Magistratura democratica

Richiesta di opinioni amicus curiae da parte della Corte e anomalie procedurali (la Venice Commission)

di Simona Granata-Menghini
Dall’intensa interazione tra la Corte Edu e la Commissione di Venezia, quest’ultima trae autorità, prestigio e visibilità. Prestando consulenza giuridica agli Stati, la Commissione anticipa gli effetti delle pronunce della Corte, che si serve con crescente frequenza delle sue ricerche e analisi. In esse si trovano anche gli argomenti delle forze politiche e istituzionali ‘minoritarie’ e della società civile, che non avrebbero altrimenti voce presso la Corte.

1. Introduzione

L’azione del Consiglio d’Europa persegue le tre finalità cardinali della democrazia, lo stato di diritto e la protezione dei diritti fondamentali, articolandosi intorno a tre assi principali: il cosiddetto “standard-setting”, cioè l’attività di elaborazione degli standard comuni attraverso la redazione di trattati internazionali, ma anche l’elaborazione di norme di soft law; il “monitoring”, cioè il monitoraggio del rispetto degli obblighi derivanti dall’adesione a tali trattati, compreso lo Statuto del Consiglio d’Europa; infine, la cooperazione, cioè l’attività di formazione, institution-building e capacity-building finalizzata ad aiutare gli Stati a rispettare gli obblighi internazionali. Naturalmente, la separazione tra le differenti assi, così come tra le citate finalità, non è netta: la compenetrazione delle tre assi e dei tre cardini è essenziale al successo complessivo del sistema.

Il fulcro del sistema di protezione dei diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa è la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), e la Corte europea dei diritti dell’uomo è l’organo preposto al suo monitoraggio nonché all’elaborazione ulteriore degli standard, dato che, ai sensi della stessa Convenzione, la giurisprudenza della Corte ha efficacia vincolante. Ma la Corte Edu non è un’“isola”. Altri organi del Consiglio d’Europa collaborano con essa e partecipano all’attività di standard-setting e monitoraggio. Tra questi, va citato in primis il Comitato dei ministri, istituzionalmente responsabile per l’esecuzione delle sentenze della Corte, ma anche autore di numerose raccomandazioni di soft law. L’Assemblea parlamentare effettua un monitoraggio destinato ad assistere gli Stati nell’assicurare il più alto livello di rispetto degli standard di democrazia e dei diritti dell’uomo. Il Commissario europeo per i diritti umani ha per mandato di promuovere l’effettivo rispetto dei diritti dell’uomo e di assistere gli Stati membri nella realizzazione delle norme del Consiglio d’Europa. Esistono, poi, numerosi meccanismi di monitoraggio specializzati, quali il Comitato europeo dei diritti sociali, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura, la Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, il Comitato consultivo della Convenzione per la protezione delle minoranze nazionali, il Gruppo di Stati contro la corruzione, il Comitato di esperti per la valutazione delle misure antiriciclaggio del denaro («Moneyval»), il Comitato di esperti della Carta europea delle lingue regionali e minoritarie e il Gruppo di esperti contro la tratta di esseri umani, il Gruppo di esperti/e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, e il Comitato delle parti della Convenzione sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuali.

Anche altri organi consultivi del Consiglio d’Europa partecipano al monitoraggio. Tra questi, spicca la «Commissione europea per la Democrazia attraverso il Diritto», o Commissione di Venezia.

2. La Commissione di Venezia

La Commissione di Venezia, invenzione italiana della fine degli anni Ottanta frutto della lungimirante visione e della perseveranza di Antonio La Pergola, ebbe una genesi complessa, in ragione del timore dei Paesi allora membri del Consiglio d’Europa di un’ingerenza arbitraria in questioni di sovranità nazionale. Fu la caduta del muro di Berlino a rivelare, improvvisamente, la necessità di un’assistenza internazionale specializzata nella redazione di costituzioni democratiche. La Commissione di Venezia venne, quindi, a colmare una lacuna nel panorama dell’assistenza internazionale; da allora, sino a oggi, la Commissione è l’unico organismo di questo tipo esistente non solo in Europa, ma a livello mondiale.

Organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione si estende al di là dei suoi 47 Stati membri, contando, in quanto accordo allargato, anche 14 Paesi non membri: l’Algeria, il Marocco, la Tunisia, Israele, il Kirghizistan, il Kazakhstan, la Repubblica di Corea, gli Stati Uniti, il Messico, il Brasile, il Cile, il Costa Rica, il Perù e il Kosovo. Ciascuno dei 61 Paesi designa un membro e un sostituto, che agiscono in maniera indipendente.

La Commissione fornisce pareri giuridici non vincolanti su testi di natura costituzionale, adottati o in preparazione; agisce su richiesta di un’istituzione dello Stato stesso, oppure di uno degli organi del Consiglio d’Europa (Comitato dei ministri, Assemblea parlamentare, Congresso dei poteri regionali e locali, Segretario generale, Corte Edu) o di un organismo che partecipa ai lavori della Commissione (ad oggi, l’Osce e la Commissione europea). Al fine di preservarne la neutralità, lo statuto della Commissione le preclude la preparazione, di propria iniziativa, di pareri su uno specifico Paese. La Commissione può, invece, decidere autonomamente di preparare studi, rapporti e altri lavori di carattere generale.

Nonostante non abbiano carattere obbligatorio, le conclusioni e le raccomandazioni della Commissione hanno grande autorevolezza e sono, di fatto, eseguite in maniera preponderante – almeno in parte. Come ha detto Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, la Commissione di Venezia è un organo dotato di pochi poteri, ma di grande influenza. Questa efficacia è dovuta a diversi fattori: alla reputazione di competenza, obiettività e utilità di cui gode la Commissione; alla capacità della Commissione di preparare pareri adattati al contesto giuridico e politico del Paese in questione; alla pressione cui l’opposizione, la società civile e i media sottopongono le autorità nazionali al fine di spingerle ad ottemperare; infine, alla pressione cui gli organi politici internazionali preposti al monitoraggio degli obblighi dello Stato in questione lo sottopongono, con il rischio, in caso di inottemperanza, di conseguenze non solo politiche, ma anche finanziarie – e notevoli, specialmente nel caso di Paesi candidati ad accordi di stabilizzazione e accessione all’Unione europea.

