Magistratura democratica

Accesso alla giustizia e sentenze pilota: il “caso clinico” Burmych

di Francesco De Santis di Nicola e Valentin Retornaz
Le tensioni esistenti tra una lettura di sostanziale negazione del diritto di ricorso individuale e la constatazione dei limiti obiettivi dei poteri della Corte potrebbero comporsi riconoscendo, nella decisione Burmych e altri c. Ucraina (che, nell’autunno 2017, ha cancellato dal ruolo 12.143 ricorsi), una svolta verso una concezione nomofilattica del sindacato europeo – con gli accorgimenti necessari a garantire credibilità al sistema Cedu (tra cui un uso più spregiudicato della procedura di sentenza-pilota).

1. Introduzione

Nella sua celebre pièce teatrale Un caso clinico, Dino Buzzati fa viaggiare il protagonista nei piani di un ospedale fino a che egli non acquisti consapevolezza della propria malattia; tutta la tensione drammatica deriva dal contrasto fra tale graduale presa di coscienza e il crescente senso dell’assurdo che l’accompagna. Senza raggiungere un simile livello di virtuosismo letterario né di tensione drammatica, la decisione adottata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Burmych e altri c. Ucraina[1] procura a chi la legge una esperienza paragonabile... ma fino a un punto: l’esito non è mortale, ma invita, piuttosto, a pensare diversamente al ruolo della Corte di Strasburgo e a riconoscere questa transizione in atto, augurandosi tuttavia che essa sia accompagnata da alcuni accorgimenti.

2. Alle origini del caso Burmych e altri: la violazione del diritto all’esecuzione delle sentenze (e del correlato dovere di adempimento da parte della pubblica amministrazione)…

Prima di entrare nel nostro viaggio psicologico-sperimentale, è importante tracciare il quadro all’interno del quale esso si svolge.

Il caso Burmych s’inscrive nella problematica generale della mancata esecuzione delle sentenze[2]. Secondo la Corte di Strasburgo, il diritto di accesso a un tribunale, implicitamente derivante dal diritto al giusto processo ai sensi dell’art. 6, § 1, Cedu[3], garantisce anche il diritto di ottenere l’esecuzione del provvedimento adottato all’esito del processo, quale imprescindibile condizione di effettività della tutela giurisdizionale[4]. Ove il rapporto credito-debito intercorra con una pubblica amministrazione, dall’art. 6, § 1, Cedu discende, in capo a quest’ultima, essenzialmente l’obbligo di conformarsi ai provvedimenti di condanna ed eseguirli spontaneamente in tempi ragionevoli; nei rapporti inter privatos, il diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia implica, invece, l’obbligo per lo Stato di mettere a disposizione del creditore adeguati mezzi di esecuzione[5]. Il fatto che le autorità nazionali non rispettino i propri obblighi (di risultato o di mezzi) derivanti dal diritto all’esecuzione ex art. 6, § 1, Cedu è già stato oggetto di numerose sentenze europee, riguardanti una pluralità di Paesi[6].

3. (segue) … e la perdurante inesecuzione della sentenza-pilota nel caso Ivanov

In alcuni Paesi, i casi di inesecuzione dei provvedimenti giudiziali si sono rivelati tanto numerosi da indurre la Corte di Strasburgo ad affermare apertamente che essi fossero espressione di un problema sistemico nell’ordinamento considerato.

Talora, siffatte affermazioni sono rimaste confinate alla parte motivazionale della sentenza e non sono state accompagnate dall’indicazione, a opera della Corte, di misure di carattere generale da adottarsi da parte dello Stato in questione. Così è avvenuto, ad esempio, nel caso Cocchiarella[7] e negli altri otto casi riguardanti l’Italia decisi dalla Grande Camera il 29 marzo 2006, nei quali veniva – tra l’altro – in rilievo il pagamento tardivo, da parte dell’amministrazione, dell’«equa riparazione» per durata eccessiva del processo accordata ai sensi della “leggePinto”[8].

In altri casi, invece, la sistematica violazione degli obblighi scaturenti in capo allo Stato dal diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia ha indotto la Corte ad adottare una vera e propria procedura di sentenza-pilota: si tratta di quella procedura – originariamente delineata in via pretoria, ma, ormai, disciplinata dall’art. 61 del Regolamento di procedura della Corte Edu – tramite la quale la Corte decide un ricorso considerato emblematico di un certo problema strutturale, che viene espressamente indicato (sia nella motivazione sia, più brevemente, nel dispositivo della sentenza) unitamente alle misure di carattere generale richieste allo Stato per porvi rimedio[9].

È ciò che si è verificato, nel 2009, con la sentenza Yuriy Nikolayevich Ivanov c. Ucraina[10]. Avendo rilevato l’esistenza di una prassi generale d’inosservanza del diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia ex art. 6, § 1, Cedu – derivante dalla carenza di adeguati stanziamenti per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione e da altre carenze esistenti nell’ordinamento giuridico ucraino[11] – la Corte ha invitato tale Paese a procedere senza indugio (e sotto la vigilanza del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa) ai necessari interventi sulla legislazione e sulla prassi amministrativa, istituendo altresì, entro un anno[12], un rimedio (o un complesso di rimedi) a livello nazionale tale da assicurare (anche in via riparatoria) la tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni di giustizia[13].

Per quanto riguarda la sorte dei ricorsi derivanti dallo stesso problema strutturale, la sentenza-pilota Ivanov prevedeva la sospensione per un anno della trattazione di tutti quelli proposti dopo l’emanazione della stessa[14]. Con riguardo ai ricorsi già pendenti alla data della pronuncia della sentenza-pilota, si annunciava la sospensione della trattazione di tutti quelli già comunicati nonché la comunicazione al Governo di quelli ancora non comunicati: le autorità erano, quindi, invitate ad adottare, entro un anno, misure volte a definire tale contenzioso, vale a dire rimedi in sede nazionale ovvero bonari componimenti davanti alla Corte di Strasburgo[15]. Lo scopo evidente di questi provvedimenti procedurali era di concedere un adeguato lasso di tempo alle autorità, mantenendo al contempo un certo livello di pressione.

