Magistratura democratica
Pillole di CEDU

Sentenze di aprile 2023

Le più interessanti sentenze emesse dalla Corte di Strasburgo nel mese di aprile 2023

In O.H. e G.H. c. Germania e A.H. e Altri c. Germania, la Corte sancisce la legittimità della Transsexuellengesetz (TSG - Legge sul nome e sul sesso delle persone transgender) che impone limitazioni ai genitori transgender nella facoltà di indicare il proprio sesso attuale sul certificato di nascita del figlio concepito. La Corte ha ponderato sotto la lente del giusto equilibrio una complessa trama di interessi contrapposti: il diritto all'autodeterminazione del genitore transgender, l'interesse pubblico alla certezza del diritto, all'affidabilità e alla coerenza dello stato civile, nonché i diritti fondamentali del bambino, a conoscere le proprie origini, a ricevere cure ed educazione da entrambi i genitori e ad avere un legame giuridico stabile con i propri genitori.

Nella sentenza Simonova c. Bulgaria, la Corte, nel solco dei principi espressi nella pronuncia Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, rileva la sproporzione dell’ordine di demolizione dell’edificio che costituiva l’unica abitazione della ricorrente e dei figli minori, riconoscendo una violazione dell’art. 8 della Convenzione.

In Murielle Noel c. Francia, la Corte ribadisce i corollari ricavabili dall’art. 7 della Convenzione, concentrandosi sul principio di tassatività; enuncia, quindi, una serie di criteri utili per distinguere i casi di analogia, vietata, e interpretazione estensiva, ammessa.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 4 aprile 2023, ric. nn. 53568/18 e 54741/18, O.H. e G.H. c. Germania

Oggetto: articolo 8 della Convenzione (Vita privata) – Obblighi positivi – Impossibilità giuridica per un genitore transgender di indicare il proprio sesso attuale sul certificato di nascita del figlio concepito dopo il cambiamento di sesso – uomo transgender indicato come madre – mancanza di un consenso europeo – ampio margine di valutazione degli Stati – diritto del bambino a conoscere le proprie origini e il proprio legame con il padre e la madre in modo stabile e immutabile – rapporto tra genitore transgender e figlio non messo in discussione – equilibrio tra diritto all’autodeterminazione del genitore transgender, interesse pubblico all’affidabilità e alla coerenza dello stato civile, e interesse del bambino.

Il caso riguardava due ricorrenti, un genitore transgender e suo figlio, che il primo aveva partorito. Il genitore è nato femmina e ha usato nomi femminili fino a quando il Tribunale ha accolto la sua richiesta di usare nomi maschili e riconosciuto la sua riclassificazione anagrafica come maschio. Dopo aver ottenuto il riconoscimento legale della sua riclassificazione al maschile, il genitore aveva interrotto il trattamento ormonale ed era riuscito a concepire di nuovo. È stato così che due anni dopo ha dato alla luce il figlio utilizzando lo sperma di un donatore che apparentemente aveva accettato di non rivendicare lo status di padre legale. Dopo la nascita del figlio, il genitore ha chiesto all’ufficio di stato civile di inserire il suo nome come padre del bambino anziché come madre nell’atto di nascita. La sua richiesta è stata rinviata dall’ufficiale di stato civile ai tribunali tedeschi, che hanno ordinato che il suo nome venisse inserito come madre del bambino in conformità con la legge tedesca. I ricorsi dei ricorrenti contro questa decisione non hanno avuto successo. Di conseguenza, il genitore è stato registrato come madre del bambino con i nomi che utilizzava prima della sua riclassificazione di genere.

Esperiti i rimedi interni, i ricorrenti si sono rivolti alla Corte europea lamentando il rifiuto dei tribunali tedeschi di consentire la registrazione del genitore come padre, nonostante il riconoscimento giuridico della sua riclassificazione di genere al maschile precedente al concepimento del bambino. I ricorrenti hanno invocato in particolare l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione.

La Corte europea ha innanzitutto ricordato i fattori da prendere in considerazione per determinare il margine di apprezzamento concesso agli Stati in questa materia. In particolare, il margine lasciato allo Stato è solitamente limitato quando è in gioco un aspetto particolarmente importante dell’esistenza o dell’identità di un individuo. 

