Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di giugno 2022

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di giugno 2022

Le sentenze di giugno della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sono qui selezionate per evidenziare un modus operandi virtuoso, quello di formulare un “test” con quesiti tendenzialmente prestabiliti per accertare la violazione di volta in volta sollevata in sede europea: si tratta di un metodo che garantisce prevedibilità della decisione convenzionale e, dunque, dell’applicazione della Convenzione.

La pronuncia Xavier Lucas c. Francia riscontra la violazione del diritto di accesso al giudice nella misura in cui la Corte di cassazione non aveva tenuto in debita considerazione gli ostacoli riscontrati dal ricorrente nell’ottemperare all’obbligo di deposito telematico degli atti, così dimostrando un formalismo eccessivo.

Nel caso De Giorgi c. Italia, la Corte ribadisce il test per accertare la violazione dell’articolo 3 della Convenzione in relazione a casi di violenza domestica, di maltrattamenti in ambito familiare, qualora superino la soglia di gravità della tortura (non solo in presenza di aggressioni fisiche, ma psicologiche).

Nel caso Goulandris e Vardinogianni c. Grecia, la Corte torna ad applicare i principi formulati in materia di ne bis in idem, secondo quello che potrebbe definirsi un test duplice: un primo test per ricondurre una determinata sanzione (nel caso di specie, un’ammenda per le costruzioni abusive) alla materia penale; un secondo test per stabilire l’esistenza di una connessione sufficiente, nella sostanza e nel tempo, tra i due procedimenti sanzionatori, in modo da poterli considerare, piuttosto che una duplicazione l’uno dell’altro, un sistema sanzionatorio integrato e proporzionato rispetto all’illecito contestato.

Infine, nella sentenza Rouillan c. Francia, i giudici di Strasburgo rilevano la violazione dell’art. 10 della Convenzione in relazione alla condanna penale di un ex membro di un gruppo terroristico per le dichiarazioni rese nel corso di un’intervista radiofonica sugli esecutori degli attentati avvenuti a Parigi nel novembre del 2015. In particolare, la Corte conclude che il bilanciamento operato dai giudici nazionali non sia soddisfacente, con riguardo alla pena detentiva in concreto inflitta, che non può ritenersi pertanto proporzionata allo scopo legittimo perseguito.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 9 giugno 2022, ric. n. 15567/204, Xavier Lucas c. Francia

Oggetto: articolo 6 § 1 della Convenzione (equo processo) – diritto di accesso al giudice – ricorso per l’annullamento di lodo arbitrale – trasmissione dell’atto introduttivo in via telematica – eccessivo formalismo da parte del giudice.

Il ricorrente, condannato con lodo arbitrale alla restituzione di alcune somme di denaro in solido con la società finanziaria di cui era socio di maggioranza, proponeva appello avverso tale provvedimento, dinanzi alla Corte di Douai.

La società convenuta eccepiva l’inammissibilità dell’impugnazione, poiché non era stata depositata in modalità telematica.

La Corte d’Appello dichiarava ricevibile l’atto di gravame, atteso che il decreto attuativo dell’art. 930-1 c.p.c. – che dispone la presentazione telematica degli atti processuali – e l’accordo concluso su tale base tra la corte distrettuale e gli ordini professionali non includevano, tra le comunicazioni da effettuare obbligatoriamente in formato digitale, la richiesta di annullamento di un lodo arbitrale. Evidenziava, inoltre, che il modulo informatico implementato sulla piattaforma “e‑barreau” non consentiva all’utente di descrivere correttamente la natura dell’atto de quo e la qualità delle parti. Nel merito, accoglieva l’impugnazione proposta, annullando conseguentemente il lodo.

Con sentenza del 26 settembre 2019, la Corte di cassazione annullava senza rinvio la pronuncia di appello, affermando che la disciplina attuativa in parola non poteva derogare il disposto della norma codicistica.

Il ricorrente, pertanto, adiva la Corte di Strasburgo, lamentando la violazione del proprio diritto di accesso a un tribunale, garantito dall’art. 6 § 1 della Convezione.

