7 della sentenza in commento).



[1] Così è stata definita da Gaetano Pecorella nell’ articolo pubblicato su Diritto Penale contemporaneo del 10 ottobre 2018: «Una sentenza della Corte Costituzionale (apparentemente) oscura. Può ancora esercitarsi il diritto di astensione nei processi con imputati detenuti?»

[2] Come invece sostengono G. Pecorella nell’articolo citato alla nota precedente e L. Scollo in Giurisprudenza Web 2018, 7-8: «Incostituzionale la norma che consentiva all’imputato detenuto di opporsi all’astensione del difensore e alla sospensione dei termini di custodia: brevi considerazioni a caldo»

[3] In questo senso si è già espressa la giurisprudenza, sia pure con riferimento a un caso in cui alcuni imputati detenuti avevano espressamente chiesto che si procedesse malgrado l’astensione del difensore: vds. Corte cass., Sez. 4, Sentenza n. 40724 del 15 giugno 2017 Rv. 270768-01.

[4] Così Corte cass., Sez. 3, Sentenza n. 38852 del 04 dicembre 2017 Cc., Rv. 273702-01.

[5] In questo senso anche F. Ciampi, L’iter processuale deve prevalere sul diritto di sciopero, in Guida al Diritto, numero 35-36, 18 agosto 2018, p. 73.

[6] Trattasi del processo Aemilia con 148 imputati, molti dei quali imputati di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, incendio, frode fiscale. Il processo è iniziato il 23 giugno 2016 e si è concluso il 31 ottobre 2018, dopo 195 udienze nel corso delle quali, tra l’altro, sono stati esaminati 478 testimoni.

[7] Così Corte cost. sentenza n. 120 del 2013; nello stesso senso sentenze n. 264 del 2017, n. 242 e n. 162 del 2014.

26/02/2019
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