Nel caso di specie, la Corte ha osservato che i diritti in gioco non comportavano un restringimento di tale margine. Inoltre, non esisteva un consenso tra gli Stati europei su come indicare nei registri delle nascite che una delle persone aventi lo status di genitore fosse transgender. Questa mancanza di consenso riflette il fatto che la riclassificazione di genere combinata con la genitorialità solleva delicate questioni etiche che giustificano il mantenimento di un ampio margine di valutazione concesso agli Stati in tali questioni. 

La Corte ha anche osservato come nel caso in questione le autorità tedesche sono state chiamate a soppesare una serie di interessi privati e pubblici a fronte di una serie di diritti in competizione: in primo luogo, i diritti del genitore transgender; in secondo luogo, i diritti e gli interessi fondamentali del bambino, vale a dire il suo diritto a conoscere le proprie origini, il suo diritto a ricevere cure ed educazione da entrambi i genitori e il suo interesse ad avere un legame giuridico stabile con i propri genitori; infine, l’interesse pubblico, che risiedeva nella coerenza del sistema giuridico e nell’accuratezza e completezza dei registri di stato civile, che nel diritto tedesco hanno un particolare valore probatorio. 

Alla luce di queste circostanze, la Corte ha ritenuto che le autorità tedesche avessero goduto di un ampio margine di apprezzamento nel caso di specie. Ha poi ricordato che ogni volta che è in gioco la situazione di un bambino, il suo interesse superiore deve essere preminente. 

Per quanto riguarda la valutazione sostanziale sulla presunta violazione del diritto al rispetto della vita privata, la Corte ha osservato che l’intenzione del legislatore tedesco era quella di indicare il precedente sesso e il precedente nome del genitore transgender, non solo nel caso di una nascita avvenuta prima che il riconoscimento del cambiamento di sesso del genitore diventasse definitivo, ma anche quando, come nel caso in questione, il concepimento o la nascita del bambino erano successivi alla riclassificazione di genere. Da un lato, la Corte federale di giustizia aveva osservato che l’indicazione del sesso originario del primo ricorrente nel registro delle nascite rispetto al secondo ricorrente avrebbe potuto violare, tra l’altro, il diritto all’autodeterminazione del primo ricorrente con il rischio di divulgazione del suo precedente sesso e dei suoi nomi. D’altra parte, aveva ribadito che questo diritto non era garantito in modo illimitato e doveva essere ponderato con gli interessi pubblici e con i diritti e gli interessi del bambino. 

In tale contesto, la Corte ha sottolineato che la maternità e la paternità, in quanto categorie giuridiche, non sono intercambiabili e vanno distinte sia per i presupposti legati alla loro rispettiva giustificazione sia per le conseguenze giuridiche che ne derivano. Per quanto riguarda gli altri interessi in gioco, sia quelli pubblici che quelli individuali del minore richiamati dalla Corte federale tedesca sono riconosciuti e tutelati dalla stessa giurisprudenza della Corte EDU. 

Per quanto riguarda i diritti del minore, i ricorrenti avevano criticato la Corte federale nazionale per non aver preso in esame i diritti individuali del secondo ricorrente e per averli valutati esclusivamente come una limitazione dei diritti invocati dal primo ricorrente. Rispetto a tale aspetto, la Corte europea ha osservato che il Tribunale federale non era obbligato a considerare gli interessi del minore solo come presentati dal genitore ma che, al contrario, era tenuto a esaminarli in modo esaustivo e, in particolare, a tenere conto di eventuali conflitti di interesse tra le due posizioni. La Corte federale aveva espressamente esaminato se l’attribuzione ai genitori di uno status giuridico non correlato alle funzioni biologiche riproduttive fosse tale da violare i diritti fondamentali del minore. Inoltre, la divergenza tra gli interessi del genitore transgender e quelli del bambino era emersa naturalmente poco dopo la nascita del bambino, quando era necessario stabilire quali informazioni dovessero essere inserite nel registro delle nascite, e quindi in un momento in cui il benessere del bambino non poteva essere esaminato su base individuale a causa della sua giovane età. 

