Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di novembre-dicembre 2021

Le più importanti sentenze emessa dalla Corte di Strasburgo nei mesi di novembre e dicembre 2021

Le sentenze di novembre e dicembre della Corte europea dei diritti dell’uomo qui selezionate concernono due particolari operazioni di bilanciamento.

Nel caso Biancardi c. Italia, la Corte è chiamata a contemperare la libertà di espressione con i doveri di deindicizzazione a carico sia dei fornitori di motori di ricerca che degli amministratori di giornali e riviste online.

Nel caso Abdi Ibrahim c. Norvegia, il contemperamento riguarda le prospettive dei diversi soggetti coinvolti in un procedimento di adozione: da una parte, il rispetto della vita familiare e della libertà di religione della madre naturale musulmana; dall’altra, le esigenze e le conseguenze derivanti dall’affidamento del minore a una famiglia cristiana.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 25 novembre 2021, ric. n. 77419/16, Biancardi c. Italia

Oggetto: Articolo 10 della Convenzione (libertà d’espressione), pubblicazione online di un articolo riguardante una rissa con accoltellamento, dati sensibili facilmente accessibili digitando i nomi degli interessati, diffida per la rimozione dell’articolo e rifiuto del caporedattore della rivista di provvedere alla deindicizzazione, estensione del dovere di deindicizzazione dei fornitori di motori di ricerca anche agli amministratori di archivi di giornali o riviste online, sanzione civile non eccessiva in assenza dell’obbligo di rimozione o di anonimizzazione.

Nel 2008, il ricorrente, caporedattore di un giornale online, pubblicava un articolo riguardante una rissa, seguita da accoltellamento. L’articolo era intitolato “Rissa nel ristorante - il capo dell’autorità di polizia chiude i ristoranti W e Z [che appartenevano alle persone coinvolte nella rissa]”, con sottotitolo “Pescara - Danno reputazionale e ripercussioni economiche subite dai ristoranti W e Z appartenenti alla famiglia X”. L’articolo annotava i provvedimenti giudiziari adottati nell’immediatezza dei fatti, i nomi delle persone coinvolte, il possibile motivo della rissa. Nel 2010, un membro della famiglia X e il ristorante W inviavano una diffida stragiudiziale al ricorrente chiedendo la rimozione dell’articolo da Internet; in seguito, presentavano due ricorsi al Tribunale di Chieti sia contro il ricorrente che contro Google Italy S.r.l. Nel 2011, il ricorrente indicava di aver deindicizzato l’articolo in questione, al fine di transigere la causa. Nel 2012, il tribunale ha escluso Google Italy S.r.l. dal procedimento a seguito della rinuncia di V.X. nei confronti di tale soggetto. Benché non fosse più necessario esaminare la parte della denuncia relativa alla richiesta di rimozione dell’articolo, quanto alla violazione della reputazione, il tribunale riconosceva un risarcimento pari 5.000 euro a ciascun attore per il danno non patrimoniale e 2.310 euro per costi e spese. Il tribunale infatti, alla luce della disciplina contenuta nel Codice di protezione dei dati personali, rilevava che l’articolo era rimasto online per poco più di tre anni e che al momento della diffida, l’interesse pubblico all’informazione era già da tempo soddisfatto ed esaurito.

La Corte, dopo aver richiamato suoi precedenti relativi sia all’articolo 10 della Convenzione, aventi ad oggetto un articolo o un post dal contenuto diffamatorio o offensivo, ovvero l’obbligo di pubblicare informazioni supplementari o chiarimenti a un articolo contenuto in archivi Internet, sia all’articolo 8, circa il rifiuto di rimuovere i dati personali dagli archivi pubblici di Internet o di obbligare i media a rendere anonimo il materiale archiviato online riguardante un reato, rileva come il presente caso si discosti da tutti i casi di cui agli articoli 10 e 8 sopra citati. Il suo nocciolo non è infatti legato al contenuto di una pubblicazione su Internet, né alle modalità di pubblicazione (come, ad esempio, la sua anonimizzazione o qualificazione), né al mantenimento o meno su internet (considerato che non ne era stata chiesta la rimozione), piuttosto alla durata e alla facilità di accesso ai dati, essendone mancata la deindicizzazione dopo la diffida degli interessati.