Il lavoro di analisi della Commissione si basa innanzitutto sulle norme del Consiglio d’Europa in materia di democrazia, diritti dell’uomo e preminenza del diritto. Ma se le norme in materia di diritti dell’uomo (in particolare, la ricca giurisprudenza della Corte Edu) sono vincolanti, oltre che estese e dettagliate, in materia di democrazia e Stato di diritto non è così, anche perché non esistono trattati e organi di monitoraggio specifici. La Commissione non è soltanto consumatrice di norme internazionali: ne è anche produttrice, avendo effettivamente identificato ed elaborato numerosi standard di soft law – ad esempio, linee direttrici, spesso congiuntamente con l’Osce e, nel suo ambito, l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr), in materia di elezioni, partici politici, referendum, libertà di riunione e di associazione –, che si basano sulla giurisprudenza della Corte, ma vanno spesso al di là della stessa. Oltre che sugli standard e su una conoscenza approfondita del Paese in questione, la Commissione basa le proprie conclusioni sull’analisi dell’esperienza costituzionale comparata dei suoi Stati membri, europei ed extraeuropei.

Nei propri pareri, la Commissione espone ed esamina gli argomenti non solo delle autorità, ma anche dell’opposizione, della società civile, degli organi indipendenti. L’intervento della Commissione apre quindi, in molti casi, un canale di comunicazione e di dialogo tra la maggioranza al potere e le altre forze politiche e civili del Paese.

3. L’interazione tra la Commissione di Venezia e la Corte europea dei diritti dell’uomo

La Commissione di Venezia è un’entità molto diversa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, sotto molti punti di vista: la Commissione non è un tribunale, non è stata creata da un trattato internazionale, non è un organo di monitoraggio, non ha una competenza definita da (e limitata a) un solo trattato, non ha una composizione e una giurisdizione limitate ai Paesi membri del Consiglio d’Europa, non produce norme vincolanti. La Commissione non si occupa di casi individuali e non è vincolata dalla regola del previo esaurimento delle vie di ricorso interne; anzi, il più delle volte esamina testi costituzionali e legislativi che non sono ancora entrati in vigore. Eppure, nonostante queste macroscopiche differenze, la Commissione e la Corte hanno stabilito negli anni una singolare ed efficace sinergia.

L’interazione tra la Commissione e la Corte Edu si svolge secondo tre assi principali:

  1. l’uso sistematico, da parte della Commissione, della giurisprudenza della Corte;
  2. gli interventi di terzi della Commissione nella procedura davanti alla Corte;
  3. i riferimenti da parte della Corte, nelle proprie decisioni e sentenze, ai pareri e agli studi della Commissione.

 

A) Il nome per esteso della Commissione di Venezia – «Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto» – esprime il suo campo di azione specifico: le garanzie offerte dal diritto al servizio della democrazia. Lo statuto della Commissione di Venezia indica, inoltre, come prioritario il lavoro relativo «ai diritti e libertà fondamentali, in particolare quelli che riguardano la partecipazione dei cittadini nella vita pubblica» (art. 1, comma 2, lett. b). Tutto il lavoro della Commissione tende, perciò, alla promozione della democrazia e dello Stato di diritto, compresa la protezione dei diritti fondamentali. Quando valuta la compatibilità di un testo giuridico con gli standard convenzionali, la Commissione applica, naturalmente, la giurisprudenza della Corte Edu. Inoltre, la Commissione ha elaborato un gran numero di rapporti relativi all’efficacia del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo, ad esempio sull’esecuzione delle sentenze della Corte o sull’efficacia dei rimedi nazionali rispetto all’eccessiva durata dei procedimenti.

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B) La Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo i primi interventi di terzi da parte di Amnesty International e del Governo tedesco nel caso Soering c. Regno Unito (ric. n. 14038/88, 7 luglio 1989), ha ammesso diverse categorie d’intervenienti, che vantavano, a vario titolo, un interesse nella questione oggetto di esame consultivo. Tra queste categorie, si possono distinguere: 1) Stati che esercitano il diritto garantito dall’art. 36, comma 1, Cedu di intervenire nei ricorsi introdotti da un loro cittadino nei confronti di un altro Stato; 2) Stati che chiedono di essere autorizzati a intervenire in ricorsi che sollevano questioni di interpretazione della Cedu di particolare interesse; 3) altri organi o organizzazioni internazionali; 4) le istituzioni nazionali per i diritti umani; 5) le associazioni o gli istituti di ricerca e i centri di studi universitari.

Com’è noto, gli inviti o le autorizzazioni a presentare osservazioni da parte di terzi sono formulati dal presidente della Corte o della camera «nell’interesse di una corretta amministrazione della giustizia» (art. 36, par. 2, Cedu). La partecipazione di terzi assume una particolare utilità per la Corte, poiché le consente di integrare le informazioni di cui dispone; in effetti, a fronte dei propri limitati poteri d’indagine, in assenza d’interventi di terzi, essa potrebbe avvalersi soltanto delle informazioni provenienti dal ricorrente e dalle autorità dello Stato convenuto (oltre, ovviamente, al lavoro di ricerca della Cancelleria della Corte). Naturalmente, gli intervenienti, salvo la prima categoria sopra citata, non devono commentare i fatti che sono alla base del ricorso. Perché un intervento di terzi sia utile, dovrà apportare elementi di cui la Corte ha bisogno. Che l’interveniente perori una causa sulla base di giudizi sulle scelte politiche del governo, o della propria visione filosofica o religiosa del mondo, non aiuta la Corte. Che invece produca, ad esempio, elementi di diritto comparato o internazionale, ricercati e presentati in maniera oggettiva, o informazioni sul sistema giuridico interno e sulla giurisprudenza dei tribunali nazionali, sì.

