Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di aprile 2019

di Maria Giuliana Civinini , Marika Ikonomu
*Università Statale di Milano, già tirocinante presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso il Consiglio d’Europa<br>**co-agente governativo davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, Strasburgo
Le più interessanti pronunce emesse dalla Corte di Strasburgo ad aprile 2019: legittimità della detenzione del richiedente asilo, deroga ad alcuni diritti fondamentali durante lo stato di emergenza, diritto a un equo processo, diritto al rispetto della vita privata e familiare, best interests of the child, principio del ne bis in idem

Le più rilevanti sentenze di aprile della Corte europea dei diritti dell’uomo riguardano un vasto ventaglio di diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione. La Corte ha riconosciuto la legittimità e l’assenza di arbitrarietà della misura detentiva disposta nei confronti di un richiedente asilo (art. 5). Ha inoltre giudicato diverse questioni inerenti al grado di garanzia dei diritti umani in Turchia e alla costante minaccia allo Stato di diritto, uno dei tre pilastri fondanti del meccanismo posto in essere dalla Convenzione Edu. I giudici di Strasburgo sono stati, inoltre, chiamati a decidere diverse questioni relative all’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e all’equo bilanciamento di tutti gli interessi in campo, soprattutto qualora siano in gioco i best interests of the child. In ultimo, una decisione di fondamentale importanza in materia di ne bis in idem, principio assicurato dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 2 aprile 2019 rich. nn. 62676/16, Aboya Boa Jean c. Malta

Oggetto: articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), 5 § 4 (diritto a che si decida entro breve termine sulla legittimità della detenzione), richiesta di asilo, legittimità e non arbitrarietà della detenzione, termine ragionevole per l’esame della richiesta.

La Corte ha statuito la non violazione degli artt. 5 § 1 e 5 § 4.

Aboya Boa Jean, un cittadino ivoriano, lamenta la violazione da parte di Malta degli artt. 5 § 1 e 5 § 4: il ricorrente sostiene che il suo arresto da parte delle autorità del Paese di arrivo sia stato illegittimo e arbitrario.

Il cittadino ivoriano arrivò a Malta nel settembre del 2016, in aereo, e comunicò alle autorità la sua volontà di procedere ad una richiesta di asilo, specificando di aver già ottenuto lo status di rifugiato in Armenia. Gli venne però rifiutato l’ingresso sul territorio, con conseguente arresto, giustificato dal pericolo di fuga, fino a che le autorità non avessero proceduto all’esame della domanda. Nell’ottobre 2016, la Commissione competente in materia migratoria confermò la legalità della detenzione, specificando che il riconoscimento da parte dell’Armenia dello status di rifugiato non era ancora stato accertato ed evidenziando il ritrovamento di un biglietto per l’Italia e di un falso passaporto italiano. Il ricorrente venne poi liberato l’8 novembre 2016, con l’obbligo di presentarsi quotidianamente alla stazione di polizia. Nel marzo 2017, il ricorrente, a fronte del rigetto della sua richiesta di asilo, fece ricorso in appello; tale ricorso è tuttora all’esame della Commissione d’appello del Secretary of the Refugee.

Ammesso il ricorso, nonostante non abbia esperito tutti i gradi di giudizio interni, i giudici di Strasburgo ricordano che una delle eccezioni, all’esercizio del diritto alla libertà e alla sicurezza, è sancita dall’art. 5 lettera f), che permette allo Stato il controllo sulla libertà degli stranieri in campo migratorio, «per impedire di entrare illegalmente nel territorio». Tuttavia, la legittimità della detenzione, relativa alle decisioni delle richieste di asilo, deve essere analizzata caso per caso.

La Corte Edu, anzitutto, riconosce che la decisione di detenzione abbia avuto chiare basi giuridiche: nello specifico, gli artt. 5 e 14 dell’Immigration Act. La fattispecie, secondo la Corte, può essere ricondotta alla prima parte dell’art. 5 § 1 lett. f) della Convenzione. Per quanto concerne l’eventuale arbitrarietà di tale detenzione, la terza sezione sottolinea, da un lato, il pericolo di fuga sussistente, date le chiare intenzioni di proseguire verso l’Italia, dall’altro, l’insufficienza della documentazione presentata dal ricorrente. I giudici di Strasburgo ritengono dunque che la misura della detenzione sia stata applicata in buona fede e che la sua durata non possa essere considerata irragionevole, poiché inferiore a due mesi. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell’art. 5 § 1.