La decisione Burmych costituisce l’ultima tappa del percorso intrapreso con la sentenza-pilota Ivanov[16]. Il termine da quest’ultima accordato allo Stato ucraino nel 2009 è stato infatti prorogato, mentre, nelle more, i regolamenti amichevoli o le dichiarazioni unilaterali del Governo ucraino consentivano la radiazione di alcune centinaia di casi “tipo Ivanov”. L’afflusso di ricorsi di tale specie, tuttavia, non si arrestava, sicché al febbraio del 2012 risultavano pendenti, oltre ai 700 casi già comunicati, altri 1.000 casi sopravvenuti dopo la sentenza-pilota[17].

Nel 2012 si è deciso, quindi, di riprendere l’esame dei ricorsi “tipo Ivanov” e con la sentenza Kharuk e altri c. Ucraina, del luglio 2012[18], relativa a 116 ricorsi, la Corte ha nuovamente dichiarato l’avvenuta violazione dell’art. 6, § 1, Cedu a causa della prolungata inesecuzione di sentenze di condanna da parte della pubblica amministrazione.

Degno di segnalazione, ai fini del prosieguo dell’analisi, il capo sulla «satisfaction équitable» ex art. 41 Cedu, contenuto in tale sentenza: dopo aver sottolineato che il suo compito, in quanto alta giurisdizione internazionale, non può essere quello di ristorare in maniera minuziosa ed esaustiva il pregiudizio subito da ciascun ricorrente a seguito della violazione, la Corte ha accordato, a titolo forfettario, 3.000 euro per i ritardi nell’esecuzione superiori a tre anni, 1.500 euro per i ritardi di durata inferiore. D’altra parte, nel corso del 2013, la Corte ha deciso una ulteriore standardizzazione degli indennizzi ex art. 41 Cedu nei casi “tipo Ivanov”: 2.000 euro a titolo di danno patrimoniale, non patrimoniale e spese di procedura, a prescindere dal ritardo nell’adempimento da parte della pubblica amministrazione patito dal ricorrente[19].

Dopo una nuova sospensione della trattazione dei ricorsi analoghi, nel 2014 la Corte di Strasburgo ha comunicato al Governo ucraino, nello stesso tempo, 5.000 ricorsi “tipo Ivanov[20]. Nel frattempo, la trattazione dei casi è ripresa con cadenza “stakanovista”: alla data della decisione Burmych, oltre 14.000 casi “tipo Ivanov” erano già stati trattati, raggruppati e decisi dalla Corte di Strasburgo[21]. Questa spettacolare produttività non è stata, tuttavia, sufficiente per spegnere il fuoco ardente dei nuovi ricorsi, che arrivavano alla Corte con cadenza di 200 al mese[22], sicché, alla data della decisione Burmych, le pendenze di questo tipo ammontavano a oltre 12.000 casi[23].

4. La “soluzione Burmych”: cancellazione dal ruolo di tutti i casi presenti (e futuri) “tipo Ivanov

Nella decisione Burmych, adottata da una maggioranza di dieci giudici sui diciassette che compongono la Grande Camera, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha optato per un approccio radicale alla problematica costituita dalla persistente mancata adozione, da parte dell’Ucraina, di quelle misure di carattere generale richieste dalla sentenza-pilota Ivanov:si è disposta la cancellazione dal ruolo di tutti casi “tipo Ivanov” pendenti – vuoi di quelli già comunicati vuoi di quelli non ancora comunicati – per un totale di 12.143 ricorsi[24]. Sempre nella decisione Burmych, la Grande Camera ha annunciato che analogamente si provvederà con riguardo ai ricorsi “tipo Ivanov” che dovessero essere proposti in futuro[25]

Giova ricordare, in proposito, come a norma dell’articolo 37, § 1, Cedu, la Corte possa disporre la cancellazione dal ruolo di un ricorso in tre ipotesi differenti. In primo luogo, ciò è possibile quando «il ricorrente non intende più mantener[e il ricorso[26], il che si può evincere, ad esempio, dalla circostanza che egli non abbia depositato tempestivamente le memorie in replica alle osservazioni del Governo, durante l’istruzione del caso[27]. In secondo luogo, si può cancellare il ricorso se «la controversia è stata risolta»[28], per esempio con il riconoscimento dello status di rifugiato a opera del Paese convenuto in un caso in cui la ricorrente lamentava di essere a rischio di espulsione[29]. Infine – ed è l’ipotesi che più direttamente ci interessa – la cancellazione può essere disposta quando, «per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l’esistenza, la prosecuzione dell’esame del ricorso non sia più giustificata»[30]. Questa ultima fattispecie è stata posta alla base di vari casi di radiazione in cui poteva essere rimproverata al ricorrente una qualche forma di marcata negligenza, anche se egli non avesse perso l’interesse all’esame delle sue doglianze. In particolare, la Corte fa diffusamente uso di tale fattispecie di radiazione laddove il ricorrente non accetti una ragionevole proposta conciliativa avanzata dal Governo e quest’ultimo faccia seguire alla proposta conciliativa una dichiarazione unilaterale, contenente il riconoscimento della violazione e la promessa di un’adeguata riparazione[31]: la cancellazione del ricorso dal ruolo serve, quindi, a superare una situazione di stallo imputabile al ricorrente.

Con la decisione Burmych, contrariamente a quanto appena rilevato, la Grande Camera ammette, per la prima volta, che la radiazione dal ruolo ai sensi dell’art. 37, § 1, lett. c), Cedu possa essere disposta anche quando la situazione di stallo (non nell’esame del singolo ricorso, ma nella complessiva economia dell’attività della Corte di Strasburgo) sia la conseguenza della condotta dello Stato, reo di non aver adottato le misure generali e i rimedi “ordinati” dalla Corte in una precedente (e, invero, risalente) sentenza-pilota[32].

La summa della motivazione di tale soluzione si condensa nel § 218 della decisione, ove la Grande Camera richiama sia «la minaccia generale che il fenomeno dei ricorsi ripetitivi fa pesare sul buon funzionamento del sistema della Convenzione», sia «l’importanza crescente accordata alla responsabilità condivisa e al principio di sussidiarietà»[33]. Tali aspetti sono ampiamente sviscerati nei lunghi passaggi argomentativi offerti dalla Grande Camera prima di tali conclusive statuizioni.

Ribadendo, in molti luoghi della motivazione, il numero astronomico dei ricorsi “tipo Ivanov” ancora pendenti[34] – e ciò malgrado gli sforzi messi in atto a Strasburgo per lo smaltimento di tale contenzioso[35] – la Grande Camera afferma, infatti, che il ruolo della Corte, delineato dagli artt. 19 e 32 Cedu, non è quello di trattare quei ricorsi ripetitivi che, dopo l’emanazione della sentenza-pilota, hanno ormai come scopo il solo versamento di una compensazione finanziaria[36]. La trattazione di tutti i ricorsi registrati dopo la sentenza-pilota Ivanov non contribuirebbe a migliorare il rispetto dei diritti umani nel sistema creato dalla Convenzione[37].

