Il lavoro a termine va alla Corte Edu
1. Premessa
Molti lavoratori a termine del settore pubblico giungono innanzi alla Corte Edu per chiedere protezione dei propri diritti fondamentali al lavoro in condizioni di parità di trattamento e all’effettività della tutela giurisdizionale, e ottenere sanzioni riparatorie anche per le ripetute ingerenze dello Stato italiano.
Il dialogo tra le corti[1] è lontano da un definitivo approdo che chiarisca i diritti dei lavoratori che hanno prestato la loro attività a copertura delle carenze di organico, in attesa di procedure concorsuali ferme per decenni.
La regola del concorso per l’accesso alla pubblica amministrazione, quale strumento di selezione dei migliori in ossequio ai principi di buon andamento e di efficienza, è stata elusa negli anni con il massiccio ricorso a forme di lavoro flessibile, giustificato dal divieto di assunzione in attesa dell’auspicato «equilibrio dei bilanci e sostenibilità del debito pubblico» (art.97, comma 1, a decorrere dall’esercizio finanziario 2014), obiettivo difficile da realizzare con interventi limitati al lavoro a termine, il cui costo è il medesimo di quello a tempo indeterminato.
Mentre il contenzioso giudiziario cresceva in modo esponenziale, soprattutto nei confronti e per la resistenza dello Stato-datore di lavoro, il legislatore restava indifferente ai molteplici richiami delle istituzioni europee e agli orientamenti comuni (common ground) espressi per il raggiungimento degli obiettivi di piena e stabile occupazione dei lavoratori, secondo l’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, recepito nella direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, e ribaditi da innumerevoli pronunzie della Corte di giustizia.
La consueta deferenza della Corte Edu, nel rispetto dell’autonomia degli Stati membri cui compete l’obbligo di perseguire gli obiettivi di politica sociale, troverà, nei ricorsi posti al suo esame, un primo ostacolo nella “qualità della legge”, o meglio, delle tante norme che si sono succedute (secondo il colore politico del governo), rendendo la disciplina del lavoro a termine priva di “accessibilità e precisione” se non, anche, manifestamente irragionevole nel neutralizzare i provvedimenti giurisdizionali quando contrari alle ragioni dello Stato-datore di lavoro.
2. Le questioni di fatto
I ricorrenti dipendenti della pubblica amministrazione e di imprese pubbliche hanno proposto azione per l’accertamento della nullità del termine privo di ragioni oggettive o dell’abuso nella successione dei contratti, chiedendo la conversione del rapporto e il risarcimento del danno.
Una prima tipologia di ricorsi riguarda i lavoratori di Poste italiane Spa, organismo di diritto pubblico (secondo la definizione della Cgue nella sentenza Carratù del 12 dicembre 2013, in C-361/12), che hanno ottenuto la conversione del rapporto di lavoro e ricevuto, in esecuzione delle sentenze di merito, un risarcimento del danno a titolo di sanzione commisurato alle retribuzioni maturate negli intervalli di tempo non lavorati. Senonché, nelle more della decisione definitiva, il legislatore ha introdotto, con la legge n. 183/2010 (cd. “collegato lavoro”), l’art. 32, applicabile ai giudizi in corso disponendo la misura del risarcimento del danno commisurato in una indennità omnicomprensiva tra 2,5 e 12 mensilità, così determinando la riforma delle sentenze (ad esempio, Cass., ord. n. 25785/13) e privando i lavoratori delle maggiori somme ottenute con conseguente obbligo di restituzione[2].
Una seconda tipologia riguarda i docenti della scuola pubblica che hanno ottenuto, nel corso del giudizio, l’indennità risarcitoria ex art.32 l. n. 183/2010 per l’abuso nella successione di contratti a tempo determinato e, successivamente, l’assunzione con contratto a tempo indeterminato in applicazione della l. n. 107/2017 sulla “buona scuola” e hanno visto riformare, in sede di legittimità (ad esempio, Cass., n. 9058/2017) la sentenza a loro favorevole sul presupposto che la stabilizzazione del rapporto di lavoro è misura adeguata a sanzionare l’abuso della reiterazione dei contratti a tempo determinato, con il conseguente obbligo di restituzione delle somme percepite per indennità risarcitoria.
Una terza tipologia di ricorsi è proposta dagli insegnanti che hanno subito la risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, a seguito della pronunzia del Consiglio di Stato del 20 dicembre 2017, n. 11, che valuta il diploma magistrale titolo non sufficiente all’immissione in ruolo, nonostante l’assunzione sia avvenuta a seguito di iscrizione in graduatoria, avendo superato un esame di Stato e ottenuto l’abilitazione. Per fronteggiare questa nuova emergenza e al fine di salvaguardare la continuità didattica, il legislatore ha previsto, con l’art. 4 dl n. 87/2018, convertito in l. 9 agosto 2018, n. 96, il differimento al 30 giugno 2019 del termine di esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali che dispongono la decadenza dei contratti, a tempo determinato o indeterminato, stipulati con i docenti in possesso del titolo di diploma magistrale, disponendo poi per la copertura dei posti vacanti attraverso le graduatorie e concorsi ordinari e straordinari.
