Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di settembre 2022

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di settembre 2022

Le pronunce più interessanti della Corte Edu, nel mese di settembre, riguardano la giurisdizione extraterritoriale degli Stati contraenti, i parametri di legittimità della confisca penale di beni appartenenti al terzo, il procedimento di verifica del trattamento di dati personali.

Nella pronuncia H.F. e Altri c. Francia, la Grande Camera affronta la delicata questione della legittimità di una decisione governativa che rifiuta il rimpatrio di cittadini francesi, familiari di foreign fighters, detenuti nei campi profughi siriani. La violazione, che viene decisa attraverso la definizione di puntuali garanzie procedurali a carico dello Stato, implica una preliminare e innovativa presa di posizione sull’ambito della giurisdizione extraterritoriale degli Stati contraenti.

Nel caso Korshunova c. Russia, la Corte accerta la violazione del diritto di proprietà della ricorrente, in relazione al sequestro ordinato nell’ambito di un procedimento penale a carico di terzi, facendo leva sulla mancanza di proporzionalità dell’interferenza. Nel bilanciamento d’interessi, entrano in gioco parametri da tempo collaudati, quali la buona fede del terzo proprietario, e nuovi, in particolare, la tempestività del sequestro da parte dell’autorità giudiziaria (una volta avviate le indagini), la necessità di selezionare i beni da sequestrare in base alla loro attuale disponibilità (in capo all’indagato o a terzi), la possibilità della ricorrente di intentare un’azione risarcitoria nei confronti del venditore. 

Infine, il ricorso Hüttl c. Ungheria sottopone alla valutazione dei giudici sovranazionali, tramite un’ipotesi di possibile sorveglianza segreta illegale, l’idoneità del nuovo procedimento ungherese per la tutela del trattamento dei dati personali e della riservatezza. La Corte precisa che le indagini sulla liceità del trattamento dei dati devono essere condotte da un organismo esterno e indipendente rispetto all’apparato pubblico in cui eventualmente è stata realizzata la condotta contestata (il coinvolgimento, per taluni dati, del ministro di volta in volta competente solleva perplessità sull’efficacia dell’azione dell’Autorità di settore).

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 6 settembre 2022, ric. n. 46147/19, Korshunova c. Russia

Oggetto: Articolo 1 del Protocollo 1 della Convenzione (protezione della proprietà) – regolamentazione nell’uso dei beni – sequestro e vendita forzata di un immobile a seguito di condanna penale di terzi, per risarcire i danni derivanti dai reati – mancato bilanciamento interessi in gioco da parte dei giudici nazionali – impossibilità del terzo di agire nei confronti del venditore al fine di ottenere una riparazione.

La ricorrente sottopone alla Corte di Strasburgo la legittimità di un sequestro disposto dall’autorità giudiziaria a seguito di condanna di terzi.

Il procedimento penale riguardava i crimini violenti commessi dall’associazione per delinquere di cui faceva parte A.G.K. Dopo qualche mese dall’inizio delle indagini, A.K., moglie di A.G.K., acquistava un appartamento in contanti, a proprio nome, rivendendolo alla ricorrente l’anno successivo.

Sopravvenuto il provvedimento ablativo, la ricorrente ne veniva a conoscenza solo all’atto di rivendita dello stesso immobile. I giudici civili, aditi per il dissequestro, accoglievano la pertinente istanza rilevando come la ricorrente non fosse parte del procedimento penale e A.K. avesse acquistato l’appartamento con fondi propri, non in comune col marito. Tuttavia, la Corte d’appello ribaltava la decisione non condividendo né l’assunto dell’acquisto tramite fondi leciti né, a monte, la competenza dei giudici civili avverso il sequestro emesso in sede penale. Nel frattempo i giudici penali confermavano il provvedimento in esame e disponevano la vendita dell’appartamento, frutto di attività illecita, ai fini della riparazione dei danni causati dai reati.