Invero, continua la Grande Camera, i ricorsi “tipo Ivanov” devono essere considerati (più che dei ricorsi individuali meritevoli di trattazione nel merito) come le mere conseguenze dell’inesecuzione persistente della sentenza-pilota Ivanov da parte dell’Ucraina. Ebbene: il compito di vigilare alla corretta esecuzione della sentenza-pilota Ivanov non appartiene alla Corte, bensì a una altra istituzione del Consiglio di Europa, vale a dire al Comitato dei ministri[38].

In altre parole, se la procedura di sentenza pilota ha come scopo quello di evitare l’accumulazione di ricorsi derivanti dal medesimo problema strutturale davanti alla Corte europea, e ciò per il tramite di rimedi effettivi a livello nazionale, tale obiettivo non può essere realizzato ove la Corte continui a trattare e decidere nel merito la medesima tipologia di ricorsi, sottraendo peraltro risorse alla trattazione di altri ricorsi… più meritevoli di esame individualizzato[39]. Del resto, osserva la Grande Camera, «gli interessi dei ricorrenti e quelli delle altre vittime attuali o potenziali del problema sistemico in questione sono più adeguatamente protetti nel quadro della procedura di esecuzione» della sentenza-pilota Ivanov, sotto la supervisione del Comitato dei ministri[40].

La decisione Burmych, anche grazie all’ampia opinione dissenziente che vi è annessa[41], può essere affrontata da tre angolature diverse, che rappresentano anche un percorso dialettico nella riflessione. Il primo stadio è considerere questa decisione come una mera capitolazione davanti alla persistente inesecuzione della sentenza-pilota Ivanov, che sottende alla sostanziale negazione del diritto di ricorso individuale. A questa visione assai pessimistica potrebbe contrapporsi una rilettura realistica, che prenda atto dei limiti obiettivi dei poteri della Corte e della concreta ripartizione delle competenze all’interno del sistema di tutela dei diritti dell’uomo delineato dalla Convenzione. Finalmente, la tensione fra l’approccio critico e l’obiezione realistica (o, se si vuole: fra sentimento soggettivo e razionalismo pragmatico) si potrebbe dissolvere, nel senso di una Aufhebung hegeliana, con l’introduzione di una concezione nomofilattica del sindacato europeo e con l’indicazione di taluni correttivi affinché si possano garantire effettività e, in ultimo, credibilità al sistema.

5. Capitolazione (ovvero della negazione del diritto di ricorso individuale)

Come si è visto nel paragrafo precedente, tutta la decisione Burmych è contraddistinta dai dati statistici sui ricorsi dello stesso tipo già definiti e su quelli simili ancora pendenti. La Corte di Strasburgo sottolinea che, visto il loro numero, essa non sarebbe in grado, per mere ragioni di economia del sistema, di investire le risorse sufficienti né per emanare una sentenza per ciascuno di essi né per riservare a ciascuno di essi un trattamento individualizzato[42].

Argomentazioni di questo tenore possono dare l’impressione che la Corte capitoli di fronte al numero dei casi. In altre parole, se una violazione del diritto convenzionale è reiterata a grande livello, sono gli individui, e non gli Stati, a dover subire le conseguenze della scarsità delle risorse che essi stessi hanno messo a disposizione della Corte[43]. Pertanto, la sensazione lasciata dalla decisione Burmych è che la massa dei ricorrenti, indirizzati a Strasburgo dalla persistenza di un problema strutturale in un dato ordinamento, venga quasi percepita «come un peso» che «impedisce alla Corte di trattare “questioni nuove e gravi di osservanza della Convenzione”»[44], donde l’opportunità di alleggerirsi da tale peso con una mera cancellazione dal ruolo, senza che i ricorrenti siano mai stati avvertiti di siffatta eventualità[45].

Sempre sotto il profilo della politica giudiziaria, si potrebbe, poi, osservare come tale esito non promuova il rispetto degli impegni assunti dagli Stati con la loro adesione alla Cedu. È, infatti, persino immaginabile che, a fronte di una violazione sistematica della Convenzione, uno Stato membro possa decidere cinicamente di non fare nulla per risolvere il problema, lasciando quindi proliferare i ricorsi a Strasburgo… fino a che la Corte Edu, richiamandosi alla decisione Burmych, non si rassegni a cancellarli dal ruolo[46].

Peraltro, non si può tacere come – nella sua costante giurisprudenza in tema di giusto processo e, soprattutto, di «délai raisonnable» ai sensi dell’art. 6, § 1, Cedu – la Corte di Strasburgo abbia sempre ribadito che gli Stati non possono invocare la scarsità delle risorse giudiziarie[47] o il numero di casi pendenti[48] per giustificare le loro manchevolezze. Il fatto che questi principi finiscano per non venire applicati con riguardo al diritto di accesso alla Corte Edu (e a una decisione giudiziale sul ricorso proposto) finisce per gettare un’ombra sulla legittimità della surriferita (e rigorosa) giurisprudenza: fate quel che vi dico, ma non quel che faccio...

Su un piano più strettamente giuridico, l’interpretazione dell’art. 37, § 1, lett. (c), Cedu, adottata dalla decisione Burmych per addivenire alla cancellazione dal ruolo dei ricorsi ripetitivi “tipo Ivanov”, pare non pienamente coerente con la competenza dei Comitati di tre giudici, quale delineata dall’art. 28, § 1, lett. (b), Cedu, laddove si prevede che questa formazione giudicante può pronunciarsi, all’unanimità, sulla ricevibilità e sul merito del ricorso «quando la questione relativa all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione (…) all’origine della causa è oggetto di una giurisprudenza consolidata della Corte». Invero, nella prospettiva dei redattori del Protocollo n. 14, tale innovazione serviva per l’appunto a snellire la definizione dei ricorsi ripetitivi[49] dei quali, invece, nell’ottica della decisione Burmych, la Corte non dovrebbe proprio occuparsi.

