Alla data del 25 marzo 2024 il Sabin Center for Climate Change Law, centro di ricerca Columbia Law School dedicato al cambiamento climatico, ha censito l’esistenza di 3216 contenziosi climatici nel mondo[1], di cui più della metà (oltre duemila) si sono celebrati o sono ancora pendenti negli Stati Uniti.
All’interno di questo censimento rientrano i casi che riguardano in qualche modo le problematiche connesse al cambiamento climatico, lanciati sia contro enti pubblici (come gli Stati, i governi locali o le agenzie pubbliche), sia contro le imprese (operanti in settori che producono impatti climalteranti), dinanzi ad organi giudiziari o quasi-giudiziari (principalmente tribunali arbitrali, istituzioni nazionali per i diritti umani, organismi di controllo dei consumatori, Punti di Contatto Nazionali dell’OCSE).
Abbiamo già avuto modo di segnalare[2] che la comunità degli Stati concorda in maniera unanime sin dagli anni ’90 (a partire dall’approvazione della Convenzione Quadro dell’ONU sui Cambiamenti Climatici – UNFCCC – nel 1992) sul fatto che il cambiamento climatico è un fenomeno potenzialmente in grado (a causa dei suoi impatti) di compromettere i diritti fondamentali. Il legame tra gli impatti del cambiamento climatico ed i diritti fondamentali è stato peraltro sancito da numerosi documenti provenienti da istituzioni internazionali, come la Dichiarazione congiunta sui diritti umani e i cambiamenti climatici, del 2019 emessa dai cinque organi del trattato sui diritti umani delle Nazioni Unite; le Frequently Asked Questions on Human Rights and Climate Change dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, 2021; il Making Peace with Nature dell'UNEP, del 18 febbraio 2021; la dichiarazione congiunta degli organismi delle Nazioni Unite sul diritto a un ambiente sano, firmata l'8 marzo 2021 da 15 organizzazioni delle Nazioni Unite; il Rapporto Cambiamenti climatici e diritti umani. I Contributi delle Istituzioni Nazionali per i Diritti Umani del dicembre 2020 prodotti dalle istituzioni nazionali per la protezione dei diritti umani; la Dichiarazione delle nove Procedure Speciali delle Nazioni Unite sul legame tra cambiamento climatico e diritti umani del 2019; il rapporto sul clima sicuro del relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani e l'ambiente sempre nel 2019.
La compromissione dei diritti fondamentali potenzialmente provocata dagli impatti del cambiamento climatico è stata considerata dalla comunità degli Stati una vera e propria minaccia per la sopravvivenza dell’intera umanità alle condizioni di vita attuali, come dichiarato in occasione dell’Accordo di Parigi (anno 2015) allorché la comunità degli Stati, adottando la Decisione n. 1/CP21 (di cui l’Accordo di Parigi fa parte), ha definito il cambiamento climatico una: “minaccia urgente e potenzialmente irreversibile”[3].
Orbene, gli accordi internazionali sul clima – supportati dalla comunità scientifica – contengono un’unica ricetta per contrastare efficacemente il riscaldamento globale: ridurre la concentrazione di gas serra, soprattutto di anidride carbonica (CO2), in atmosfera.
Purtroppo, le misure adottate dagli Stati che avrebbero dovuto centrare questo obiettivo (le cd. misure di mitigazione) sono state del tutto inefficaci; parimenti non risultano efficaci i programmi di decarbonizzazione delle imprese (spesso trionfalmente annunciati), tant’è che il livello di concentrazione di gas serra in atmosfera sale costantemente ogni anno, arrivando a superare nel 2024 la soglia di 420 parti per milione (ppm)[4]. Come accertato dall’IPCC nel suo ultimo rapporto (l’Assessment Report n. 6)[5], contrariamente agli impegni assunti in seno all’Accordo di Parigi, sarà difficile che l’aumento della temperatura globale venga contenuta ben al di sotto di 2°C entro fine secolo, visto che le politiche climatiche attualmente implementate dagli Stati porteranno la temperatura media della Terra ad aumentare di 3,2 gradi entro 2100.
Del pari inefficaci risultano spesso le misure adottate per “gestire” le conseguenze del cambiamento climatico (le cd. misure di adattamento; si pensi alla costruzione degli argini costieri per contrastare l’innalzamento del livello delle acque o alle misure preventive per fronteggiare le ondate di calore).
