La Corte Edu tra Corte costituzionale e giudici comuni
1. Il punto di partenza
Una questione centrale e continuamente ricorrente è quella relativa al ruolo da attribuirsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Prima di soffermarsi sul “versante interno” della questione, è bene ricordare come la necessità di tenere conto, nell’applicazione della Cedu, degli indirizzi interpretativi della Corte Edu sia stata da tempo e con vigore affermata proprio da tale Corte.
Significativa appare, in particolare, quella giurisprudenza della Corte Edu che, in termini sostanzialmente sanzionatori, afferma la possibilità di rivolgersi direttamente a essa – in deroga alla regola del previo esaurimento dei rimedi interni – qualora sia emerso un costante discostamento dai suoi orientamenti interpretativi a opera delle autorità nazionali, le quali, per tale ragione, potranno essere “scavalcate”[1].
Anche per questo, non stupisce che il problema del rispetto della giurisprudenza di Strasburgo fosse emerso già prima delle “sentenze gemelle” del 2007.
Ad esempio, nelle sentenze Cass., sez. lav., 10 marzo 2004, n. 4932 e 27 marzo 2004, n. 6173, e in quelle delle sez. unite del 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340, 1341, nell’obbligo d’interpretazione conforme alla Cedu – anch’esso già teorizzato e praticato prima del 2007 – si era “incorporato” il dovere di tenere conto della giurisprudenza europea, ragionandosi in particolare (nella sentenza n. 6173) di una «funzione di orientamento e indirizzo che rispetto alla giurisprudenza interna svolgono gli arresti della Corte europea, dei quali (…) i giudici nazionali devono darsi carico, eventualmente esponendo i motivi in base ai quali ritengono di dover pervenire ad un risultato ermeneutico diverso».
Si era osservato a suo tempo, commentando le sentenze nn. 348 e 349 del 2007, come tale interessante approccio potesse forse sopravvivere nel quadro da esse delineato, agganciandosi all’esigenza, ribadita dalla Consulta, di garantire comunque la prevalenza della Costituzione: il che, facendo “corto circuito” con il noto obbligo del giudice comune di privilegiare l’interpretazione costituzionalmente conforme, sembrava al contempo confermare e delimitare questo possibile “margine di discostamento” dei giudici comuni dalla giurisprudenza di Strasburgo, indicando i principali, se non gli unici, motivi in grado di giustificare il discostamento.
Sembra utile ricordare, a questo proposito, quei passaggi della stessa sentenza n. 348/2007 secondo cui si deve «escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali», dovendosi tale controllo «sempre ispirar[e] al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione».
Si è consapevoli – e, all’epoca, si era voluto puntualizzare – che tale affermazione «appare discendere semplicemente dalla superiorità della “fonte” costituzionale rispetto a quella convenzionale, e non implica affatto una latente “superiorità” delle “corti” interne (neanche di quella costituzionale), ipoteticamente derivante dalla possibilità – che invece resta esclusa – di attribuire agli enunciati convenzionali significati diversi e incompatibili con quelli assegnatigli dalla Corte di Strasburgo»[2].
Nondimeno, specie alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, quei passaggi sembrano suggerire un’altra prospettiva. Sembra, cioè, che vi sia ancora uno spazio (“illuminato”, se non ampliato proprio dalle precisazioni fornite nel tempo dalla Consulta) di autonomia interpretativa dei giudici comuni: spazio che, per un verso, sarebbe “a monte” delimitato dal carattere più o meno stringente della giurisprudenza europea sul tema in questione (in particolare, alla luce dei criteri indicati nella sentenza n. 49/2015, come si vedrà più avanti) e, per l’altro, sarebbe guidato “a valle” proprio dalla necessità di ricercare il più «ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione».
Per poter meglio cogliere il senso e l’esatta portata di tale affermazione occorre, però, addentrarsi nel problema di fondo e nelle indicazioni che, riguardo ad esso, ha fornito la Corte costituzionale nella giurisprudenza successiva al 2007.
Una prima, fondamentale questione riguarda la stessa opportunità di porre e affrontare il problema in termini unitari, riferendosi cioè alla giurisprudenza della Corte Edu come se essa fosse una realtà unica e omogenea.