Nella valutazione del ricorso sovranazionale, è indiscussa l’esistenza di un’interferenza col diritto di proprietà della ricorrente ed è legittima la finalità perseguita dalla medesima, ossia l’obiettivo di interesse generale di prevenire reati e salvaguardare vittime e parti civili. Il profilo problematico è la proporzionalità dell’interferenza. In particolare, la Corte rileva la violazione dell’art. 1 del Protocollo 1 in ragione dell’inadeguato bilanciamento degli interessi coinvolti nella procedura di sequestro, desumendo l’inadeguatezza dai seguenti elementi: le autorità nazionali non avevano valutato né la buona fede né l’assenza di negligenza nella condotta della ricorrente (la normativa interna non richiedeva all’acquirente di un immobile la verifica dell’origine dei fondi o dello stato civile del venditore); le autorità giudiziarie non avevano provveduto tempestivamente a individuare i beni da sequestrare, facendo decorrere un anno e tre mesi dall’inizio delle indagini (ciò aveva reso possibile il trasferimento dell’appartamento di A.K. alla ricorrente); le autorità non avevano verificato e selezionato i beni da confiscare; né i giudici né il Governo avevano prospettato la possibilità della ricorrente di intentare un’azione risarcitoria nei confronti del venditore. 

 

Sentenza della Corte Edu (Grande Camera), 14 settembre 2022, ric. n. 24384/19 e 44234/20, H.F. e Altri c. Francia

Oggetto: Articolo 1 della Convenzione e Articolo 3, § 2 del Protocollo n. 4 – giurisdizione degli stati – nesso di giurisdizione extraterritoriale – la nazionalità non è una base autonoma di giurisdizione - giurisdizione per presunta violazione del diritto di entrare nel proprio Stato – rifiuto di rimpatriare cittadini detenuti in campi profughi – diritto di entrare nel proprio Paese – mancanza di un controllo effettivo con garanzie contro l’arbitrarietà – assenza di un diritto generale al rimpatrio – obblighi procedurali – processo decisionale non corredato da adeguate garanzie – revisione indipendente delle decisioni

I ricorsi sottoposti alla Corte di Strasburgo riguardano le richieste di rimpatrio delle figlie e dei nipoti dei richiedenti detenuti nei campi curdi in Siria a seguito della caduta dello “Stato Islamico”, respinte dal governo francese.

I ricorrenti sono tutti cittadini francesi le cui rispettive figlie hanno lasciato la Francia per recarsi con i loro partner in Siria nel territorio controllato dal cosiddetto Stato Islamico (noto anche come Daesh). Giunte in Siria, le donne hanno avuto dei figli. Com’è noto, nel 2017 Daesh ha perso il controllo della capitale Raqqa, a favore delle Forze Democratiche Siriane (SDF), il gruppo militare impegnato nella lotta contro Daesh dominata dalle milizie curde delle Unità di Protezione Popolare (YPG). Da marzo 2019 in poi, le SDF controllavano tutto il territorio siriano a est del fiume Eufrate. L’offensiva delle SDF ha causato la fuga di decine di migliaia di uomini, donne e bambini, la maggior parte dei quali sono famiglie di combattenti Daesh. La maggior parte di queste persone, comprese le figlie dei richiedenti, furono arrestate dalle SDF durante e dopo la battaglia finale e portate (tra dicembre 2018 e marzo 2019) nel campo di al-Hol, controllato militarmente dalle SDF. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), a luglio 2019, attestava che erano circa 70.000 persone a vivere nel campo di al-Hol e descriveva la situazione come “apocalittica”. Negli anni la situazione non è migliorata: a marzo 2021, si contavano ancora 62.000, di cui due terzi bambini, molti dei quali orfani o separati dalla famiglia, che stavano crescendo in condizioni dure e spesso molto pericolose. Ulteriori rapporti di organizzazioni indipendenti[1] denunciavano le pessime condizioni di vita a cui i bambini detenuti nei campi di al-Hol e Roj erano costretti. Una iniziativa di rimpatrio “caso per caso” dei bambini dai campi nel nord-est della Siria è stata avviata dalla Francia tra marzo 2019 e gennaio 2021, riuscendo a riportare in patria trentacinque minori francesi, “orfani, minori non accompagnati o casi umanitari”. Successivamente, il 5 luglio 2022, il ministero degli Esteri francese annunciava una ulteriore iniziativa di rimpatrio sul territorio nazionale che interessava altri trentacinque minori di nazionalità francese e sedici madri. Tra queste persone, non erano ricomprese né le figlie e né i nipoti dei Ricorrenti.