In merito al § 4 del medesimo articolo, i giudici considerano che, nonostante non sia stato osservato il termine di sette giorni lavorativi per il primo esame, sia stato, ad ogni modo, rispettato il limite massimo previsto dalla legislazione nazionale: un’inosservanza dei termini, afferma la Corte, non comporta necessariamente il raggiungimento della gravità richiesta per la violazione dell’art. 5 § 4. Il differimento dell’esame, per un periodo di venticinque giorni complessivi, non può essere considerato irragionevole, a parere della Corte. Poiché è stato rispettato il diritto del ricorrente a che si decida entro breve termine sulla legittimità della detenzione, la Corte Edu statuisce la non violazione dell’art. 5 § 4.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 16 aprile 2019 rich. nn. 12778/17, Alparslan Altan c. Turchia

Oggetto: articolo 5 § 1 (diritto alla libertà e alla sicurezza), articolo 15 (deroga in caso di stato d’urgenza), legittimità della custodia cautelare, limitazione di diritti e libertà durante lo stato di emergenza, immunità.

La Corte ha statuito la violazione degli art. 5 § 1 per l’illegittimità della detenzione provvisoria; ha inoltre deciso che vi è stata violazione dell’art. 5 § 1 nella misura in cui mancano giustificazioni ragionevoli, al momento della privazione della libertà, che provino la commissione di un reato.

Alparslan Altan, cittadino turco e giudice della Corte costituzionale turca (CCT), lamenta la violazione dell’art. 5 della Convenzione, per l’arbitrarietà e l’illegittimità della custodia cautelare a cui è stato sottoposto, in mancanza di concreti elementi di prova.

La violazione di tale disposizione è avvenuta nel mese di luglio 2016, quando un gruppo di persone appartenenti alle forze armate, denominate Consiglio di Pace Turco, fece un tentativo di colpo di stato militare, con l’obiettivo di rovesciare il Parlamento, il Governo e il Presidente della Repubblica. La autorità nazionali accusarono Fetullah Gülen, cittadino turco residente in Pennsylvania, di essere a capo dell’organizzazione terroristica FETÖ/PDY. Il 20 luglio venne proclamato lo stato di emergenza, durato fino al 18 luglio 2018, e venne comunicata al Consiglio d’Europa la deroga temporanea della Convenzione ex art. 15 (deroga in caso di stato d’urgenza). Il 16 luglio dello stesso anno fu disposta la custodia cautelare, e successivamente la detenzione, di 3000 magistrati circa, compresi quelli appartenenti alle magistrature superiori (Corte costituzionale, Corte di cassazione e Consiglio di Stato). Il 20 luglio, il ricorrente comparve di fronte al giudice: accusato di tentativo di rovesciamento dell’ordine costituzionale, il giudice Altan rifiutò tutte le accuse. Nonostante ciò, venne disposta la custodia cautelare. Egli contestò l’assenza di prove concrete e domandò, senza alcun successo, l’applicazione di misure alternative, avendo il figlio, affetto da una forma di disabilità grave, bisogno della sua assistenza; tale opposizione venne poi rigettata. Contestualmente, la Corte costituzionale revocò i poteri del ricorrente, evidenziando l’inadeguatezza all’esercizio della professione.

La Corte di cassazione, nell’ottobre 2017, fu chiamata a decidere un’altra questione e ne scaturì una sentenza di principio: l’arresto dei magistrati sospettati di appartenere ad un’organizzazione terroristica armata doveva considerarsi inserita in un quadro di flagranza di reato. Di conseguenza, secondo tale Corte, la detenzione provvisoria poteva seguire la procedura di diritto comune, senza che operasse l’immunità.

Il 7 settembre 2016 Altan propose un ricorso individuale alla Corte costituzionale, la quale rigettò la sua domanda sulla base di dichiarazioni di semplici sospetti e testimonianze anonime, giustificando tali scelte ex art. 15 Convenzione, secondo cui, durante lo stato di emergenza, l’esercizio di diritti e libertà fondamentali può essere totalmente o parzialmente sospeso. La Corte turca, riprendendo la decisione della Cassazione, ritenne la detenzione una misura proporzionata e fondata su un giustificato motivo.