Inoltre, non sempre le informazioni relative alle questioni climatiche vengono diffuse in modo trasparente e coerente.
Esiste dunque una contraddizione tra, da un lato, la necessità di agire per contenere il riscaldamento globale e per gestirne le conseguenze, informando correttamente il pubblico delle questioni relative al cambiamento climatico, e, dall’altro, l’inefficacia delle misure sinora poste in essere e la scarsa trasparenza che a volte accompagna l’informazione delle questioni climatiche. Questa contraddizione ha dato la spinta alla società civile per ricorrere al contenzioso al fine di ottenere in via giudiziaria (o quasi-giudiziaria) ciò che gli Stati e le imprese che operano in settori climalteranti non vogliono o non riescono a fare spontaneamente.
Secondo l’UNEP[6], rientrano nel contenzioso climatico: “le cause che sollevano questioni rilevanti di diritto o di fatto relative alla mitigazione, all’adattamento o alla scienza dei cambiamenti climatici. Tali cause sono lanciate dinanzi a una serie di organi amministrativi, giudiziari e di altro tipo”.
La tipologia di controversie rientranti in questo settore è assai variegata. In questo articolo si darà contezza, in modo necessariamente stringato, dei principali casi già risolti o tuttora pendenti dinanzi alle Corti nazionali al di fuori dell’Italia. Non saranno trattati, quindi, i casi pendenti o decisi in Italia o davanti alle Corti Sovranazionali (come la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo), cui saranno dedicati articoli specifici.
Il criterio identificativo dei contenziosi di cui ora si dirà è costituito dalle richieste formulate dai ricorrenti.
Casi aventi ad oggetto misure di mitigazione
Riguardano le politiche climatiche degli Stati o i piani industriali delle imprese; attraverso questa tipologia di casi si chiede al Giudice di condannare il convenuto a ridurre le emissioni di un determinato ammontare (di regola, accertato da istituzioni scientifiche specifiche o generalmente accettati dalla comunità scientifica) al fine di rendere l’ambizione climatica del convenuto in linea con l’Accordo di Parigi o con i report della comunità scientifica.
Il caso più famoso è quello lanciato dalla associazione Urgenda contro i Paesi Bassi: nel 2019 la Corte Suprema ha ordinato ai Paesi Bassi (confermando le sentenze emesse dal Tribunale e dalla Corte di Appello dell’Aja) di ridurre le proprie emissioni del 25% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990, sostenendo che un impegno climatico inferiore costituirebbe una violazione degli articoli 2 e 8 della Convenzione europea sui diritti umani[7].
Un altro celebre caso in tale ambito, celebratosi sempre in Olanda, è Milieudefense et al. contro Shell; nella sentenza emessa il 26 maggio 2021, il Tribunale dell’Aja ha ordinato alla Shell di modificare il proprio piano aziendale e di ridurre le emissioni di gas serra del 45% entro il 2030 rispetto al livello del 2019. Si tratta di una pronuncia estremamente controversa; il Tribunale ha rilevato in sentenza che: “L’obbligo di riduzione di Shell deriva dallo standard di cura non scritto stabilito nel Libro 6, Sezione 162 del Codice Civile olandese, ovvero dalla circostanza che è illegale agire in contrasto con ciò che è generalmente accettato secondo la legge non scritta”. Per stabilire quali siano queste “leggi non scritte” che determinerebbero l’illiceità della condotta di Shell, il Tribunale ha fatto ampio riferimento alle regole internazionali di soft law, compresi i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani. Il caso è ora all’esame della Corte di Appello.
Da segnalare che l’intero consiglio di amministrazione della Shell è stato poi destinatario di un’azione di responsabilità promossa dinanzi ad un tribunale londinese da alcuni azionisti critici per non aver adottato alcuna misura al fine di uniformare la politica industriale aziendale al contenuto della sentenza; il caso è stato rigettato[8].
Casi aventi ad oggetto misure di adattamento
Hanno ad oggetto la condanna del convenuto a “fare qualcosa” in relazione al tema dell’adattamento agli impatti climatici, o anche al risarcimento dei danni connessi alla necessità di dover realizzare delle opere per contrastare gli effetti del cambiamento climatico.