Secondo il ricorrente, la responsabilità della deindicizzazione ricadrebbe solo sul fornitore del motore di ricerca Internet interessato. La Corte osserva, tuttavia, che questa affermazione è contraddetta dal fatto che il ricorrente alla fine ha deindicizzato l’articolo impugnato, sicché la deindicizzazione può essere effettuata da un editore. Il “noindexing” rappresenta infatti una tecnica utilizzata dai proprietari di siti web per dire al fornitore di un motore di ricerca di non far apparire il contenuto di un articolo nei risultati di ricerca del motore stesso.

La Corte procede dunque a una “riflessione terminologica”. Le parole de-indexing, de-listing e de-referencing sono spesso utilizzate in modo intercambiabile in diverse fonti del diritto dell’Unione europea e internazionale e il loro significato specifico può spesso essere tratto solo dal contesto in cui sono utilizzati. In generale, esse indicano l’attività di un motore di ricerca consistente nel rimuovere, su iniziativa dei suoi operatori, dall’elenco dei risultati visualizzati (a seguito di una ricerca effettuata sulla base del nome di una persona) le pagine Internet pubblicate da terzi che contengono informazioni relative a tale persona.

Nel caso di specie, invece, il soggetto al quale è stata rivolta la richiesta di limitare l’accesso ai dati personali - ossia il ricorrente - non era un motore di ricerca, ma un editore, giornalista e proprietario di un sito web di un giornale online.

Premessa l’avvenuta interferenza nella libertà di espressione del ricorrente, la base legale della medesima, nonché lo scopo legittimo di tutela dell’altrui reputazione, la Corte esamina la proporzionalità dell’interferenza secondo il requisito di “necessità in una società democratica”. Alla luce della distinzione tra l’obbligo di de-listing (o “de-index” come nel caso di specie) e quello di rimozione permanente o cancellazione o anonimizzazione dell’articolo online

Nel valutare la sussistenza del suddetto requisito, la Corte di norma si avvale dei seguenti criteri per bilanciare la libertà di espressione e il diritto alla reputazione: i) la rilevanza dell’articolo ai fini di un dibattito di interesse generale; ii) quanto fosse nota la persona interessata e quale fosse l’oggetto della notizia in questione; iii) il comportamento della persona interessata nei confronti dei media; iv) il metodo per ottenere le informazioni in questione e la loro veridicità; v) il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione in questione; vi) la severità della sanzione imposta. Rispetto a tali criteri, la Corte ritiene però in concreto preferibile prestare attenzione a (i) la durata del tempo in cui l’articolo è stato tenuto online; (ii) la sensibilità dei dati in questione e (iii) la gravità della sanzione imposta al ricorrente.

Per quanto riguarda il primo punto, benché il procedimento penale contro i soggetti dell’articolo fosse ancora in corso, le informazioni ivi contenute non erano state più aggiornate dopo il verificarsi dei fatti in questione. Inoltre, nonostante la diffida per la rimozione, il suddetto articolo è rimasto online e facilmente accessibile per otto mesi. A ciò si aggiunga che la rilevanza della diffusione delle informazioni era diminuita col passare del tempo.

Quanto alla sensibilità dei dati in questione nel caso di specie, l’oggetto dell’articolo verteva su un procedimento penale.

Infine, nella prospettiva della gravità della sanzione, da una parte, il ricorrente è stato ritenuto responsabile in base al diritto civile e non penale; dall’atra la sanzione irrogata non era eccessiva.