Rilevata l’applicabilità della disposizione convenzionale invocata alla richiesta di annullamento di un lodo arbitrale e riscontrato il previo esaurimento delle vie di ricorso interne, la Corte esamina il merito della questione.

Anzitutto, i giudici di Strasburgo ribadiscono che, secondo la costante giurisprudenza della Corte, il diritto di accesso a un tribunale deve essere “concreto ed effettivo” e non “teorico e illusorio”. Invero, le limitazioni implicitamente ammesse al diritto in parola, la cui individuazione è rimessa al margine di discrezionalità accordato agli Stati membri, non possono essere tali da restringerlo in modo o in misura tale da ledere la sostanza stessa del diritto. Inoltre, le limitazioni sono compatibili con l’articolo 6, par. 1, solo se perseguono uno scopo legittimo e se esiste un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e il fine perseguito.

A quest’ultimo proposito, nel solco del precedente Zubac c. Croazia (2018), la Corte sottolinea che, al fine di valutare la proporzionalità di siffatte restrizioni, occorre verificare: i) se le stesse sono prevedibili per le parti processuali, ii) se sia il ricorrente oppure lo Stato convenuto a dover sostenere le conseguenze negative degli errori commessi durante il procedimento e, inoltre, iii) se le limitazioni imposte non determinino un formalismo eccessivo, tale da pregiudicare l’equità del procedimento.

Premessa tale ricostruzione, la Corte rileva, in primo luogo, la legittimità dello scopo perseguito attraverso la restrizione in commento, consistente nella diffusione delle tecnologie digitali nell’ambito dell’amministrazione della giustizia e nel miglioramento di tale settore.

Occorre, tuttavia, verificare se sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

Quanto alla prevedibilità della limitazione, la Corte osserva che l’art. 930-1 c.p.c. impone esplicitamente la trasmissione telematica degli atti processuali dinanzi alla Corte d’appello e, in accordo con quanto statuito dal giudice di legittimità, ritiene che né il decreto attuativo – peraltro deputato a definire i soli dettagli tecnici – né l’accordo locale potevano derogare alla disciplina dettata dal codice.

Con riferimento all’individuazione del responsabile degli errori commessi durante la procedura, i giudici di Strasburgo affermano, in via preliminare, che la causa de qua prevede la difesa tecnica obbligatoria e che non è irrealistico né irragionevole imporre l’utilizzo di un servizio digitale a professionisti legali adusi a tali strumenti.

Nondimeno, occorre considerare che la presentazione elettronica della domanda di annullamento del lodo tramite la piattaforma digitale presupponeva che l’avvocato del ricorrente compilasse un modulo utilizzando concetti giuridici impropri e, altresì, che al riguardo il Governo non ha dimostrato che gli utenti avessero accesso a informazioni specifiche relative alle modalità di presentazione del ricorso in questione.

Pertanto, la Corte esclude che il legale, presentando l’impugnazione in versione cartacea, abbia agito con imprudenza e che le conseguenze negative dell’errore procedurale verificatosi debbano essere sopportate dal ricorrente.

In considerazione degli elementi rilevati, la Corte ritiene, dunque, che il giudice di legittimità, avendo fatto prevalere il principio di obbligatorietà del deposito degli atti in formato digitale, senza tener in debita considerazione gli ostacoli effettivamente riscontrati dal ricorrente nell’ottemperarvi, ha dimostrato un formalismo eccessivo, non richiesto dal principio di certezza del diritto, né da quello di corretta amministrazione della giustizia.

La Corte conclude, quindi, che al ricorrente è stato imposto un onere sproporzionato, che non realizza un corretto bilanciamento tra la legittima preoccupazione di garantire il rispetto delle formalità processuali e il diritto di accesso al giudice, così violando l’art. 6 § 1 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 16 giugno 2022, ric. n. 23735/19, De Giorgi c. Italia

Oggetto: articolo 3 della Convenzione (divieto di tortura) – maltrattamenti in ambito familiare e soglia di gravità per integrare trattamenti inumani e degradanti – mancanza di indagini effettive e generale inerzia dell’autorità giudiziaria nel procedimento penale.