I ricorrenti si sono attivati attraverso il governo francese per richiedere il rimpatrio delle figlie e dei nipoti e dichiarando di aver perso notizie sul luogo effettivo della loro detenzione e sul loro stato di salute. Le rispettive domande di rimpatrio non hanno ricevuto una risposta dal Ministero degli Esteri francese[2]. Vista tale inerzia, i ricorrenti si sono rivolti al Tribunale amministrativo di Parigi con dei ricorsi urgenti volti ad ingiungere al ministero degli Esteri di attivarsi per il rimpatrio in Francia dei rifugiati. I ricorsi sono stati respinti, così come i successivi tentativi di impugnazione.

Di fronte alla Corte di Strasburgo i ricorrenti sostenevano che il rifiuto di rimpatrio dai campi nel nord-est della Siria da parte dello Stato convenuto aveva esposti le loro figlie e nipoti a trattamenti inumani e degradanti vietati dall’articolo 3 della Convenzione e aveva violato il loro diritto di entrare nel territorio dello Stato di cittadinanza, come garantito dall’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4 alla Convenzione. Essi hanno inoltre lamentato, ai sensi dell’articolo 13 in combinato disposto con l’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4, di non aver avuto alcun rimedio interno effettivo con cui impugnare la decisione di non organizzare i rimpatri richiesti. 

La Camera semplice ha rinunciato alla propria competenza per rimettere la decisione alla Grande Camera. Al processo è intervenuto come amicus curiae, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa (che ha diritto ad intervenire e a presentare osservazioni ai sensi dell’articolo 36, § 3, della Convenzione). Hanno inoltre presentato osservazioni, ai sensi dell’articolo 36, § 2, della Convenzione e degli Articoli 71 § 1 e 44 § 3 del Regolamento della Corte) i governi belga, britannico, danese, olandese, norvegese, spagnolo e svedese, nonché i Relatori Speciali delle Nazioni Unite sulla promozione e la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali nella lotta al terrorismo, sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie e sulla tratta di persone, in particolare di donne e bambini, Reprieve, Rights and Security International, Avocats sans frontières (ASF), la Commission nationale consultative des droits de l’homme (CNCDH), il Défenseur des droits, la Clinique des droits de l’homme e il Ghent University Human Rights Centre, tutti autorizzati a presentare osservazioni scritte.

Prima di affrontare il merito della causa, la Corte ha dovuto affrontare la questione preliminare sulla possibilità di considerare i familiari dei ricorrenti rientranti nella giurisdizione della Francia. La questione è stata scomposta in base alle due violazioni dedotte dai Ricorrenti, da una parte, l’articolo 3 della Convenzione e, dall’altra, l’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4. 

Per quanto riguarda la prima violazione, la Corte ha osservato che la Francia non esercitava alcun “controllo effettivo” sul territorio della Siria nord-orientale e non aveva alcuna “autorità” o “controllo” sui familiari dei ricorrenti che erano detenuti nei campi. Essa ha inoltre constatato che l’avvio di procedimento a livello interno non determinasse un’espansione della giurisdizione. Questa conclusione vale sia rispetto al procedimento penale instaurato delle autorità francesi contro i reati di terrorismo, il cui contenuto è estraneo alle violazioni invocate dai Ricorrenti, sia per quanto riguarda quelli intrapresi dai ricorrenti, i quali, per costante giurisprudenza della Corte, non sono sufficienti a determinare un legame giurisdizionale extraterritoriale tra i familiari dei ricorrenti e la Francia. Quanto al vincolo di cittadinanza tra i familiari dei ricorrenti e la Francia, né il diritto interno né il diritto internazionale imponevano allo Stato di agire per conto dei suoi cittadini e di rimpatriarli. 

Inoltre, la Convenzione non garantisce il diritto alla protezione diplomatica o consolare ma, anche supponendo che la situazione dei familiari del ricorrente non rientrasse nei classici scenari di tutela diplomatica e consolare e che solo la Francia fosse in grado di fornire loro assistenza, tali circostanze non erano idonee a stabilire la giurisdizione della Francia nei loro confronti. 

Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti non potessero validamente sostenere che la semplice decisione delle autorità francesi di non rimpatriare i loro familiari avesse l’effetto di determinare un’espansione della giurisdizione francese in loro favore per quanto riguarda i maltrattamenti subiti nei campi siriani sotto il controllo curdo. Una siffatta estensione dell’ambito di applicazione della Convenzione non trova alcun sostegno nella giurisprudenza. La Corte ha quindi dichiarato irricevibile la denuncia ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.

