Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di ottobre 2021

Le più interessanti sentenze emessa dalla Corte di Strasburgo nel mese di ottobre 2021

Le sentenze di ottobre della Corte europea dei diritti dell’uomo qui selezionate hanno in comune solo l’esito favorevole agli Stati convenuti: si tratta di sentenze che, rispetto alla tutela apprestata dalla Convenzione a un determinato diritto, ne valorizzano limiti ed eccezioni.

Nel caso J.C. e Altri c. Belgio, la Corte affronta per la prima volta la questione dell’immunità giurisdizionale della Santa Sede, quale ostacolo all’esercizio del diritto di accesso a un tribunale. Il riconoscimento dell’immunità da parte dei giudici civili, sul presupposto della piena parificazione della Santa Sede agli altri Stati e della riconducibilità degli atti contestati alla categoria degli acta iure imperii, non integra una violazione poiché risulta argomentato in modo ragionevole, non interferisce col diritto invocato dai ricorrenti (in particolare, col divieto di trattamenti inumani o degradanti) e non li lascia privi di un qualsiasi rimedio (in quanto pendente un procedimento penale sugli stessi fatti).

Nel caso Milachikj c. Nord Macedonia, il raggio operativo della presunzione di innocenza si estende sino a interessare un procedimento per illecito doganale e, in seguito al proscioglimento per prescrizione, il successivo procedimento civile per il risarcimento del danno derivante dal sequestro disposto nel primo. La Corte, dopo aver definito la funzione “penale” dell’ammenda irrogabile per l’illecito doganale (formalmente amministrativo), vaglia la violazione o meno della “componente reputazionale” derivante dalla presunzione di innocenza “penale”, componente che pretende il rispetto del proscioglimento per prescrizione in ogni procedimento successivo, ad esempio civile o disciplinare. A tal fine, assume rilevanza l’utilizzo di un linguaggio “infelice” o “sfortunato” da parte dei giudici dei procedimenti successivi, ossia di una terminologia propria della sfera penalistica ovvero che tradisca il sospetto della responsabilità “penale” dell’interessato. Il linguaggio “infelice” non determina necessariamente una violazione qualora utilizzato in un contesto diverso da quello penale, da giudici diversi da quelli che hanno prosciolto per prescrizione l’imputato, nell’ambito di un giudizio autonomo che segue principi e regole proprie, ad esempio in punto di onere probatorio.

Tale sentenza s’inserisce in un filone giurisprudenziale potenzialmente incompatibile col sistema italiano, in cui proprio il giudice penale, dopo aver pronunciato sentenza di proscioglimento per prescrizione, può essere chiamato a decidere sulla pretesa risarcitoria della parte civile. In questi casi, infatti, il rispetto della presunzione di innocenza è maggiormente a rischio poiché i giudici aditi sul diritto civile derivante dal reato sono gli stessi che hanno prosciolto l’imputato (in altre parole, non vi sarebbe quella diversità di contesto che, in molteplici sentenze di Strasburgo, ha evitato allo Stato convenuto la condanna). Nonostante la Corte costituzionale abbia escluso l’incompatibilità della disciplina italiana con la giurisprudenza convenzionale, certamente si chiede ai giudici penali un rigore altissimo nella condanna al risarcimento del danno, dovendo ben soppesare i termini da utilizzare, dovendo dismettere le vesti di giudici per l’appunto penali e prendere in prestito quelle dei giudici civili.

Infine, nel caso Šaltinytė c. Lituania, la Corte, cui viene sottoposta la ragionevolezza di una politica sociale di concessione di sussidi abitativi, ha modo di annoverare l’età tra le qualità o gli status potenzialmente a rischio di discriminazioni illegittime. Nello specifico, però, la discriminazione è esclusa in quanto lo Stato convenuto ha dimostrato la solidità “scientifica” del limite di età fissato dalla legge quale requisito di accesso alle sovvenzioni.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 12 ottobre 2021, ric. n. 11625/17, J.C. e altri c. Belgio

Oggetto: Articolo 6 della Convenzione (equo processo - civile), diritto di accesso a un tribunale, azione di responsabilità civile per abusi sessuali esercitata contro la Santa Sede, immunità giurisdizionale, archiviazione non arbitraria né manifestamente irragionevole.