Il 15 gennaio 2018 la Procura presso la Corte di cassazione depose un atto di accusa nei confronti del ricorrente per la sua appartenenza ad un’organizzazione terroristica armata. La Corte condannò Altan, il 6 marzo 2019, con una sentenza sommaria, a pena detentiva di 11 anni e 3 mesi.

La Corte di Strasburgo esamina i fatti alla luce degli artt. 5 § 1 e 5 § 3, tenendo conto dell’art. 15 della Convenzione. I giudici della seconda sezione esaminano due profili: da un lato, se siano stati rispettati i «modi previsti dalla legge» per la privazione della libertà, al momento della disposizione della custodia cautelare; dall’altro lato, se la custodia sia stata disposta sulla base di «motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato».

Sul primo profilo, la Corte Edu considera l’interpretazione estensiva della nozione di «flagranza di reato», sostenuta dalla giurisdizione turca, manifestamente irragionevole: tale interpretazione, senza che sia stato rilevato alcun elemento fattuale, ha ridotto completamente le garanzie procedurali riconosciute alla magistratura, affinché possa esercitare le sue funzioni senza pressioni esterne, quali quelle dell’esecutivo. La privazione della libertà di un giudice della CCT è legalmente possibile, afferma la Corte, ma occorre garantire il rispetto delle disposizioni costituzionali e del regolamento della CCT. Neppure lo stato di emergenza, secondo la Cedu, ha potuto giustificare un’interpretazione tanto estensiva. Di conseguenza, la detenzione del ricorrente non è avvenuta secondo le modalità previste dalla legge.

In merito al secondo profilo, la Corte di Strasburgo critica l’interpretazione del termine «plausibilità»: le giurisdizioni interne hanno interpretato tale concetto fino a svuotare la garanzia offerta dall’art. 5 § 1 lett. c). Nella decisione che dispone la detenzione provvisoria non si fa riferimento ad alcuna testimonianza, altro elemento o informazione per dedurre il ragionevolmente fondato sospetto di appartenenza ad un’organizzazione criminale. La Corte Edu denuncia la vaghezza dei riferimenti alle disposizioni del codice di procedura penale e alle prove allegate, i quali non costituiscono «motivi plausibili», richiesti dalla lettera c); rileva inoltre l’assenza di una valutazione individuale e concreta degli elementi del dossier e di informazioni che giustifichino i sospetti. Le prove allegate in più sono state ottenute dopo la decisione sulla custodia cautelare: tuttavia, la Corte Edu è stata chiamata a pronunciarsi esclusivamente sulla legittimità e ragionevolezza della misura cautelare. L’art. 15, neppure sul secondo profilo, può giustificare la violazione.

Pertanto, i giudici della Corte Edu hanno stabilito che vi è stata violazione dell’art. 5 § 1.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 30 aprile 2019 rich. nn. 4529/06, Aksis e altri c. Turchia

Oggetto: articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), termine iniziale di decorrenza, diritto a che la causa sia esaminata da un tribunale, funzione nomofilattica della Corte di cassazione e non armonizzazione della giurisprudenza

La Corte ha statuito la violazione dell’articolo 6 § 1.

I ricorrenti sono tredici cittadini turchi, quattro dei quali sono morti nelle more del procedimento della Corte Edu; di conseguenza, la Corte ha eliminato dalla lista dei casi quelli relativi a due ricorrenti, mentre per quanto concerne un altro ricorrente ha dichiarato la domanda inammissibile.

Il caso riguarda il rigetto della domanda di compensazione dei ricorrenti per i danni ricevuti alle loro abitazioni nella città di Yalova, danni provocati da un terremoto avvenuto nell’agosto 1999. I soggetti denunciarono i costruttori di tali appartamenti, considerati responsabili per non aver rispettato le norme in materia di costruzioni. Tali domande vennero rigettate, negli anni 2004 e 2005, dalla sezione civile della Corte di cassazione perché fuori dai termini consentiti: considerate rivendicazioni contrattuali, la Corte dichiarò le domande eccedenti il termine di 10 anni, decorso dalla data di conclusione dell’edificazione. Contestualmente, il Primo Presidente della Corte di cassazione rigettò la richiesta dei ricorrenti di uniformare la giurisdizione in materia di termini di presentazione dei ricorsi relativi al terremoto del 1999: la richiesta fu mossa dal riconoscimento, da parte della quarta sezione civile della Corte, della data del terremoto come termine iniziale di decorrenza.