Secondo la Corte federale, gli interessi del bambino coincidevano in una certa misura con l’interesse generale a garantire l’affidabilità e la coerenza dei registri dello stato civile e la certezza del diritto. Inoltre, il diritto del minore a conoscere le proprie origini, che la Corte federale aveva sottolineato nel limitare il diritto del genitore all’identità di genere, era anch’esso tutelato dalla Convenzione e comprendeva, in particolare, il diritto di stabilire i dettagli della propria discendenza. Per quanto riguarda il diritto del minore di essere allevato da entrambi i genitori, la Corte federale ha individuato come fondamento di tale diritto, in particolare, l’interesse del minore a poter stabilire e far registrare, se del caso, la paternità del padre biologico. 

Se il primo ricorrente dovesse essere indicato come padre nel registro delle nascite, il padre biologico del bambino potrebbe essere registrato come padre solo a condizione che il bambino contesti prima la paternità del genitore transgender, un’opzione che la Corte federale ha ritenuto inaccettabile per il bambino. Inoltre, la Corte aveva sottolineato che il rapporto giuridico del bambino con i suoi genitori, secondo le rispettive funzioni riproduttive, gli consentiva di legarsi in modo stabile e immutabile a una madre e a un padre che non sarebbero cambiati, anche in uno scenario - che la Corte costituzionale aveva considerato non solo teorico - in cui il genitore transgender avesse successivamente chiesto l’annullamento della riclassificazione di genere. Infine, l’indicazione dei precedenti cognomi del genitore nel registro delle nascite corrispondeva all’obiettivo prevista dalla legge, di registrare il genitore transgender come madre del bambino, e serviva anche a evitare che il bambino fosse obbligato a rivelare che il suo genitore era transgender. 

Rispetto alla valutazione della Corte federale, la Corte europea ha ribadito che la scelta dei mezzi atti a garantire il rispetto dell’articolo 8 della Convenzione nell’ambito delle relazioni tra individui è in linea di principio una questione che rientra nel margine di apprezzamento degli Stati contraenti e che esistono diversi modi per garantire il rispetto della vita privata. Lo scopo perseguito dalla normativa era quello di mantenere segreta l’identità transgender di un genitore, in modo da non richiedere al figlio di produrre un certificato di nascita da cui si potesse evincere che il genitore era transgender. Per perseguite tale scopo la legge prevedeva la possibilità di ottenere un certificato di nascita senza alcuna menzione dei genitori per non rivelare l’identità transgender del genitore e limitava ad un numero ristretto di persone, generalmente a conoscenza dell’identità transgender dell’interessato, il diritto di richiedere liberamente una copia completa del certificato di nascita, mentre qualsiasi altra persona, per ottenerlo, doveva dimostrare un interesse legittimo. 

Ad avviso della Corte, queste precauzioni erano tali da ridurre i disagi a cui il genitore transgender avrebbe potuto altrimenti essere esposto nel momento in cui doveva dimostrare il suo status di genitore nei confronti del figlio. Di conseguenza, tenuto conto, che il rapporto di genitorialità tra i due ricorrenti non era stato di per sé messo in discussione dalla normativa, del numero limitato di ipotesi che avrebbero potuto portare alla rivelazione dell’identità transgender del genitore, dell’ampio margine di apprezzamento concesso allo Stato convenuto, la Corte ha ritenuto che i tribunali tedeschi avessero raggiunto un giusto equilibrio tra i diritti individuali in gioco e le esigenze di interesse pubblico.

Di conseguenza, non vi è stata pertanto alcuna violazione dell’articolo 8 della Convenzione.

 

Sentenza della Corte Edu (Quarta Sezione), 4 aprile 2023, ric. n. 7246/20, A.H. e Altri c. Germania

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (Vita privata) – Obblighi positivi – Impossibilità giuridica per un genitore transgender di indicare il proprio genere attuale, estraneo alla sua funzione procreativa, sul certificato di nascita del figlio concepito dopo il cambiamento di genere - Donna transgender indicata come padre – Nessun consenso europeo - Ampio margine di valutazione - Diritto del bambino a conoscere le proprie origini – Possibilità di ridurre le situazioni che rivelano l'identità transgender di un genitore – Rapporto genitore-figlio non messo in discussione – Giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati.