I ricorrenti affermavano di essere stati vittime, quando ancora bambini, di abusi sessuali, commessi da preti cattolici. Con azione collettiva, uno di loro denunciava il modo strutturalmente carente in cui la Chiesa aveva affrontato il problema degli abusi sessuali al suo interno. Sia l’azione collettiva che quelle individuali venivano presentate contro la Santa Sede, sul presupposto che il Pontefice, in quanto capo di stato di Città del Vaticano, godesse dell’immunità personale.

I giudici nazionali ritenevano però di non avere giurisdizione sulla Santa Sede, poiché riconosciuta dal Belgio quale sovrano straniero avente gli stessi diritti e obblighi di diritto internazionale degli altri Stati, compresa l’immunità giurisdizionale. Inoltre, accanto alla suddetta immunità ratione personae, i giudici rilevavano un’immunità ratione materiae, con riguardo agli atti invocati quali fonti di responsabilità civile: erano da considerare acta iure imperii sia le violazioni politiche, in quanto rientranti nell’esercizio dei poteri amministrativi e pubblici, sia le mancanze dei vescovi belgi, in considerazione della natura pubblicistica del rapporto tra questi e il Papa (in luogo della natura privatistica che contraddistingue l’istituto del mandato). Non ricorrevano, inoltre, le condizioni per configurare una delle eccezioni al principio di immunità degli Stati.

I ricorrenti si sono costituiti parti civili in un procedimento penale tuttora pendente.

La Corte, dopo aver ricordato i principi relativi all’immunità giurisdizionale (in particolare, le ripercussioni dell’immunità sul diritto di accesso a un tribunale), dopo aver ribadito che spetta principalmente alle autorità nazionali interpretare, non solo il diritto interno, ma anche le norme di diritto internazionale generale, si sofferma sulle peculiarità del presente caso, che solleva per la prima volta la questione dell’immunità della Santa Sede.

In passato, la Corte ha già avuto modo di qualificare gli accordi conclusi dalla Santa Sede con Stati terzi come trattati internazionali (Fernández Martínez c. Spagna, Travaš c. Croazia), il che equivaleva a riconoscere alla Santa Sede caratteristiche paragonabili a quelle di uno Stato.

Quanto al godimento dell’immunità giurisdizionale, è pacifico che essa determini una restrizione del diritto di accesso dei ricorrenti a un tribunale. Di per sé, la concessione dell’immunità non rappresenta una limitazione rispetto a un diritto sostanziale, piuttosto un impedimento procedurale alla competenza dei giudici nazionali.

Il compito della Corte è valutare se le circostanze concrete giustificassero l’impedimento, alla luce dell’esistenza e prevedibilità della base legale, dell’esistenza e legittimità dello scopo perseguito, nonché della proporzionalità dell’interferenza.

L’immunità degli Stati è un istituto ricavabile dal principio par in parem non habet imperium, appartenente non solo al diritto internazionale consuetudinario, ma codificato dall’articolo 5 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni e dall’articolo 15 della Convenzione europea sull’immunità degli Stati. Il suo scopo consiste nel promuovere la cortesia e le buone relazioni tra gli Stati attraverso il rispetto della sovranità di ciascuno. Per quanto riguarda la proporzionalità, la Corte non trova nulla di arbitrario o irragionevole nell’interpretazione accolta dai giudici nazionali, secondo cui le colpe e le omissioni contestate alla Santa Sede, direttamente o indirettamente, erano riconducibili all’esercizio di poteri amministrativi e pubblici. Si tratta di una lettura corrispondente alla pratica internazionale: anche la Corte internazionale di giustizia ritiene applicabile un’immunità ratione materiae agli atti jure imperii (Germania contro Italia del 3 febbraio 2012).