Già oltre dieci anni fa, proprio in sede di commento alle “sentenze gemelle”, si era avuto modo di formulare «un suggerimento di grande prudenza nella “ricostruzione” della giurisprudenza di Strasburgo (al punto che ci si potrebbe chiedere se non sia il caso di parlare di più “giurisprudenze”), la cui “coerenza” e “unitarietà” appare ostacolata, oltre che dalla struttura e dal funzionamento della Corte da una parte e dalla grande diversità dei contesti nazionali sullo sfondo delle decisioni dall’altra, proprio dalla varietà dei casi e precipuamente dei “punti di vista” di volta in volta adottati per ragioni contingenti», i giudizi della Corte Edu risentendo delle «peculiari dinamiche processuali (per così dire sempre “verticali”, con una sedicente “vittima” privata che ricorre contro uno Stato, asserito violatore dei suoi diritti), tali da indurre “strutturalmente” a valorizzare la posizione ed i diritti di una delle parti rispetto ai diritti, principi, valori, interessi più o meno visibilmente (spesso invisibilmente) “incorporati” nella posizione della parte opposta»[3].
Con il tempo, la consapevolezza di tutto ciò è molto aumentata, e la stessa Corte costituzionale ha progressivamente messo a fuoco la questione, creando un po’ alla volta un piccolo arsenale di «strumenti idonei ad attenuare il vincolo all’interpretazione della Corte di Strasburgo, sia per disinnescare possibili conflitti tra Cedu e principi costituzionali, sia per escludere il contrasto tra la legge impugnata e le norme convenzionali invocate, nella versione risultante dalla giurisprudenza europea»[4].
2. Cenni sulla giurisprudenza costituzionale precedente alla sentenza n. 49/2015
Di tali strumenti è opportuno richiamare, almeno, i principali, appoggiandosi in parte alla citata ricognizione effettuata prima della sentenza n. 49/2015: sentenza che può considerarsi, allo stato attuale, il principale punto di approdo di tale percorso, ma che non riassume in modo esauriente né “cancella” il portato delle precedenti tappe.
Anzitutto, sembrano significative, nel quadro delle riflessioni svolte, quelle decisioni in cui la Corte costituzionale ha fatto ricorso, sostanzialmente, alla tecnica del distinguishing, sul presupposto che a fondamento del dubbio di costituzionalità debba porsi un «principio di diritto» “estrapolabile” dai precedenti della Corte Edu e applicabile a casi non necessariamente identici, ma almeno analoghi.
Può richiamarsi in questo senso la sentenza n. 239/2009, nella quale la Corte osserva che il rimettente, «per giustificare l’estrapolazione, partendo dal precedente specifico della Corte di Strasburgo, di un principio di diritto che potesse costituire il fondamento del dubbio di costituzionalità, avrebbe dovuto argomentare in modo plausibile la analogia fra quel caso specifico e quello, non necessariamente identico, su cui era chiamata a giudicare» (corsivi aggiunti, qui come altrove, ove non diversamente indicato).
Sulla stessa linea, nella sentenza n. 230/2012 la Corte lamenta la circostanza che «[d]ifetta […] – né il rimettente l’ha comunque posta in evidenza – una qualsivoglia analogia tra il caso esaminato dalla Corte europea e quello oggetto del giudizio interno: analogia il cui riscontro rappresenta un presupposto necessario per “importare” il principio affermato in sede europea nell’ambito del controllo di legittimità costituzionale».
Vi sono, poi, le note decisioni in cui la Corte ha affermato che «l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/03)» (così la sentenza n. 311/2009).
Altrove la Corte ha osservato che se essa «non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della Cedu a quella della Corte di Strasburgo, può però “valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma Cedu, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza”» (sentenza n. 236/2011, con citazione della sentenza n. 317/2009).
In più occasioni, poi, si è richiamato il concetto di margine di apprezzamento,talora combinando tale argomento con altri, anche mediante rimandi che, come in un gioco di specchi, sembrano amplificare il portato delle singole pronunce.
Per esempio, si legge sempre nella sentenza n. 236/2011 che «[a] questa Corte compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi».
Nella sentenza n. 303/2011 si afferma, con sottili variazioni e interessanti integrazioni (oltre che con il consueto collage stratificato di autocitazioni), che se la Corte «non può prescindere dall’interpretazione della Corte di Strasburgo di una disposizione della Cedu, essa può, nondimeno, interpretarla a sua volta, beninteso nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo, ma “con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)” (sentenza n. 236 del 2011)».