Una quarta tipologia di ricorsi riguarda gli educatori degli asili nido, dipendenti comunali assunti, nell’anno 2007/2008, a seguito di selezione su posto vacante, con un solo contratto a tempo determinato privo di ragioni oggettive e, quindi, dichiarato nullo dal giudice del merito in applicazione della direttiva 1999/70/CE e alla luce della sentenza della Cgue Angelidaki, del 23 aprile 2009 (in C-378/2007 e C-380/07), con riconoscimento del risarcimento del danno di importo pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione. La Corte di cassazione riconosce l’illegittimità del termine, ma afferma che il primo e unico contratto non entra nel campo di applicazione della direttiva 1999/70/CE e nega il diritto al risarcimento del danno percepito dalla lavoratrice, che ha quindi dovuto restituire le somme percepite (ad esempio, Cass., ord. 12 luglio 2017, n. 17174).
3. Il diritto interno e le violazioni denunziate
Le violazioni denunziate nei ricorsi riguardano il diritto alla parità di trattamento e di non discriminazione, secondo le previsioni dell’art. 1 Protocollo n. 1 alla Cedu in combinato disposto con l’art. 14 Cedu, nonché con le clausole 4, n. 1, e 5, nn. 1 e 2, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato recepito dalla direttiva 1999/70/CE e gli artt. 20, 21 e 30 della Carta di Nizza (Cdfue). Esse sono, altresì, relative alla violazione del diritto al giusto processo ex artt. 6 e 13 Cedu nonché art. 47 Cdfue, e sotto il profilo del principio di leale cooperazione previsto all’art. 4, comma 3, del Trattato dell’Unione europea.
Un breve excursus della normativa interna rilevante, in controluce con le pronunzie della giurisprudenza, è utile a valutare la fondatezza dei ricorsi.
In materia di personale scolastico, la legge 3 maggio 1999, n. 124, all’art. 4 ha previsto i casi di copertura delle cattedre e dei posti vacanti e disponibili con le supplenze e gli artt. 44 e 60 CCNL comparto scuola 2007, applicabile anche alle supplenze ex art. 36, comma 2, d.lgs 165/2001, il diritto alla riqualificazione del rapporto. Il lavoro a tempo determinato con la pubblica amministrazione è disciplinato dall’art. 36 d.lgs n. 165/2001, mentre al lavoro alle dipendenze delle società pubbliche è stato applicato il d.lgs n. 368/2001 di attuazione della direttiva 1999/70/CE.
La questione del coordinamento tra le due discipline è oggetto di infinite discussioni e contrasti in dottrina e giurisprudenza riguardo alle conseguenze derivanti dall’illegittima apposizione del termine o, comunque, dalla violazione delle disposizioni riguardanti l’assunzione.
Mentre nel lavoro privato è prevista la conversione del rapporto con efficacia ex tunc,oltre il risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni maturate negli intervalli di tempo non lavorati, nel lavoro con la pubblica amministrazione la regola del concorso per l’accesso all’impiego (art. 97 Cost.), confermata dalla Consulta con sentenza 27 marzo 2003, n. 89, ha giustificato il divieto di trasformazione o conversione del rapporto.
Di conseguenza, la tutela del lavoratore pubblico per le «prestazioni di lavoro in violazione di disposizioni imperative», ossia nei casi di invalidità del termine apposto al contratto o di successione illegittima, è affidata – secondo un orientamento – al risarcimento del danno, così misurandosi la compatibilità dell’ordinamento interno alla normativa Ue e, in particolare, alla direttiva 70/99/CE, che richiede sanzioni «effettive, proporzionate e dissuasive» degli abusi del contratto a termine[3].
Un altro orientamento ritiene la conversione del rapporto di lavoro sanzione adeguata, anche in applicazione dell’art.30 Cdfue, del divieto di discriminazione e del principio di parità di trattamento contenuto nella clausola 4, punto 1, della direttiva 70/99/CE, oltre che del divieto di reformatio in pejus previsto dalla clausola 8, limiti alla discrezionalità del legislatore e norme in forza delle quali il giudice nazionale accede all’interpretazione conforme[4].
Nella pendenza del contenzioso, il legislatore interviene con l’art. 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, prevedendo, oltre alla conversione ex nunc del rapporto di lavoro, la corresponsione di un’indennità omnicomprensiva tra 2,5 e 12 mensilità, ridotta alla metà nel caso di contratti collettivi che prevedano l’assunzione a tempo indeterminato dei lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie. La norma supera per due volte il vaglio di costituzionalità, con le sentenze Corte cost., nn. 303/2011 e 226/2014.
Il dialogo tra le alte corti continua ad arricchirsi mentre il contrasto nella giurisprudenza interna sull’inquadramento giuridico del risarcimento del danno – se derivante da responsabilità contrattuale e, quindi, parametrato alla perdita del posto di lavoro risarcibile ex art. 18 l. 300/70, ovvero extracontrattuale o precontrattuale, con i conseguenti riflessi sull’onere della prova – trova una prima soluzione con la sentenza della Cassazione n. 27481 del 30 dicembre 2014, che indica la misura adeguata del danno “comunitario” tra 2 e 8 mensilità di retribuzione ex art. 8 l. n. 604/66 sui licenziamenti illegittimi.
Dirompente la decisione della Corte di giustizia, con la sentenza Mascolo e altri, C-22/13, 26 novembre 2014, che dichiara incompatibile con la direttiva 1999/70/CE il sistema di reclutamento dei supplenti della scuola pubblica per mancanza di ragioni oggettive e per l’assenza di altre misure antiabusive. Interviene, quindi, il legislatore con la l. n. 107/2015, cui segue la decisione della Corte costituzionale n. 187/2016, che dichiara illegittimo l’art. 4, comma 1, l. 124/1999, affermando che la stabilizzazione a tempo indeterminato è sanzione idonea a eliminare le conseguenze dell’abuso ed è la scelta «più lungimirante rispetto a quella del risarcimento che avrebbe lasciato il sistema scolastico nell’attuale incertezza organizzativa d il personale in uno stato di provvisorietà perenne» (Considerato in diritto, punto 18.1).