In ordine al contemperamento tra immunità e divieto di trattamenti inumani o degradanti, gli Stati non possono godere della prima qualora ricorrano gravi violazioni del diritto dei diritti umani o del diritto umanitario internazionale. Tuttavia, i ricorrenti hanno accusato la Santa Sede non di tortura, bensì hanno censurato la mancata azione di misure che prevenissero o ponessero rimedio agli atti contestati come trattamento degradante.

Infine, nella prospettiva dell’eccezione al principio dell’immunità invocata dai ricorrenti (i.e. procedimenti risarcitori per morte o lesione fisica di una persona), questa si applica solo se l’atto o l’omissione attribuibile allo Stato straniero “si è verificato, in tutto o in parte, nel territorio [dello Stato del foro] e l’autore era presente in quel territorio al momento dell’atto o dell’omissione”. Ebbene, i giudici nazionali hanno respinto l’operatività dell’eccezione per il fatto che la cattiva condotta di cui i vescovi belgi non poteva essere attribuita alla Santa Sede, poiché il Papa non era il mandante dei vescovi; che la cattiva condotta di cui la Santa Sede era direttamente accusata non era stata commessa sul territorio belga ma a Roma; e che né il Papa né la Santa Sede erano presenti sul territorio belga quando la cattiva condotta di cui erano accusati i capi della Chiesa in Belgio era stata presumibilmente commessa. Non spetta alla Corte sostituire la sua valutazione a quella dei giudici nazionali qualora non è stata arbitraria o manifestamente irragionevole.

Infine, i ricorrenti hanno sostenuto che l’immunità dalla giurisdizione della Santa Sede precludesse la possibilità di ottenere riparazione dalla Santa Sede davanti a un tribunale della Città del Vaticano. In primo luogo, la Corte ricorda che la compatibilità dell’immunità con l’articolo 6 § 1 della Convenzione non dipende dall’esistenza di alternative ragionevoli per la risoluzione della controversia. In secondo luogo, i ricorrenti non si trovano sprovvisti di rimedio: in particolare, la denuncia penale presentata nel 2010 è ancora sotto procedimento.

Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il rigetto da parte dei tribunali belgi della loro competenza a conoscere dell’azione di responsabilità civile contro la Santa Sede non si sia discostato dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti in materia di immunità degli Stati e che la restrizione del diritto di accesso a un tribunale non può essere considerata sproporzionata rispetto agli scopi legittimi perseguiti. Non c’è stata quindi alcuna violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 14 ottobre 2021, ric. n. 44773/16, Milachikj c. Nord Macedonia

Oggetto: Articolo 6 § 2 della Convenzione (equo processo – presunzione d’innocenza), sequestro di un’autovettura nell’ambito di un procedimento per illecito doganale conclusosi col proscioglimento per prescrizione, natura “penale” dell’ammenda prevista dalla legge doganale, azione civile del ricorrente per ottenere il risarcimento del danno derivante dal sequestro, compatibilità del linguaggio usato dalle corti supreme con la “componente reputazionale” della presunzione di innocenza “penale”, rilevanza del contesto civile e dell’onere della prova.

Nel 2006, la polizia macedone, sospettando che l’autovettura del ricorrente avesse un certificato di immatricolazione e targhe falsi, provvedeva al sequestro e informava l’autorità doganale del possibile mancato pagamento delle tasse doganali, illecito punibile ai sensi dell’articolo 206 della legge doganale. L’autorità doganale avviava quindi un procedimento d’infrazione perché l’automobile non era stata dichiarata e i dazi doganali non erano stati pagati; chiedeva inoltre la confisca. La Misdemeanour Commission all’interno dell’autorità doganale riteneva il ricorrente responsabile del suddetto reato amministrativo infliggendogli un’ammenda. Tuttavia, nel 2010, il tribunale amministrativo annullava tale decisione a causa di errori di diritto. In seguito, la Commissione sospendeva il procedimento in forza dell’intervenuta prescrizione dell’illecito e ordinava la restituzione della vettura.