Infine, non è agevole intendere l’esatto significato della trasmissione al Comitato dei ministri dei ricorsi ripetitivi “tipo Ivanov”, della quale discorre la decisione Burmych. Nella prospettiva critica dell’opinione dissenziente, il Comitato dei ministri sarebbe, in sostanza, chiamato dalla Corte a effettuare una qualche forma di esame individualizzato di questi ricorsi, seppure nell’ambito della procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza-pilota Ivanov. Si tornerebbe così, di fatto, al sistema duale Corte-Comitato, con la correlata potestas iudicandi di un organo politico, che è stato soppresso dal Protocollo n. 11[50].

Tuttavia, a tale interpretazione si potrebbe opporre che, de iure condito, il Comitato dei ministri ha il potere di supervisionare l’esecuzione delle «sentenze definitive» della Corte (art. 46, § 2, Cedu) nonché – ai sensi dell’art. 39, § 4, Cedu – delle decisioni di cancellazione del ricorso dal ruolo avvenute a seguito di un regolamento amichevole, mentre la decisione Burmych reca una radiazione ex 37, § 1, lett. (c), Cedu: sembra, insomma, mancare la base giuridica in forza della quale il Comitato possa conoscere degli oltre 12.000 ricorsi oggetto della decisione Burmych.

Sta di fatto che, con un comunicato pubblicato sul proprio sito web in data 9 novembre 2017[51], il Servizio esecuzione delle sentenze della Corte Edu[52] avvertiva che dei ricorsi oggetto della decisione Burmych, nonché dei ricorsi futuri analoghi, si sarebbero occupate «le autorità nazionali nell’ambito delle misure generali richieste dalla sentenza-pilota Ivanov»: i ricorrenti erano, quindi, invitati a «rivolgersi alle autorità nazionali» (in particolare l’agente del Governo ucraino e il Ministero della giustizia). Il Servizio esecuzione, concludeva il comunicato, non avrebbe dato seguito ad alcuna comunicazione relativa ai ricorsi in discorso.

6. Realismo (ovvero: della scarsità dei mezzi a disposizione della Corte di Strasburgo e del principio di sussidiarietà)

La decisione adottata nel caso Burmych può anche essere spiegata come una manifestazione di realismo a opera della Corte.

Come pure ha riconosciuto la dottrina critica rispetto alla pronuncia della Grande Camera qui in analisi[53], già la prassi attuale – quale si è andata consolidando, soprattutto, a far tempo dall’entrata in vigore del Protocollo n. 14 – conosce più o meno larvate restrizioni del diritto di ricorso individuale ex art. 34 Cedu, sia nella prospettiva dell’accesso alla Corte da parte della vittima della violazione, sia nella prospettiva dell’esame individualizzato del ricorso e della riparazione del torto subìto. Si pensi, ad esempio, al tasso di formalismo inserito nell’art. 47 del Regolamento di procedura (e alla conseguente sanzione di inesistenza del ricorso che non rispetti i requisiti indicati da tale disposizione), al rapidissimo filtraggio dei ricorsi a opera della Cancelleria, alla definizione di una elevatissima percentuale di questi con decisioni dalla motivazione solo parzialmente accessibile al ricorrente, all’adozione di procedure rapide e standardizzate che conducono a pronunce altrettanto standardizzate nella prassi dei Comitati, alla frequente scelta della Corte di non accordare alcune somma a titolo di equa soddisfazione ovvero di liquidare somme a titolo forfettario. Questa è la risposta che, con i mezzi a disposizione, la Corte riesce a offrire con riguardo alla gran parte del contenzioso di cui è investita[54].

A tale evidenza fattuale recata dal recente processo di riforma se ne aggiunge un’altra, insita nel sistema sin dalle sue origini: la giurisdizione di Strasburgo non è una vera “Corte suprema” europea, nel senso che essa non dispone dei poteri di cassazione e di ingiunzione che esistono al livello nazionale. Il suo sindacato principale verte sull’esistenza di una violazione della Convenzione o dei Protocolli addizionali. Gli Stati membri del Consiglio d’Europa sono liberi, in linea di principio, di scegliere il modo concreto di esecuzione delle sentenze della Corte[55]. Certo, la Corte talora indica quale sarebbe la maniera a suo giudizio più adeguata per eseguire la sua sentenza[56]; eppure, tale indicazione ha, a livello nazionale, l’effetto che l’ordinamento interno “concede”.

A fronte del fallimento della procedura di sentenza-pilota – ché di questo si tratta nella saga Ivanov-Burmych – la Corte non ha altro potere se non quello di constatare sine die la medesima violazione derivante dal medesimo problema strutturale. E allora, visti i poteri limitati della Corte per quanto riguarda l’esecuzione delle proprie sentenze, la soluzione adottata nella decisione Burmych – che era stata in parte preconizzata, ormai dieci anni orsono, dall’allora cancelliere Erik Fribergh[57] – può sembrare, se non soddisfacente, quantomeno logica: se alla base vi è un problema di esecuzione (della sentenza-pilota Ivanov), tanto vale investire di esso direttamente il Comitato dei ministri, cioè l’organo che, nel sistema della Convenzione, ha specifica competenza per vigilare sull’esecuzione delle sentenze della Corte, invece di emanare una sentenza (o più sentenze) succintamente motivate su tutti i ricorsi derivanti dal problema strutturale già segnalato nella sentenza-pilota, aspettando poi che il Comitato dei ministri ne vigili l’esecuzione. Con la decisione Burmych si chiede, in altre parole, al Comitato di continuare a occuparsi del problema (nella specie: la problematica dell’inesecuzione delle decisioni di giustizia in Ucraina) e di occuparsi, altresì, delle sue perduranti conseguenze (vale a dire: i casi ripetitivi “tipo Ivanov”).

Vero è che, nelle more del processo di esecuzione della sentenza-pilota Ivanov, l’effetto pratico immediato della decisione Burmych è stato quello di “reindirizzare” oltre 12.000 ricorrenti verso quelle stesse autorità nazionali cui va imputato il persistente problema strutturale all’origine della saga di cui si discorre. Tuttavia, è altresì vero che, nel sistema della Convenzione, la tutela dei diritti umani non può aversi se non per il tramite della cooperazione delle autorità nazionali: è questo il senso del principio di sussidiarietà e della responsabilité partagée riaffermata – prima ancora che dalla Corte nella decisione Burmych – dagli Stati membri nella Dichiarazione di Bruxelles!

7. Conclusione: verso una concezione nomofilattica del sindacato europeo (e un uso più spregiudicato della sentenza-pilota)?