La questione del risarcimento del danno è, dunque, rimessa alla decisione delle sezioni unite della Cassazione che, con sentenza del 15 marzo 2016, n. 5072, affermano che il danno risarcibile ex art. 36 d.lgs n. 165/2001 non deriva dalla mancata conversione del rapporto di lavoro, ma dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative e che, nei casi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria va determinata con riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32 l. n. 183/2010, in conformità ai canoni di effettività della tutela oltre che nel rispetto della finalità dissuasiva e della funzione punitiva della sanzione. La Corte ritiene, così, superata la questione dell’onere della prova a carico del lavoratore, coprendo il divario rispetto al trattamento riservato al lavoratore privato, che all’indennizzo aggiunge la conversione del rapporto di lavoro, e riconoscendo la possibilità di far valere un danno ulteriore per perdita di chances con onere della prova a carico del lavoratore (da ultimo, con la sentenza Santoro, C-494/2016, 7 marzo 2018, la Cgue riafferma la natura punitiva della sanzione con dimostrazione presuntiva della perdita anche della mera speranza di un lavoro stabile).
Nonostante l’orientamento delle sezioni unite della suprema Corte, con sentenza Cass., 7 novembre 2016, n. 22552, le sezioni semplici hanno negato ai docenti il diritto al risarcimento del danno per l’illegittimo utilizzo di contratti a tempo determinato a copertura di posti “in organico di diritto” (e, quindi, in violazione di norme imperative) per l’intervenuta stabilizzazione del rapporto di lavoro quale misura risarcitoria in forma specifica; non considerano, invece, abusivo il termine apposto al contratto per le supplenze a copertura di posti in organico di fatto o temporanee.
Per questi docenti, la Cgue, chiamata a pronunciarsi sulla violazione della clausola 4 della direttiva con sentenza del 20 settembre 2018 (C-466/17), afferma la compatibilità della normativa nazionale che – ai fini dell’inquadramento in una categoria retributiva al momento dell’assunzione, in base ai titoli, come dipendente pubblico di ruolo – tenga conto dei periodi di servizio prestati nell’ambito di contratti di lavoro a tempo determinato in misura integrale fino al quarto anno e poi, oltre tale limite, parzialmente, a concorrenza dei due terzi.
3. Sull’ammissibilità di norme retroattive e di interpretazione autentica
Il nodo gordiano[5] che accomuna i ricorsi, e da cui discendono tutte le violazioni denunziate, riguarda l’introduzione dell’art. 32, commi 5-7, l. n.183/2010, che, oltre alla conversione del rapporto, forfettizza la misura del risarcimento del danno da riconoscere e applicare ai rapporti in corso nonché a quelli già esauriti.
I primi commentatori della norma[6] hanno subito evidenziato che essa si inseriva, attraverso una legge delega e non nella sedes materiae, nella disciplina del lavoro a termine dell’impresa privata e delle società pubbliche, che non presentava alcuna incertezza in quanto già godeva di una tutela adeguata (conversione del rapporto e risarcimento del danno) derivante dall’applicazione degli ordinari criteri civilistici. Per effetto della nullità parziale del termine, tali criteri imponevano la ricostituzione giuridica ed economica del rapporto di lavoro secondo una consolidata interpretazione contraria alla difesa svolta dalle società pubbliche, con l’evidente conseguenza che l’adozione della norma retroattiva era strumentale alla (diversa) conclusione delle cause pendenti.
Le situazioni di incertezza erano, invece, conseguenza del diverso modo di inquadrare la responsabilità della pubblica amministrazione e, quindi, individuare la sanzione adeguata per le ipotesi di violazione delle norme.
Tanto è vero che la sanzione ex art. 32 è stata poi applicata, per omogeneità, dalle sezioni unite della Cassazione con la citata sentenza 15 marzo 2016, n. 5072.
Inoltre, i dati elaborati in sede di esame del ddl n. 1441, messi a confronto con i dati del contenzioso, evidenziavano che otto cause su dieci riguardavano lo Stato-datore di lavoro (Poste italiane, Rfi, Rai, aziende di trasporto locali etc.), a cui si applicava la disciplina del d.lgs n. 368/2001 e non l’art. 36 d.lgs 165/2001. La norma, quindi, perseguiva lo scopo malcelato di favorire il bilancio delle imprese pubbliche e di ridurre il contenzioso.
I ricorrenti – che, alla conclusione dei procedimenti civili, hanno subito l’espropriazione dei propri diritti patrimoniali sia con riguardo all’obbligo di restituzione delle maggiori somme percepite a titolo risarcitorio che per la perdita del posto di lavoro e, quindi, della retribuzione – denunziano la lesione dei propri diritti fondamentali chiedendone il ristoro.
La Corte Edu ha più volte affermato, sin dalla vicenda del personale ATA e, in particolare, con la sentenza Agrati e altri del 7 giugno 2011, che il legislatore può disporre dei diritti in materia civile mediante nuove norme retroattive, nel rispetto del principio della preminenza del diritto e per ragioni imperative di interesse generale, che devono essere adeguatamente dimostrate e non sussistono se causate dallo Stato inadempiente alle sue obbligazioni.