Il ricorrente, mediante esercizio dell’azione civile contro l’autorità doganale, chiedeva il risarcimento del danno derivante dal sequestro in quanto, mancando un accertamento di responsabilità, esso risultava adottato senza motivo giuridico.

Il Tribunale di primo grado accoglieva la domanda concedendo un equivalente pari al valore della vettura al momento del sequestro. Benché le azioni intraprese dall’autorità doganale fossero conformi alla legge, questa non si era comportata diligentemente ma aveva determinato, tramite la prescrizione, la durata eccessiva del procedimento d’infrazione e, al contempo, la perdita di valore della vettura.

La Corte d’appello, viceversa, annullava tale sentenza, ritenendo che il giudice di primo grado avesse applicato erroneamente il diritto sostanziale: il procedimento di infrazione non è stato interrotto perché il reato non era stato commesso, ma a causa della prescrizione, sicché non si poteva sostenere l’assenza di una base giuridica. Analogamente, la Corte suprema rigettava l’impugnazione del ricorrente ribadendo che nessuna responsabilità potesse essere attribuita all’autorità doganale convenuta, poiché obbligata per legge a denunciare il reato amministrativo e avviare un procedimento di infrazione.

La Corte di Strasburgo viene dunque adita in merito alla componente o aspetto reputazionale derivante dalla presunzione di innocenza, posto che il proscioglimento ottenuto in un procedimento di natura “penale” deve essere rispettato in ogni procedimento successivo collegato, di qualsiasi natura, in primis nel procedimento risarcitorio civile.

Il governo convenuto contesta l’ammissibilità del ricorso ratione materiae sotto due profili: da una parte, il procedimento per l’illecito doganale è di natura amministrativa e non penale; dall’altra, la questione risarcitoria è stata trattata in un procedimento distinto e autonomo da quello doganale sicché, qualora la Corte riconosca la natura penale del procedimento doganale, non sarebbe comunque possibile estendere al successivo procedimento civile la tutela operante per l’“accusa penale” ai sensi dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.

Quanto al primo profilo, la Corte, in virtù dei criteri formulati nella causa Engel c. Paesi Bassi, afferma la natura penale della sanzione irrogata dalla legge doganale: trattasi di un’ammenda con funzione punitiva poiché tesa a scoraggiare la ripetizione dell’illecito piuttosto che a compensare il mancato pagamento dei dazi doganali. Quanto al secondo profilo, la Corte riconduce il nesso tra i due procedimenti alla circostanza che i giudici civili si siano basati sulle prove e sulle sentenze del procedimento di infrazione.

Passando al merito, la Corte rileva che, nella motivazione del rigetto della domanda di risarcimento, sia la Corte d’appello che la Corte suprema hanno fatto riferimento al procedimento di infrazione: ne hanno descritto l’esito e commentato l’eventuale partecipazione del ricorrente agli eventi imputati a suo carico, nonché la sua possibile colpevolezza. Entrambi i giudici hanno sottolineato che il procedimento di infrazione è stato interrotto per prescrizione e non “perché il fatto non era stato commesso” o “perché l’imputato non aveva commesso il fatto”. Tale argomentazione, suscettibile di interpretazioni diverse, nel caso di specie può star a indicare la diversa/minore prospettiva di accoglimento rispetto ai casi preceduti, piuttosto che dal proscioglimento per prescrizione, dall’assoluzione piena.

Benché le parole scelte rappresentino un linguaggio “sfortunato” o “infelice” ai fini del rispetto della presunzione di innocenza, non possono di per sé costituire un’esplicita affermazione di responsabilità per l’illecito doganale “penale”.