Dal 2001 a oggi, la Commissione di Venezia è intervenuta in sei procedure pendenti davanti alla Corte, principalmente ai sensi dell’art. 36, par. 2, Cedu (in un solo caso dell’art. 44, par. 3, lett. a del Regolamento di procedura della Corte). La Commissione può generalmente iscriversi nella terza categoria di intervenienti.

Nel dicembre 2005, la Commissione di Venezia ha chiesto alla Corte l’autorizzazione di intervenire nel caso Parti nationaliste basque – Organisation régionale D’Iparralde c. Francia (ric. n. 71251/01), che sollevava la questione della legittimità della proibizione, per un partito politico, di ricevere fondi da parte di un partito politico straniero. La Commissione aveva, di recente, già adottato tre studi sui partiti politici – le «linee direttrici sulla proibizione e la dissoluzione dei partiti politici e misure analoghe», [CDL-INF(2000)001], le «linee direttrici e [il] rapporto sul finanziamento dei partiti politici» [CDL-INF(2001)007] e le «linee direttrici e [il] rapporto esplicativo sulla legislazione sui partiti politici: questioni specifiche» [CDL-AD(2004)007rev]. Peraltro, nessuno di questi si era occupato direttamente del problema sollevato da quel ricorso: la legittimità della proibizione del finanziamento da parte non di Stati, ma di partiti politici stranieri, e per di più, all’interno dell’Unione europea. La Corte ha riconosciuto il proprio interesse a ricevere un contributo da parte della Commissione[1] ponendole due quesiti: 1) nei Paesi membri del Consiglio d’Europa, il finanziamento dei partiti politici da parte di partiti politici stranieri è comunemente proibito o limitato? Se è così, quali Paesi adottano tali misure? 2) in quale misura la proibizione del finanziamento di un partito politico da parte di un partito politico straniero può ritenersi «necessaria in una società democratica», ai sensi dell’art. 11 Cedu? È necessario, in questo caso, adottare un approccio specifico a proposito del finanziamento di un partito politico registrato in un Paese membro dell’Ue da parte di un partito politico di un altro Paese membro dell’Ue?

Nel suo parere sulla proibizione del finanziamento dei partiti politici con fondi esteri [CDL-AD(2006)014], la Commissione si è fondata su una ricerca comparatistica relativa a 44 Paesi europei e sull’analisi della normativa comunitaria. Pur sottolineando la «necessità», «in una società democratica» della cooperazione tra partiti politici nel quadro delle numerosi organizzazioni e istituzioni sopranazionali esistenti in Europa, essa è pervenuta alla conclusione che la proibizione del finanziamento dei partiti politici, da parte di omologhi stranieri, possa ritenersi «necessaria in una società democratica» qualora: 1) detto finanziamento sia utilizzato per perseguire finalità incompatibili con la costituzione e le leggi del Paese destinatario (ad esempio, il partito straniero promuove la discriminazione e altre violazioni dei diritti fondamentali); 2) il finanziamento alteri l’equità o l’integrità della competizione politica, o provochi distorsioni del processo elettorale o, ancora, minacci l’integrità territoriale nazionale; 3) la proibizione faccia parte degli obblighi internazionali dello Stato; 4) il finanziamento estero inibisca la reattività dello sviluppo democratico. La Commissione ha aggiunto che è «ragionevole e appropriato» che gli Stati membri dell’Ue adottino un approccio specifico per quanto riguarda il finanziamento dei partiti da parte di partiti costituiti in altri Paesi membri dell’Unione. Secondo la Commissione, quindi, per decidere se la proibizione di finanziamento dei partiti politici con fondi esteri sia compatibile con le esigenze dell’art. 11 Cedu, è necessario esaminare individualmente ogni caso, tenendo conto della legislazione nazionale e degli obblighi internazionali che pesano sullo Stato, eventualmente a titolo della sua appartenenza all’Unione europea.

Con sentenza del 7 giugno 2007, la Corte Edu ha innanzitutto sottolineato che, se le «linee direttrici sul finanziamento dei partiti politici» della Commissione di Venezia si pronunciavano nel senso che proibire il finanziamento dei partiti politici da parte di altri Stati fosse necessario per proteggere la sovranità nazionale, il parere amicus curiae mostrava invece come la conclusione non fosse altrettanto univoca per il finanziamento con fondi stranieri. D’altra parte, anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa aveva raccomandato ai governi dei suoi Paesi membri di «limiter, interdire ou réglementer d’une manière spécifique les dons de sources étrangères». Secondo la Corte, in se stessa la limitazione del finanziamento con fondi stranieri non è incompatibile con l’art. 11 Cedu, ma è necessario procedere a un’analisi minuziosa del contesto in cui si muove il partito politico. Ammettendo, come sostenuto dal ricorrente e dalla Commissione di Venezia, che la cooperazione tra partiti politici all’interno dell’Ue s’iscriva nell’ambito della costruzione europea, la Corte ha esaminato dettagliatamente l’impatto della proibizione del finanziamento da parte del partito basco spagnolo sulle possibilità, per il partito politico ricorrente, di esercitare un’attività politica, ed è pervenuta alla conclusione che l’ingerenza potesse essere considerata come «necessaria in una società democratica» per «la difesa dell’ordine» (art. 11, par. 2, Cedu).