La Cassazione, dovendo decidere un ricorso proposto da Poste italiane, avrebbe potuto adottare una interpretazione conforme della norma[7], affermando che l’indennità ex art.32 era da considerarsi aggiuntiva e non sostitutiva del risarcimento del danno, così essendo misura adeguata nel rispetto dei principi della direttiva 70/99/CE e non incidente sui diritti già riconosciuti nei procedimenti pendenti. Tuttavia, preferisce sollevare questione di legittimità costituzionale, con ordinanza del 28 gennaio 2011, n. 2112, che la Consulta dichiara non fondata con sentenza del 10 ottobre 2011, n. 303, anche riguardo alla violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., integrato dall’art. 6 Cedu.
La Consulta glissa sul dato rilevante del contenzioso seriale relativo alle imprese pubbliche, pur messo in luce dall’ord. n. 2112 e, in particolare, appaiono quantomeno contraddittorie le due diverse argomentazioni secondo cui la norma introdotta è di carattere generale e, pertanto, «non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico (o in mano pubblica) perché le controversie su cui è destinata a incidere non hanno specificamente ad oggetto rapporti di lavoro precario alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti i rapporti di lavoro subordinato a termine». Allo Stato spetta il compito e l’onere di verificare la sussistenza di motivi imperativi di interesse generale, che avrebbe ravvisato nelle ragioni di utilità generale, per l’«esigenza di tutela economica dei lavoratori a tempo determinato più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici»,in realtà – al contrario – restringendo i diritti e limitando le tutele con la previsione di stringenti termini di decadenza.
A chiudere gli spazi di una diversa interpretazione conforme che si stava aprendo con riferimento all’ambito temporale di applicazione della norma basata sulla clausola di non regresso, interviene ancora una volta il legislatore con una norma di interpretazione autentica, disponendo all’art. 1, comma 13, della legge n. 92/2012, che l’indennità ex art. 32 «ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro».
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Velletri, con ordinanza del 21 dicembre 2012, per la violazione degli artt. 11 e 117 Cost. con riferimento alla clausola 8, punto 3, dell’accordo quadro, ossia al principio di non regresso, è dichiarata non fondata con sentenza del 15 luglio 2014, n. 226. E qui la Consulta, expressis verbis, nel ritenere che la clausola 8 non preclude modifiche peggiorative se il legislatore persegue obiettivi diversi dall’attuazione dell’accordo, individua tale obiettivo nella semplificazione del contenzioso. La norma, dunque, secondo la Corte, non ricade nell’ambito di applicazione dell’accordo quadro, in quanto l’indennità prevista «copre soltanto il periodo intermedio, quello cioè dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto»e persegue scopi distinti quali sono quelli «di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, imponendo un meccanismo semplificato e di più rapida definizione di liquidazione del danno (evitando accertamenti probatori in ordine alla mora accipiendi, all’aliunde perceptum, al percepiedum, etc.) a fronte della illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro» (richiamando la sentenza n. 303/2011).
La Corte Edu dovrà, quindi, valutare la fondatezza delle articolate denunzie di violazione delle norme convenzionali con riguardo al principio di parità delle armi (come ritenuto nella decisione Dombo Beheer B.V. c. Paesi Bassi, del 27 ottobre 1993) e del diritto di difesa per l’ingiustificata ingerenza, da parte dello Stato, nelle sfere giuridiche patrimoniali dei lavoratori in mancanza degli imperiosi motivi di interesse generale neppure dedotti e a fronte di motivazioni irragionevoli – e ciò considerando che, pur senza un principio di irretroattività della legge civile analogo a quello previsto in materia penale, la determinazione di una sanzione non è ragionevole se prevede una riduzione per chi reitera nel tempo il medesimo abuso, a fronte dell’aumento (di un terzo) della pena previsto per le ipotesi di recidiva nel reato[8].
4. Il principio di eguaglianza e di non discriminazione, la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 e l’ingiusto vantaggio per lo Stato
I ricorrenti denunziano la violazione del diritto al lavoro a condizioni eque e giuste, espressamente previsto dall’ordinamento interno, a livello costituzionale, agli artt.1, 3, 4 e 36 e, quindi, ricadente nell’ambito di applicazione della Convenzione.
Essi deducono la violazione del principio generale di eguaglianza espressamente garantito dagli artt. 20 e 21 della Carta, che impongono di non trattare situazioni analoghe in maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale e istituiscono una clausola generale e orizzontale in tema di eguaglianza. Si tratta di uno dei principi fondamentali del diritto comunitario, diritto primario che possiede la forza giuridica dei trattati, gode di autonomia applicativa ed è direttamente efficace sia nei rapporti verticali dei singoli con le autorità statali sia nelle relazioni orizzontali tra privati.
I ricorsi hanno in comune il presupposto di fatto che in Italia, al momento in cui è stata proposta l’azione giudiziaria, esisteva il diritto alla riqualificazione del rapporto di lavoro a termine privo dei requisiti sostanziali o formali di validità della clausola contrattuale, ovvero nel caso di superamento del termine di 36 mesi di servizio, anche non continuativo, in mansioni equivalenti con lo stesso datore di lavoro, con ricostruzione economica, normativa e contributiva del rapporto dal momento dell’offerta della prestazione lavorativa.