La ricorrente, in seguito alla separazione, denunciava più volte l’ex marito per molestie e minacce.

Nella prima denuncia, risalente al novembre 2015, la ricorrente dichiarava che l’uomo l’aveva minacciata con un coltello e si era comportato in modo violento coi figli. Il pubblico ministero, informato dai carabinieri, apriva un procedimento penale per maltrattamenti in famiglia.

Durante lo stesso mese, l’ex marito aggrediva la ricorrente afferrandola per il collo, minacciandola di morte e colpendola col casco della moto; confessava poi tutto alla polizia intervenuta sul posto.

Nel gennaio 2016, la ricorrente denunciava in altre due occasioni l’ex marito: per essersi introdotto in casa sua mentre era assente, per avervi piazzato strumenti di registrazione, per averla minacciata.

Nel mese di febbraio, la ricorrente chiedeva al tribunale civile una misura cautelare, perché l’ex marito fosse allontanato dalla casa familiare e gli fosse vietato di avvicinarsi, richiesta rigettata per mancanza di presupposti (il tribunale valutava gli episodi denunciati in termini di elevata conflittualità ma nulla di più, eccezion fatta per le lesioni col casco).

Intanto, si aggiungeva la denuncia per mancato pagamento del mantenimento.

Il pubblico ministero chiedeva al Gip di archiviare i procedimenti, salvo quello per lesioni: da una parte, sottolineava l’insufficienza degli elementi di prova; dall’altra, la mancanza del requisito di abitualità dei maltrattamenti. La ricorrente si opponeva alla richiesta di archiviazione in data imprecisata. Il Gip procedeva all’archiviazione.

Nell’ambito del procedimento civile di separazione, i servizi sociali venivano chiamati a depositare una relazione in cui evidenziavano che i bambini erano stati maltrattati dal padre e non erano stati adeguatamente protetti dalla madre, relazione trasmessa alla Procura ma, sui maltrattamenti dei minori, non risultava condotta alcuna indagine. Tuttora pendente il procedimento sulle lesioni, in relazione alle quali il pubblico ministero esercitava l’azione penale.

Dinanzi alla Corte di Strasburgo, la ricorrente lamentava la violazione degli articoli 3 e 8 della Convenzione.

Il ricorso viene affrontato esclusivamente nell’ambito del divieto di trattamenti disumani e degradanti.

Ai fini dell’applicabilità dell’articolo 3, i maltrattamenti devono raggiungere un livello minimo di gravità, da valutare in base alla natura e al contesto del trattamento, alla durata, agli effetti fisici e mentali, al sesso della vittima e alla relazione con l’autore del reato. Non sempre è necessaria l’inflizione di dolore fisico, ben potendo rilevare lo stato di ansia, la lesione della dignità, la violenza psicologica. Nel caso di specie, la ricorrente ha subito sia violenze fisiche che minacce tali da far temere, su lungo periodo, il ripetersi di aggressioni; inoltre, il mancato intervento dell’autorità deve aver incrementato sentimenti di ansia e impotenza. Dunque, il trattamento denunciato supera la soglia di gravità dell’articolo 3.

Nel merito, per ritenere assolti gli obblighi positivi derivanti, per gli Stati, dall’articolo 3, le autorità nazionali devono:

- reagire immediatamente alle accuse di violenza domestica;

- stabilire se esiste un rischio reale e immediato per la vita delle vittime di violenza domestica identificate, valutandolo in modo indipendente, proattivo e completo. Nel valutare la natura reale e immediata del rischio, devono tenere in debito conto il contesto particolare dei casi di violenza domestica;

- prendere misure operative preventive, adeguate e proporzionate al livello di rischio individuato.