Le due analisi della decisione Burmych che abbiamo presentato nei due paragrafi precedenti – in sintesi: un approccio rigoroso o, se si preferisce, pessimista contrapposto a un approccio realistico o, se si preferisce, cinico – si trovano in un rapporto di tensione dialettica. La scelta fra loro dipende, con tutta probabilità, anche dal punto di vista che si voglia prediligere per quanto riguarda la tutela dei diritti umani in Europa[58]. Se, in proposito, si dà più importanza al diritto di accesso alla Corte di Strasburgo ex art. 34 Cedu e, dunque, alla realizzazione soggettiva del diritto, la decisione Burmych costituisce un criticabile passo indietro; una concezione meno centrata sulla singola vittima della violazione e più attenta all’economia globale del sistema – tra livello nazionale e livello sovranazionale di tutela – può meglio accettare questa soluzione. Come abbiamo indicato nell’introduzione, a noi pare doveroso tentare di superare questa contrapposizione. Per fare ciò, è importante soffermarsi sul tipo di obbligazioni scaturenti in capo agli Stati firmatari dalla Convenzione stessa.

Nella rubrica dell’art. 1 Cedu si menziona un «Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo». Non si tratta di un impegno meramente programmatico. Gli Stati debbono dare attuazione alle sue disposizioni e, così, inverare i diritti umani da essa garantiti all’interno dei loro ordinamenti giuridici anche prima dell’emanazione di una sentenza di condanna. L’obbligo di rispettare la Convenzione non si esaurisce nell’esecuzione delle sentenze emanate. La Corte di Strasburgo ha già avuto occasione di sottolineare la necessità che gli Stati adottino un approccio preventivo per quanto riguarda potenziali violazioni della Convenzione[59], sicché si può discorrere di un vero dovere di vigilanza[60].

Il perfetto adempimento di questo impegno dovrebbe avere, idealmente, come conseguenza che la Corte europea dei diritti dell’uomo sia chiamata a occuparsi delle sole controversie relative all’esatta interpretazione della Convenzione e, quindi, della delimitazione degli obblighi da essa scaturenti in capo agli Stati. Il sindacato dalla Corte evolverebbe, allora, decisamente in senso puramente nomofilattico: essa sarebbe chiamata a emanare poche sentenze volte a stabilire l’interpretazione della Convenzione e la sua applicazione in una fattispecie generale, mentre le autorità nazionali garantirebbero spontaneamente il loro seguito sotto la supervisione del Comitato dei ministri.

Questa concezione nomofilattica o, se si vuole, “costituzionale”[61] del ruolo della Corte – che risulta chiaramente contestata dalla decisione Burmych[62]– presenta due punti deboli, ai quali, nell’economia del presente lavoro, si può solo dedicare qualche fugace cenno.

Il primo sta a monte: se la vittima della violazione – che, ad oggi, è essenzialmente il solo soggetto legittimato al ricorso individuale ex art. 34 Cedu – non è sicura di poter ottenere tutela a Strasburgo, essa sarà sempre più scoraggiata e, in un crescente numero di casi, rinuncerà ad adire la Corte… che verrebbe così privata della principale fonte della sua attività giudiziale[63]. A meno che non si voglia scommettere tutto sul rinvio pregiudiziale di cui al Protocollo n. 16 oppure aprire il novero dei legittimati a enti esponenziali di interessi diffusi, si dovrà continuare a lasciare un qualche spazio alla giustizia individuale anche nel prevalere della funzione astrattamente nomofilattica.

Il secondo problema sta a valle. Lo scenario idilliaco di generale e spontaneo adempimento della Convenzione a opera degli Stati membri non costituisce la regola, financo qualora la Corte abbia fatto già ricorso alla sentenza-pilota o a simili strumenti a sua disposizione per individuare gli obblighi convenzionali rilevanti nel caso di specie e aiutare lo Stato a rispettarli. Ciò è manifesto nel caso Burmych:malgrado le proroghe, lo Stato ucraino non ha eseguito la sentenza-pilota Ivanov;se lo avesse fatto, sarebbe stato in grado di adottare tutte le misure richieste per liquidare i casi successivi “tipo Ivanov” a esso comunicati. Occorre, allora, riflettere sulle vie per rafforzare l’adempimento spontaneo delle obbligazioni convenzionali e il potere di pressione del Comitato dei ministri.

Una migliore messa a punto della soluzione Burmych non è estranea alla soluzione di entrambi gli accennati problemi.

A tale specifico proposito, giova ricordare come la procedura di sentenza-pilota sia stata da tempo accostata, in dottrina, a una peculiare forma di class action statunitense in materia di violazione dei diritti umani[64]. Nel diritto statunitense[65], uno degli scopi della class action è quello di gestire con efficienza un’importante mole di contenzioso, anche nel settore della tutela dei diritti umani[66], come si verificò, ad esempio, dopo il crollo della dittatura di Ferdinand Marcos nelle Filippine[67] o durante la guerra della ex-Yugoslavia[68]. Lo scopo della class action è, precisamente, evitare l’accumulazione delle cause pendenti, decidendo con una singola sentenza – relativa a un caso ritenuto adeguatamente rappresentativo della “classe” – un numero potenzialmente illimitato di casi simili, pendenti o potenziali[69].

Lo stesso scopo è perseguito dalla decisione Burmych, a valle della sentenza-pilota Ivanov, con la cancellazione dal ruolo ex art. 37, § 1, lett. (c) Cedu dei casi “tipo Ivanov” già pendenti.La principale differenza – a prescindere dalla possibilità di liquidare punitive damages da parte delle corti nordamericane – sta, allora, nella circostanza che nelle class actions la sentenza principale contiene indicazioni, più o meno generali, sul trattamento dei casi successivi. Per esempio, nel caso della dittatura di Marcos, la sentenza designava un commissario straordinario (special master) incaricato della liquidazione dei danni da effettuarsi utilizzando i beni della successione del defunto dittatore[70].

Niente di similare si riscontra nella decisione Burmych. La base giuridica della radiazione, come si è visto, rende dubbio il tipo di coinvolgimento del Comitato dei ministri nella trattazione dei casi “tipo Ivanov”, né la Corte precisa alcunché circa il trattamento che a essi il Comitato dovrebbe riservare. Considerando che la decisione Burmych costituisce una vera novità, questa situazione comporta una zona d’ombra molto estesa.