“Sfortunato” o “infelice” è altresì il linguaggio utilizzato dalla Corte d’appello nel riferirsi alla consapevolezza del ricorrente, quindi agli elementi costitutivi oggettivi (obbligo di riferire all'autorità doganale) e soggettivi (comportamento consapevole) dell’illecito amministrativo di cui alle sezioni 206 e 207 della legge doganale. Anche se la Corte suprema non ha riprodotto tali espressioni nella sua decisione, non ha neanche esplicitamente affrontato il linguaggio utilizzato dai giudici di grado inferiore.

Secondo la giurisprudenza convenzionale, quando l’uso del linguaggio ingenera il sospetto di un convincimento contrario alla presunzione di innocenza, è importante esaminare il contesto del procedimento nel suo complesso e le sue caratteristiche specifiche.

Ebbene, la domanda di risarcimento è stata vagliata in un contesto diverso da quello del procedimento di infrazione, dinanzi a giudici di diversa composizione, sicché non può dirsi né accessorio, né semplicemente una continuazione di quest’ultimo. In secondo luogo, rileva l’autonomia del giudizio civile, posto che le decisioni adottate nel procedimento di infrazione (la sospensione e poi la restituzione del veicolo) non avrebbero automaticamente dato al ricorrente il diritto al risarcimento; in altre parole, l’oggetto della causa civile imponeva ai giudici di sviluppare questioni diverse da quelle affrontate in precedenza, di svolgere pertanto ragionamenti diversi. Infine, la domanda civile è stata trattata sulla base dei principi generali del procedimento civile, in particolare soggiaceva a un onere della prova diverso da quello operante per l’illecito doganale.

Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che il linguaggio utilizzato dai giudici superiori, dal punto di vista della natura e del contesto del procedimento civile, non poteva ragionevolmente essere interpretato come un’affermazione sottintesa di responsabilità del richiedente. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell’articolo 6 § 2 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Seconda Sezione), 26 ottobre 2021 ric. n. 32934, Šaltinytė c. Lituania

Oggetto: Articolo 14 della Convenzione (divieto di discriminazione) e articolo 1 Protocollo 1 (godimento pacifico dei beni), limite di età per l’accesso di “giovani famiglie” ai sussidi abitativi, declino della popolazione a causa dell’emigrazione e del basso tasso di natalità tra i giovani, ampio margine di apprezzamento delle autorità nazionali nel campo della strategia economica e sociale. Articolo 6 § 1 della Convenzione (equo processo – aspetto civile), decisione amministrativa di rigetto dell’eccezione di incostituzionalità, standard di motivazione.

La ricorrente, madre single di 37 anni, chiedeva di fruire del sussidio per l’acquisto della prima casa, un’agevolazione messa a disposizione delle “giovani famiglie” a basso reddito. Il Comune rigettava la richiesta mancandone il requisito principale: un’età non superiore ai 35 anni. La ricorrente presentava dunque un reclamo al tribunale amministrativo, sostenendo che il rigetto, in quanto fondato unicamente sulla sua età, costituiva una discriminazione diretta e che l’onere della prova circa la ragionevolezza della discriminazione in base all’età sarebbe spettato alle autorità statali. Nel corso dell’udienza, ella chiedeva di adire la Corte costituzionale al fine di determinare se la pertinente disposizione della legge sull’assistenza abitativa fosse conforme alla Costituzione.

Nel 2017 il Tribunale di Vilnius rigettava il reclamo affermando la discrezionalità del legislatore nel decidere quali categorie di persone avessero diritto a quali tipi di prestazioni sociali (discrezionalità comprensiva della definizione di “famiglie giovani” ai fini dei sussidi). I giudici dell’impugnazione richiamavano altresì la giurisprudenza costituzionale relativa alla “misura” della protezione delle famiglie, secondo esigenze e risorse disponibili. Sotto il profilo procedurale, i giudici affermavano di non essere vincolati dalla richiesta di rinvio costituzionale, ammissibile solo nell’ipotesi in cui gli stessi giudici avessero nutrito dubbi sul fatto che le disposizioni giuridiche pertinenti potessero essere in conflitto con la Costituzione.