Nel caso di specie, la Corte rileva che il quadro giuridico italiano era adeguato a fornire protezione contro gli atti di violenza familiare. Tuttavia, mentre i carabinieri hanno reagito prontamente alle denunce presentate dalla ricorrente nel novembre 2015 e sono intervenuti negli episodi di violenza, i pubblici ministeri, informati a più riprese dai carabinieri, né hanno chiesto al GIP alcuna misura di protezione né hanno svolto indagini rapide ed efficaci (esemplificativamente, a sette anni dai fatti il procedimento per lesioni è ancora pendente; inoltre, sui maltrattamenti denunciati dai servizi sociali, alcuna indagine è stata condotta). In generale, è mancata una valutazione dei rischi autonoma, proattiva, completa: le denunce sono state considerate prive di dettagli e i bambini non sono neanche stati ascoltati.

La Corte è particolarmente attenta ai casi di violenza domestica e al rispetto dell’obbligo procedurale di indagini: nel caso di specie, i rischi erano stati denunciati ma le indagini, che risultano parziali, hanno condotto all’archiviazione; le minacce di morte non sono state considerate; la vulnerabilità morale, fisica e/o materiale della donna non è stata tutelata adeguatamente. In definitiva, la Corte ritiene la ricorrente sia stata lasciata sola in una situazione di accertata violenza domestica, circostanza che rappresenta una rinuncia da parte dello Stato all’obbligo di indagare su tutti i casi di maltrattamento. Vi è stata quindi una violazione dell’articolo 3 della Convenzione nei suoi aspetti sostanziali e procedurali.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 16 giugno 2022, ric. n. 1735/13, Goulandris e Vardinogianni c. Grecia

Oggetto: articolo 4 Prot. 7 (diritto di non essere giudicato o punito due volte) – sanzioni amministrative per abusi edilizi – natura penale desunta dalla potenziale gravità, dalla mancanza di limite massimo, dalla funzione punitiva – apertura di un procedimento penale sui medesimi fatti – procedimenti non sufficientemente collegati nella sostanza e nel tempo per far parte di un insieme sanzionatorio coerente e proporzionato.

I ricorrenti, marito e moglie, avevano acquistato un terreno in una zona costiera ed edificato due muri in pietra senza la necessaria licenza edilizia. L’autorità urbanistica accertava l’abuso e irrogava una multa di 18.102 euro per la loro costruzione illegale (multa per la costruzione) e una multa di 1.802 euro per ogni anno in cui il muro era stato mantenuto in piedi (multa per la conservazione). In mancanza di reclamo, il servizio urbanistico richiedeva il recupero delle somme dovute.

Il rapporto di ispezione veniva inviato alla Procura che tempestivamente formulava un capo di accusa contro i due ricorrenti. Il tribunale li condannava a sette mesi di reclusione (sanzione convertita in pecuniaria nel giudizio di appello, tenuto conto della loro situazione finanziaria). Sia in appello che in cassazione, i ricorrenti lamentavano la violazione del ne bis in idem, sostenendo la natura penale delle sanzioni amministrative. I giudici d’impugnazione rilevavano, da una parte, come il giudice penale fosse vincolato al rispetto delle sentenze definitive solo se provenienti da altri tribunali penali (non amministrativi); dall’altra, la differenza, per natura e funzione, tra sanzioni penali e amministrative.

Con riguardo al ricorso sollevato dinanzi alla Corte di Strasburgo per violazione dell’articolo 4 Prot. 7, il Governo eccepiva l’inammissibilità per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne: in base alla legge nazionale, a fronte di costruzioni abusive, l’interessato può presentare istanza affinché i procedimenti penali vengano interrotti, salvo sia stata pronunciata una sentenza definitiva. Le multe per la costruzione e la conservazione precedentemente imposte verrebbero sospese per trent’anni, mentre le multe pagate verrebbero compensate con l’importo imposto ai fini della regolarizzazione della costruzione. La Corte rigetta l’eccezione per non aver il Governo dimostrato, con apposita giurisprudenza, l’efficacia del summenzionato rimedio.