Il caso riguardava tre ricorrenti, la prima delle quali è un genitore transgender, nata maschio, ma successivamente il tribunale distrettuale ha riconosciuto la sua riqualificazione anagrafica. Essa lamentava il fatto che le autorità di stato civile avevano rifiutato di iscriverla nel registro delle nascite come madre della terza ricorrente, in quanto non era lei ad aver partorito: era infatti la seconda ricorrente ad aver dato alla luce la bambina, che era stata concepito con lo sperma della prima ricorrente.

L’ufficiale di stato civile ha informato i genitori di aver annotato la nascita della bambina nel registro delle nascite indicando la seconda ricorrente come madre della bambina, ma di aver rifiutato di registrare il riconoscimento di maternità della prima ricorrente in quanto privo di validità giuridica. 

Ai sensi dell'articolo 1591 del Codice civile tedesco, la seconda ricorrente, in quanto madre biologica del bambino, era anche la sua madre legale. In seguito, la prima e la seconda ricorrente si sono rivolte al Tribunale chiedendo di essere indicate nel registro delle nascite come madri del bambino, mentre la prima ricorrente doveva essere identificata con i suoi nomi femminili. Il Tribunale ha respinto la richiesta. La Corte d'appello e poi la Corte federale tedesca hanno respinto i successivi ricorsi. 

La Corte federale di giustizia ha osservato che, in considerazione del fatto che la prima ricorrente aveva contribuito alla riproduzione con il suo sperma, era possibile registrarla solo come padre. Secondo la Corte federale, non sussistevano seri dubbi sulla conformità della normativa al diritto costituzionale. Facendo espresso riferimento alla sentenza del 6 settembre 2017, che aveva riguardato il rapporto genitoriale tra un uomo transessuale e il bambino che aveva partorito (cfr. supra O.H. e G.H. c. Germania, 53568/18 e 54741/18, 4 aprile 2023), la Corte federale aveva sottolineato che il fatto che la legge sulla genitorialità conferisse a un genitore transessuale lo status giuridico di genitore derivante dal suo sesso originario e dalla relativa funzione riproduttiva non violava i diritti fondamentali di tale genitore. La Corte federale ha osservato che la Corte costituzionale federale aveva stabilito che la legge prevedeva un legame giuridico inequivocabile, conforme alle circostanze biologiche, di ogni bambino con un padre e una madre. Il fatto che il legislatore abbia mantenuto il legame con il precedente status del genitore, nonostante la riclassificazione giuridica del genere, corrispondeva in particolare all'interesse del bambino, tutelato dalla legge, a conoscere il contributo specifico del genitore interessato al suo concepimento. 

I ricorrenti hanno presentato ricorso alla Corte di Strasburgo, invocando l'articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione. Essi lamentavano, in particolare, che le autorità tedesche avevano rifiutato di iscrivere la prima ricorrente nel registro delle nascite come seconda madre del terzo ricorrente e che le avessero offerto solo un'opzione in termini di stabilire un rapporto giuridico genitore-figlio con il bambino, vale a dire quello di paternità.

La Corte EDU ha innanzitutto svolto considerazioni analoghe a quelle espresse in O.H. e G.H. c. Germania, 53568/18 e 54741/18, rispetto al margine di apprezzamento concesso allo Stato nel caso di specie (cfr. supra). 

Nel merito, la Corte ha osservato che, nelle intenzioni del legislatore tedesco, il sesso originario e il precedente nome del genitore transgender devono essere indicati non solo nel caso di una nascita avvenuta prima che il riconoscimento del cambiamento di sesso del genitore diventasse definitivo, ma anche quando, come nel caso in questione, il bambino era stato concepito o era nato dopo la riclassificazione di genere. Se, da una parte, la Corte federale aveva riconosciuto che tale previsione era in grado di compromettere il riconoscimento giuridico dell’identità di genere della prima ricorrente, dall’altra, aveva anche sottolineato che il diritto allo sviluppo della propria personalità era soggetto a limiti. Tra questi vi erano gli articoli 1591 e 1592 del Codice civile e l'articolo 11 della legge sul nome e sul sesso delle persone transgender (Transsexuellengesetz, TSG), come interpretati dalla giurisprudenza di quella Corte (sentenza del 6 settembre 2017), che imponevano di ponderare i diritti del genitore transgender con gli interessi pubblici (in particolare, la coerenza dell'ordinamento giuridico e la tenuta di registri anagrafici completi e accurati) e i diritti e gli interessi del bambino (in particolare, il diritto di conoscere le proprie origini, il diritto di ricevere cure ed educazione da entrambi i genitori e l'interesse ad avere un legame giuridico stabile, basato sulle funzioni biologiche riproduttive, con una madre e un padre fin dalla nascita). La Corte aveva anche sottolineato che la maternità e la paternità, in quanto categorie giuridiche, non erano intercambiabili e si differenziavano sia per i presupposti legati alla loro rispettiva giustificazione sia per le conseguenze giuridiche che ne derivavano. 