In conclusione, la sanzione per mancata deindicizzazione costituisce una restrizione giustificabile della libertà di espressione del ricorrente, in considerazione del fatto che non gli sia stato imposto alcun obbligo di rimuovere definitivamente l’articolo da Internet. Di conseguenza, non vi è stata alcuna violazione dell'articolo 10 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 10 dicembre 2021, ric. n. 15379/16, Abdi Ibrahim c. Norvegia 

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (rispetto della vita familiare), letto alla luce dell’articolo 9 (Libertà religiosa), inadeguatezza del processo decisionale, rottura dei legami madre-figlio, differenze culturali e religiose tra la madre e i genitori adottivi, insufficiente considerazione dell’interesse reciproco della madre e del bambino a mantenere i legami familiari attraverso le visite, mancata considerazione dell’interesse della madre a permettere al figlio di mantenere i legami con le sue radici culturali e religiose.

La ricorrente, cittadina somala, otteneva lo status di rifugiata in Norvegia, accompagnata dal figlio, nato pochi mesi prima in Kenya. Quest’ultimo veniva subito affidato alle cure d’emergenza dei servizi sociali nazionali. A seguito di una decisione del County Social Welfare Board, il figlio veniva dato in affidamento ordinario a una famiglia cristiana, contro la volontà della ricorrente che aveva richiesto che fosse mandato a vivere dai suoi cugini o, comunque, da una famiglia somala o musulmana. Alla ricorrente venivano concesse quattro sessioni di contatto supervisionato all’anno col figlio. Avverso il provvedimento la ricorrente faceva ricorso alla Corte distrettuale che confermava l’ordine di cura, aumentando i diritti di contatto a un’ora, sei volte all’anno. Contro tale provvedimento, non veniva presentato ulteriore ricorso.

Qualche anno dopo, le autorità di assistenza sociale chiedevano al giudice di consentire alla famiglia affidataria di adottare il figlio della ricorrente, con la conseguenza di impedire a quest’ultima di mantenere un contatto e di privarla dei suoi diritti parentali. Avverso tale richiesta, la madre ricorreva al giudice interno senza formulare una richiesta di restituzione del figlio alle proprie cure, in quanto non voleva rompere il legame con i genitori affidatari a cui il figlio si era ormai affezionato. Tuttavia, la ricorrente chiedeva il mantenimento di un contatto con il figlio in modo che questi potesse mantenere le sue radici culturali e religiose. In ultima istanza, l’Alta Corte autorizzava l’adozione del figlio della ricorrente da parte della famiglia affidataria, dopo aver esaminato, tra le altre questioni, anche gli aspetti etnici, culturali e religiosi della proposta di adozione sollevati. Alla ricorrente è stato negato il permesso di ricorrere alla Corte Suprema.

Di fronte alla Corte di Strasburgo la ricorrente lamentava che la revoca della sua responsabilità genitoriale nei confronti del figlio e l’autorizzazione concessa alla famiglia affidataria per l’adozione avevano violato il suo diritto al rispetto della vita familiare di cui all'articolo 8 della Convenzione. Inoltre, la ricorrente lamentava che le stesse misure avevano comportato una violazione del suo diritto alla libertà di religione garantito dall'articolo 9 della Convenzione.

La Camera semplice ha qualificato la fattispecie esclusivamente come interferenza ai sensi dell’articolo 8 della Convenzione. Nell’applicare i suoi principi generali in materia di assistenza all'infanzia (recentemente enunciati nel caso Strand Lobben and Others v. Norway [GC], no. 37283/13, §§ 202-213) al caso di specie, la Camera ha osservato che nel procedimento interno la ricorrente non aveva chiesto la revoca dell'ordine di custodia e di conseguenza il ricongiungimento con il figlio, ma si era limitata a chiedere che la sua responsabilità genitoriale non fosse rimossa e che il consenso alla sua adozione fosse rifiutato. Inoltre, la Camera ha constatato che le decisioni sui diritti di contatto tra madre e figlio - improntati a favorire, rafforzare e sviluppare i legami familiari - avevano previsto visite ridotte, in contrasto con il principio dell'articolo 8. Di conseguenza, la Camera riteneva che le autorità nazionali non avessero adottato misure reali per facilitare il ricongiungimento familiare prima di decidere di approvare l'adozione del figlio da parte della famiglia affidataria.