Nel merito, l’articolo 4 Prot. 7 è inteso come un divieto di perseguire o processare un secondo “reato” nella misura in cui esso derivi da fatti sostanzialmente identici. Quando ne venga lamentata la violazione, occorre determinare se “reazione sanzionatoria” nazionale comporti, quanto a effetti complessivi, una duplice condanna o se, al contrario, sia il prodotto di un “sistema integrato” che consenta di affrontare i diversi aspetti dell’illecito in modo prevedibile e proporzionato, formando un insieme coerente (A e B c. Norvegia § 122). In altre parole, non è incompatibile con la Convenzione un approccio “integrato” all’illecito, con fasi parallele di risposta giuridica, da parte di autorità diverse e per scopi diversi.

Ciò posto, prima di guardare alla risposta sanzionatoria complessiva, occorre stabilire le sanzioni e/o i procedimenti avviati in relazione al medesimo fatto possano ricondursi alle nozioni “accusa penale” e “pena” in base agli articoli 6 e 7 della Convenzione. A tal fine, la giurisprudenza consolidata della Corte stabilisce tre criteri, comunemente noti come “criteri Engel”: la qualificazione giuridica del reato ai sensi del diritto nazionale, la natura stessa del reato, il grado di severità della pena che la persona interessata rischia di subire. Il secondo e il terzo criterio sono alternativi e non necessariamente cumulativi. Ciò non esclude, tuttavia, un approccio cumulativo laddove l’analisi separata di ciascun criterio non consenta di giungere a una chiara conclusione in merito all’esistenza di un’accusa penale.

Definita la natura penale delle sanzioni irrogate o irrogabili, lo Stato convenuto può dimostrare che il doppio procedimento fosse “sufficientemente connesso nella sostanza e nel tempo”. Nello specifico, siffatta connessione sussiste alle seguenti condizioni:

- i diversi procedimenti perseguono finalità complementari e quindi affrontano, non solo in astratto ma anche in concreto, aspetti diversi della condotta illecita;

- la dualità di procedimenti è prevedibile, in diritto e in pratica;

- i procedimenti sono condotti in modo da evitare, per quanto possibile, ogni ulteriore svantaggio derivante dalla duplicazione, in particolare, della raccolta e della valutazione delle prove, attraverso un’adeguata interazione tra le varie autorità;

- la sanzione irrogata nel procedimento divenuto definitivo per primo viene presa in considerazione in quello divenuto definitivo per ultimo, in modo da evitare che l’interessato sia costretto a sopportare un onere eccessivo; quest’ultimo rischio è meno probabile se esiste un meccanismo di compensazione volto a garantire che l’importo complessivo delle sanzioni irrogate sia proporzionato.

- i procedimenti, benché non necessariamente simultanei, devono presentare una connessione temporale sufficientemente stretta, che protegga l’individuo dall’incertezza e dal ritardo e dal protrarsi nel tempo. Quanto più debole è la connessione temporale, tanto maggiore è l’onere dello Stato di spiegare e giustificare eventuali ritardi imputabili alla conduzione del procedimento.

La Corte, enunciati i principi, procede ad applicarli nel caso di specie.

In ordine alla qualificazione delle multe irrogate nel primo procedimento, quello amministrativo, la Corte sottolinea che:

- nell’ordinamento greco, le multe per la costruzione e la conservazione sono imposte dalle autorità urbanistiche e considerate sanzioni amministrative;

- esse sono indipendenti dall’eventuale ripristino della legalità e dello status quo ante, circostanza coerente con una funzione dissuasiva e punitiva;

- per quanto riguarda la severità, le multe sono calcolate in base al valore delle costruzioni abusive: la mancanza di limite massimo rappresenta un’ulteriore conferma della natura penale delle multe irrogate dall’autorità amministrativa.