La Corte Edu sottolinea il fatto che la qualificazione delle domande come «richieste di risarcimento derivanti da un contratto» non è stata attribuita dalle parti, ma dalla Corte di cassazione. Poiché i ricorrenti non conoscevano il difetto di costruzione prima del terremoto del 1999, esigevano che il termine iniziale decorresse da tale evento. I giudici della seconda sezione, richiamando il caso Hayati Çelebi e altri c. Turchia, in cui è stata riconosciuta una violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione, individuano alcune contraddizioni nella giurisprudenza della Corte suprema, nonché il fallimento del meccanismo di armonizzazione della giurisprudenza all’interno di tale Corte: alcuni soggetti, trovatisi in una simile situazione, hanno infatti visto le loro pretese esaminate nel merito.

La Corte Edu riconosce dunque una differenza di interpretazione tra le diverse sezioni della Corte di cassazione e sottolinea l’assenza di motivazioni nella decisione di rigetto, accennata precedentemente, del Primo Presidente. Dichiarato ammissibile, ma assorbito dalla decisione relativa all’art. 6, la Corte di Strasburgo non esamina separatamente la violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (protezione della proprietà).

Vi è stata dunque violazione dell’art. 6 § 1, poiché le corti interne hanno compresso il diritto dei ricorrenti a che la causa sia esaminata da un tribunale.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 9 aprile 2019 rich. nn. 11236/09, Altay c. Turchia (n. 2)

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), articolo 6 § 1 (diritto a un equo processo), diritti della difesa, confidenzialità dei colloqui, diritto a richiedere una pubblica udienza.

La Corte ha statuito la violazione degli artt. 8 e 6 § 1.

Nel caso Altay c. Turchia (n. 2), il sig. Altay, condannato alla pena dell’ergastolo per tentativo di attentato contro la Costituzione dello Stato, lamenta la violazione dell’art. 8, per aver visto negato il suo diritto alla confidenzialità dei colloqui con l’avvocato, nonché dell’art. 6 § 1, per non aver potuto partecipare alle udienze relative alla restrizione di tale confidenzialità.

Nell’agosto 2005 l’avvocato inviò al ricorrente un pacco contenente un libro dal titolo Globalizzazione e imperialismo, una rivista e un quotidiano; tuttavia, il pacco venne bloccato dall’istituto penitenziario e il Tribunale di Edirne confermò la decisione, sostenendo che le pubblicazioni in questione non rientrassero nei diritti della difesa. Nel mese successivo, l’istituto penitenziario chiese al pubblico ministero di autorizzare la presenza di un ufficiale ai colloqui tra il ricorrente e l’avvocato, evidenziando l’incompatibilità tra l’invio del pacco e gli obblighi propri del rappresentante legale. Il Tribunale accordò l’autorizzazione, in mancanza di una partecipazione effettiva alla procedura del detenuto e del rappresentante.

Il sig. Altay nel 2006 ricorse una prima volta alla Corte di Strasburgo che, tuttavia, rigettò la richiesta per mancanza di esperimento delle vie di ricorso interne. Nel 2016 venne poi dichiarata la violazione della libertà di espressione ex art. 10, per la mancata ricezione del pacco, mentre, nel presente caso, si lamenta la violazione di ulteriori diritti.

La Corte Edu, nell’analisi dell’art. 8 § 2 della Convenzione, esamina alcuni elementi che legittimano l’ingerenza di un’autorità pubblica: «Non può esservi ingerenza (…) a meno che (…) sia prevista dalla legge», persegua uno scopo legittimo e sia necessaria in una società democratica. Nonostante venga riconosciuta la base legale che ha giustificato l’ingerenza, ossia la legge n. 5275 sezione 59, la Corte afferma che l’interpretazione data a tale disposizione sia stata eccessivamente estensiva e manifestamente irragionevole: la norma prevede, infatti, la presenza di un ufficiale durante i colloqui tra detenuto ed avvocato qualora sia indubbio che tale colloquio venga utilizzato come strumento di comunicazione con organizzazioni terroristiche o per la commissione di ulteriori reati. Poiché lo Stato non ha ottemperato al requisito di legalità, la Corte non esamina gli altri profili.