Ancora, nella sentenza n. 264/2012 si legge che «[i]l richiamo al “margine di apprezzamento” nazionale − elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, e rilevante come temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea − deve essere sempre presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro. […] In definitiva, se […] il giudice delle leggi non può sostituire la propria interpretazione […] della Cedu a quella data in occasione della sua applicazione al caso di specie dalla Corte di Strasburgo, […] esso però è tenuto a valutare come ed in quale misura l’applicazione della Convenzione da parte della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano».
Nel composito quadro progressivamente delineato, nei suoi tratti essenziali, dalle decisioni citate (e da quelle successive che a esse hanno fatto variamente riferimento, senza elementi di novità che valga la pena menzionare), si è inserita in modo forse non dirompente, ma certamente molto innovativo, la più volte citata sentenza n. 49/2015.
3. Le indicazioni metodologiche contenute nella sentenza n. 49/2015
Sulla sentenza n. 49/2015 si è detto e scritto moltissimo e non si può certo entrare, in questa sede, nel dibattito sorto tra i commentatori. Non ci si può esimere, tuttavia, dal richiamarne alcuni imprescindibili passaggi e dal formulare poi alcune osservazioni.
Iniziamo da un sintetico riepilogo dei punti salienti della decisione.
In breve, nella sentenza n. 49, dopo aver censurato l’operato del giudice a quo perché questi aveva «attribuito all’art. 7 della Cedu un significato non immediatamente desumibile da tale disposizione» sulla sola base di una pronuncia della Corte Edu la quale non era, «con ogni evidenza, espressione di un’interpretazione consolidata nell’ambito della giurisprudenza europea»[6].
In particolare – si è precisato –, nel caso in cui il giudice abbia motivo di «interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della Cedu, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale»[7].
Per converso, la Corte ha ribadito che «[s]olo [ma pur sempre!] nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di “ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”, ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter “prescindere” (…), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte».
Data l’altissima posta in gioco (ovvero la marcata differenza di “regime”, in termini di poteri e doveri spettanti al giudice comune, per i due casi considerati), è apprezzabile il fatto che, allo scopo precipuo di fornire al giudice un aiuto nel suo «percorso di discernimento» per quei casi “difficili”[8] in cui non sia «di immediata evidenza se una certa interpretazione delle disposizioni della Cedu abbia maturato a Strasburgo un adeguato consolidamento», la Corte si è spinta a elencare una fitta serie di “indici”[9] che, volendo, potrebbe essere anche letta come un (ulteriore) arsenale di argomenti messo a disposizione soprattutto del giudice comune (oltre che di se stessa), per poter “prendere le distanze” da pronunce “scomode”.
Di certo, alla base e/o a sostegno dell’impostazione della Corte c’è, o comunque può oggettivamente porsi, un’esigenza di tutto rilievo, non trascurabile, e cioè quella di evitare che si arrivi, come si è detto, ad «adegua[re] definitivamente l’ordinamento interno ad un principio per nulla stabile, ed anzi ben suscettibile di non trovare conferma nella successiva giurisprudenza europea»[10].
In altri termini, il rischio è che, in qualche occasione, ci si possa ritrovare a essere… “più realisti del re”, ovvero a impugnare ed eventualmente annullare in via definitiva norme nazionali ritenute contrastanti con la Cedu sulla sola base di indirizzi giurisprudenziali controversi ed “effimeri” della Corte di Strasburgo, magari di singole sentenze destinate a essere “smentite” in breve tempo.
I questi casi è vero che, in teoria, si potrebbe reintrodurre, in un secondo momento, la disciplina “erroneamente” dichiarata incostituzionale attraverso una nuova legge, eventualmente in via retroattiva, ove possibile e opportuno (salva poi l’ipotesi ulteriore, ben più ardita, di interventi “ripristinatori” della stessa Corte costituzionale).
Tuttavia, è chiaro che si tratterebbe in ogni caso di situazioni e soluzioni piuttosto bizzarre (se non anche forzate) e che il problema di fondo esiste e non va sottovalutato.
4. La sentenza della Corte Edu, Grande Camera, del 28 giugno 2018, GIEM e altri c. Italia, e la “lezione” da trarne
A conferma, esemplificazione pratica e integrazione di quanto si è appena osservato – in termini quasi coincidenti con quelli già utilizzati in altra sede e in tempi “non sospetti”[11] – si può ora richiamare l’attenzione sull’intervenuta sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo GIEM e altri c. Italia, depositata il 28 giugno 2018, che torna a fare il punto proprio sulla disciplina italiana della confisca urbanistica, su cui si era soffermata la Corte costituzionale nella sentenza n. 49.