Si potrebbe, allora, immaginare che – se non già all’atto dell’emanazione della sentenza-pilota, quantomeno, nel momento in cui si palesi l’inadempimento dello Stato agli obblighi da essa scaturenti – la Corte, pronunciandosi su pochi test-case adeguatamente rappresentativi della classe, indichi i criteri per la determinazione dell’indennizzo dovuto a ciascuna vittima della medesima violazione strutturale[71] e, solo a quel punto, trasferisca al Comitato dei ministri i casi ripetitivi derivanti dal medesimo problema strutturale identificato nella sentenza-pilota. In tal modo, la base giuridica del coinvolgimento del Comitato dei ministri sarebbe costituita da una sentenza di violazione, fonte – per il governo convenuto – di una chiara obbligazione indennitaria a favore di ciascuno dei membri della classe[72]. Se, poi, l’efficacia di simile sentenza di violazione possa riguardare non solo coloro che abbiano proposto o propongano ricorso alla Corte Edu, ma anche tutte le vittime potenziali – che, a quel punto, si rivolgerebbero per la prima volta al solo Comitato dei ministri, facendo valere la loro “appartenenza alla classe” –, è problema che non può essere qui analizzato[73].

Certo, fino a che il Comitato dei ministri (rectius: il Servizio esecuzione) non sia adeguatamente attrezzato[74] per svolgere il ruolo di special master, la soluzione qui immaginata finirebbe per richiedere, in ultima istanza, il diretto coinvolgimento delle autorità nazionali, che dovrebbero assicurare in prima persona la gestione della fase indennitaria. E tuttavia, già allo stato dell’arte, simile soluzione parrebbe preferibile – in quanto meno radicale e più… “digeribile” per i ricorrenti – di quella che ha riguardato la Sig.ra Burmych e le altre 12.142 vittime di violazioni “tipo Ivanov”, i cui ricorsi sono stati cancellati dal ruolo della Corte.

[1] Corte Edu, Burmych e altri c. Ucraina [GC], ricc. nn. 46852/13 e altri 4, 12 ottobre 2017 [GC]. Ad essa si farà riferimento nel testo denominandola, più brevemente, “decisione Burmych”.

[2] Sul punto, anche per ulteriori riferimenti in dottrina e giurisprudenza, si veda I. Cabral Barreto, L’article 6 de la Convention et la procédure d’exécution, in P. Mahoney – F. Matscher – H. Petzold – L. Wildhaber (a cura di), Mélanges à la mémoire de/Studies in memory of Rolv Ryssdal, Carla Heymanns, Colonia, 2000, pp. 135 ss. ; J. Van Compernolle, L’effectivité d’une nouvelle garantie du procès équitable: le droit à l’exécution du jugement, in Aa.Vv., Studi di diritto processuale civile in onore di Giuseppe Tarzia, vol. I,  Giuffrè, Milano, 2005, pp. 653 ss.; si vis, F. De Santis di Nicola, Ragionevole durata del processo e rimedio effettivo, Jovene, Napoli, 2013, pp. 131 ss.

[3] Vds. Corte Edu, Golder c. Regno Unito [plenaria], ric. n. 4451/70, 21 febbraio 1975, par. 40.

[4] La prima affermazione di tale principio è contenuta in Corte Edu, Hornsby c. Grecia [GC], ric. n. 18357/91, 19 marzo 1997, parr. 40-41.

[5] Per l’articolazione di questi due diversi obblighi (l’uno di risultato, laddove lo Stato sia esso stesso il debitore, l’altro di mezzi, qualora il titolo esecutivo veda un privato come debitore) vedasi, tra le più recenti, Corte Edu, Jovičić e altri c. Serbia, ric. n. 37270/11, 13 gennaio 2015, parr. 35-36.

[6] Vds., ad esempio: Corte Edu, C.M. c. Belgio, ric. n. 67957/12, 13 marzo 2018, par. 55; García Mateos c. Spagna, ric. n. 38285/09, 19 febbraio 2013, par. 42; Valentin Dumitrescu c. Romania, ric. n. 36820/02, 1° aprile 2008, par. 41; Apostol c. Georgia, ric. n. 40765/02, 28 novembre 2006, par. 54; Metaxas c. Grecia, ric. n. 8415/02, 27 maggio 2004, par. 25; Sanglier c. Francia, ric. n. 50342/99, 27 maggio 2003, par. 39; Burdov c. Russia, ric. n. 59498/00, 7 maggio 2002, par. 34; Immobiliare Saffi c. Italia [GC], ric. n. 22774/93, 28 luglio 1999, par. 63.

[7] Corte Edu, Cocchiarella c. Italia [GC], ric. n. 64886/01, 29 marzo 2006, parr. 124-130.

[8] Su tale specifica problematica, cfr. F. De Santis di Nicola, Ragionevole durata del processo, op. cit., pp. 76 ss.; Id., Dai ritardi dell’Amministrazione nel pagamento degli indennizzi Pinto alla (perniciosa) unitarietà dei processi di cognizione e di esecuzione, in Corr. giur., 2015, pp. 1414 ss.

[9] Sulla procedura di sentenza pilota (e sulle sentenze “quasi-pilota”, a cui pure si è fatto cenno nel testo), cfr. F. Palombino, La «procedura di sentenza pilota» nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in Riv. dir. int. priv. proc., 2008, pp. 93 ss.; G. Repetto, L’effetto di vincolo delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo nel diritto interno: dalla riserva di bilanciamento al ‘doppio binario’, in Dir. pubbl., 2014, spec. pp. 1091 ss.; L.R. Glas, The functioning of the Pilot-Judgment procedure of the European Court of Human Rights in Practice, in Netherland quarterly of human rights, 2016, pp. 41 ss.

[10] Yuriy Nikolayevich Ivanov c. Ucraina, ric. n. 40450/04, 15 ottobre 2009. Ad essa si farà riferimento nel testo denominandola, più brevemente, “sentenza-pilota Ivanov”.

[11] Yuriy Nikolayevich Ivanov,cit., parr. 83-88. Le violazioni derivanti da questo problema e già constatate a Strasburgo ammontavano, al tempo della sentenza-pilota, a 300; altri 1.400 casi analoghi erano pendenti davanti alla Corte al tempo dell’emanazione della sentenza-pilota.

[12] A far tempo dalla data in cui essa sarebbe divenuta definitiva ex art. 44 Cedu.

[13] Yuriy Nikolayevich Ivanov, cit., parr. 89-94.

[14] Yuriy Nikolayevich Ivanov, cit. par. 95.

[15] Yuriy Nikolayevich Ivanov, cit., parr. 98-99.