In ordine al rapporto tra i due procedimenti, e le sanzioni irrogabili nell’ambito di ciascuno di essi, la Corte rileva che:

- non sussiste violazione della Convenzione con riguardo alla multa per la conservazione, in quanto frammento di condotta non considerato nel procedimento penale;

- il fatto che ha dato luogo alla sanzione amministrativa edilizia e all’azione penale è la costruzione di due muri in violazione della relativa licenza edilizia; esso risulta sostanzialmente identico nei due procedimenti, salvo che per la colpa, profilo non considerato nel procedimento amministrativo;

- gli obiettivi di entrambe le sanzioni erano la deterrenza e la punizione; l’irrogazione di entrambe era prevedibile;

- l’elemento probatorio principale è stato lo stesso in entrambi i procedimenti: il rapporto di ispezione in loco delle autorità urbanistiche. Tuttavia, nel procedimento penale sono state raccolte e valutate prove ulteriori e le sanzioni penali sono state decise indipendentemente dall’imposizione della sanzione urbanistica;

- per quanto riguarda la proporzionalità della pena complessiva inflitta, la sentenza penale di primo grado non ha fatto alcun riferimento alla multa amministrativa. La circostanza che i giudici di appello abbiano accordato rilevanza alla situazione finanziaria dei ricorrenti non significa che le precedenti sanzioni amministrative siano state prese in considerazione;

- il procedimento penale è stato avviato molto tempo dopo la “condanna” amministrativa.

In conclusione, tenuto conto delle circostanze di cui sopra, la Corte ritiene che, nonostante la complementarietà e prevedibilità delle conseguenze del comportamento del ricorrente, i due procedimenti non erano sufficientemente collegati nella sostanza e nel tempo, in modo da poter essere considerati parte di un sistema integrato di sanzioni in materia di costruzioni abusive, sicché vi è stata una violazione dell’articolo 4 Prot. 7.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 23 giugno 2022, ric. n. 28000/19, Rouillan c. Francia

Oggetto: articolo 10 (libertà di espressione) – apologia di reato – condanna a una pena detentiva – limitazioni ammesse alla libertà di espressione – test di necessità dell’interferenza in una società democratica necessità.

Durante un’intervista radiofonica, il ricorrente, ex membro di un gruppo terroristico attivo in Francia negli anni ’80, condannato per due volte all’ergastolo, esprimeva alcune considerazioni sugli atti di terrorismo avvenuti a Parigi nel novembre 2015, definendone “coraggiosi” gli esecutori e affermando che gli stessi si erano “battuti coraggiosamente”. Il contenuto dell’intervista veniva poi pubblicato sulla rivista online legata all’emittente radiofonica.

A seguito della denuncia proposta dal legale di alcune vittime degli attacchi, il 7 settembre 2016 il Sig. Rouillan veniva ritenuto responsabile dal Tribunale penale di Parigi del reato di apologia di atti terroristici, ai sensi dell’art. 421-2-5 c.p., e condannato a otto mesi di reclusione, nonché al pagamento di un euro all’Associazione francese delle vittime del terrorismo e di 300 euro a ciascuna delle parti civili.

Con pronuncia del 16 maggio 2017, la Corte d’Appello di Parigi riformava la sentenza di primo grado. Segnatamente, da un lato riteneva applicabile la disciplina sulla determinazione dei responsabili di reati commessi a mezzo stampa e, per l’effetto, dichiarava l’imputato colpevole di concorso nel predetto reato. Dall’altro, aumentava la pena detentiva in ragione delle circostanze del fatto, quali, in primis, la gravità delle esternazioni, in riferimento agli episodi commentati, nonché i trascorsi e la notorietà dell’autore.

Infine, il 27 novembre 2018, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso presentato dal Sig. Rouillan. In occasione del giudizio di legittimità, veniva peraltro proposta una questione prioritaria di costituzionalità, in relazione alla quale il Conseil constitutionnel, con la decisione n.  2018-706 QPC del 18 maggio 2018, concludeva che l’art. 421-2-5 c.p. era sufficientemente preciso e chiaro, sì da scongiurare il rischio di arbitrarietà e, inoltre, che le pene previste dalla norma non erano manifestamente sproporzionate.

Il ricorrente si rivolgeva, quindi, alla Corte di Strasburgo, lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione.

Ritenuto che la condanna penale del ricorrente aveva costituito un’ingerenza nell’esercizio del suo diritto alla libertà di espressione, la Corte, al fine di decidere se siffatta interferenza avesse integrato o meno una violazione dell’articolo 10, procede con il “test di legalità”; valutando, a questo riguardo, se essa fosse «prevista dalla legge», se perseguisse uno o più degli scopi legittimi indicati nel paragrafo 2 della disposizione e se essa fosse «necessaria in una società democratica» per raggiungere tali obiettivi.