Con la sentenza del 28 giugno 2018, infatti, la Corte Edu ha affermato che deve ritenersi, in linea di principio, conforme alla Convenzione l’applicazione della menzionata sanzione anche unitamente alla dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, a condizione che sia stata accertata incidentalmente la colpevolezza dell’imputato, discostandosi così dalla lettura che «era stata attribuita dalla grande maggioranza dei commentatori alla sentenza della Corte di Strasburgo Varvara c. Italia del 2013, con la quale sarebbe stata posta al bando la confisca urbanistica “senza condanna”», precludendo in particolare, secondo tale lettura, «che la confisca fosse disposta, previo accertamento incidentale della colpevolezza, insieme con la sentenza che dichiara non luogo a procedere a seguito di estinzione del reato per prescrizione (con grave danno per l’interesse pubblico, considerato che il reato di lottizzazione abusiva molto spesso si prescrive)»[12].
Ed è appunto tale esito preclusivo che la Corte costituzionale aveva scongiurato con la sent. 49/2015, la quale ha escluso che dalla sentenza Varvara derivasse una simile conseguenza nel nostro ordinamento.
Ebbene, ecco il punto (e vale la pena coglierlo con le efficaci parole di Marco Bignami), «[c]he sarebbe successo, allora, se la Corte costituzionale avesse dichiarato nel 2015 la incostituzionalità della normativa italiana che la prevede, per adeguarsi a ciò che appariva allora, dopo la sentenza Varvara, il contenuto dell’art. 7 Cedu, e che in seguito, dopo la pronuncia della Grande Camera, si è rivelato illusorio? Problema non da poco, perché seguendo quella via, auspicata dai più, avremmo rinunciato ad un potente strumento di contrasto allo scempio del territorio, per così dire a gratis, ovvero senza che tale abdicazione venisse incontro ad alcuna esigenza di tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu. Del resto, appiattendosi sull’isolata sentenza Varvara, e consentendole di integrare la normativa europea interposta, ai fini del controllo di costituzionalità, si sarebbe rinunciato a far valere forti ragioni che si appellano, come si è visto, anzitutto allo spirito della Convenzione, e il cui accoglimento da parte della Grande Camera, alla fine, ha arricchito, e non indebolito il diritto europeo (non solo nei confronti dell’Italia, ma di ciascun Stato aderente). In altre parole: senza la posizione critica della nostra Corte costituzionale, a Strasburgo avrebbe potuto consolidarsi per forza di inerzia un orientamento non solo poco consono all’impianto della Cedu, ma irrispettoso del fondamentale principio di sussidiarietà della sanzione penale»[13].
Sotto quest’ultimo profilo il discorso si interseca con un’altra questione molto importante, e cioè quella relativa al (peculiare e privilegiato) ruolo che può avere la Corte costituzionale nell’ambito della dottrina del margine di apprezzamento.
Rinviando per l’approfondimento di tale questione ad altra sede[14], e tornando sul profilo su cui avevamo posto l’attenzione, può condividersi la conclusione di Bignami secondo cui, a conti fatti, proprio «[l]a vicenda della confisca urbanistica […] è la migliore riprova della bontà della scelta, compiuta esplicitamente dalla sentenza n. 49 del 2015, ma già in nuce nella pregressa giurisprudenza costituzionale, di permettere l’enucleazione dalle pronunce di Strasburgo di norme da porre a base del controllo di costituzionalità, a condizione che esse riflettano uno stato consolidato di quella giurisprudenza, ovvero il suo diritto vivente»[15].
5. Due pericoli potenzialmente derivanti da (una lettura affrettata di) alcuni passaggi della sentenza n. 49
Ciò detto, sembra opportuno richiamare l’attenzione su due pericoli, per così dire, opposti rispetto a quello sopra segnalato, che potrebbero derivare da una lettura semplicista (o, se si preferisce, massimalista) di alcuni passaggi della sentenza 49.
Ritorniamo un attimo sull’affermazione, che sintetizza in qualche modo il nocciolo dell’argomentazione della Corte (e si presenta come una sorta di “massima” rivolta a tutti i giudici), secondo cui «è solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo».