Rispetto a questo indirizzo consolidato, la Corte di Strasburgo ha sottolineato che gli interessi pubblici invocati sono riconosciuti anche dalla sua stessa giurisprudenza. Per quanto riguarda i diritti del minore, rispetto all'affermazione dei ricorrenti secondo cui i loro interessi erano strettamente correlati e che, di conseguenza, le limitazioni imposte ai diritti dei primi due ricorrenti non potevano essere giustificate dai presunti interessi opposti del terzo ricorrente, la Corte ha osservato che nella sentenza del 6 settembre 2017, la Corte federale di giustizia aveva già esaminato la questione dell'attribuzione ai genitori di uno status giuridico non correlato alla loro funzione riproduttiva biologica e del conflitto potenziale con i diritti fondamentali del minore. In quel particolare caso, il conflitto tra gli interessi dei primi due ricorrenti e quelli del minore era sorto naturalmente dopo la nascita del bambino, quando si era reso necessario stabilire quali informazioni dovessero essere inserite nel registro delle nascite, in un momento in cui il benessere del terzo ricorrente non poteva essere esaminato individualmente a causa della sua giovane età. Inoltre, la Corte federale aveva ritenuto, che gli interessi del bambino coincidessero in una certa misura con l'interesse generale a garantire l'affidabilità e la coerenza dei registri civili e la certezza del diritto. Anche il diritto del minore di conoscere le proprie origini era tutelato dalla Convenzione e comprendeva, in particolare, il diritto di stabilire i dettagli della propria discendenza. 

Per quanto riguarda l'indicazione dei precedenti cognomi del primo ricorrente nel registro delle nascite, la Corte di Strasburgo ha richiamato quando argomentato dalla Corte federale nella sentenza del 6 settembre 2017(cfr. supra). La Corte ha ribadito che la scelta dei mezzi atti a garantire il rispetto dell'articolo 8 della Convenzione nell'ambito delle relazioni degli individui tra di loro è in linea di principio una questione che rientra nel margine di apprezzamento degli Stati contraenti. La Corte ha inoltre osservato che, se il primo ricorrente fosse stato registrato come padre del ricorrente nel registro delle nascite, la presentazione di una copia del certificato di nascita del ricorrente avrebbe potuto effettivamente rivelare la sua identità transgender, ma che, nella sua sentenza del 6 settembre 2017, la Corte federale aveva indicato la possibilità di ottenere un certificato di nascita senza alcuna menzione dei genitori e limitato il diritto di richiedere una copia completa del certificato di nascita a un numero limitato di persone (cfr. supra). Tali precauzioni avevano l'effetto di ridurre i disagi a cui la prima ricorrente avrebbe potuto altrimenti essere esposta nel momento in cui fosse stata costretta a dimostrare il suo status di genitore nei confronti del figlio. Dal momento che il fatto che la prima ricorrente fosse il genitore del terzo ricorrente non era stato messo in discussione, e che c'erano pochi casi in cui l'identità transgender della prima ricorrente poteva essere rivelata al momento della presentazione del certificato di nascita del bambino (sul quale era registrata come padre), e anche in considerazione del margine di apprezzamento concesso allo Stato convenuto, i tribunali tedeschi avevano trovato un giusto equilibrio tra i diritti della prima e della seconda ricorrente, gli interessi del terzo ricorrente, e gli interessi pubblici. 

La Corte ha concluso che non c'era stata alcuna violazione dell'articolo 8.

 

Sentenza della Corte Edu (Terza Sezione), 11 aprile 2023, ric. n. 30782/16, Simonova c. Bulgaria

Oggetto: Articolo 8 della Convenzione (vita privata e familiare) – Interferenza con il diritto al rispetto della propria abitazione  – Mancanza di proporzionalità dell’ordine di demolizione.