Con riguardo al primo requisito, la Corte ribadisce, anzitutto, che la prevedibilità, da parte dei consociati, delle conseguenze riconducibili alle proprie condotte, non impone una precisione assoluta nella formulazione del precetto e aggiunge, richiamando la giurisprudenza formatasi sull’art. 7, che la Convenzione non vieta il chiarimento graduale delle regole della responsabilità penale attraverso l’interpretazione giurisprudenziale, purché il risultato sia coerente con la ratio della fattispecie e ragionevolmente prevedibile.

In questo senso, con riferimento al caso di specie,  i Giudici di Strasburgo ritengono che il ricorrente avrebbe potuto prevedere che le dichiarazioni per le quali è stato condannato erano di natura tale da comportare la sua eventuale responsabilità penale, a mente dell’articolo 421-2-5 c.p. Invero, sebbene la disposizione in parola non contenga una definizione di apologia di atti di terrorismo e la giurisprudenza di legittimità sia ancora quantitativamente limitata, tale nozione è comunque ricavabile dal diritto interno, che contiene la fattispecie in discorso dal 1893.

La Corte osserva, poi, che l’obiettivo perseguito – vale a dire, il contrasto al terrorismo e la vigilanza sugli atti suscettibili di accrescere tale forma di violenza – è riconducibile alla difesa dell’ordine pubblico e alla prevenzione della criminalità e, pertanto, è legittimo, ai sensi dell’art. 10, par. 2.

Occorre, infine, stabilire se il provvedimento controverso possa essere considerato “necessario in una società democratica”.

A questo proposito, la Corte ribadisce, in primo luogo, che il margine di apprezzamento di cui godono gli Stati nell’imporre restrizioni alla libertà di espressione nel contesto del discorso politico o di questioni di interesse generale è particolarmente ristretto. Nondimeno, laddove le osservazioni contestate incitino – anche indirettamente, come nel caso in esame – all’uso di violenza contro un individuo, un rappresentante dello Stato o di parte della popolazione, le autorità nazionali godono di un margine di discrezionalità più ampio.

Ciò posto, per stabilire se la restrizione sia “proporzionata alle legittime finalità perseguite” e se i motivi addotti dalle autorità per giustificarla appaiono “rilevanti e sufficienti”, si rende necessario esaminare approfonditamente il caso nel suo complesso, compreso il contenuto delle dichiarazioni controverse e il contesto in cui sono state effettuate.

D’altra parte, la Corte osserva che una condanna alla reclusione, inflitta relativamente a un’esternazione effettuata nell’ambito di un dibattito di interesse politico o pubblico, non è compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione, se non in circostanze eccezionali; laddove, cioè, siano stati gravemente colpiti altri diritti fondamentali, come nelle ipotesi di diffusione di hate speech o di istigazione alla violenza. Di talché, le autorità nazionali devono prestare particolare attenzione a graduare la potestà punitiva, soprattutto quando si tratta di comminare una pena detentiva, che ha un effetto particolarmente dissuasivo sull’esercizio della libertà di espressione.

Ebbene, la Corte rileva che, sebbene l’ingerenza in questione, tenuto conto degli elementi che connotano il caso sub iudice, possa ritenersi rispondente, in linea di principio, ad un “imperioso bisogno sociale”, le ragioni addotte dai giudici nazionali non sono però sufficienti per consentirle di ritenere che la sanzione in concreto inflitta, nonostante la natura e la innegabile gravità della condotta, sia proporzionata allo scopo legittimo perseguito.

La Corte conclude, quindi, che l’ingerenza nella libertà di espressione del ricorrente, costituita dalla pena detentiva imposta, non era “necessaria in una società democratica” e che vi è stata una violazione dell’articolo 10 della Convenzione, con specifico riguardo alla gravità della sanzione penale comminata.

 

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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