Ebbene, il primo pericolo che si vuol evidenziare si ricollega al fatto che il riconoscimento in capo al giudice comune del potere (o addirittura dell’obbligo)[16] di ignorare orientamenti giurisprudenziali non consolidati della Corte Edu che egli non condivida possa portare, se… preso troppo sul serio (o troppo “allegramente”, secondo i punti di vista), a violazioni di uno dei principi-cardine del nostro sistema di giustizia costituzionale, e cioè quello per cui il giudice ha il dovere di sollevare tutte le questioni di costituzionalità che non siano manifestamente infondate.
Cosa si intende dire? Si intende dire che, almeno di norma, il fatto stesso dell’esistenza presso la Corte europea di un orientamento interpretativo – magari non ancora “consolidato”, ma magari nemmeno del tutto estemporaneo e con altissima probabilità “recessivo”[17]… e tale, quindi, da indurre a sospettare una incompatibilità con la Cedu (e perciò con la Costituzione) della disciplina legislativa rilevante per il caso – dovrebbe forse di per sé indurre a considerare la questione di costituzionalità, in riferimento all’art. 117, “non manifestamente infondata”, e dunque da sollevarsi!
In altri termini, la mancata adesione personale dei giudici comuni all’orientamento di Strasburgo (pur non ancora del tutto consolidato, ma esistente e potenzialmente destinato a rafforzarsi in seguito) dovrebbe forse, nel quadro di un sistema di giustizia costituzionale prudenzialmente fondato sul canone della “non manifesta infondatezza”, restare priva di rilievo (spetterebbe poi alla Corte costituzionale, in quest’ordine di idee, sbrogliare la questione, essendo essa l’organo più adatto ad esprimersi sull’esistenza e sui contenuti del parametro interposto!).
Questo con riguardo al primo pericolo.
C’è poi, come si diceva, un secondo pericolo forse ancora più grave. Lo si era a suo tempo evidenziato, manifestando il timore «che si faccia strada una visione secondo cui, in assenza di una nutrita serie di sentenze di Strasburgo che facciano applicazione (in modo, per di più, sempre coerente) di un determinato principio o di una determinata regola astrattamente desumibile dalle disposizioni della Convenzione, tale principio o tale regola vengano considerati tamquam non essent»[18].
Una simile visione «finirebbe infatti per trasformare, in modo anacronistico e soprattutto scorretto, la Cedu in una tavola di “norme programmatiche”, bisognose di un previo consolidamento giurisprudenziale ad opera della Corte di Strasburgo – potremmo dire di una (ripetuta) interpositio iudicis – prima di poter esplicare i propri effetti nell’ordinamento nazionale (vuoi a fini di annullamento delle disposizioni legislative interne con essa inevitabilmente confliggenti, vuoi a fini di reinterpretazione convenzionalmente orientata delle disposizioni solo potenzialmente confliggenti)»[19].
Per questo, si era auspicato che i successivi “assestamenti” (ossia i prevedibili, ulteriori aggiustamenti di tiro da parte della Consulta, nonché – già nel frattempo – l’operato dei giudici comuni) scongiurassero tale davvero inquietante scenario.
6. Alcune opportune precisazioni rinvenibili nella sentenza n. 68 del 2017
Ebbene, nella sentena n. 68/2017 della Corte costituzionale si rinvengono alcune significative prese di posizione proprio a questo riguardo, quanto mai opportune: alcune molto nette ed esplicite, altre solo implicite (e, per così dire, fornite a contrario), ma tutte di grande importanza.
Vale la pena riportarle testualmente: «è (…) da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la Cedu, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, “[l]’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri” (sentenze n. 49 del 2015 e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della Cedu li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte Edu, specie [dunque non soltanto!] quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 276 e n. 36 del 2016).
In tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla Cedu. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato» (corsivi e commenti ovviamente aggiunti)[20].
Queste precisazioni – in particolare, quelle che richiamano il giudice ai suoi poteri/doveri di autonoma interpretazione della legge ai sensi dell’art. 101 Cost. e alla sua responsabilità di evitare violazioni della Cedu, anche qualora non vi sia, a livello europeo, una giurisprudenza consolidata o addirittura non vi sia alcun precedente pertinente – potrebbero valere anche a ridimensionare un ulteriore pericolo, segnalato in particolare da Roberto Conti, laddove aveva notato come «il modello di giudice confezionato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49/2015 sembr[asse] mettere da parte gli aspetti relativi alla più intensa tutela, sui quali le seconde sentenze gemelle (nn. 311 e 317 del 2009) non avevano mancato di insistere, in ciò seguite espressamente da Corte cost. n. 191/2014 e – indirettamente – da Corte cost. n. 223/2014»[21].