La ricorrente, madre single di sette figli, cinque dei quali minorenni all’epoca dei fatti, nel 2009 aveva ottenuto il permesso di costruire, e successivamente realizzato, un immobile che, nel 2017, era stato abbattuto a seguito di corrispondente provvedimento dell’autorità amministrativa scaturito dalle denunce del proprietario di un lotto confinante.

All’esito del procedimento giudiziario originato dall’opposizione della ricorrente, il Tribunale amministrativo di Plovdiv aveva confermato l’ordinanza di demolizione, rilevando che l’immobile in questione, difformemente da quanto statuito nel  permesso di costruire, sorgeva quasi interamente sul terrendo adiacente, come in effetti sostenuto dal vicino.

Dopo aver inutilmente richiesto la riapertura del procedimento, la ricorrente si rivolgeva alla Corte di Strasburgo, lamentando di aver subito una violazione dell’art. 8 in quanto l’ordine di demolizione aveva interferito in modo sproporzionato con il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare. 

A suo avviso, nell’emettere e poi confermare il provvedimento in parola, le autorità amministrative e giurisdizionali non avevano adeguatamente considerato la sua condizione, né offerto a lei e ai figli minori un alloggio pubblico o comunque verificato la percorribilità di altre soluzioni alternative. Peraltro, la demolizione, inizialmente prevista durante l’estate, era stata eseguita nel tardo autunno, lasciando lei e i suoi figli senza riparo durante l’inverno. 

In primo luogo, la Corte EDU rigetta l’eccezione governativa concernente l’inapplicabilità dell’art. 8 al caso di specie, sottolineando come, sia pure in assenza di informazioni certe circa la data dell’effettivo trasferimento della ricorrente e dei figli all’interno dell’immobile in questione, il periodo di quasi un anno trascorso tra la data a cui risalivano le prime prove dell’abitazione dell’edificio da parte della famiglia (marzo 2014) e l’emissione dell’ordine di demolizione  (marzo 2015) – senza contare il tempo ulteriormente trascorso prima della effettiva demolizione (avvenuta nel marzo 2017) – fosse stato sufficientemente lungo, sì da poter affermare che l’immobile fosse qualificabile come la sua “casa”.

La Corte, poi, rigetta altresì l’eccezione governativa relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (§§35-37), sottolineando come la mancata opposizione della ricorrente al provvedimento di esecuzione dell’ordine di demolizione ai sensi dell’articolo 294 del codice di procedura amministrativa, che prevede un controllo giurisdizionale, non impugnabile, delle misure adottate per eseguire le decisioni amministrative, risultava giustificata da un duplice ordine di considerazioni. Difatti, il Tribunale di Plovdiv, che sarebbe stato investito dalla questione, aveva già in altra sede concluso che la demolizione non pregiudicava il diritto all’abitazione della ricorrente e, d’altronde, la medesima autorità giudiziaria aveva iniziato a valutare la proporzionalità di siffatte misure alla luce delle circostanze individuali delle persone interessate, nei procedimenti ex art. 294, soltanto a partire dal 2018: successivamente, quindi, alla demolizione dell’immobile in questione.

Nel merito, i giudici di Strasburgo sottolineano come la questione dirimente sia stabilire se la misura,  prevista dalla legge per uno scopo legittimo, sia anche «necessaria in una società democratica». A questo proposito, sono richiamati in sintesi i consolidati principi espressi nella pronuncia Ivanova e Cherkezov c. Bulgaria, in base ai quali: (a) le persone che, come la ricorrente, rischiano di perdere la loro «unica abitazione» a causa di un procedimento teso alla demolizione dell’immobile devono, in tale contesto, poter richiedere e ottenere un esame adeguato della proporzionalità del provvedimento, alla luce delle circostanze del caso; per quanto (b) la sproporzione dell’ordine di demolizione possa essere riconosciuto solo in casi eccezionali.