L’esame dei quesiti posti dalla Corte Edu alla Commissione, tenuto conto della sezione della sentenza riguardante i lavori precedenti della Commissione, dell’Assemblea parlamentare e del Comitato dei ministri, permette di comprendere cosa ricercasse la Corte attraverso l’intervento della Commissione: in primo luogo, certamente, un’altra ricerca e analisi della legislazione dei Paesi membri del Consiglio d’Europa e della legislazione dell’Ue; ma la Corte, prendendo atto dello stato della soft law a quel momento, ha anche sollecitato la Commissione a perseguire la propria riflessione sul tema dei partiti politici e a esprimersi sulla questione specifica – e nuova – sollevata dal ricorso. La Corte si è largamente servita del parere della Commissione nella sentenza.

Questa sinergia tra la Corte e la Commissione si è rivelata molto proficua per entrambe: da un lato, la Corte si è procurata elementi supplementari per pronunciarsi; d’altro lato, dichiarandosi d’accordo con le linee direttrici della Commissione («En l’espèce, la Cour n’a pas de difficulté à admettre que l’interdiction du financement des partis politiques par des Etats étrangers est nécessaire à la préservation de la souveraineté nationale; les “Lignes directrices et rapport sur le financement des partis politiques” adoptés par la Commission de Venise (…) retiennent d’ailleurs que les concours financiers venant des Etats étrangers doivent être prohibés»), le ha innalzate da semplici raccomandazioni non vincolanti a giurisprudenza vincolante, cioè hard law.

Autorizzando i successivi tre interventi della Commissione, la Corte ha poi riconosciuto l’utilità della conoscenza diretta e approfondita che la Commissione di Venezia possiede del contesto giuridico e politico dei Paesi dei Balcani. La Commissione ha cooperato con questi Paesi sin dagli anni Novanta, e ne ha spesso accompagnato, stimolato e influenzato i primi passi verso la realizzazione dei valori del Consiglio d’Europa tramite numerosi pareri, che hanno distribuito incoraggiamenti, moniti e raccomandazioni in parti uguali.

Così, la Corte ha autorizzato l’intervento della Commissione nel caso Bijelić c. Serbia e Montenegro. La questione dibattuta era se la Corte potesse considerare la Repubblica del Montenegro e/o la Repubblica di Serbia come responsabili delle violazioni dei diritti dell’uomo asseritamente subite dalle ricorrenti tra il 3 marzo 2004 (data di entrata in vigore della Cedu per l’unione statale tra la Serbia e il Montenegro) e il 5 giugno 2006 (data della dichiarazione d’indipendenza del Montenegro). Ora, la Commissione aveva reso in precedenza tre pareri sul processo che, il 5 giugno 2006, aveva portato all’indipendenza del Montenegro e sulla sua nuova costituzione da Stato indipendente[2]. Nella memoria amicus curiae [CDL-AD(2008)021], per la Commissione era corretto ritenere il Montenegro responsabile per le eventuali violazioni dei diritti fondamentali commesse tra il 3 marzo 2004 e il 5 giugno 2006. Secondo la Commissione, non era necessario attendere che Serbia e Montenegro concludessero i propri negoziati e pervenissero eventualmente a una regolamentazione separata di tale questione, né era necessario che il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa modificasse la decisione presa nel maggio 2007, in base alla quale «la Repubblica del Montenegro deve essere considerata come parte alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo e ai Protocolli nn. 1, 4, 6, 7, 12, 13 e 14, con effetto dal 6 giugno 2006». Nella sentenza, del 28 aprile 2009, la Corte, richiamando il principio secondo cui i diritti fondamentali protetti dai trattati internazionali appartengono agli individui che vivono sul territorio di un Paese contraente, indipendentemente dalle eventuali vicende di dissoluzione o successione, ha ritenuto – come la Commissione di Venezia – che la Cedu e i suoi Protocolli fossero rimasti in vigore ininterrottamente, rispetto al Montenegro, a partire dal 3 marzo 2004, e ha pronunciato la compatibilità ratione personae del ricorso nei rispetti del Montenegro, e l’incompatibilità ratione personae rispetto alla Serbia.

La Corte ha, poi, autorizzato l’intervento della Commissione di Venezia in due ricorsi contro la Bosnia Erzegovina. Nel maggio 2008, nel caso Sejdic e Finci c. Bosnia Erzegovina (ricc. nn. 27996/06 e 34836/06) l’intervento portava sul carattere asseritamente discriminatorio dell’esclusione degli “altri”, coloro cioè che non si sono affiliati a uno dei tre popoli costituenti (bosniaci, serbi, croati), dall’elezione della Camera dei popoli e della Presidenza, in applicazione delle disposizioni costituzionali ed elettorali pertinenti. La Commissione, nel parere amicus curiae del 22 ottobre 2008, ha concluso per l’incompatibilità delle disposizioni in questione con l’art. 14 Cedu, congiuntamente con l’art. 3 del Protocollo n. 1 alla Cedu (Camera dei popoli) e con l’art. 1 del Protocollo n. 12 (Camera dei popoli e Presidenza). La Commissione ha sottolineato, in particolare, come profondi cambiamenti di mentalità fossero intervenuti nel Paese dall’epoca degli accordi di Dayton. Inoltre, la struttura costituzionale delle entità, che non esclude gli “altri”, dimostrava l’esistenza di un’alternativa accettabile. Infine, l’adesione della Bosnia al Consiglio d’Europa, e le aspirazioni relative all’Unione europea, dovrebbero indicare una possibile volontà politica di superare l’assetto di Dayton.

 

La Corte, nella propria sentenza del 22 dicembre 2009, non si è basata solo sull’amicus curiae preparato dalla Commissione di Venezia, ma anche e più direttamente sui pareri adottati in precedenza dalla stessa Commissione sulla situazione costituzionale della Bosnia Erzegovina, in particolare quello del 2005 [CDL-AD(2005)004], in cui un intero capitolo era dedicato al carattere discriminatorio delle regole di elezione della Camera dei popoli e della Presidenza dello Stato. Il Governo convenuto ha sostenuto che la Cedu non esige di abbandonare totalmente i meccanismi di suddivisione del potere che sono propri alla Bosnia Erzegovina e che i tempi non fossero ancora maturi per un sistema politico che sia una semplice emanazione della regola della maggioranza. A questi argomenti, la Corte ha opposto l’analisi sviluppata dalla Commissione di Venezia nei propri pareri, «che dimostrano che esistono meccanismi di suddivisione del potere che non portano automaticamente all’esclusione totale dei rappresentanti di “altre” comunità». La Corte ha, pertanto, finito per costatare la violazione dell’art. 14 Cedu nonché delle citate disposizioni dei Protocolli nn. 1 e 12.