Per quanto riguarda la censura ai sensi dell’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4, la Corte ha premesso che, in generale, la cittadinanza non era una base autonoma di giurisdizione e che quindi non poteva essere un elemento sufficiente per stabilire un nesso giurisdizionale ai sensi dell’articolo 1. Inoltre, il diniego di accoglimento delle domande dei Ricorrenti non avrebbe formalmente privato i loro familiari del diritto di entrare in Francia. Di conseguenza, il suddetto rifiuto non rientrava nell’esercizio, da parte dello Stato, dei suoi poteri pubblici ordinari di controllo della frontiera nazionale, circostanza che sarebbe stata sufficiente a far rientrare gli interessati nella sua giurisdizione territoriale. 

Ciò premesso, la Corte ha messo in luce che la specificità dell’oggetto e della portata del diritto della Convenzione violato – vale dire il diritto di entrare nel territorio dello Stato di cittadinanza – implicavano la finalità di tutelare i cittadini di uno Stato Parte situati al di fuori della sua giurisdizione territoriale. Tale peculiare ratio del diritto protetto doveva essere presa in considerazione, soprattutto alla luce del fenomeno di crescente globalizzazione che pone gli Stati di fronte a sfide nuove in relazione al diritto di entrare nel territorio nazionale. Se originariamente, il divieto assoluto di espulsione dei cittadini e il corrispondente diritto di ingresso avevano la finalità di vietare l’esilio, in quanto sanzione incompatibile con i moderni principi democratici, con l’accrescere della mobilità internazionale e l’avanzare di un mondo sempre più interconnesso, anche l’interpretazione dell’articolo 3 del Protocollo n. 4 deve aggiornarsi per tener conto di questo fenomeno.

In questa prospettiva, la Corte ha osservato che il diritto di entrare nello Stato di cittadinanza si pone oggi al centro delle questioni relative alla lotta contro il terrorismo e alla sicurezza nazionale, come dimostra in particolare l’emanazione di legislazioni che disciplinano la supervisione e la gestione del ritorno sul territorio nazionale di individui espatriati per impegnarsi in attività terroristiche. Se l’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4 si limitasse a garantire la posizione di chi ha già raggiunto la frontiera nazionale ma che è sprovvisto di documenti di viaggio, esso avrebbe un ambito di applicazione ridotto e risulterebbe inefficace per fronteggiare i fenomeni di mobilità globale suddetti. 

Alla luce di simile interpretazione evolutiva, la Corte ha ritenuto di non poter escludere che, in talune circostanze, anche persone che invocano il diritto di entrare nello Stato di cittadinanza abbiano un legame giurisdizionale con tale Stato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione. Nel caso di specie, oltre al legame giuridico tra lo Stato e i suoi cittadini, ulteriori circostanze relative alla situazione dei campi nel nord-est della Siria, sono dirimenti per la sussistenza di un tale legame. 

In primo luogo, i ricorrenti avevano rivolto alle autorità francesi una serie di richieste ufficiali di rimpatrio e di assistenza. In secondo luogo, tali richieste erano state formulate sulla base dei valori fondamentali delle società democratiche che componevano il Consiglio d’Europa, mentre i loro familiari si trovavano di fronte a una minaccia reale e immediata alla loro vita e al loro benessere fisico, a causa sia delle condizioni di vita che delle preoccupazioni in materia di sicurezza nei campi, che erano considerate incompatibili con il rispetto della dignità umana, nonché della salute di tali familiari e dell’estrema vulnerabilità dei figli. In terzo luogo, le persone interessate non avrebbero potuto lasciare i campi, per ritornare in Francia senza l’assistenza delle autorità francesi, trovando materialmente impossibile raggiungere spontaneamente la frontiera francese o qualsiasi altra frontiera sicura. Infine, le autorità curde si erano dichiarate disposte a consegnare al Governo francese tutti i detenuti di nazionalità francese. 

In base a queste circostanze particolari, la Corte ha concluso che, nel caso di specie, esisteva la giurisdizione della Francia, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione, per quanto riguarda il reclamo dei ricorrenti ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del Protocollo n. 4.