Nel caso Leghari vs. Pakistan il Tribunale di Lahore ha ordinato al Governo di nominare una Commissione per implementare il programma sull’adattamento al cambiamento climatico, che era rimasto lettera morta. Nella interessante sentenza, la Corte ha rilevato che le conseguenze del cambiamento climatico in Pakistan implicano forti alluvioni, siccità, cambiamenti nei cicli agricoli, cambiamenti nei cicli delle piogge, e dunque una minaccia per la sicurezza idrica e alimentare, che sul piano giuridico e costituzionale costituiscono un evidente impatto sui diritti umani dei cittadini del Pakistan, in particolare della parte più vulnerabile della società, notoriamente non in grado di pretendere tale protezione attraverso il meccanismo del ricorso ai Tribunali: “su un fondamento legale e costituzionale, questo è un ricorso relativo alla protezione dei diritti fondamentali dei cittadini del Pakistan, in particolare, delle fasce vulnerabili e deboli della popolazione che non sono nelle condizioni di poter interrogare questa Corte”. La Corte ha poi richiamato il diritto alla vita (art. 9 della Costituzione), che include il diritto ad un ambiente salubre e pulito, nonché il diritto alla dignità umana (art. 14 della Costituzione), ed i principi internazionali in materia di ambiente, come lo sviluppo sostenibile, il principio di precauzione, la valutazione dell’impatto ambientale, l’equità tra le generazioni. La Corte infine ha riconosciuto che l’ambiente occupa un ruolo centrale nella Costituzione del Pakistan, per cui la giurisprudenza sviluppata fino a quel momento in materia ambientale deve essere adattata per occuparsi delle questioni portate dal cambiamento climatico. Per la Corte, “è arrivato il momento di andare oltre. La giurisprudenza ambientale esistente deve essere plasmata per rispondere alle esigenze di qualcosa di più urgente e allarmante, il cambiamento climatico. Dalla giustizia ambientale, sino ad oggi largamente circoscritta e limitata ai nostri ecosistemi e alla biodiversità, dobbiamo passare alla giustizia climatica”[9].
Un’altra controversia in questo ambito è quella intentata dinanzi ad un tribunale tedesco da un cittadino peruviano contro un colosso energetico tedesco: il caso Lliuya contro RWE; un agricoltore di Huaraz, in Perù, ha citato in giudizio l’azienda tedesca RWE chiedendo un risarcimento pari allo 0,47% dei costi totali che ha dovuto affrontare per proteggere i suoi terreni dalle inondazioni causate dallo scioglimento dei ghiacciai, percentuale pari al contributo storico stimato delle emissioni che RWE ha prodotto fino ad oggi. La causa è in corso[10].
Casi aventi ad oggetto la contestazione di leggi o piani nazionali di politica climatica
Rientra in questo filone la tipologia di contenzioso volto a sfidare o impugnare provvedimenti normativi o anche programmatori emanati dagli Stati o comunque da agenzie pubbliche in tema di cambiamento climatico.
Uno dei casi più noti in questo ambito è quello di Neubauer et al. contro la Germania. La Corte costituzionale tedesca ha annullato la legge tedesca sul clima perché postergava la parte più significativa di tagli alle emissioni troppo in avanti, ovvero a dopo il 2030. Secondo la Corte, gli obiettivi climatici dello Stato che spostano in avanti i tagli di gas serra costituiscono un “effetto di interferenza anticipata” sulle libertà individuali future dei cittadini: “non si deve permettere alla generazione attuale di consumare grandi porzioni del bilancio di CO2, sostenendo così uno sforzo minimo di riduzione, se ciò comporta di dover lasciare alle generazioni successive un drastico onere di riduzione, esponendo le loro vite a perdite globali delle libertà fondamentali”[11].
Casi aventi ad oggetto la contestazione di autorizzazioni per progetti a forte impatto climatico
E’ un genere di contenzioso climatico molto ampio; vi rientrano una serie di controversie riguardanti i provvedimenti autorizzativi o le procedure di autorizzazione relative a progetti climalteranti.
In questo ambito, un caso famoso, conclusosi negativamente per i ricorrenti, è quello dell'aeroporto di Heathrow. Alcune associazioni inglesi impugnarono il provvedimento con cui era stata autorizzata l’espansione dell’aeroporto di Heathrow dal Segretario di Stato per i Trasporti del Regno Unito perché non teneva conto dei vincoli alle emissioni derivanti dall’Accordo di Parigi. La Corte Suprema ha però statuito che il Segretario di Stato avesse un’ampia discrezionalità in questa materia e che l’Accordo di Parigi non potesse essere utilizzato per creare vincoli all’interno dell’ordinamento inglese, bensì solo al livello interstatale[12].