In questa prospettiva, la Corte osserva come, nella vicenda de qua, né l’autorità amministrativa nel procedimento di adozione dell’ordine di demolizione, né quella giurisdizionale nell’esame del provvedimento opposto dalla ricorrente, abbiano valutato la sua specifica condizione familiare e abitativa. Invero, il Tribunale amministrativo di Plovdiv si è limitato a rilevare che i servizi sociali erano stati informati della situazione, senza, però, tenere in adeguata considerazione i fattori in grado di incidere sul giudizio di proporzionalità dell’ingerenza – quali quelli indicati, a titolo soltanto esemplificativo nella citata Ivanova e Cherkezov (spec.  § 53, es.: la natura dell’interesse che si intende tutelare con la demolizione ovvero la disponibilità di un’adeguata sistemazione alternativa per le persone colpite dalla demolizione) – né tentare di bilanciare l’interesse della ricorrente di continuare ad abitare l’immobile con i figli con le esigenze sottese all’abbattimento dello stesso. Invero, la Corte sottolinea come il Tribunale non abbia ricevuto né cercato di chiarire informazioni complete al riguardo.

Inoltre, secondo la Corte, l’assenza di un adeguato ed esauriente esame delle circostanze del caso da parte dell’autorità amministrativa, prima, e di quella giurisdizionale, poi, non sarebbe comunque stata compensata dalle modalità con cui l’autorità medesima aveva condotto l’esecuzione dell’ordine di demolizione. In disparte del fatto che i tentativi di trovare una soluzione al problema abitativo della ricorrente non avevano avuto luogo nell’ambito di una «procedura formale che comportasse un esame completo della proporzionalità dell’ingerenza alla luce delle sue circostanze individuali»; l’unica soluzione effettivamente proposta alla era stata quella – del tutto inappropriata – di collocare temporaneamente i figli della ricorrente in un alloggio gestito dai servizi sociali, separandoli dalla madre. Per di più, il ritardo nell’esecuzione del provvedimento, pur avendo offerto alla ricorrente una certa tregua, non aveva portato di per sé ad alcuna soluzione adeguata al problema che si trovava ad affrontare. 

La Corte conclude, quindi, affermando che vi è stata una violazione dell’art. 8 Cedu.

 

Sentenza della Corte Edu (Quinta Sezione), 13 aprile 2023, ric. n. 54956/19, Murielle Noel c. Francia

Oggetto: articolo 7 della Convenzione (nulla poena sine lege) – principio di legalità dei reati e delle pene – condanna per un reato di molestie che presuppone l’esistenza di un rapporto di lavoro – mancanza, in concreto, di un contratto di lavoro e sospetti di violazione del divieto di analogia – interpretazione estensiva da parte dei giudici nazionali fondata su criteri ragionevoli e prevedibili.

Il marito della ricorrente era un gendarme della compagnia di gendarmeria di Guéret, di cui V.O. era il comandante. La ricorrente era membro del comitato festeggiamenti della compagnia e presidente dell’Association d’aide aux membres et familles de gendarmes (AAMFG), con un ufficio nei locali della gendarmeria.

Tra la ricorrente e V.O. insorgevano disaccordi in merito all’organizzazione di un ballo presso la gendarmeria. La ricorrente presentava una serie di reclami ai superiori gerarchici di V.O. e a vari membri anziani della gendarmeria, tanto da farlo trasferire presso un’altra compagnia.

V.O. presentava una denuncia e la ricorrente veniva condannata, in primo grado, ai sensi dell’art. 222-33-2 c.p., fattispecie che punisce chiunque molesti un’altra persona con commenti o comportamenti ripetuti aventi lo scopo o l’effetto di peggiorare le condizioni di lavoro, da pregiudicare la salute fisica o mentale o compromettere il futuro professionale.

Dinanzi alla Corte d’appello, la ricorrente eccepiva la violazione del divieto di analogia, nella misura in cui il reato contestato le era stato addebitato in assenza di un rapporto di lavoro tra lei e la vittima. I giudici ritenevano logico includere nell’ambito del reato le persone che partecipano al servizio ad altro titolo, considerato che l’art. 222-33-2 si riferisce al fatto della molestia, non all’autore. Benché la ricorrente non fosse membro del personale della gendarmeria, in considerazione delle sue funzioni, poteva essere considerata un fornitore di servizi abitualmente presente sul luogo di lavoro.

Tale argomentare veniva giudicato legittimo dalla Corte di cassazione.