La Corte ha quindi esaminato il merito della presunta violazione soltanto con riferimento all’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4. La Corte ha innanzitutto definito il perimetro della tutela garantita dalla disposizione in esame, chiarendo se, rispetto al diritto al rimpatrio, lo Stato francese fosse tenuto a facilitare l’esercizio, fino al punto da essere obbligato a rimpatriare i cittadini francesi, tenuto conto del fatto che essi non erano in grado di raggiungere la sua frontiera senza assistenza. 

La Corte ha ricordato che, secondo la sua giurisprudenza, la Convenzione non garantisce un diritto alla protezione diplomatica da parte di uno Stato contraente a beneficio di qualsiasi persona soggetta alla sua giurisdizione. Una tale conclusione non è ricavabile neanche dal confronto con le prassi applicative degli altri stati contraenti: non è possibile riscontrare un consenso a livello europeo a sostegno di un diritto generale al rimpatrio nel territorio nazionale ai sensi dell’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4. Né i familiari dei richiedenti, detenuti in campi sotto il controllo di un gruppo armato non statale e il cui Stato di cittadinanza non aveva alcuna presenza consolare in Siria, avevano la possibilità di rivendicare il diritto all’assistenza consolare disciplinata dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari, adottata il 24 aprile 1963. 

Più in generale, la Corte ha osservato che non vi era alcun obbligo ai sensi del diritto internazionale dei trattati o del diritto internazionale consuetudinario per gli Stati di rimpatriare i propri cittadini. A tale riguardo, la Corte ha preso atto delle preoccupazioni espresse dal governo convenuto e dagli altri governi intervenuti circa il rischio potenziale, qualora tale diritto fosse istituito, di stabilire il riconoscimento di un diritto individuale alla protezione diplomatica incompatibile con il diritto internazionale e con il potere discrezionale degli Stati. 

Di conseguenza, i cittadini francesi detenuti nei campi nel nord-est della Siria non potevano rivendicare un diritto generale al rimpatrio sulla base del diritto di entrare nel territorio nazionale ai sensi dell’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4.

Tuttavia, la Corte ha fatto riferimento ai suoi precedenti in cui si chiariva che, nonostante l’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4 non garantisce un diritto generale al rimpatrio, questo impone comunque a uno Stato determinati obblighi positivi nei confronti dei suoi cittadini al fine di rendere che il loro diritto di entrare nel territorio nazionale sia pratico ed effettivo. Un simile diritto verrebbe negato se, tenuto conto di circostanze specifiche, il rifiuto di tale Stato di intraprendere qualsiasi azione di rimpatrio lascerebbe il cittadino interessato in una situazione paragonabile, de facto, a quella dell’esilio. 

La Corte ha quindi messo in luce quali circostanze eccezionali siano idonee a far sorgere l’obbligo di garantire che il processo decisionale sul rimpatrio sia corredato da garanzie adeguate contro l’arbitrarietà. 

In primo luogo, i campi nel nord-est della Siria erano sotto il controllo di un gruppo armato non statale, l’SDF, sostenuto da una coalizione di Stati – tra cui la Francia – e assistito dal Comitato Internazionale della Croce Rossa e dalle organizzazioni umanitarie. In secondo luogo, le condizioni generali nei campi dovevano essere considerate incompatibili con gli standard imposti dal diritto internazionale umanitario. In terzo luogo, fino ad oggi, nessun tribunale o altro organo investigativo internazionale era stato istituito per occuparsi delle donne detenute nei campi, come L. e M. In quarto luogo, le autorità curde avevano ripetutamente invitato gli Stati a rimpatriare i loro cittadini. In quinto luogo, diverse organizzazioni internazionali e regionali, tra cui le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Unione europea, avevano invitato gli Stati europei a rimpatriare i loro cittadini detenuti nei campi. In particolare, il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo aveva dichiarato che la Francia doveva assumersi la responsabilità della protezione dei bambini francesi e che il suo rifiuto di rimpatriarli comportava una violazione del diritto alla vita e del divieto di trattamenti inumani o degradanti. Sesto, e ultimo, la Francia aveva dichiarato ufficialmente che i minori francesi in Iraq o in Siria avevano diritto alla sua protezione e potevano essere presi in custodia e rimpatriati. 