Nei casi oggetto di ricorso la discriminazione tra lavoratori pubblici e lavoratori privati si configura, non tanto e non solo, riguardo al momento genetico della costituzione del rapporto di lavoro – rispetto alla compatibilità del divieto di costituzione del rapporto a tempo indeterminato (ex art. 36 d.lgs 165/2001) con la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, preordinata alla prevenzione degli abusi nella successione di contratti a tempo determinato – quanto, piuttosto, alla violazione del principio di parità per il diverso trattamento normativo, economico e delle tutelenel corso del suo svolgimento, con riferimento alle condizioni dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, secondo la disposizione della clausola 4 della direttiva.
Per gli insegnanti (o, comunque, per gli altri lavoratori alle dipendenze della pubblica amministrazione), l’interpretazione restrittiva della giurisprudenza di legittimità ha determinato l’obbligo di restituzione di tutte le somme ricevute a titolo di risarcimento, avendo il giudice nazionale di ultima istanza ritenuto la stabilizzazione una sanzione adeguata, pur essendo derivata da un provvedimento normativo che prescinde dal giudizio pendente e, anche se fa cessare l’abuso, non elide le conseguenze dannose che si erano già verificate per la violazione di norme imperative.
Per i dipendenti della società pubbliche, la norma retroattiva dell’art. 32 l. n. 183/2010 ha invece determinato un’interferenza nei diritti patrimoniali già acquisiti, avendoli obbligati alla restituzione delle maggiori somme percepite e, dunque, discriminandoli nel proprio diritto alla conservazione del bene acquisito al patrimonio[9].
I ricorrenti, per dimostrare la discriminazione del diritto al lavoro a parità di condizioni e, in particolare, alla retribuzione quale garanzia di un’esistenza libera e dignitosa, depositano i contratti di lavoro e gli atti giudiziari attraverso il cui esame la Corte Edu dovrà valutare la sussistenza dei tre diversi requisiti:
- della condizione di omogeneità tra lavoratori a tempo determinato e indeterminato comparabili, che svolgono la medesima attività e non godono dei medesimi diritti e delle medesime tutele[10];
- della mancanza di giustificazione oggettiva e ragionevole del diverso trattamento sanzionatorio dell’abuso del contratto a termine, non essendo compatibile con la direttiva 1999/70/CE che il lavoratore resti privo di risarcimento;
- della mancanza di proporzionalità rispetto al perseguimento di un fine legittimo o di un interesse pubblico.
La violazione del principio di eguaglianza è, dunque, declinata con riferimento alla discriminazione per ricchezza, con richiamo all’art. 14 Cedu in combinato disposto con l’art. 1 Protocollo n. 1, per la diversa tutela sanzionatoria dell’abuso (prima risarcimento integrale, poi indennità omnicomprensiva) oltre che per la limitazione del proprio diritto sotto il profilo della prova della perdita di opportunità di lavoro, in applicazione della norma retroattiva e dell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità sul cd. “danno comunitario”.
Ulteriore è la discriminazione con riferimento ai principi del giusto processo (art. 14 in combinato disposto con l’art. 6 Cedu), ossia al diverso trattamento riservato ai lavoratori che si trovino nella medesima posizione giuridica al momento della proposizione della domanda giudiziaria, mentre ricevono un trattamento differente a seconda del tempo in cui interviene la decisione definitiva.
Quanto al primo dei due profili di discriminazione, i ricorrenti deducono che i fatti oggetto del ricorso rientrano nel campo di applicazione dell’art. 1 Protocollo n. 1, in quanto le decisioni che contestano dispongono del loro credito da risarcimento del danno, che rientra nel concetto di “bene” da tutelare, valore patrimoniale ricompreso nella nozione di proprietà secondo la giurisprudenza della Corte Edu[11].
Affinché un credito possa considerarsi un valore patrimoniale ricadente nell’ambito di applicazione dell’art.1 del suddetto Protocollo, è necessario che il titolare del credito lo dimostri in relazione al diritto interno. Nel caso di specie, i ricorrenti (docenti, educatori presso asili nido, dipendenti di Poste italiane Spa) hanno dimostrato, con la produzione degli atti, di aver avuto riconosciuto il loro credito a titolo di risarcimento del danno in forza di una consolidata giurisprudenza dei tribunali nazionali e di aver dovuto restituire le somme già percepite; altri (diplomati magistrali) hanno dimostrato la decadenza dal contratto di lavoro, con i conseguenti effetti per la perdita della retribuzione.
Il vantaggio che deriva allo Stato dall’interferenza nel processo risulta evidente – dovendo il lavoratore dell’impresa restituire le maggiori somme percepite a titolo di sanzione e il docente quelle ricevute ex art. 32 l.183/2010 perché sostituite dalla stabilizzazione/conversione del rapporto – e rende sproporzionato il pregiudizio alla proprietà, rompendo il giusto equilibrio tra le esigenze di interesse pubblico e la tutela dei diritti fondamentali individuali.
5. Il diritto al giusto processo e a un ricorso effettivo
Il secondo profilo di denunzia dedotto nei ricorsi riguarda, da un lato, il principio di effettività del diritto e dell’azione; dall’altro, l’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia e la ragionevole durata del procedimento.
L’art. 6 Cedu e l’art. 47 Cdfue conferiscono al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva il rango di diritto fondamentale.
L’ambito di applicazione dell’art. 6 al pubblico impiego, presunto dopo la sentenza Pellegrin c. Francia dell’8 dicembre 1999, si articola sulla base del criterio funzionale secondo i principi espressi nella sentenza Eskelinen e altri c. Finlandia, del 19 aprile 2007, e protegge i diritti di tutti quei lavoratori che, alle dipendenze dello Stato, svolgono un’attività identica ai loro omologhi del settore privato.