I giudici della seconda sezione, nella valutazione dell’applicabilità dell’art. 6 § 1 della Convenzione, esaminano la violazione sotto il profilo civile, ritenendo alcune restrizioni ai diritti dei detenuti come rientranti nella sfera dei diritti civili, in quanto prevalentemente di carattere personale ed individuale.

La Corte non esclude la possibilità di semplificare le procedure, per esigenze pratiche o politiche, attraverso ad esempio un procedimento basato su prove scritte; tuttavia, alle parti deve essere consentito di richiedere un’udienza pubblica ovvero, ove non si ammetta la pubblicità, un’udienza «a porte chiuse». Nel caso in questione, né il ricorrente né il rappresentante legale hanno avuto la possibilità di essere sentiti, in nessun grado di giudizio, nel procedimento che ha portato alla restrizione della confidenzialità. Di conseguenza, le decisioni prese dalle corti interne sono state fondate esclusivamente sugli atti scritti del fascicolo, senza alcuna audizione orale. Poiché nessuna circostanza eccezionale ha giustificato l’assenza di un’udienza pubblica, né l’impossibilità per la difesa di presentare dichiarazioni o osservazioni, i giudici di Strasburgo affermano che i procedimenti non hanno rispettato il principio dell’equo processo ex art. 6 § 1. La garanzia dell’udienza pubblica, infatti, avrebbe permesso alla Corte d’Assise di dar vita ad un giudizio autonomo, tenendo conto delle prove contenute nel fascicolo, nonché delle questioni allegate dal ricorrente.

La Corte Edu dichiara dunque la violazione degli artt. 8 e 6 § 1 della Convenzione.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione IV) 9 aprile 2019 rich. nn. 878/13, A.V. c. Slovenia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), best interests of the child, equo bilanciamento degli interessi, ingerenza dello Stato, azione inadeguata dei Servizi Sociali.

La Corte ha statuito la violazione dell’articolo 8.

Il ricorrente, nel caso A.V. c. Slovenia, lamenta la violazione dell’articolo 8 della Convenzione, per la revoca del suo diritto di visita ai tre figli, da parte delle corti interne, in seguito alla separazione dalla moglie. Raggiunto un accordo con l’ex moglie, dopo la separazione avvenuta nel 2002, nel 2006 sopraggiunsero dei problemi nella sua attuazione, causando così al ricorrente la perdita di ogni contatto con i figli, più precisamente dal luglio 2006 al novembre 2008. A.V. iniziò una procedura giudiziaria, durante la quale venne statuito il rifiuto dei figli di avere contatti con il padre: mentre il Tribunale di primo grado stabilì il diritto di visita regolare alla presenza di uno psicologo, la Corte d’appello acconsentì a visite ogni due settimane alla presenza di un assistente sociale. Tuttavia, tali visite furono brevi, a causa del rifiuto dei figli di vedere il padre. Di conseguenza, i Servizi sociali procedettero giudizialmente al fine di interrompere le visite o di modificarne le modalità. Così, il Tribunale di primo grado, nel 2011, stabilì l’interruzione degli incontri, considerati traumatizzanti e non più rispondenti all’interesse superiore dei minori. A.V., dopo aver inutilmente ricorso alla Corte d’appello e alla Corte costituzionale, depositò una denuncia all’ispettorato presso il Ministero del lavoro, della famiglia e delle questioni sociali, la cui decisione evidenziò alcune inosservanze da parte dei Servizi sociali nella gestione del dossier, imponendo loro l’adozione di alcune misure; misure che sono poi state adottate.

La Corte di Strasburgo ricorda il ruolo attivo che detiene lo Stato nel garantire a pieno l’art. 8 della Convenzione, inteso come diritto dei genitori e dei figli di godere della reciproca compagnia, quale elemento fondamentale della vita familiare. L’ingerenza da parte dell’autorità pubblica è giustificata qualora sia prevista dalla legge e sia necessaria in una società democratica. La quarta sezione della Corte esamina, inoltre, se vi sia stato o meno un giusto bilanciamento dei vari interessi, tra i quali l’interesse superiore dei minori: quest’ultimo non è sufficiente per escludere completamente gli interessi dei genitori. La Corte osserva, dunque, se siano stati percorsi tutti i passaggi necessari, secondo le particolarità del caso, al fine di facilitare il contatto tra il ricorrente e i figli.