Infine, la Corte ha autorizzato la Commissione a intervenire nel caso Jeličić c. Bosnia Erzegovina (ric. n. 41183/02), che sollevava la questione se la procedura davanti alla Camera dei diritti dell’uomo della Bosnia Erzegovina costituisse «un’altra istanza internazionale d’inchiesta o di risoluzione» ai sensi dell’art. 35, par. 2, lett. b, Cedu. La conseguenza di un’eventuale risposta affermativa sarebbe stata la dichiarazione di irricevibilità del ricorso Jeličić e di ogni altro caso in cui si fosse precedentemente pronunciata la Camera dei diritti dell’uomo. La Corte ha chiesto alla Commissione di fornire «spunti di riflessione» e «background information» in risposta a due quesiti: se gli allegati nn. 4 e 6 agli accordi di Dayton del 1995 costituissero obblighi assunti unilateralmente dalla Bosnia Erzegovina o, invece, trattati internazionali; e se la procedura davanti alla Camera dei diritti dell’uomo potesse qualificarsi come un ricorso interno (ai sensi dell’art. 35, par. 1, Cedu) o come una procedura innanzi a un’altra istanza internazionale (ai sensi dell’art. 35, par. 2, lett. b, Cedu).

Secondo il parere amicus curiae della Commissione [CDL-AD(2015)020], gli accordi di Dayton sono indiscutibilmente un trattato-quadro internazionale, al quale gli Allegati apportano la sostanza. Anche l’Allegato 6, l’accordo sui diritti dell’uomo, è quindi un trattato internazionale benché sottoscritto soltanto da un Paese, la Bosnia Erzegovina. Ciononostante, la procedura davanti alla Camera dei diritti dell’uomo, istituita dall’Allegato 6, non è internazionale, ma deve considerarsi come interna, perché la Camera esercita il proprio mandato solo all’interno del territorio della Bosnia Erzegovina e relativamente a obblighi assunti non tra Stati, ma dallo Stato e dalle due entità nei confronti dei cittadini bosniaci. La Corte, con la decisione del 15 novembre 2005, è pervenuta alle stesse conclusioni della Commissione.

Mentre nei primi quattro casi era stata la Commissione di Venezia, in seguito a contatti tra il Segretariato e la Cancelleria, a chiedere alla Corte Edu di autorizzarne l’intervento di terzi, nei due casi più recenti è stata la Corte stessa a richiederne l’intervento, facendo appello «alle competenze della Commissione in materia costituzionale».

Così, nel caso Rywin c. Polonia (ricc. nn. 6091/06, 4047/07 e 4070/07), nel gennaio 2014 la Corte ha giustificato la richiesta di intervento sottolineando la pertinenza delle «competenze della Commissione di Venezia in materia costituzionale» per trattare l’oggetto del ricorso – questioni attinenti al funzionamento delle commissioni parlamentari d’inchiesta. La Corte ha posto due quesiti alla Commissione: come si debba procedere nel caso in cui, nel corso della procedura davanti a una commissione parlamentare d’inchiesta, si rinvengano elementi che indichino che è stato commesso un reato; a quale stadio la procedura debba essere aperta al pubblico, nell’ipotesi in cui l’inchiesta riguardi attività di una persona che non svolge una funzione ufficiale come rappresentante di un’autorità pubblica.

La Commissione di Venezia ha fornito spiegazioni molto dettagliate: 1) la commissione d’inchiesta deve informare la procura e trasmettere informazioni e documentazione secondo le disposizioni vigenti; 2) l’inchiesta non deve essere sospesa: la commissione deve continuare l’indagine sui fatti, e pervenire alle proprie valutazioni politiche; 3) devono esistere appopriati protocolli di cooperazione tra la commissione parlamentare e la procura, nel rispetto delle differenze e del diritto di difesa della persona indagata e di chi compaia davanti alla commissione; 4) nel procedere alle audizioni e alle deliberazioni, la commissione deve tener conto della pendenza di indagini o procedure penali, astenendosi dal pronunciare determinazioni o affermazioni che possano ledere il principio di presunzione di innocenza; essa dovrà, inoltre, vegliare a non ostruire o interferire ingiustificatamente con le indagini o la procedura penale; 5) nel proprio rapporto la commissione parlamentare non deve emettere giudizi di natura penale né pronunciarsi sulla responsabilità penale delle persone in causa; deve, però, essere libera di descrivere e analizzare i fatti da un punto di vista politico;  6) infine, il coinvolgimento di persone che non svolgono incarichi pubblici non dovrebbe impedire alla commissione di svolgere indagini nei loro confronti, nella misura in cui è necessario per le finalità dell’inchiesta. La Commissione di Venezia ha anche richiamato, con riferimento alla pubblicità delle audizioni della commissione d’inchiesta, che spetta al legislatore decidere in proposito, tenendo conto della necessità, da parte dei membri della commissione di inchiesta, di bilanciare gli interessi.

Nella sentenza del 18 febbraio 2016, la Corte Edu è pervenuta a una constatazione di non violazione del diritto alla presunzione d’innocenza e del diritto di essere giudicato da un tribunale indipendente e imparziale. Il ragionamento seguito dalla Corte è coerente con la linea suggerita dalla Commissione di Venezia.