I casi portati all’attenzione della Corte Edu sono tutti accomunati dalla dilatazione dei tempi del procedimento nel corso del quale sono intervenute le sostanziali modifiche normative o i mutamenti di giurisprudenza che hanno eliso o ridotto i diritti in gioco e che descrivono un sistema privo di regole effettive, generali e astratte, con i naturali effetti sulla certezza del diritto e dei rapporti giuridici.
La preminenza del diritto, alla luce del preambolo della Convenzione, è elemento del patrimonio comune degli Stati contraenti: uno dei principi fondamentali di una società democratica, insito in tutti gli articoli della Convenzione, che implica, innanzi tutto, la qualità della produzione normativa al fine di mantenere più alto possibile il livello di osservanza spontanea delle regole, perché «il diritto deve essere in grado di funzionare senza giudici»[12]. In secondo luogo, tale principio deve prevedere una sanzione congrua per le ipotesi di violazione e, infine – ma non ultimo –, il dovere dello Stato di conformarsi a una decisione o sentenza emessa nei suoi confronti.
L’altro principio inderogabile è quello di effettività, funzionale, da un punto di vista oggettivo, a garantire il raggiungimento degli scopi perseguiti dall’Unione europea nel singolo settore di intervento mentre, dal punto di vista soggettivo, rafforza i diritti riconosciuti dalle direttive ai singoli cittadini.
L’altra violazione denunziata riguarda il principio della certezza dei rapporti giuridici, che tende a garantire alle parti del processo una certa stabilità delle situazioni giuridiche e a favorire la fiducia dei cittadini nella giustizia. I ricorrenti, infatti, denunziano che un sistema giudiziario caratterizzato dalla possibilità di rimettere continuamente in discussione e di annullare ripetutamente le sentenze è inammissibile, in quanto il diritto all’esecuzione di una decisione giudiziaria è uno degli aspetti dell’effettività del processo ed è principio cardine dell’ordinamento che, secondo Giuseppe Chiovenda, deve dare al titolare di una situazione soggettiva tutto quello – e proprio quello – che il diritto sostanziale riconosce.
La Corte Edu ha più volte ribadito che non si può derogare a questo principio, se non in presenza di motivi sostanziali e imperiosi di interesse generale e, di recente, ha dichiarato la violazione dell’art. 6 con riferimento ai ricorsi proposti da due aziende agricole che hanno denunziato lo Stato italiano per aver introdotto, nell’anno 2003, una norma retroattiva in materia di benefici fiscali e contributivi riferibili a rapporti con i dipendenti, la cui applicazione ha avuto un impatto decisivo sull’esito del giudizio pendente senza che sussistessero imperativi di interesse pubblico[13].
L’ultima questione posta in alcuni ricorsi è relativa alla violazione dell’obbligo di rinvio pregiudiziale richiesto alla Corte di legittimità invocando i principi espressi dalla Corte Edu nel caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio, deciso con sentenza del 15 novembre 2016, che esclude l’obbligo solo nel caso in cui la questione non sia rilevante o sia già stata interpretata, oppure la decisione interna sia adeguatamente motivata.
Mentre, per un verso, la Corte Edu afferma di non avere il compito di conoscere gli errori dei giudici nazionali, purchè la verifica sia svolta in modo rigoroso, per altro verso la Corte costituzionale, con sentenza n. 269/2017, attribuisce a se stessa il compito di valutare come le decisioni della Corte europea si inseriscono nell’ordinamento costituzionale italiano e l’alternativa tra disapplicazione o meno della norma interna contraria anche in ogni caso di violazione della Carta di Nizza.
Secondo un autorevole costituzionalista[14], nel contrasto, la soluzione è quella di tenere distinti i canali di dialogo tra le corti europee e riservare a Strasburgo le macroscopiche violazioni del diritto dell’Unione che sostanziano le violazioni convenzionali, muovendo dall’assunto della parità delle carte e – di riflesso – delle corti, e orientando il processo interpretativo al canone della migliore tutela.
La Cedu, strumento vivente, è oggi invocata quale ultimo baluardo della tutela dei diritti negati o negletti, e la Corte Edu, giudice del caso singolo, dovrà verificare le violazioni denunziate e restituire ai ricorrenti il giusto ristoro.
In ultima analisi, a parere di chi scrive, allargando lo sguardo alle controversie ancora in corso per l’affermazione del diritto al lavoro stabile, non basterà la spada della Corte Edu a elidere il nodo gordiano per dare tutela ai diritti fondamentali, ma dovrà essere il giudice nazionale – primo giudice europeo non vincolato delle sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale – a sciogliere, di volta in volta, gli infiniti intrecci per garantire, con imparzialità di giudizio, l’interpretazione conforme delle norme ai principi e ai valori della Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
[1] La Corte di giustizia, con sentenza del 25 ottobre 2018, in C-331/17, riafferma il diritto alla conversione del rapporto di lavoro nel settore degli enti lirici, mentre la Corte costituzionale, con la sentenza n. 248/2018, dichiara non fondata la questione sollevata in riferimento alla sanzione dell’abusiva reiterazione di contratti nel settore della sanità pubblica, riaffermando l’adeguatezza della misura del risarcimento del danno.
Si attendono, ancora, la sentenza della Cgue per la causa C-494/17 (Rossato), discussa il 27 settembre 2018, sulla pregiudiziale della Corte d’appello di Trento relativa all’effettività della sanzione nei casi di abusiva reiterazione e successiva stabilizzazione (clausola 5) e la sentenza della Corte costituzionale sul precariato siciliano, sollevata dal Tribunale di Termini Imerese con ordinanza n. 156/2017 e discussa all’udienza del 19 febbraio 2019.