[16] Analiticamente descritto dalla decisione Burmych e altri, cit., parr. 11-44.

[17] Burmych e altri, cit., parr. 19-23.

[18] Kharuk ed altri c. Ucraina, ricorso n. 703/05, 26 luglio 2012, resa da un comitato di tre giudici (ex art. 28 Cedu).

[19] Tale evoluzione è stata annunciata dalla sentenza Kononova e altri c. Ucraina [comitato], ricc. nn. 11770/03 e altri 89, 6 giugno 2013, parr. 23-24, a conclusione dei quali paragrafi si legge: «The Court considers that still further standardisation of awards in these cases is called for, and intends, in future judgments dealing with standard non-enforcement complaints against Ukraine, to award a single lump sum to each applicant, regardless of the non-enforcement period involved». Per la liquidazione della «lump sum»indicata nel testo, cfr., ad esempio, Pysarskyy e altri c. Ucraina, ricc. n. 20397/07 e altri 164, 20 giugno 2013 [comitato], parr. 24-25.

[20] Burmych e altri, cit., par. 37.

[21] Burmych e altri, cit., par. 43.

[22] Burmych e altri, cit., par. 44.

[23] Burmych e altri, cit., par. 43.

[24] Burmych e altri, cit., parr. 219-220 e punto 4 del dispositivo.

[25] Burmych e altri, cit., parr. 221-222. Allo stato, non si registrano ancora provvedimenti di questo tipo. Tuttavia, successivamente alla decisione Burmych, la Corte ha deciso la radiazione dal ruolo delle doglianze “tipo Ivanov” all’interno di ricorsi, proposti prima dell’ottobre 2017, contenenti altre doglianze di tipo diverso: cfr., ad esempio, Morozov e altri c. Ucraina [comitato], ric. n. 2318/07 e altri 3, 8 marzo 2018, in specie parr. 15-16. 

[26] Art. 37, § 1, lett. (a), Cedu.

[27] Per un esempio recente: Severino c. Italia, ric. n. 52467/14, 15 maggio 2018.

[28] Art. 37, § 1, lett. (b), Cedu.

[29] Ali e altri c. Svizzera, ric. n. 30474/14, 4 ottobre 2016.

[30] Art. 37, § 1, lett. (c), Cedu.

[31] Per un esempio recente, cfr. Farchica c. Italia, ric. n. 39600/13, 28 marzo 2017. Si veda, altresì, l’art. 62A del Regolamento di procedura della Corte.

[32] Invero, una decisione analoga era già stata adottata in Pantusheva e altri c. Bulgaria, ricc. n. 40047/04 e altri, 5 luglio 2011, ma le circostanze sottese a tale decisione paiono diverse da quelle della “saga Ivanov-Burmych”; ad ogni buon conto, la decisione Pantusheva non è richiamata dalla decisione Burmych.

[33] Aspetti, questi, messi in evidenza con diversi accenti sia dalla Dichiarazione di Brighton del 18-20 aprile 2012 sia dalla Dichiarazione di Bruxelles del 26‑27 marzo 2015, adottate nell’ambito delle conferenze di alto livello in cui si snoda il processo di riforma del sistema Cedu a far tempo dal vertice di Interlaken (www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=basictexts/reform&c).

[34] Burmych e altri, cit., parr. 147, 150 e 168.

[35] Burmych e altri, cit., par. 3.

[36] Burmych e altri, cit., par. 181.

[37] Burmych e altri, cit., par. 174.

[38] Burmych e altri, cit., parr. 194-196.

[39] Burmych e altri, cit., par. 201.

[40] Burmych e altri, cit., par. 202.

[41] Comune ai giudici Yudkivska, Sajó, Bianku, Karakaş, De Gaetano, Laffranque e Motoc.

[42] Burmych e altri, cit., par. 174.

[43] Osservano a tal proposito i giudici dissenzienti, par. 9: « Nous trouvons particulièrement troublant que cette négation du droit de recours individuel et du droit à un arrêt ou une décision basés sur une appréciation au cas par cas, droits accordés par la Convention, ait été motivée par les raisons bureaucratiques consistant à alléger la charge de la Cour”».

[44] Cfr. C. Madelaine, La Cour européenne des droits de l’homme, une «Cour constitutionnelle protectrice des individus»?, in Aa. Vv., Les droits de l’homme à la croisée des droits. Mélanges en l’honneur de Frédéric Sudre, LexisNexis, Parigi, 2018,p. 421.

[45] Per tale notazione critica, cfr. la già richiamata opinione dissenziente annessa alla decisione Burmych, par. 12.

[46] Per un simile rilievo critico, cfr. C. Madelaine, op. cit., p. 422.

[47] Moreira de Azevdo c. Portogallo, ric. n. 11296/84, 23 ottobre 1990, §§ 73-75.

[48] Vocaturo c. Italia, ric. n. 11891/85, 24 maggio 1991, § 17.

[49] Cfr. il par. 40 del Rapporto esplicativo al Protocollo n. 14, richiamato dall’opinione dissenziente, par. 24.

[50] Cfr., in particolare, i parr. 13 e 15 dell’opinione dissenziente.

[51] Reperibile online all’indirizzo: www.coe.int/en/web/execution/-/burmych-and-others-v-ukraine.

[52] Vale a dire, il servizio giuridico del Consiglio d’Europa che coadiuva il Comitato nell’adempimento delle sue funzioni ex art. 46 Cedu.

[53] Cfr. C. Madelaine, op. cit., pp. 419 ss.

[54] Per una più distesa riflessione cfr., si vis, F. De Santis di Nicola, Délai raisonnabledel processo innanzi alle Corti di Lussemburgo e Strasburgo: tutela rimediale, efficienza e qualità della giustizia, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2017, spec. pp. 100 ss. (www.questionegiustizia.it/rivista/2017/1/delai-raisonnable-del-processo-innanzi-alle-corti-_420.php).

[55] Cfr., ad esempio, Sejdovic c. Italia [GC], ric. n. 56581/00, 1° marzo 2006, par. 119; Scozzari e Giunta c. Italia [GC], ricc. nn. 39221/98 e 41963/98, 13 luglio 2000, par. 249.

[56] Per un esempio recente: Simeonovi c. Bulgaria, ric. n. 21980/04, 12 maggio 2017, parr. 146-151.