In disparte le possibili perplessità sul criterio della più intensa tutela – perplessità formulate anche da parte di chi scrive in sede di commento alle sentenze gemelle e, in modo più argomentato, ancor prima[22]; ma che tuttavia non possono disconoscere gli aspetti positivi che, almeno in certi casi, possono derivare dal ricorso a un simile criterio, né, men che meno, il fatto che esso sia sancito a livello normativo, se non altro, negli artt. 53 della Cedu e della Carta di Nizza –, occorre anzitutto premettere che i passaggi della sentenza n. 49 che sembrano maggiormente suffragare il timore manifestato sono probabilmente (tralasciando il discutibile riferimento al “predominio assiologico” della Costituzione) quelli in cui la Corte si è spinta a fornire puntuali indicazioni sul modo in cui il giudice comune dovrebbe comportarsi, sul piano ermeneutico, nelle ipotesi, diciamo così, di “conflitto tra interpretazioni conformi”.
Da un lato, dunque, il passaggio in cui la Corte, ragionando dell’eventualità che il giudice abbia motivo di «interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione», ha affermato che «va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della Cedu». Dall’altro, il passaggio per cui «solo […] in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di “ogni strumento ermeneutico a sua disposizione”, ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale».
Ebbene, sembra che il rischio prima ricordato (cioè che siano «me[ssi] da parte gli aspetti relativi alla più intensa tutela») sia ridimensionabile, dopo i chiarimenti forniti nei passaggi sopra citati della sentenza n. 68/2017, proprio valorizzando le responsabilità e il residuo margine di autonomia interpretativa dei giudici comuni, a ben guardare molto più ampio di quanto poteva sembrare dalle citate affermazioni della sentenza n. 49.
Si è già avuto modo di evidenziare, in particolare, come tra i due estremi del divieto e dell’obbligo di allinearsi alla giurisprudenza europea (“estremi” ai quali soltanto si riferiscono, lo si vuol rimarcare, i due passaggi richiamati) vi siano una moltitudine di situazioni intermedie non espressamente menzionate dalla Corte, ma frequenti nella realtà: situazioni accomunate dal fatto che, in questi casi, il giudice avrebbe la facoltà di allinearsi alla giurisprudenza europea (o, al limite, un obbligo di procedere a una interpretazione autonoma della Cedu, in assenza di precedenti pertinenti), con un più o meno stringente onere di motivazione nel caso in cui decida di non farlo.
Con riguardo a queste situazioni intermedie, l’enfatizzazione in positivo da parte della sent. 68/2017 dei poteri, dei doveri e delle responsabilità del giudice comune sembra gettare nuovamente luce su quella necessità – non certo negata, ma in effetti un po’ “oscurata” dalla sentenza n. 49 – di utilizzare tutto il materiale normativo a disposizione per ricercare la soluzione giuridica[23] in grado di assicurare la più intensa tutela dei diritti e principi fondamentali coinvolti, o almeno, nei casi più complessi, il loro “miglior assetto” (e ciò in virtù dell’attitudine non solo della Cedu e della Carta dei diritti, ai sensi dell’art. 53 dell’una e dell’altra, ma anche della stessa Costituzione, come la Corte ha più volte ribadito e mai smentito, a “far spazio” a discipline e indicazioni giurisprudenziali di origine in senso lato esterna, qualora più idonee a raggiungere l’obiettivo della miglior tutela).
[*] Per una più ampia trattazione del tema del presente contributo, e di altri connessi, si rinvia a V. Sciarabba, Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, in corso di pubblicazione nell’ambito della Collana «Il diritto in Europa oggi», Key, Vicalvi (FR).
[1] Cfr. A. Guazzarotti, La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali e nuove esigenze teoriche, in Quaderni costituzionali, 3/2006, pp. 491 ss., 497 e A. Gardino Carli, Stati e Corte europea di Strasburgo nel sistema di protezione dei diritti dell’uomo. Profili processuali, Giuffrè, Milano, 2005, p. 80.