Da ultimo, nel luglio 2017, il presidente della Corte ha chiesto alla Commissione di Venezia di intervenire nel ricorso Berlusconi c. Italia (ric. n. 58428/13), che sollevava questioni di perdita del mandato elettivo che, secondo la Corte, «la competenza della Commissione in materia costituzionale» poteva aiutare a trattare. Nell’ottobre 2017, la Commissione ha adottato una memoria amicus curiae [CDL-AD(2017)025] nella quale, fondandosi su una ricerca comparata sulla legislazione di 62 Paesi, ha risposto al quesito, postole dalla Corte: «Quali sono le garanzie procedurali minime che uno Stato deve fornire nel quadro di una procedura di perdita del mandato elettorale?».

La Commissione ha, innanzitutto, operato una distinzione tra ordinamenti che rimettono interamente al giudice la valutazione della proporzionalità delle limitazioni del diritto di voto e di essere eletto per i detenuti condannati, e ordinamenti – come quello italiano – che invece fissano a livello legislativo le circostanze in cui tali restrizioni sono ammissibili. In quest’ultimo caso, il bilanciamento degli interessi contrapposti finalizzato a evitare restrizioni automatiche e indiscriminate è effettuato dal legislatore stesso. Così, la previsione della perdita ex lege del mandato elettivo deve tener conto della gravità e della natura del reato commesso, e della condotta del condannato. La legge può prevedere la perdita automatica del mandato o ancora richiedere, come in Italia, un’ulteriore pronuncia del Parlamento; la Commissione è stata comunque d’avviso che tale pronuncia non rappresenti un’autonoma ingerenza con il diritto di essere eletto, perché il Parlamento non può decidere di applicare la perdita del mandato se questa non sia già comminata dalla legge (altrimenti si violerebbe il principio della preminenza del diritto). Il Parlamento può, invece, opporsi a tale perdita e permettere al candidato di ottenere o mantenere il proprio mandato, ma così facendo non infligge e, anzi, elimina la limitazione ex lege del diritto di essere eletto[3]. Per questa ragione, la Commissione di Venezia ha ritenuto che le garanzie della procedura di privazione di mandato possano essere ridotte, e comprendere unicamente il diritto di presentare difese, di comparire di persona e di essere rappresentato da un legale di fiducia, la tenuta di un’udienza pubblica e il carattere pubblico della decisione. La Commissione ha aggiunto che la possibilità di ricorso alla Corte costituzionale rappresenterebbe una logica garanzia complementare.

Non si saprà mai se la Corte sarebbe stata d’accordo con le conclusioni della Commissione di Venezia: con decisione del 15 novembre 2018, su richiesta del ricorrente a seguito della propria riabilitazione, intervenuta l’11 maggio 2018, la Corte – con decisione presa a maggioranza – ha radiato il ricorso dal ruolo, non ritenendo che sussistessero circostanze speciali attinenti al rispetto dei diritti dell’uomo che giustificassero la continuazione del ricorso.

Che cosa hanno apportato, dunque, gli interventi della Commissione di Venezia «al buon funzionamento dell’amministrazione della giustizia», cioè al lavoro della Corte? Senz’altro, in primo luogo, ricerche comparatistiche obiettive e accurate sulle norme costituzionali e legislative dei Paesi membri del Consiglio d’Europa e sulla giurisprudenza costituzionale e degli organi di amministrazione elettorale; in secondo luogo, analisi obiettive delle norme di diritto internazionale e comunitario; in terzo luogo, la conoscenza dettagliata e la profonda comprensione del contesto costituzionale, giuridico e politico di numerosi Stati dell’Europa dell’Est e dei Balcani, con cui la Commissione lavora sin dall’inizio degli anni Novanta. Infine, analisi – confrontate con, e confortate dagli scambi di vedute con le autorità statali, con l’opposizione, con le istituzioni nazionali indipendenti, con le corti costituzionali, con i magistrati e con la società civile – dell’impatto, avverato o potenziale, di una determinata norma o situazione giuridica sull’esercizio dei diritti fondamentali.

 

C) Se non ci sono stati interventi amicus curiae della Commissione tra il 2009 e il 2017, non è certo perché l’interazione con la Corte Edu si sia arrestata o sia anche solo diminuita. Con il passare degli anni, il materiale prodotto dalla Commissione di Venezia si è accumulato e diversificato, offrendo alla Corte un vasto serbatoio di riferimenti e analisi cui attingere liberamente. Ultimamente, la Corte si è quindi rivolta alla Commissione con specifiche richieste d’intervento solo quando le questioni sollevate dal ricorso non erano ancora state affrontate dalla Commissione.

In effetti, dal 2001 a oggi, senza interruzione, la Corte ha effettuato un gran numero di riferimenti ai lavori – tanto agli studi quanto ai pareri relativi a Paesi specifici – della Commissione di Venezia.

Il primo riferimento alla Commissione risale al 2001, alla decisione con cui è stato rigettato il famoso ricorso (n. 52207/99) presentato da Vlastimir e Borka Banković, Živana Stojanović, Mirjana Stoimenovski, Dragana Joksimović e Dragan Suković contro il Belgio e 16 altri Stati (Repubblica Ceca, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Portogallo, Spagna, Turchia e Regno Unito). Nel procedere all’interpretazione del significato di «giurisdizione» ai termini dell’art. 1 Cedu, la Corte fa riferimento al rapporto della Commissione di Venezia «sul trattamento preferenziale delle minoranze nazionali da parte del loro Stato-parente [kin-State]» per affermare che la competenza di uno Stato a esercitare la propria giurisdizione sui propri cittadini all’estero è subordinata alla giurisdizione territoriale di quello Stato e che, inoltre, uno Stato non può esercitare la propria giurisdizione sul territorio di un altro Stato senza il consenso, l’invito o l’acquiescenza di quest’ultimo.