Lo psichiatra del Tribunale osserva che i minori non sono mai riusciti ad instaurare un rapporto emotivo con il padre e manifestano una paura irrazionale, date le esperienze passate (urla, maltrattamenti, i commenti negativi relativi alla madre). I giudici di Strasburgo rilevano l’inefficienza dei Servizi sociali, per non avere intrapreso alcuna misura significativa e non aver individuato alcun piano d’azione: secondo la Corte, infatti, ai minori non è stato offerto alcun aiuto per affrontare il duraturo distacco dal padre, con il quale non hanno avuto alcun contatto per due anni, e non sono state garantite loro le circostanze per incoraggiare uno sviluppo positivo dell’incontro. La quarta sezione ritiene che le azioni intraprese dai Servizi sociali hanno accentuato le difficoltà nel ristabilire i rapporti familiari e riconosce l’adeguatezza dei comportamenti del padre nei confronti dei figli, constatata anche dallo psichiatra designato dal Tribunale.

La Corte Edu riconosce dunque una violazione dell’art. 8, nella misura in cui le autorità interne non hanno operato un giusto bilanciamento tra gli interessi in campo e lo Stato non si è mostrato adempiente al suo obbligo positivo.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione III) 9 aprile 2019 rich. nn. 72931/10, V.D. e altri c. Russia

Oggetto: articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), equo bilanciamento degli interessi, best interests of the child, diritto di visita, affidamento.

La Corte ha statuito la non violazione dell’articolo 8 sul primo profilo e la violazione del medesimo articolo sul secondo profilo, relativo al diritto di visita.

La Corte è stata chiamata a decidere un ulteriore caso relativo al best interest of the child. Tutti i ricorrenti sono rappresentati in giudizio dalla prima, V.D., la quale è stata o, in alcuni casi, è tuttora il tutore degli altri soggetti coinvolti.

Nel novembre 2001, la ricorrente fu nominata tutrice degli altri sette ricorrenti e di R., minore affetto da gravi malattie congenite, poiché i genitori biologici non avevano i mezzi per curarlo. Nel 2007, stabilizzatasi la salute del minore, i genitori di R. manifestarono la volontà di tornare ad occuparsi del figlio; V.D., di conseguenza, agì al fine di far decadere la loro responsabilità genitoriale. Tale domanda venne rigettata in primo ed in secondo grado; tuttavia, i tribunali decisero che la residenza del minore dovesse rimanere presso l’abitazione della ricorrente, assicurando però un diritto di visita ai genitori biologici. Questi avviarono una seconda procedura, con l’obiettivo di ottenere la custodia: nel maggio 2010, il Tribunale accolse la loro domanda, decisione confermata poi in appello. I tribunali inoltre rifiutarono il riconoscimento del diritto di visita, nonostante le allegazioni della ricorrente che dimostravano gli stretti legami tra quest’ultima e R.: la decisione si fondò sulla legislazione interna, per cui solo i membri della famiglia potevano godere del diritto di visita.

La ricorrente lamenta, perciò, la violazione dell’art. 8, provocata dalla decisione dei tribunali di riassegnare la custodia ai genitori, di porre fine alla tutela esercitata dalla ricorrente, nonché di privare tutti i ricorrenti del diritto di visita.

La Corte Edu riconosce nella relazione intercorrente tra V.D. e i minori, anch’essi ricorrenti, un rapporto di «vita familiare», così come inteso dall’art. 8 della Convenzione, avendo R. vissuto i primi nove anni di vita con la tutrice. Per quanto concerne il primo profilo, relativo alla decisione di riaffidare il minore ai genitori biologici, la Corte riconosce che l’ingerenza da parte dello Stato sia stata prevista dalla legge, in particolare dal Codice russo della famiglia, e che abbia aspirato «alla protezione dei diritti e delle libertà altrui», ex art. 8 § 2. Nell’analisi sulla necessità di tale misura in una società democratica, i giudici della terza sezione hanno riconosciuto la difficoltà della decisione, nel tener conto degli interessi in gioco, concorrenti, e della vulnerabilità del soggetto minorenne. I genitori hanno accettato di affidare il minore ad un tutore, ma non hanno mai cessato di prendersi cura del figlio: hanno sempre contribuito economicamente, nell’offerta delle cure mediche e dei particolari bisogni alimentari. La Corte, ricordando che le decisioni di affidamento sono solitamente temporanee, riconosce che i tribunali interni hanno compiuto un’analisi attenta degli interessi in campo, con l’apporto di pareri psicologici e testimonianze. Di conseguenza, la Corte riconosce che la decisione sia stata presa nell’interesse superiore del minore e nei limiti dei margini di apprezzamento. L’ingerenza è stata dunque necessaria in una società democratica e non vi è stata violazione dell’art. 8.