Dinanzi alla Corte di Strasburgo, la ricorrente lamentava, alla luce dell’art. 7 della Convenzione, la violazione del principio di stretta interpretazione della legge. 

Sul piano dei principi generali, l’art. 7 della Convenzione sancisce il principio di legalità dei reati e delle pene e richiede che il diritto penale non sia applicato in modo estensivo a danno dell’imputato, in particolare per analogia. Il concetto di “diritto” utilizzato in tale articolo si riferisce alla “legge”, che deve essere accessibile e prevedibile per la persona interessata. La prevedibilità deve essere valutata dal punto di vista della persona condannata (tenuto conto dell’assistenza fornita dall’avvocato) e al momento della commissione degli atti sotto processo. L’esegesi pretoria circa la configurabilità del reato deve essere coerente con la sostanza della fattispecie descritta dal legislatore. L’eventuale assenza di precedenti giurisprudenziali non determina l’imprevedibilità di un’interpretazione giudiziaria, se plausibile e ragionevolmente prevedibile.

Nel caso di specie, ci si chiede se la ricorrente potesse ragionevolmente prevedere una condanna per molestie psicologiche ai sensi dell’art. 222-33-2 c.p.

Sul punto, è emerso, innanzitutto, che l’ambito di applicazione prevedibile di tale norma si riferisce a condotte manifestate entro un rapporto di lavoro: sebbene non si faccia testualmente riferimento al rapporto di lavoro, la Corte di cassazione l’ha reso condizione di configurabilità della fattispecie; inoltre, in epoca successiva al verificarsi dei fatti, il legislatore ha introdotto una nuova fattispecie (l’art. 222-33-2-2) che punisce le molestie psicologiche al di fuori del contesto di lavoro.

In concreto, l’accertamento del rapporto di lavoro non è stato omesso, ma ricavato dai seguenti elementi: lo status di presidente dell’AAMFG e di membro del comitato dei festeggiamenti sotto l’autorità di V.O.; le missioni della ricorrente e della sua associazione all’interno della gendarmeria; il fatto che avesse a disposizione un ufficio nei locali della gendarmeria; il riconoscimento e la legittimazione di cui godeva presso la direzione generale della gendarmeria nazionale e i ministeri vigilanti; le sovvenzioni che riceveva dalla gendarmeria; l’esistenza di relazioni istituzionali tra l’associazione presieduta dalla ricorrente, il personale della compagnia di gendarmeria e i superiori gerarchici di V.O.

La Corte osserva che la ricorrente non ha mai sostenuto che il concetto di “rapporto di lavoro” fosse di per sé vago e incompatibile con l’art. 7 della Convenzione. Inoltre, i criteri utilizzati dai tribunali interni, in particolare dalla Corte di cassazione, per collocare i fatti nel contesto dei rapporti di lavoro non contenevano alcun elemento di arbitrarietà o manifesta irrazionalità: nel chiarire i contorni delle nozioni di “molestie morali” e di “rapporto di lavoro”, i giudici non hanno ribaltato la propria giurisprudenza né interpretato la fattispecie in modo contra legem.

La condanna della ricorrente soddisfa i requisiti dell’art. 7 della Convenzione, sicché il ricorso è manifestamente infondato.

[**]

Chiara Buffon, esperta giuridica presso l'Ufficio dell'Agente del Governo, PhD Diritto Pubblico ind. Penale Università di Roma Tor Vergata
 
Alessandro Dinisi, esperto giuridico presso l'Agente del Governo, PhD Diritto Privato Università di Pisa
 
Giulia Battaglia, dottoressa di ricerca in Scienze giuridiche, Giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa

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29/03/2024
In tema di sanzione disciplinare al giudice che posta messaggi politici su Facebook. La CEDU condanna la Romania per violazione del diritto alla libertà di espressione

In un caso relativo alla sanzione disciplinare della riduzione della retribuzione inflitta ad un giudice che aveva pubblicato due messaggi sulla sua pagina Facebook, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza 20 febbraio 2024, Danileţ c. Romania (ricorso n. 16915/21), ha ritenuto, a strettissima maggioranza (quattro voti contro tre), che vi sia stata una violazione dell'articolo 10 (libertà di espressione) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. 

26/03/2024
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