La Camera ha anche considerato che l'Alta Corte nazionale aveva dato una motivazione insufficiente per le conclusioni relative alla natura e alle cause delle reazioni del figlio alle visite della madre, le quali avevano assunto importanza nel decidere l'adozione. A questa considerazione si aggiungevano altre ragioni specifiche a sostegno della necessità di mantenere un legame tra la ricorrente e il figlio, tra cui, in particolare, quelle relative al background culturale e religioso.

La Camera semplice ha quindi concluso che i servizi sociali, prima, e i giudici nazionali, poi, non hanno attribuito un peso sufficiente alla necessità di preservare il legame familiare tra la ricorrente e il figlio. Facendo leva sulla gravità dell'interferenza e la serietà degli interessi in gioco, la Camera ha ritenuto che il processo decisionale che ha portato alle misure impugnate non sia stato condotto in modo tale da garantire che tutte le opinioni e gli interessi della ricorrente fossero debitamente presi in considerazione. La Camera ha quindi concluso che c'era stata una violazione dell'articolo 8 della Convenzione.

Di fronte alla Grand Chambre la ricorrente lamentava la erronea caratterizzazione giuridica effettuata dalla Camera semplice, la quale aveva correttamente accertato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione ma aveva espunto dal ricorso la doglianza concernente l’articolo 8 in connessione con l'articolo 9 della Convenzione. A tal proposito, si chiedeva l’accertamento della violazione della libertà religiosa con riferimento all’individuazione della famiglia affidataria: per un genitore allevare un figlio secondo la sua religione o il suo credo era una manifestazione di quella religione o credo.

In particolare, la ricorrente lamentava la violazione della propria libertà religiosa già al momento dell’individuazione della famiglia affidataria e non solo al momento del provvedimento finale di adozione. Già in quella prima fase il principio di legalità non era stato rispettato, in quanto, nonostante il diritto interno lo contemplasse, nessun tentativo era stato effettuato dalle autorità nazionali per trovare una casa adottiva che corrispondesse al suo retroterra culturale e religioso di origine. La rottura del legame con le radici religiose inoltre difettava di uno scopo legittimo, che al contrario avrebbe dovuto essere quello di riunire il bambino con la madre naturale. Si lamentava, inoltre, la violazione dell'articolo 2 del Protocollo n. 1, che afferma l’obbligo dello Stato di rispettare il diritto dei genitori di provvedere a tale educazione e a tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche. Quest’ultima doglianza, tuttavia, veniva proposta per la prima volta di fronte alla Grand Chambre ed è dunque stata valutata come inammissibile.

La Grand Chambre ha ritenuto ammissibile il ricorso limitatamente all'articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 9, in quanto per un genitore educare il proprio figlio in linea con le proprie convinzioni religiose o filosofiche può essere considerato un modo per manifestare la propria religione o il proprio credo. Tale diritto può essere esercitato anche quando il figlio viene affidato obbligatoriamente all'assistenza pubblica, per esempio attraverso le modalità di assunzione delle responsabilità genitoriali o dei diritti di contatto volti a facilitare il ricongiungimento. La questione che si è posta era quella di accertare se la scelta della casa di accoglienza abbia avuto un effetto negativo rispetto al desiderio della madre che suo figlio fosse educato in linea con la sua fede musulmana.

A tal proposito la Grand Chambre ha ritenuto che le misure impugnate fossero state conformi alla legge e perseguissero gli scopi legittimi della protezione della “salute e della morale” di suo figlio e dei suoi "diritti". Quindi, la questione cruciale si appuntava sul requisito della loro "necessità in una società democratica", e, in particolare, sul fatto che le autorità nazionali avessero tenuto in debito conto gli interessi religiosi della ricorrente protetti dall'articolo 9.