Un altro caso molto interessante in questo ambito è quello proposto dalla Gloucester Resources avverso il rifiuto formulato dal Ministro della Pianificazione australiano di rilasciare una concessione per costruire una miniera di carbone a cielo aperto (il Rocky Hill Coal Project), che avrebbe prodotto 21 milioni di tonnellate di carbone per un periodo di 16 anni. Il Tribunale del distretto del New South Wales ha rigettato il ricorso e confermato il diniego al rilascio della concessione in quanto il progetto avrebbe comportato “una fonte di emissioni di gas serra che contribuirebbe ai cambiamenti climatici… impedendo di raggiungere le riduzioni rapide e profonde delle emissioni di gas serra che sono necessarie… per raggiungere l'obiettivo concordato di limitare il aumento della temperatura media globale a ben al di sotto dei +2° C rispetto ai livelli preindustriali” […] “Una miniera di carbone a taglio aperto in questa parte della valle di Gloucester sarebbe nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Luogo sbagliato perché una miniera di carbone a cielo aperto in questo paesaggio scenico e culturale, vicino alle case e alle fattorie di molte persone, causerà impatti significativi sulla pianificazione, sulla comodità, visivi e sociali. Tempo sbagliato perché le emissioni di GHG della miniera di carbone e del suo prodotto di carbone aumenteranno le concentrazioni globali di gas serra in un momento in cui ciò che è ora urgentemente necessario, al fine di raggiungere gli obiettivi climatici generalmente concordati, è una rapida e profonda riduzione delle emissioni di GHG. Queste terribili conseguenze dovrebbero essere evitate. Il progetto deve essere rifiutato”[13].
Casi aventi ad oggetto la corretta divulgazione delle informazioni
Rientrano in questa categoria di casi una pletora di giudizi relativi alla presunta non corretta informazione (proveniente da enti pubblici) relativa agli impatti dei cambiamenti climatici.
Celebre è in questo ambito il caso O’Donnel contro il governo australiano; secondo la ricorrente, lo Stato aveva fuorviato gli investitori dei fondi obbligazionari non informandoli adeguatamente in merito al rischio finanziario causato dalla crisi climatica, in particolare, alla possibilità che gli investimenti nel settore dei combustibili fossili potrebbero perdere valore man mano che verranno implementate le politiche di mitigazione. Il governo ha poi deciso di transigere la lite, inserendo nelle informazioni relative alle obbligazioni il riconoscimento che il cambiamento climatico costituisce un “rischio sistemico” che può influenzare il valore dei suoi titoli di Stato[14].
Un altro caso molto particolare è quello lanciato da sei azionisti di Volkswagen (i fondi pensione pubblici svedesi AP7, AP2, AP3, AP4, il fondo danese AkademikerPension e la Church of England Pensions) contro la casa automobilistica per essersi rifiutata di inserire all’ordine del giorno e discutere, nel corso dell’assemblea generale annuale, se le sue attività di lobbying per addolcire le conseguenze del cambiamento climatico e gli impegni di decarbonizzazione potessero minacciare il valore delle azioni, essendo in contrasto con le dichiarazioni pubbliche relative all’importanza della transizione verde[15]. Il caso è ancora pendente.
Casi aventi ad oggetto il “greenwashing”
Il “greenwashing” è una strategia di comunicazione o di marketing ingannevole, che mira a presentare come climaticamente o ambientalmente sostenibile una determinata attività, cercando di occultarne il reale impatto negativo. Esistono varie tipologie di casi che rientrano in tale categoria.
La prima riguarda la contestazione degli impegni a raggiungere il livello di emissioni di gas serra nette pari a zero. Un caso celebre è quello lanciato in Australia dalla ONG Australasian Centre for Corporate Responsibility (ACCR) contro la società petrolifera Santos relativamente alle dichiarazioni di fornire gas naturale prodotto da energia pulita e di avere un piano per azzerare le emissioni entro il 2040. Il caso è ancora pendente[16].
Una seconda categoria di casi legati al greenwashing riguarda le presunte caratteristiche di un particolare prodotto, imballaggio o servizio; in particolare, esistono molti casi in cui la società civile ha contestato la caratteristica attribuita dalle aziende ai loro prodotti di essere “climaticamente neutrali” oppure “amici del clima”, dimostrando che non fosse vero che l’intero ciclo di produzione e distribuzione avvenga senza emissioni di gas a effetto serra[17].