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che spettasse alle autorità francesi, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, del Protocollo n. 4, garantire che il processo decisionale, relativo alle domande di rimpatrio, fosse provvisto di adeguate garanzie contro l’arbitrarietà. La Corte ha ritenuto che il rigetto di una domanda di rimpatrio dovesse dar luogo ad un adeguato esame individuale, da parte di un organo indipendente, distinto dalle autorità esecutive dello Stato, anche se non necessariamente da parte di un’autorità giudiziaria. L’esame garantirebbe una valutazione dei fatti e degli altri elementi di prova che hanno indotto tali autorità a decidere che non era opportuno accogliere la richiesta. L’organo indipendente in questione dovrebbe quindi poter controllare la legittimità della decisione di rigetto della domanda. Tale riesame dovrebbe inoltre consentire all’interessato di essere informato, anche sommariamente, dei motivi della decisione e quindi di verificare che tali motivi abbiano una base fattuale sufficiente e ragionevole. 

Qualora, come nelle circostanze del caso di specie, la richiesta di rimpatrio sia stata presentata per conto di minori, il riesame dovrebbe garantire in particolare che le autorità competenti abbiano tenuto debitamente conto, nel rispetto del principio di uguaglianza applicabile all’esercizio del diritto di ingresso nel territorio nazionale, dell’interesse superiore del minore, insieme alla loro particolare vulnerabilità e alle loro esigenze specifiche. 

In sintesi, la Corte ha riscontrato la carenza di un meccanismo di riesame delle decisioni di non accogliere le domande di rimpatrio attraverso il quale si potesse accertare l’assenza di arbitrarietà in tutti i motivi legittimamente invocabili dalle autorità esecutive, siano essi considerazioni imperative di interesse pubblico o giuridiche, difficoltà diplomatiche o materiali. 

L’assenza di una simile garanzia procedurale è stata riscontrata dalla Corte nel caso di specie, in cui i ricorrenti si erano rivolti, a più riprese, al Presidente della Repubblica e al Ministro degli Affari europei e degli Affari esteri chiedendo il rimpatrio delle loro figlie e nipoti. Tuttavia, nessuna di tali autorità esecutive aveva risposto loro espressamente. In definitiva, i ricorrenti non avevano ricevuto alcuna spiegazione per la scelta sottesa alla decisione adottata dall’esecutivo riguardo alle loro domande, salvo il suggerimento implicito che essa era derivata dall’attuazione della politica perseguita dalla Francia, sebbene un certo numero di minori fosse stato precedentemente rimpatriato. Né avevano ottenuto dalle autorità francesi alcuna informazione che potesse contribuire alla trasparenza del processo decisionale. 

La Corte ha inoltre osservato che la carenza non poteva essere censurata o altrimenti rimediata attraverso il procedimento giudiziario interno avviato dalle ricorrenti. I giudici francesi avevano deciso di non essere competenti, in quanto la questione dinanzi ad essi riguardava atti che non potevano essere disgiunti dal comportamento della Francia nelle sue relazioni internazionali. 

A tal riguardo, precisa la Corte, un simile processo di revisione interna non deve necessariamente essere attribuito al potere giudiziario. In tale ambito, infatti, la Corte ha riconosciuto di non essere legittimata ad interferire con l’equilibrio istituzionale tra l’esecutivo e i giudici dello Stato convenuto, né ad effettuare una valutazione generale della legittimità del rifiuto da parte dei giudici nazionali della propria competenza in materia. L’aspetto essenziale della garanzia procedurale richiamata dalla Corte è quello di garantire l’accesso a una forma di controllo autonomo delle decisioni tacite di rifiuto delle richieste di rimpatrio che permetta di accertare l’esistenza di motivi legittimi e ragionevoli, privi di arbitrarietà, a sostegno di tali decisioni. 

Di conseguenza, la Corte ha ritenuto che l’esame delle richieste di rimpatrio presentate dai richiedenti per conto dei loro familiari non era stato corredato da adeguate garanzie contro l’arbitrarietà e che quindi vi fosse stata una violazione dell’articolo 3 § 2 del Protocollo n. 4.

Rispetto alla riparazione della violazione, in applicazione dell’articolo 46 della Convenzione, la Corte indicato che il governo francese avrebbe dovuto riesaminare le domande di rimpatrio in modo rapido, garantendo allo stesso tempo garanzie adeguate contro qualsiasi arbitrarietà. La Corte ha inoltre dichiarato che l’accertamento della violazione costituiva di per sé una equa soddisfazione sufficiente a riparare qualsiasi danno non patrimoniale patito dai ricorrenti, rinunciando a liquidare ulteriori somme di denaro in loro favore.