Intanto, il Tribunale di Napoli solleva, con ordinanza del 13 febbraio 2019, questione pregiudiziale sull’abusiva reiterazione delle assunzioni a tempo determinato degli insegnanti di religione cattolica della scuola pubblica.
[2] Poste italiane prontamente reclama la restituzione delle somme corrisposte al lordo (comprese le ritenute fiscali) e non al netto, alimentando un ulteriore contenzioso solo di recente definito con la sentenza della Cassazione n. 19735/2018, che ribadisce il principio, aderente alla peculiarità del rapporto di lavoro subordinato, per cui il solvens non può ripetere dall’accipiens più di quanto questi abbia effettivamente percepito.
[3] Sul risarcimento del danno e il principio di effettività della sanzione, Cgue: Adeneler, C-212/04, 4 luglio 2006; Marrosu Sardino e Vassallo, C-53/04 e C-180/04, 7 settembre 2006; Del Cerro Alonso, C-307/05, 13 settembre 2007; Angelidaki, C-378/07, 23 aprile 2009; Affatato, C-3/10, ord. 1° ottobre 2010; Papalia, C-50/13, 12 dicembre 2013; Cass., 15 giugno 2010, n.14350; Tribunale Genova, 14 maggio 2007; Tribunale Rossano Calabro, 4 giugno 2007; Tribunale Foggia 17 ottobre 2008. In argomento, G. Armone, Principio di effettività e diritto del lavoro, in Questione Giustizia on line del 24/04/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/principio-di-effettivita-e-diritto-del-lavoro_24-04-2018.php, afferma che «È, in particolare, sull’adeguatezza delle misure adottate per i contratti a termine nel pubblico impiego che è possibile auspicare, attraverso il diritto dell’Unione europea, un futuro migliore per il diritto del lavoro, che attraversa un periodo di crisi per la subalternità verso altre culture di taglio economico».
[4] Sulla conversione del rapporto, Cgue, Vitari, C-126/99, 9 settembre 2010; C-50/13, ord. 12 dicembre 2013; Cass., 21 maggio 2008, n. 12985. Tribunale Siena, con dentenza del 27 ottobre 2010, disapplica l’art. 36 d.lgs 165/2001, equiparando la scadenza del termine al licenziamento ingiustificato, e riconosce al lavoratore la tutela in forma specifica ex art. 2058 cc. In dottrina, L. Menghini, il lavoro a termine nelle amministrazioni pubbliche: profili discriminatori, relazione presentata alla tavola rotonda promossa da AGI Lazio, Magistratura democratica e Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Roma, 14 giugno 2012.
[5] Richiamando l’efficace espressione di E. Lupo, Pluralità delle fonti ed unitarietà dell’ordinamento,in E. Falletti e V. Piccone (a cura di), Il nodo gordiano tra diritto nazionale e diritto europeo, Cacucci, Bari, 2012, pp. 31 ss., sugli effetti controversi delle decisioni della Corte Edu Maggio e Agrati.
[6] B. Cossu e F.M. Giorgi, Novità in tema di conseguenze della “conversione” del contratto a tempo determinato, in Mass. giur lav., 2010, pp. 895 ss.; V. Piccone, Contratto a termine, relazione all’incontro di studio «Il collegato lavoro», organizzato da Magistratura democratica a Roma il 16 dicembre 2010; S. Galleano e V. De Michele, La Cassazione sulla irretroattività delle decadenze e delle tutele del Jobs Act e sull’applicazione (indiretta) della sentenza Carratù della Corte Ue, in Europeanrights, 1° novembre 2015, disponibile online (www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1157).
[7] Sull’interpretazione conforme, F. Buffa, Problematiche interpretative dell’art.32, commi 5-7, della legge n.183/2010 alla luce della giurisprudenza comunitaria, CEDU, costituzionale e di legittimità, Ufficio del massimario della Corte di cassazione, Relazione tematica n. 2, Roma, 8 gennaio 2011; A. Bonomi, Brevi note sul rapporto fra l’obbligo di conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e l’art. 101, c. 2, Cost. (… prendendo spunto da un certo mutamento di orientamento che sembra manifestarsi nella sentenza n. 303 del 2011 Corte cost.) in Consulta on line, 5 aprile 2012 (www.giurcost.org/studi/Bonomi.pdf). Il Tribunale di Napoli, con sentenza del 16 novembre 2011, accede a un’interpretazione dell’art. 32 conforme agli artt. 117 Cost. e 6 Cedu, riconoscendo la natura aggiuntiva e non sostitutiva dell’indennità risarcitoria. Argutamente, osserva che: «il lavoratore è soggetto debole (sentenza della Corte di Giustizia Ue 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., punto 80, nonché la sentenza 20 novembre 2010, causa C-429/09, Fuß, punti 80 e 81), per cui non è possibile realizzare un contemperamento di interessi a favore del soggetto forte, peraltro inadempiente, realizzandosi in tal caso una doppia sperequazione a favore del soggetto meno meritevole, perché inadempiente ad obblighi legalmente dati, nonché soggetto forte».