Per quanto riguarda il diritto di visita della ricorrente, al contrario, la Corte ha individuato una violazione dell’art. 8, richiamando una simile decisione nella sentenza Nazarenko c. Russia. I giudici di Strasburgo avevano già constatato la rigidità della legislazione russa in tema di diritto di visita: le disposizioni non tengono conto della diversità delle situazioni familiari, né dei best interests of the child. Il diritto di visita è negato a coloro che non hanno legami di sangue o di diritto: i tribunali infatti non hanno tenuto conto delle circostanze particolari del rapporto in questione, né dell’interesse del minore, venendo meno così il bilanciamento degli interessi dei ricorrenti. Le autorità interne hanno violato l’art. 8 della Convenzione, non avendo allegato alla decisione motivazioni pertinenti e sufficienti e non avendo offerto un equo bilanciamento dei diritti coinvolti.

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Sentenza della Corte Edu (Sezione II) 16 aprile 2019 rich. nn. 72098/14, Bjarni Ármannsson c. Islanda

Oggetto: articolo 4 (diritto di non essere giudicato o punito due volte) Protocollo n. 7, ne bis in idem, doppio binario, connessione sostanziale e temporale tra i procedimenti.

La Corte ha statuito la violazione dell’articolo 4 Protocollo n. 7 alla Convenzione.

Nella causa Bjarni Ármannsson c. Islanda, la Corte Edu è chiamata a decidere in merito al principio del ne bis in idem. Il ricorrente dal settembre 1997 all’aprile 2007 fu amministratore delegato di Glitnir, una delle più grandi banche islandesi. Nel luglio 2009, le autorità fiscali effettuarono un controllo per verificare la corretta dichiarazione dei profitti derivanti dalla cessione di azioni; profitti ricevuti nel momento della cessazione dell’incarico di amministratore di tale banca. Nel gennaio 2012, la Direzione entrate ricalcolò le imposte dovute, relative agli anni fiscali dal 2007 al 2009, oltre a denunciare le omissioni del sig. Ármannsson in merito ad importanti redditi ricevuti tra il 2006 e il 2008. Ricalcolando dunque la somma delle imposte dovute, la Direzione entrate impose una maggiorazione del 25%. Tali somme (il ricalcolo delle imposte e la maggiorazione) vennero immediatamente pagate dal ricorrente; mentre la decisione della Direzione diventò definitiva nell’agosto 2012.

Nel marzo 2012, la Direzione delle indagini fiscali trasferì gli atti all’ufficio del Procuratore speciale. Nonostante le opposizioni del legale del ricorrente, quest’ultimo venne interrogato e rinviato a giudizio per dichiarazione infedele. Il contribuente chiese l’archiviazione alla luce dell’art. 4 Protocollo n. 7 Convenzione Edu; tuttavia, nel dicembre 2012, il Tribunale di primo grado lo condannò alla pena detentiva di sei mesi e alla multa di 38.850.000 corone islandesi (circa 241.000 euro). La Corte suprema, in seguito, confermò la condanna e rideterminò la pena: la pena detentiva fu portata a otto mesi, mentre la multa venne lievemente ridimensionata (35.850.000 ISK).

Il ricorrente ha adito alla Corte Edu, lamentando la violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 7, per aver subito un doppio procedimento ed essere stato punito due volte per il medesimo fatto: da un lato, la pena della maggiorazione, dall’altro, la pena detentiva e la multa.