[57] Cfr. E. Fribergh, Pilot judgments from the Court’s perspective, in Aa. Vv., Towards stronger implementation of the European Convention on Human Rights at national level, atti del convegno organizzato sotto la presidenza svedese del Consiglio d’Europa (Stoccolma, 9-10 giugno 2008), pubblicazione a cura del Consiglio d’Europa, Strasburgo, 2008, pp. 92 ss. (https://rm.coe.int/applying-and-supervising-the-echr-towards-stronger-implementation-of-t/1680695ac3).

[58] Cfr. L. Burgorgue-Larsen, Actualité de la convention européenne des droits de l’homme (août-décembre 2017), in Actualité juridique de droit administratif, n. 3/2018, p. 152, discorrendo di un «difficile équilibre».

[59] Cfr. Hutten-Czapska c. Polonia [GC], ric. n. 35014/97, 19 giugno 2006, par. 217: «sachant que l’article 1 de la Convention impose aux Etats l’obligation de reconnaître “à toute personne relevant de leur juridiction les droits et libertés définis (...) [dans la] Convention” et vu le contexte général de l’affaire […], la Cour considère qu’une telle solution pratique, appliquée par les autorités à l’égard d’un requérant donné dans une affaire où la question centrale qui se pose sous l’angle de la Convention a trait au fonctionnement d’un dispositif législatif affectant potentiellement les droits d’un grand nombre de personnes, ne la dispense pas de rechercher si le problème général sous-jacent à la situation dénoncée a été réglé et si la cause de la violation des droits d’autres personnes a été supprimée».

[60] Questa nozione, già conosciuta nel diritto internazionale generale dopo la famosa “Sentenza dell’Alabama” (cfr. A. Ouedraogo, La due diligence en droit international: de la règle de neutralité au principe général, in Revue générale de droit, n. 2/2012, pp. 641 ss.), ha trovato nel campo dei diritti dell’uomo una risonanza particolare ; cfr. lo studio magistrale di H. Tran, Les obligations de vigilance des Etats parties à la Convention européenne des droits de l’homme – Essai sur la transposition en droit européen des droits de l’homme d’un concept de droit international général, Bruylant, Bruxelles, 2013, passim; si veda, altresì, S. Touzé, La notion de prévention en droit international des droits de l’homme, in E. Decaux e S. Touzé (a cura di) La prévention des violations des droits de l’homme, Pedone, Paris, 2015, pp. 20 ss.

[61] Cfr., per tutti, L. Wildhaber, A constitutional future for the European Court of Human Rights?, in Human rights law journal, nn. 5-7/2002, pp. 161 ss.; S. Greer, The European Convention on Human Rights, Cambridge University Press, 2006, pp. 165 ss.

[62] E che trova interessanti punti di contatto con la linea di tendenza che ha caratterizzato, quantomeno nell’ultimo decennio, le riforme del giudizio di cassazione in Italia: cfr. S. Rusciano, Nomofilachia e ricorso in Cassazione, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 60 ss.

[63] In tal senso, pare convincente il par. 28 dell’opinione dissenziente, più volte richiamata.

[64] Cfr. L. R. Helfer, Redesigning the European Court of Human Rights: Embeddedness as a Deep Structural Principle of the European Human Rights, in European Journal of International Law, n. 1/2008, pp. 148 ss.; R. T. Sainati, Human Rights Class Actions: Rethinking the Pilot-Judgment Procedure at the European Court of Human Rights, in Harvard Journal of international law, vol. 56, 2015, pp. 147 ss.

[65] Dove il contenzioso amministrativo è considerato come una parte del diritto processuale civile, sicché non costituisce una vera novità né una eccessiva forzatura la trasposizione – suggerita nel testo – di un istituto proprio al processo civile nazionale (la class action) nell’ambito del diritto pubblico (nella specie: la tutela dei diritti umani a Strasburgo).

[66] Cfr. M.G. Perl, Not Just Another Mass Tort: Using Class Actions to Redress International Human Rights Violations, in Georgetown law Journal,vol. 88, 1999-2000, pp. 773-798.

[67] Hilao v. Estate of Marcos, 103 F. 3d 767 (9th Cir. 1996).

[68] Doe v. Karadzic, 176 FRD 458 (SDNY 1997).

[69] Cfr. le condizioni di ammissibiltà della class action nel diritto federale americano, come enumerate alla Rule 23(a) delle Federal Rules of Civil Procedure. Per prime informazioni sulla class action statunitense cfr., nella dottrina italiana, C. Consolo, Class actions fuori dagli USA? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in Riv. dir. civ., 1993, pp. 610 ss.; A. Giussani, Studi sulle class actions, CEDAM, Padova, 1996, pp. 63 ss.; P.F. Giuggioli, Class action e azione di gruppo, CEDAM, Padova, 2006, passim.

[70] Per una descrizione da parte del commissario straordinario stesso: S. Schreiber e L.D. Weissbach, In Re Estate of Ferdinand E. Marcos Human Rights Litigation: a Personal Account of the Role of the Special Master, in Loyola of Los Angeles law Review, vol. 31, 1998, pp. 475 ss.

[71] Nella saga Ivanov-Burmych, come si è visto nel par. 3, la Corte aveva già stabilito l’indennizzo forfettario dovuto per le violazioni “tipo Ivanov”.

[72] Il che è, a ben vedere, apertamente preconizzato dalla Dichiarazione di Brighton (in specie, punto 20, lett. d) e non può, invece, affermarsi con riguardo alla decisione Burmych, come giustamente rilevato dall’opinione dissenziente, par. 31.

[73] Nella prospettiva di E. Friebergh, op. loc. cit., il potere di “certificare” i follow-up cases successivi al pilot judgment sembra essere riservato alla Corte: «What one could envisage is that, instead of delivering judgments in repetitive cases, the Court would simply certify that the case is to be settled in light of the previous decisive judgment. The follow-up cases would be referred directly tothe Committee of Ministers, not as decided cases but certified claims to be enforced on the basis of that existing judgment». Nondimeno, in un’ottica di massimizzazione dell’efficacia deflattiva della procedura di sentenza-pilota – e proprio sulle orme della class action statunitense –, il secondo corno dell’alternativa delineato nel testo andrebbe attentamente considerato.

[74] Cfr., ancora, E. Friebergh, op. loc. cit.: «Admittedly, one could object that the Committee of Ministers has neither the competence nor the resources to function in this way. But if, as I argue, these cases should not be processed by the Court, then it is time to look at how the CM could be given the legal competence to take on this role and equipped to do so».