[8] L’ordinamento ammette i danni punitivi (punitive damages) di essenza penalistica che, in aggiunta ai danni compensativi (compensatory damages) aventi finalità riparatoria, svolgono una funzione sanzionatoria e di deterrenza, e garantiscono l’effettività della tutela. Si veda, di recente, in materia civile, Cass., n. 16601/2017. Sulla retroattività, vds. G. Bronzini, Limiti alla retroattività della legge civile, Key, Vicalvi (FR), 2016, pp.61 e ss; L. De Grazia, La retroattività possibile, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2016, afferma che «la retroattività possibile deve, quindi, essere rispettosa dei limiti che le corti hanno contribuito a definire, affinché non siano lesi i diritti degli individui e i principi e i valori costituzionali» (p. 61).
[9] La giurisprudenza è, in argomento, ancora oggi ondivaga, dapprima la Cassazione – sez. unite, 27 marzo 2017, n. 7759 – esclude la regola del concorso per le assunzioni e legittima la conversione del rapporto; poi, con sentenza 14 febbraio 2018, n.3621, afferma il divieto di conversione e nega pure il risarcimento del danno per mancanza di prova, nonostante l’art. 19 d.lgs 16 agosto 2016, n. 175 rinvii alla disciplina del lavoro subordinato nell’impresa. Per un approfondimento, si veda F. Chietera, I contratti a termine nelle società a controllo pubblico dopo il decreto legislativo 175/2016: cosa cambia?, in Lav. nella giur., n.7/2018, pp. 694 ss.
[10] La discriminazione è denunziata sulla base di «ogni altra condizione» («other status», art. 14 Cedu) con riferimento alla disparità di trattamento tra lavoratori. Il principio di uguaglianza e non discriminazione di cui alla clausola 4 della direttiva 1999/70/CE riguarda anche modalità di costituzione e interruzione del rapporto di lavoro che rientrano nell’elenco aperto delle situazioni regolamentate dalla clausola con applicazione orizzontale, trattandosi di un principio fondamentale dell’ordinamento europeo. In argomento, si segnala l’intervento di M.V. Ballestrero (Principi e regole nella giurisprudenza del lavoro. Due esempi e una digressione,in occasione delle «Conversazioni sul lavoro» dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, Fondazione G. Pera, Lucca, 6-7 ottobre 2017), che richiama l’art. 21 Cdfue e l’art. 36 Cost. quale norma inespressa prescrittiva della parità di trattamento a parità di lavoro. Si veda, inoltre, M.G. Putaturo Donati, Il principio di non discriminazione ai sensi del’art. 14 CEDU: risvolti sul piano del diritto internazionale e del diritto interno, in Europeanrights, 6 maggio 2015, disponibile online (www.europeanrights.eu/index.php?funzione=S&op=5&id=1124).
[11] La Corte Edu ha ritenuto la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 per l’applicazione retroattiva della legge che abbia l’effetto di privare i soggetti titolari del diritto al risarcimento di una parte sostanziale dei crediti cui avrebbero avuto diritto, in base alla norma previgente, nei casi: Draon c. Francia [GC] ric. n. 1513/03, 6 ottobre 2005, § 73; Maurice c. Francia [GC] ric. n. 11810/03, 6 ottobre 2005, § 81; Kuznetsova c. Russia ric. n. 67579/01, § 50, 7 giugno 2007, § 50.
In particolare, nel caso Mazzeo c. Italia, ric. n. 32269/09, 5 ottobre 2017, la Corte rammenta che un «credito» può costituire un «bene» ai sensi dell’art. 1 Protocollo n. 1 se è sufficientemente provato per essere esigibile – così, nelle cause Pressos Compania Naviera S.A. e altri c. Belgio, 20 novembre 1995 (serie A, n. 332), e Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994, § 59 (serie A, n. 301-B).
[12] Secondo l’efficace espressione di V. Di Cataldo, A che cosa serve il diritto, il Mulino, Bologna, 2017, p. 137.
[13] Corte Edu, Alpe Società agricola cooperativa e altri c. Italia , ricc. nn. 872609 e altri 38, 19 ottobre 2017, e altri e Frubona Cooperativa frutticoltori Bolzano-Nalles Sca e altri c. Italia, ricc. nn. 4180/08 e altri 49, 7 dicembre 2017. In senso analogo, anche sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento, il caso dell’azienda Silverfunghi c. Italia, ric. n. 48357/07, 4 giugno 2014. Di recente, Corte Edu, Rizzello c. Italia, ric. n. 17799/10, 20 febbraio 2018, cancella la causa dal ruolo dopo il riconoscimento, da parte del Governo italiano, del danno materiale e morale in seguito all’intervento retroattivo della l. n. 296/2006. Sul principio di certezza del diritto: Brumarescu c. Romania ric. n. 28342/95, 23 gennaio 2001; Nejdet Sahin e Perihan Sahin c. Turchia [GC], ric. n. 13279/05, 20 ottobre 2011; Agrokompleks c. Ucraina, ric. n. 23465/03, 6 ottobre 2011.
[14] A. Ruggeri, Rinvio pregiudiziale mancato e (im)possibile violazione della CEDU. A margine del caso Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio, in www.forumcostituzionale.it, 2011; L. Menghini, I contrasti tra Corte Edu e Corte costituzionale sulle leggi retroattive che eliminano diritti di lavoratori e pensionati: qualche idea per un avvio di soluzione, in Riv. dir. lav., n. 2/2012, pp. 357 ss.; ancora, A. Ruggeri, Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici nazionali, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale (tendenze e prospettive), in Osservatorio costituzionale, n. 1/2018, pp. 133-152 (www.osservatorioaic.it/images/fascicoli/Osservatorio_AIC_Fascicolo_01_2018.pdf).