La Corte di Strasburgo è chiamata ad esprimersi sull’opportunità di considerare la sovrattassa una misura di natura penale, sulla natura dei fatti alla base delle due sanzioni inflitte, sull’idem dunque, e sull’esistenza di una ripetizione di procedimenti penali (bis). Stabilito che il fatto alla base dei due procedimenti risulta lo stesso e che le decisioni scaturenti dai processi sono definitive, la Corte esamina la questione relativa al «bis», richiamando una pronuncia del 2016, A. e B. c. Norvegia: secondo tale decisione, lo Stato, nelle sue argomentazioni, deve dimostrare in modo inoppugnabile che le due procedure siano unite da «una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta», vale a dire che siano espressione della medesima volontà punitiva. Sul profilo sostanziale, la seconda sezione della Corte riconosce una complementarietà tra i due procedimenti, nonché la corretta considerazione della sanzione inflitta nel procedimento amministrativo da parte dei giudici penali, al momento della determinazione della pena. Tuttavia, l’autorità giudiziaria ha proceduto in maniera totalmente indipendente, concludendo poi il processo con una condanna. La condotta e le responsabilità del contribuente, afferma la Corte, sono state dunque esaminate da differenti autorità e giurisdizioni, dotate di una marcata indipendenza. Sul profilo temporale, la Corte calcola la durata complessiva dei procedimenti, di circa cinque anni e dieci mesi, dove uno svolgimento parallelo dei procedimenti è avvenuto esclusivamente tra il mese di marzo e di agosto 2012. La condanna penale, inoltre, è giunta a sette mesi dal momento in cui la decisione amministrativa era divenuta definitiva; mentre lo scarto temporale tra la decisione amministrativa e la decisione della Corte suprema ammonta a quasi tre anni.

I giudici di Strasburgo, già pronunciatisi sul tema nella causa A. e B. c. Norvegia, dove non viene condannato in sé il principio del doppio binario, come contrario all’art. 4 Protocollo n. 7, ma esclusivamente la mancanza di connessione (sufficiently closely connected in substance and in time), riconoscono che vi è stata una violazione di tale disposizione. Considerando la totale assenza di una connessione temporale e la mancanza di un’uniformità nella raccolta e valutazione delle prove, la Corte non riscontra una sufficiente connessione sostanziale e temporale tra i due procedimenti da renderli compatibili con il principio del ne bis in idem. Il ricorrente ha, perciò, subito due diverse sanzioni per la medesima condotta, o ad ogni modo per una condotta identica nella sostanza, da parte di autorità differenti e nell’ambito di due procedimenti distinti, scollegati nella sostanza e nel tempo.

28/06/2019
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22/12/2023
Ancora due condanne dell’Italia per i suoi hotspot

Sadio c. Italia,  n. 3571/17, sentenza del 16 novembre 2023, e AT ed altri c. Italia, ricorso n. 47287/17, sentenza del 23 novembre 2023. Ancora due condanne (una di esse, anzi, doppia e l’altra triplice) per l’Italia in tema di immigrazione, con specifico riferimento alle condizioni di un Centro per richiedenti asilo in Veneto e di un Centro di Soccorso e Prima Accoglienza in Puglia.

14/12/2023
I criteri probatori della violazione del principio del giusto processo di cui all'art. 6 Cedu. Una visione comparatistica

La Supreme Court del Regno Unito ha fornito, in una propria recente sentenza, un contributo di essenziale rilevanza su questioni il cui intreccio avrebbe potuto portare, se non si fosse saputo individuare l'appropriato filo di cucitura, esiti disarmonici sia nel diritto di common law inglese sia, con anche maggior gravità, nel diritto europeo convenzionale. Si trattava di coordinare il fondamentale principio del giusto processo, fissato dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950, con il più solido dei ragionamenti circa la sufficienza del materiale probatorio raccolto a divenire indice della violazione dello stesso articolo 6. I supremi giudici inglesi si sono collocati saldamente sulla linea della giurisprudenza di Strasburgo, fissando, in un caso dalle irripetibili peculiarità, affidabili parametri che sappiano, come è avvenuto nel caso sottoposto al loro esame, felicemente contemperare l'esigenza di garantire costantemente condizioni di svolgimento dei processi rispettose dei diritti umani con quella, altrettanto meritevole di apprezzamento, di evitare l'abuso del ricorso allo strumento di tutela convenzionale fondato su motivi puramente congetturali e tali, pertanto, da scuotere la stabilità del giudicato, lasciandolo alla mercé di infinite, labili impugnazioni, contrarie allo stesso spirito del fondamentale precetto del giusto processo.

13/12/2023
Sentenze di luglio-agosto 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nei mesi di luglio e agosto 2023

24/11/2023