Il riferimento più recente alla Commissione di Venezia da parte della Corte risale al mese di novembre 2018 (Demirtas c. Turchia, ric. n. 14305/17). Tra il 2001 e il 2018, la Corte ha fatto riferimento alla Commissione di Venezia in più di 150 sentenze, di cui 34 di Grande Camera[4].

Le citazioni della Commissione di Venezia possono essere distinte in due categorie. La prima comprende le citazioni di codificazioni di standard e di rapporti di natura generale, in primo luogo in materia di diritto elettorale e partiti politici, due aree del diritto in cui gli standard di hard law sono molto rari: «Code of good practice on electoral matters: code of good practice on referendums, code of good practice in the field of political parties» [CDL-AD(2009)002]; «Guidelines and explanatory report on legislation on political parties: some specific issues» [CDL-AD(2004)007rev]; «Joint guidelines on political party regulation by Osce/Odihr and Venice Commission» [CDL-AD(2010)024]; «Report on the participation of political parties in elections» [CDL-AD(2006)025-e]; «Report on the method of nomination of candidates within political parties» [CDL-AD(2015)020]; «Guidelines on the prohibition and dissolution of political parties and analogous measures» [CDL-INF (2000)]. La Corte, che ha inserito le citazioni dei lavori della Commissione nella sezione «Relevant international material or law» delle sentenze, ha citato anche molti altri rapporti della Commissione, come quelli in tema di «relazione tra libertà di espressione e libertà di religione: blasfemia, insulto religioso e incitazione all’odio», «controllo democratico dei servizi di sicurezza e della raccolta di segnali elettromagnetici», «videosorveglianza da parte di attori privati».

 Nella seconda categoria ricadono le citazioni di pareri relativi a Paesi determinati. La Corte di Strasburgo si è riferita, innanzitutto, alla descrizione e all’analisi effettuate dalla Commissione della situazione costituzionale di un Paese. Si vedano, ad esempio, la sentenza Sejdic e Finci succitata e la sentenza Volkov c. Ucraina (ric. n. 21722/11, 9 gennaio 2013), in cui la Corte ha citato il parere congiunto della Commissione e delle Direzioni generali dei diritti dell’uomo e degli affari giuridici del Consiglio d’Europa «sulla legge di modifica di certi atti legislativi dell’Ucraina relativi alla prevenzione dell’abuso del diritto di appello», per concludere che la procedura davanti al Consiglio della magistratura non era compatibile con i principi di indipendenza e imparzialità richiesti dall’art. 6, par. 1, Cedu.

Ma la Corte Edu ha anche utilizzato il giudizio espresso dalla Commissione di Venezia sulla compatibilità di una costituzione o di una legge con gli standard europei, in particolare con la Cedu. Questo è il fulcro delle competenze della Commissione, ed esprime la sua singolarità. La Commissione esamina la compatibilità di leggi e progetti di legge con gli standard convenzionali elaborati dalla Corte, ma – a differenza di quest’ultima – non esamina situazioni individuali. La Commissione si concentra sul requisito della previsione per legge, segnatamente sulla necessità che la specifica base legale della restrizione sia accessibile agli interessati e sia tale da consentire loro di ragionevolmente prevedere le conseguenze della propria condotta (l’aspetto della “qualità della legge”). La Commissione s’interessa, inoltre, alla chiarezza della previsione legislativa dello scopo e delle modalità di esercizio della discrezionalità conferita alle autorità o alle corti nazionali. In sostanza, il gruppo di esperti veneziani effettua un pronostico alla luce degli standard convenzionali sulla legalità e sulla proporzionalità delle ingerenze che il testo legislativo in questione provoca o provocherà. La Corte si interessa sempre di più a questo pronostico.

Così, nella recente sentenza Alekhina e altri c. Russia (ric. n. 38004/12, 17 luglio 2018),  che riguarda la condanna dei ricorrenti («Pussy Riot») in seguito a una performance artistica eseguita nella cattedrale di Mosca e la dichiarazione che i video della performance costituissero materiale «estremista», la Corte ha utilizzato sia il rapporto del 2006 della Commissione di Venezia sulla relazione tra libertà di espressione e libertà di religione, sia il suo parere del 2012 relativo alla legge federale russa sulla repressione delle attività estremiste. Il primo è citato tra le fonti di standard internazionali (insieme alle decisioni del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni unite), e la Corte ne ha estratto e ne ha condiviso l’affermazione dell’ammissibilità delle restrizioni della libertà di espressione sotto la forma di sanzioni penali solo in caso di incitazione all’odio. Il secondo è stato utilizzato dalla Corte per determinare la legalità dell’ingerenza. La Corte ha notato che la Commissione di Venezia aveva espresso riserve sull’inclusione di certe attività nella lista di quelle considerate «estremiste» e aveva deplorato l’assenza della violenza come elemento qualificante dell’estremismo. La Corte ha, quindi, ritenuto che si ponesse una questione di “previsione legislativa”, ma ha finalmente lasciato aperta la questione perché si è comunque addentrata nel tema della necessità dell’ingerenza in una società democratica, concludendo alla violazione dell’art. 10 Cedu.

Nella sentenza Comunità Bektashi e altri c. «ex Repubblica yugoslava di Macedonia» (ricc. nn. 48044/10, 75722/12, 25176/13, 12 aprile 2018) relativa al rifiuto di permettere all’associazione ricorrente di mantenere il proprio status di organizzazione religiosa, la Corte Edu ha citato il parere della Commissione di Venezia sulla legge macedone del 2007, nel quale la Commissione aveva espresso dubbi sul fatto che una denominazione simile fosse sufficiente a creare confusione, e aveva ammonito le autorità a rimanere neutrali di fronte alla registrazione delle organizzazioni religiose. La Corte ha costatato una violazione dell’art. 11 Cedu sulla base di entrambi questi elementi.