All'epoca del procedimento di affidamento del figlio, l’interesse della ricorrente ad evitare l’adozione derivava principalmente dalla natura finale e definitiva del provvedimento e dal fatto che questo avrebbe determinato una conversione religiosa del figlio, contraria ai suoi stessi desideri. Poiché i genitori adottivi non desideravano la cosiddetta “adozione aperta” (i.e. un accordo che prevedeva visite di contatto post-adozione) il provvedimento finale avrebbe avuto come conseguenza la perdita, de facto e de jure, per la ricorrente di qualsiasi diritto di contatto futuro con suo figlio. Indipendentemente dal fatto che la ricorrente avesse accettato l’affidamento, lei e suo figlio conservavano il diritto al rispetto della vita familiare ai sensi dell'articolo 8. Il fatto che lei non avesse richiesto il ricongiungimento familiare non dispensava le autorità dal loro obbligo generale di considerare l'interesse superiore del figlio a mantenere i legami familiari con la ricorrente e, implicitamente, di prevedere una possibilità per loro di avere contatti reciproci.

La Corte ha valutato che nel processo che ha portato alla revoca della responsabilità genitoriale e al consenso all'adozione le autorità nazionali non avessero tentato di effettuare un vero esercizio di bilanciamento tra gli interessi del bambino e quelli della sua famiglia biologica. Invece di cercare di combinare entrambi gli interessi, si erano concentrate sugli interessi del bambino e non avevano attribuito un peso sufficiente al diritto del ricorrente al rispetto della vita familiare, in particolare all'interesse reciproco della madre e del bambino a mantenere i loro legami familiari e le relazioni personali e quindi la possibilità per loro di mantenere i contatti.

La decisione si era in gran parte basata su una valutazione dell'attaccamento del figlio con la sua famiglia adottiva. Innanzitutto, la base fattuale su cui si era basato il giudice nazionale era carente perché si riferiva a un contesto in cui tra la ricorrente e il figlio erano intercorsi sporadici contatti. Date le scarse visite, le prove da cui trarre conclusioni chiare sul fatto che l’esclusione della responsabilità genitoriale rispondesse all'interesse superiore del figlio erano assai poche.

Inoltre, la decisione si era concentrata essenzialmente sui potenziali effetti negativi della rimozione del minore dalla famiglia affidataria e non sui motivi per porre fine a tutti i suoi contatti con la madre biologica. In tal modo, il giudice nazionale aveva dato più importanza all'opposizione dei genitori affidatari alla "adozione aperta" che all'interesse della ricorrente di continuare una vita familiare con suo figlio.

Rispetto al bilanciamento tra la necessità di garantire il legame del figlio con l'ambiente della casa adottiva e gli aspetti relativi all'etnia, alla cultura e alla religione, e alla conversione religiosa, il giudice nazionale aveva concluso che si doveva attribuire un'importanza decisiva al modo in cui l'adozione della famiglia affidataria avrebbe creato chiarezza e rafforzato lo sviluppo dell'identità del figlio, rendendolo un membro paritario della famiglia con cui già viveva. A tal proposito, la Corte ha premesso che affinché i diritti della ricorrente ai sensi dell'articolo 8 della Convenzione, interpretati alla luce dell'articolo 9, possano dirsi rispettati, non è necessario che la casa di accoglienza del figlio corrisponda al suo retroterra culturale e religioso. L’obbligo delle autorità nazionali costituisce un obbligo di mezzi e non di risultato. Ebbene, sulla base delle informazioni disponibili, le autorità si erano sforzate – seppur con azioni rivelatesi infruttuose - di trovare inizialmente una casa adottiva che fosse più adatta agli indirizzi religiosi e culturali di provenienza. Tuttavia, gli accordi presi per quanto riguarda la capacità della ricorrente di avere contatti regolari con suo figlio, culminati nella decisione di consentire l'adozione non avevano tenuto in debito conto l'interesse della ricorrente nel permettere a suo figlio di mantenere almeno alcuni legami con le sue origini culturali e religiose. Di conseguenza, i motivi addotti a sostegno della decisione impugnata non erano stati sufficienti a dimostrare che le circostanze del caso fossero così eccezionali da giustificare una completa e definitiva separazione dei legami tra il figlio e la ricorrente. Tenuto conto della gravità dell’ingerenza e della serietà degli interessi in gioco, il processo decisionale che ha portato alla rottura definitiva dei legami tra la ricorrente e il figlio, non è stato condotto in modo tale da garantire che tutti i suoi interessi siano stati debitamente presi in considerazione.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Emilio Bufano, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa

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