Sia detto senza un briciolo di retorica: è un onore poter rivolgere un saluto, a nome di tutta Magistratura democratica, a un convegno che, in occasione del quarantennale della scomparsa, intende ricordare il ruolo, l’importanza e l’attualità del pensiero (meglio sarebbe dire: dei pensieri) di Lelio Basso. E che intende farlo attraverso il racconto e la testimonianza di voci autorevoli, quali quelle di Carlo Smuraglia, Elena Paciotti ed Edmondo Bruti Liberati.
Ci sono personalità – Lelio Basso è tra queste – che suscitano il rimpianto di non poter essere stati, anche per un breve tratto di strada, loro contemporanei, e soprattutto contemporanei consapevoli. Ciò nonostante, parlare di Lelio Basso, per un magistrato e in particolare per un magistrato democratico, significa inevitabilmente parlare di un pezzo della propria biografia politica, intellettuale e sentimentale, indipendentemente dall’oggettività anagrafica.
La più straordinaria creatura di Lelio Basso, infatti, l’art. 3 capoverso della nostra Costituzione, oltre a essere stata la stella polare all’origine della “scelta di campo” di Magistratura democratica, è ancora la bussola che orienta il magistrato progressista, che lo spinge all’impegno nell’associazionismo (il valore della milizia, avrebbe detto Basso) e che gli fornisce quell’entusiasmo sempre rinnovato che si sperimenta quando, disvelata la funzione ideologica dell’ordinamento, si sa di poter percorrere, con gli stessi strumenti di quel diritto che la Costituzione ha reso nuovo, una strada per “realizzare quello che non è ancora stato realizzato”: una democrazia sostanziale, una piena uguaglianza tra persone autenticamente libere, il riconoscimento in capo a tutte le donne e gli uomini dei diritti fondamentali. Quell’art. 3 è la vera pedagogia degli oppressi della nostra Costituzione e la sua forza polemica nei confronti dell’esistente punge oggi ancora di più, di fronte allo scandalo di una disuguaglianza che tocca livelli forse mai raggiunti da dopo la seconda guerra mondiale.
I relatori – visto il fascino degli argomenti, sarebbe meglio chiamarli narratori – spenderanno parole più consapevoli di me per ricordare il rapporto tra Lelio Basso, la cultura giuridica e la magistratura, tra politica e giustizia.
Credo lo faranno a partire da quel congresso Anm di Gardone, settembre 1965, nel quale, grazie anche alle parole concrete di Lelio Basso, il dibattito associativo giunge a misurarsi – rubo ora le frasi a Edmondo Bruti Liberati – con «la dimensione politica dell’attività giudiziaria» e dove «i magistrati si confrontano con i grandi problemi del Paese e ridiscutono il ruolo del giudice in un società che si sta vorticosamente trasformando». Viene messa in crisi definitivamente l’ideologia della separatezza.
Siamo nel 1965, tre anni prima che Umberto Terracini promuova il famoso seminario sulla riforma dello stato. Lelio Basso era all’epoca, effettivamente, l’unica personalità della sinistra ad afferrare appieno la potenza liberatrice del diritto e dell’attività giurisdizionale costituzionalmente orientata.
Come ha scritto un altro gigante, Marco Ramat, Lelio Basso «sentiva il nostro tema», il tema della giustizia e della giurisdizione, e «lo sentiva in entrambe le direzioni, quella ordinamentale, cioè la liberazione dalla carriera, e quella della nuova giurisprudenza, superando lui, dall’esterno, la divaricazione che invece gravava dentro la magistratura, anche in quella ben orientata».
Ecco, io credo che anche questo messaggio testimoni la straordinaria modernità del pensiero del fondatore del Tribunale Russell. Credo che la sutura da lui operata (e da Magistratura democratica) tra i due fronti di impegno possa costituire un programma di azione per la magistratura odierna: saldare la difesa dell’indipendenza e delle prerogative della magistratura alla battaglia per una giurisdizione a servizio e garanzia dell’effettività dei diritti delle persone. Stavo per scrivere cittadini, ma sempre più acuta è la sensazione dell’inadeguatezza di tale espressione, dal momento che ci sono tante persone – penso ai migranti, economici e rifugiati, ma anche ai detenuti – che nel nostro ordinamento faticano ad assurgere a cittadini e trovare risposte politiche ai loro bisogni essenziali. Ed è anche su questi terreni, estranei al circuito della rappresentanza politica, che la magistratura deve svolgere il suo compito di emancipazione.
Purtroppo, viceversa, assistiamo sempre di più al diffondersi di un sentimento di difesa dell’indipendenza della magistratura come privilegio di casta, con contestuale svilimento del Consiglio superiore della magistratura, che si vorrebbe trasformare in indulgente amministratore ed equo distributore di cariche direttive e semidirettive. Sempre più difficile, viceversa, è cogliere le tracce di un impegno giurisdizionale non formalista, teso a confrontarsi con i bisogni reali sottesi alla domanda di giustizia e ad accettare che la Costituzione retroagisca sulle leggi ordinarie e sullo sforzo interpretativo. Il panorama odierno è per alcuni versi desolante. Per rendersene conto è sufficiente percorrerlo dalle aule di giustizia civili, in molte delle quali si esclude l’audizione del richiedente asilo nei processi di protezione, alle aule di sorveglianza, dove troppo spesso si preferisce recitare alla lettera gli automatismi che le transeunti maggioranze di governo dettano nei “pacchetti sicurezza”. Per non parlare del sorprendente conformismo nella giurisprudenza del lavoro (docile di fronte agli orientamenti legislativi di precarizzazione) e di quella penale.
Certo, la critica riguarda tutti noi, anche quella che Marco Ramat chiamava la magistratura «ben orientata». Il più grande errore che potremmo fare – e anche qui soccorrono gli ammonimenti di Lelio Basso – è quello di essere auto-indulgenti nei confronti di noi stessi.
È però ora di essere consapevoli della necessità di un cambiamento, che ancora una volta deve partire da noi e che potrà trovare nella riflessione di Lelio Basso un solido puntello culturale e ideale.
Anche perché, e concludo, da appassionato lettore di Lelio Basso, trovo che le sue parole abbiano due grandi pregi: la semplicità e la passione. L’intreccio di cultura e passione che anima i discorsi di Basso è un vero elemento vitale. Scriveva Gramsci nei Quaderni che «l’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa” ma non sempre comprende e specialmente sente. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra».
Ecco, Lelio Basso, ai miei occhi, rappresenta uno degli esempi più fulgidi di sintesi tra sapere, comprendere e sentire. Basterebbe questo per trasformarlo da ricordo in progetto.
[*] L’intervento è stato predisposto per il convegno «Lelio Basso e la giustizia» organizzato a Milano, il 6 giugno 2018, dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso e Magistratura democratica per ricordare, nel quarantennale della scomparsa, il ruolo di Lelio Basso nel rinnovamento della cultura giuridica in Italia