Nella sentenza Bakir e altri c. Turchia (ric. n. 46713/10, 10 luglio 2018), riguardante la libertà di espressione, la Corte ha utilizzato il parere della Commissione del 2016 sugli artt. 216, 229, 301 e 314 del codice penale turco, nel quale la Commissione aveva messo in dubbio il rispetto del principio di legalità.

Nelle sentenze Centrum för Rättvisa c. Svezia (ric. n. 35252/08, 19 giugno 2018) e Big Brother Watch e altri c. Regno Unito (ricc. nn. 58170/13, 62322/14, 24960/15, 17 settembre 2018), la Corte ha utilizzato e ha condiviso le conclusioni del rapporto del 2015 della Commissione di Venezia sul controllo democratico delle agenzie di raccolta di segnali elettromagnetici.

Nella decisione Aumatell I Arnau c. Spagna (ric. n. 70219/17, 4 ottobre 2018), relativa all’equità della procedura dinnanzi al Tribunale costituzionale spagnolo, la Corte ha utilizzato il parere della Commissione del 2017 sugli emendamenti alla legge organica sul Tribunale costituzionale. La Corte ha notato come la Commissione, a differenza dal Tribunale costituzionale spagnolo, avesse concluso che la procedura davanti a quest’ultimo potesse essere considerata «penale», in particolare a causa della severità delle sanzioni, ed è stata finalmente d’accordo con la Commissione.

La lista delle sentenze della Corte Edu che contengono riferimenti ai lavori della Commissione di Venezia è lunga. Se ne puo’ dedurre un uso crescente, da parte della Corte, non solo degli standard generali elaborati dalla Commissione, ma anche dell’analisi che quest’ultima effettua dei contesti costituzionali e legislativi nazionali e, soprattutto, dei suoi pareri su testi legislativi nazionali le cui conseguenze la Corte si trova a dover giudicare nei ricorsi individuali che le vengono sottoposti.

4. Conclusioni

Dall’interazione o, meglio, dalla «fertilizzazione incrociata» per usare un’espressione cara alla Commissione, tra la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Commissione di Venezia, quest’ultima trae autorità, prestigio e visibilità. Gli standard di soft law elaborati dalla Commissione acquisiscono forza di hard law quando la Corte se ne appropria. Che la Corte Edu si dichiari esplicitamente d’accordo con i pronostici di compatibilità di una legge con gli standard convenzionali emessi dalla Commissione rinforza l’autorevolezza dei pareri di quest’ultima, motivando e incitando gli Stati a ricercarne l’assistenza al momento della stesura delle leggi, per prevenire ricorsi alla Corte e sentenze di violazione della Cedu una volta che queste leggi saranno in vigore. Tenendo conto della dilatazione temporale che la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni impone tra l’applicazione concreta di una legge e il suo esame da parte della Corte, il lavoro della Commissione di Venezia, a monte di ogni ingerenza, in un certo senso anticipa gli effetti delle pronunce della Corte, effettuando a titolo preventivo il lavoro di esecuzione delle misure generali che sarebbero necessarie in caso di un’eventuale pronuncia di condanna. E non si deve dimenticare che la Commissione di Venezia esercita una notevole influenza sui legislatori dei suoi Paesi membri.

La Corte beneficia dell’assistenza della Commissione perché ne ricava preziose analisi, sia comparatistiche sia di approfondimento della situazione costituzionale e legislativa di Stati specifici, nonché di giudizio pronostico sull’impatto di certi testi legislativi sull’esercizio dei diritti fondamentali, che sono riconosciute come professionali e indipendenti. La Corte mostra inoltre di essere reattiva rispetto ai lavori degli altri organi del Consiglio d’Europa (non solo la Commissione di Venezia, ma anche l’Assemblea parlamentare, il Comitato dei ministri, il Commissario, gli organi di monitoraggio) e di essere parte di un sistema coerente.

Non deve sottovalutarsi, inoltre, che l’opposizione, la società civile, i giudici e le istituzioni indipendenti degli Stati membri trovano, tramite la Commissione di Venezia che ne recepisce le argomentazioni nei propri pareri, un canale di comunicazione con la Corte Edu che altrimenti sarebbe, nella maggioranza dei casi, loro precluso.

Gli organi statutari del Consiglio d’Europa che hanno il potere di chiedere pareri alla Commissione di Venezia, in primis l’Assemblea parlamentare, finiscono per contribuire indirettamente a fornire alla Corte ulteriori elementi di giudizio che ne arricchiscono il ragionamento.

Questa sinergia tra la Corte e la Commissione, che potrebbe essere potenziata tramite una coordinazione più sistematica tra la Cancelleria della Corte e il Segretariato della Commissione di Venezia, è mutualmente benefica e apporta, inoltre, un beneficio considerevole alla protezione dei diritti dell’uomo in Europa.

[1] Anziché accedere alla richiesta d’intervento secondo l’art. 36, par. 2, Cedu, la Corte ha adottato un provvedimento istruttorio ai sensi dell’art. A1, par. 2, dell’Allegato al Regolamento di procedura, riguardante le inchieste.

[2] CDL-AD(2005)041, parere sulla compatibilità con le norme internazionali della legislazione in vigore in Montenegro sull’organizzazione dei referendum; CDL-AD(2007)017, parere intermedio sul progetto di Costituzione del Montenegro; CDL-AD(2007)047, parere sulla Costituzione del Montenegro. 

[3] Sotto il profilo del diritto a essere eletto, il problema è quindi risolto e un’eventuale doglianza risulterebbe incompatibile ratione personae con le disposizioni della Cedu. Anche la questione se la possibilità che il Parlamento decida di non confermare la perdita del mandato elettivo decisa da un giudice penale sia problematica sotto il profilo della separazione dei poteri sfuggirebbe, per la stessa ragione, al sindacato della Corte. 

[4] https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22documentcollectionid2%22:[%22GRANDCHAMBER%22,%22CHAMBER%22],%22organisations%22:[%22Venice%20Commission%22]}.