Alla Corte di Strasburgo è quindi sottoposta la questione della violazione o meno dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione. Tale norma non pone alcuna restrizione alla libertà degli Stati contraenti di decidere se istituire o meno un regime di sicurezza sociale, o di scegliere il tipo o l’importo delle prestazioni da erogare; tuttavia, se siffatto regime è previsto, esso genera un interesse rientrante nell’ambito dell’articolo 1 del protocollo n. 1 per le persone che ne soddisfano i requisiti, nonché soggiace alla tutela posta dal divieto di discriminazione di cui all’articolo 14 della Convenzione per le persone che non ne soddisfino i requisiti.

Nel caso di specie, la ricorrente chiedeva un sussidio per l’alloggio a disposizione di persone il cui reddito non superasse una certa soglia, che cercavano di acquistare la prima casa e che rispondessero alla definizione di “giovane famiglia”. Non è stato contestato, né a livello nazionale né nel procedimento dinanzi alla Corte, che ella soddisfacesse i primi due requisiti e che il motivo per cui le è stato rifiutato il sussidio era la sua età: ne consegue che, se la ricorrente fosse stata più giovane, le sarebbe stato concesso il sussidio in questione.

Di conseguenza, il ricorso rientra nel campo di applicazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 della Convenzione e ad esso si applica l’articolo 14.

Sul punto, non tutte le differenze di trattamento costituiscono una violazione dell’articolo 14, bensì solo quelle basate su una caratteristica identificabile, o “status”; sebbene la Corte non vi si sia ancora pronunciata, astrattamente anche l’età potrebbe enucleare uno “status” rilevante.

Al contempo, gli Stati contraenti vantano un ampio margine di apprezzamento nel predisporre misure generali di strategia economica o sociale: in virtù della conoscenza diretta del proprio tessuto sociale, essi si trovano nella posizione migliore per valutare ciò che è di interesse pubblico per motivi sociali o economici, e la Corte generalmente rispetta le scelte politiche del legislatore a meno che non siano “manifestamente prive di fondamento ragionevole”.

Poste le premesse per la valutazione del caso di specie, la Corte si sofferma sui diversi e specifici profili.

In primo luogo, occorre stabilire se vi sia stata una differenza di trattamento tra persone in situazioni analoghe o rilevanti. Ebbene, la ricorrente era una madre single che chiedeva un sussidio per l’alloggio, il suo reddito non superava la soglia stabilita nella pertinente disposizione di tale legge e cercava di acquistare la sua prima casa. Invero, tutti i genitori che allevano bambini piccoli possono avere esigenze simili, indipendentemente dall’età sicché, nella fattispecie, vi è stata una differenza di trattamento tra persone che si trovano in situazioni analoghe per motivi di età.

Secondo profilo rilevante è l’esistenza di una giustificazione obiettiva e ragionevole per la differenza di trattamento, in altre parole l’esistenza di uno scopo legittimo in rapporto di ragionevole proporzionalità coi mezzi impiegati. La Corte osserva che la legge sugli alloggi prevede diversi tipi di assistenza: a disposizione di persone con un reddito molto basso, indipendentemente dalla loro età o da altre circostanze personali; in considerazione di condizioni personali quali la disabilità o il contesto familiare. Il caso di specie non riguarda l’accesso della ricorrente alle prestazioni sociali destinate alle persone con il reddito più basso, sicché non vi sono motivi per ritenere che ella sia stata lasciata senza alcuna possibilità di ottenere l'assistenza sociale, qualora ne avesse avuto bisogno.