 

Sentenza della Corte Edu (Prima Sezione), 29 settembre 2022, ric. n. 58032/16, Hüttl c. Ungheria

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) – diritto alla riservatezza delle comunicazioni – intercettazioni telefoniche nei confronti di un avvocato a difesa di ONG attive nella tutela delle libertà civili – sorveglianza segreta – strumenti e rimedi interni – limiti alla competenza dell’Autorità per la protezione dei dati.

Il ricorrente, avvocato che spesso lavorava per organizzazioni non governative attive nella difesa delle libertà civili, denunciava di aver subito intercettazioni telefoniche in violazione dell’art. 8 della Convenzione.

Durante una conversazione con un membro del Parlamento europeo, la linea si interrompeva e, secondo quanto sostenuto dal ricorrente in un post sui social media, riprendeva facendo sentire agli interlocutori frammenti della conversazione precedente. L’avvocato depositava quindi un’istanza ai sensi dell’art. 11 del National Security Act presso tre ministeri, al fine di sapere se fosse stato sottoposto a sorveglianza segreta. Tutti e tre i ministeri rispondevano negativamente. Anche la Commissione per la sicurezza nazionale del Parlamento decideva di non avviare indagine sul reclamo proposto dal ricorrente, il quale quindi adiva la Corte di Strasburgo.

La Corte rigetta, innanzitutto, l’eccezione governativa relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, fondata sull’esperibilità sia di una denuncia penale (per accesso illecito ai dati e raccolta illecita di informazioni) sia del procedimento dinanzi all’Autorità nazionale per la protezione dei dati e la libertà di informazione, stante l’esercizio del reclamo ai tre ministri «when a remedy has been pursued, use of another remedy which has essentially the same objective is not required».

Il rimedio consistente nell’indagine dell’Autorità nazionale per la protezione dei dati e la libertà di informazione rappresenta però un fattore rilevante per valutare anche il merito del ricorso, in termini di capacità del sistema di salvaguardare la riservatezza dei singoli avverso ipotesi di sorveglianza speciale.

Ai sensi della legge sulla protezione dei dati, la suddetta autorità può condurre indagini sulle operazioni di trattamento, anche nell’ambito delle forze dell’ordine, della sicurezza nazionale e della difesa; tuttavia, non ha accesso a talune tipologie di dati per cui può e deve richiedere la collaborazione del ministro competente, perché ispezioni i relativi documenti. 

Secondo la Corte, il controllo del trattamento dei dati dovrebbe essere affidato a un organismo esterno e indipendente, mentre, nel caso di specie, l’autorità di settore ungherese deve basarsi sulle informazioni ottenute dal ministro che supervisiona quelle attività controverse e che comunicherà l’esito della propria indagine pur avendo, potenzialmente, un interesse diretto a mantenere la segretezza dei dati in questione.

In conclusione la salvaguardia suggerita dal Governo non sembra soddisfare le esigenze di efficacia e completezza di tutela richieste dall’art. 8 della Convenzione.


 
[1] Cfr. i rapporti della ONG Rights and Security International (RSI), pubblicati il 25 novembre 2020 e il 13 ottobre 2021 attestavano che i bambini nei campi soffrivano di malnutrizione, disidratazione, talvolta ferite di guerra e stress post-traumatico ed erano a rischio di violenza e sfruttamento sessuale; le condizioni meteorologiche erano estreme; le condizioni di detenzione erano disumane e degradanti; i detenuti sono stati esposti a trattamenti che potrebbero essere qualificati come tortura; c’era un clima di violenza, causato dalle tensioni tra le donne ancora aderenti a Daesh e altri, nonché dalla condotta violenta delle guardie del campo.

[2] Alcuni ricorrenti hanno anche presentato una richiesta al Presidente francese a cui è seguita la risposta del Capo di Gabinetto del Presidente, in cui si affermava che le persone interessate erano deliberatamente partite per unirsi a un’organizzazione terroristica in guerra con la coalizione alla quale partecipava la Francia e che spettava alle autorità locali decidere se fossero responsabili di eventuali reati.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata

Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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