Una terza categoria di casi di greenwashing, tipicamente lanciato contro le compagnie di combustibili fossili, riguarda la scelta di occultare le informazioni sui rischi climatici (che alcune aziende hanno scoperto – e poi nascosto – sin dal secondo dopoguerra) o di minimizzare gli impatti del cambiamento climatico. E’ una tipologia di contenzioso particolarmente diffuso negli Stati Uniti: sia alcuni Stati federali, sia diverse municipalità hanno intentato oltre venti cause sostenendo che i giganti del petrolio hanno ingannato il pubblico sui danni climatici causati dai loro prodotti, di cui erano a conoscenza da decenni. La causa intentata dallo Stato della California contro Exxon Mobil, Shell, BP, ConocoPhillips e Chevron nel settembre 2023 è la più recente[18]; lo Stato sostiene che le aziende convenute sapevano fin dagli anni cinquanta che le emissioni di gas serra dei loro prodotti avrebbero provocato il riscaldamento del pianeta, ma invece di allertare il pubblico e cercare di ridurre le proprie emissioni investendo in tecnologie più sostenibili, hanno minimizzato i pericoli e promosso i combustibili fossili come sicuri: “I dirigenti delle compagnie petrolifere e del gas sapevano da decenni che la dipendenza dai combustibili fossili avrebbe causato questi risultati catastrofici, ma hanno soppresso tali informazioni dal pubblico e dai responsabili politici diffondendo attivamente la disinformazione sull'argomento […] Il loro inganno ha causato un ritardo nella risposta della società al riscaldamento globale. E la loro cattiva condotta ha comportato costi enormi per le persone, le proprietà e le risorse naturali, che continuano a manifestarsi ogni giorno”.
Quelli visti sino ad ora sono solo alcuni dei contenziosi climatici esistenti; il fenomeno è destinato ad espandersi sia quantitativamente, sia per tipologie di problematiche sottoposte all’organismo giudiziario o quasi-giudiziario.
In molti casi, i contenziosi hanno avuto un epilogo positivo, costringendo così gli Stati o le imprese convenute a rivedere determinate scelte o determinate condotte rilevanti dal punto di vista delle questioni attinenti al cambiamento climatico.
La possibilità di successo dei contenziosi climatici dipende ovviamente dalle peculiarità degli ordinamenti giuridici nazionali, ma tuttavia è innegabile che una delle caratteristiche del cambiamento climatico è la sua “globalità”, il fatto cioè che esso colpisce tutti e che nessun paese al mondo può dirsi estraneo alla problematica.
Vedremo prossimamente come alcuni organismi sovranazionali stanno trattando l’argomento e quali sono i contenziosi climatici pendenti o già decisi in Italia.
[1] https://climatecasechart.com/
[2] https://www.questionegiustizia.it/articolo/un-bilancio-della-cop-28
[3] https://unfccc.int/files/home/application/pdf/decision1cp21.pdf
[4] https://climate.nasa.gov/vital-signs/carbon-dioxide/?intent=121
[5] https://report.ipcc.ch/ar6syr/pdf/IPCC_AR6_SYR_SPM.pdf
[6] https://wedocs.unep.org/bitstream/handl/20.500.11822/34818/GCLR.pdf?sequence=1&isAllowed=y
[7] https://climatecasechart.com/non-us-case/urgenda-foundation-v-kingdom-of-the-netherlands/
[8] https://www.clientearth.org/redirecting-shell/
[9] https://climatecasechart.com/non-us-case/ashgar-leghari-v-federation-of-pakistan/
[10] https://rwe.climatecase.org/en
[11] https://www.escr-net.org/caselaw/2023/neubauer-et-al-v-germany
[12] https://climatecasechart.com/non-us-case/plan-b-earth-v-secretary-of-state-for-transport/
[13] https://climatecasechart.com/non-us-case/gloucester-resources-limited-v-minister-for-planning/
[14] https://www.reuters.com/business/environment/australia-settles-climate-lawsuit-over-systemic-risks-sovereign-bonds-2023-08-30/
[15] https://www.clientearth.org/latest/press-office/press/investors-turn-to-courts-after-vw-withholds-climate-lobbying-details/
[16] https://climatecasechart.com/non-us-case/australasian-centre-for-corporate-responsibility-v-santos/
[17] https://climatecasechart.com/non-us-case-category/misleading-advertising/
[18] https://www.nytimes.com/2023/09/15/business/california-oil-lawsuit-newsom.html