Quanto alla categoria di sussidio riservata alle “giovani famiglie”, benché la Convenzione non vieti ad uno Stato membro di trattare i gruppi in modo diverso al fine di correggere le disuguaglianze di fatto (anzi, in determinate circostanze, il mancato tentativo di correggere la disuguaglianza attraverso un trattamento diverso può, in assenza di una giustificazione obiettiva e ragionevole, dar luogo a una violazione), ciononostante il governo non ha sufficientemente dimostrato l’esistenza di una disparità di fatto tra le famiglie in cui i coniugi o il genitore unico non avevano più di 35 anni e le altre. D’altronde, è stato anche sostenuto che la misura contestata mirava ad affrontare il problema dell’invecchiamento della popolazione e a migliorare la situazione demografica nel paese, descrizione non contestata dalla ricorrente, dunque dimostrativa dell’esistenza di un obiettivo legittimo di interesse pubblico.

In terzo luogo, nell’esaminare la proporzionalità delle scelte effettuate dalle autorità nazionali, la Corte valorizza il contesto nazionale: secondo i documenti in suo possesso, un costante declino della popolazione lituana è stato osservato a partire dagli anni ‘90, causato principalmente da alti tassi di emigrazione, soprattutto tra i giovani, e un basso tasso di natalità. Trattasi certamente di un motivo legittimo di preoccupazione e giustifica misure tese ad incoraggiare un cambiamento demografico positivo.

Sebbene sia ragionevole l’argomento della ricorrente secondo cui tutti i genitori che allevano bambini piccoli possono avere esigenze analoghe di assistenza sociale, indipendentemente dalla loro età, le autorità nazionali possono procedere all’assegnazione nella misura delle risorse pubbliche a disposizione, invero limitate, ciò determinando la necessità di fissare limiti determinati all’ammissibilità a prestazioni sociali specifiche. Inoltre, alcuni Stati contraenti hanno egualmente stabilito limiti d’età massimi per i suoi destinatari di prestazioni sociali.

In conclusione, secondo la Corte, la decisione del legislatore lituano di fornire un’assistenza sociale supplementare alle famiglie costituite da persone di età più giovane non può, di per sé, essere considerata manifestamente priva di fondamento ragionevole, considerando che la situazione finanziaria dei giovani è un fattore importante che influenza le loro decisioni in merito all’emigrazione, alla possibilità di avere figli e a quando farlo. Inoltre, prendendo atto dei dati statistici forniti dal governo, che dimostrano che, in media, i lituani si sposano, hanno il primo figlio e ottengono un prestito per l’alloggio in un’età compresa tra ventotto e trentacinque anni, il limite di età contestato risulta ragionevolmente basato su dati oggettivi e non su ipotesi generali o atteggiamenti sociali prevalenti (tanto più considerato che si tratta di un limite periodicamente aggiornato alla luce dei dati statistici più recenti). Non vi è stata pertanto alcuna violazione dell’articolo 14 della Convenzione, in combinato disposto con l’articolo 1 del Protocollo n. 1.

Quanto all’aspetto procedurale relativo al rigetto del rinvio alla Corte costituzionale, la Corte ribadisce che la Convenzione non garantisce, in quanto tale, il diritto di adire un’altra autorità nazionale o internazionale per una pronuncia pregiudiziale; tuttavia, qualora esista tale meccanismo esista, il rigetto del giudice nazionale può violare l’equità del procedimento se non debitamente motivato.

Nel caso di specie, sebbene il Tribunale amministrativo regionale di Vilnius non abbia esplicitamente esaminato la richiesta della ricorrente, i giudici dell’impugnazione, titolari del potere di rivedere la decisione presa dal tribunale inferiore, hanno fatto ampi riferimenti alla pertinente giurisprudenza della Corte costituzionale, esaminando il reclamo della ricorrente alla luce dei principi ivi stabiliti e fornendo motivazioni dettagliate per respingerlo. Ne consegue che non vi è stata violazione dell’articolo 6 della Convenzione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

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