[2] V. Sciarabba, Nuovi punti fermi (e questioni aperte) nei rapporti tra fonti e corti nazionali ed internazionali (a commento delle sentenze della Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007), in Giurisprudenza costituzionale, 2007, V, pp. 3579-3591, e in Rivista AIC (archivio), dal 14 marzo 2008, disponibile online (http://archivio.rivistaaic.it/giurisprudenza/decisioni2/autori/sciarabba.html).
[3] Così ci si era espressi in Nuovi punti fermi (e questioni aperte), op. ult. cit.. Tra coloro che, da subito, avevano evidenziato l’importanza di questi aspetti vi è Marco Bignami (in particolare in L’interpretazione del giudice comune nella “morsa” delle Corti sovranazionali, in Giur. cost. 2008, 2, pp. 595 ss.).
[4] G. Parodi, “Le sentenze della Corte EDU come fonte di diritto”. La giurisprudenza costituzionale successiva alle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, in Diritti comparati (online), 28 novembre 2012, (www.diritticomparati.it/le-sentenze-della-corte-edu-come-fonte-di-diritto-la-giurisprudenza-costitu-zionale-successiva-alle/) e sul sito www.consiglionazionaleforense.it.
[5] E dopo aver osservato come «sarebbe errato […] ritenere che la Cedu abbia reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale, quali che siano le condizioni che lo hanno determinato».
[6] Il fatto che in questi casi non vi sia “nessun obbligo” di allinearsi alla (non consolidata) giurisprudenza europea, non significa affatto, vale la pena anticipare, che vi sia un “divieto” di farlo, salva l’ipotesi – in linea di principio “patologica”, seppure non infrequente – di cui si dirà subito oltre, e cioè quella in cui l’orientamento della Corte Edu non consolidato sia tale da suscitare addirittura un dubbio circa la sua conformità alla nostra Costituzione, nel qual caso, come si dirà subito, il giudice incontrerebbe un vero e proprio divieto di abbracciare tale orientamento giurisprudenziale.
Si potrebbe forse precisare, con riguardo (anche) a quest’ultimo tipo di situazioni, che il giudice dovrebbe almeno dare compiutamente conto dei motivi per cui arriva a una determinata conclusione, se non altro per evitare il rischio che vengano accomunate a queste situazioni – nella condivisa sorte di ritenuta irrilevanza e conseguente “invisibilità” della giurisprudenza europea – delle situazioni ben diverse, e cioè quelle in cui non ricorrono i due presupposti poc’anzi ricordati e, pertanto si dovrà ritenere operante (si “riespanderebbe”, se così si vuol dire) il consueto vincolo (in caso di orientamento consolidato o comunque “pacifico” e privo di controindicazioni, si potrebbe aggiungere) o quantomeno, aspetto questo da sottolineare, la facoltà (in caso di orientamento non consolidato e per qualche motivo dubbio o problematico, ma non sospettato di incostituzionalità) di allineamento alla giurisprudenza europea; come pure in casi estremi il compito, a cui il giudice comune non può all’occorrenza sottrarsi, di procedere ad una del tutto autonoma interpretazione della Cedu nell’ipotesi (rara) in cui manchi un “precedente” europeo più o meno pertinente e vi sia tuttavia motivo di ritenere che il caso ricada sotto l’ombrello protettivo di una qualche norma della Cedu.
[7] Una simile impostazione – ha rimarcato la Corte – «non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte Edu sul senso da attribuire ai diritti dell’uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo», che, come è noto, «si articola per sezioni, ammette l’opinione dissenziente», e «ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera».
A questo riguardo, si può aggiungere una circostanza spesso trascurata, e cioè che la nozione di «giurisprudenza consolidata», posta al centro del discorso metodologico sviluppato nella sentenza n. 49/2015, non è affatto estranea al sistema della Cedu ed è, anzi, stata oggetto di considerazione – con linguaggio pressoché coincidente a quello utilizzato dalla Consulta (ragionandosi di «well-established case-law») – sul piano normativo, nel Protocollo n. 14, entrato in vigore nel 2010. Tale Protocollo ha ricollegato alla sussistenza, in un determinato caso, di una simile situazione giurisprudenziale conseguenze ben precise e di tutto rilievo sul piano procedurale; ma anche, indirettamente, sul piano sostanziale: si rinvia in proposito a V. Sciarabba, Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, op. cit., e (per una più ampia analisi del protocollo 14) Id., Tra Fonti e Corti.Diritti e principi fondamentali in Europa: profili costituzionali e comparati degli sviluppi sovranazionali, Padova, CEDAM, 2008.
[8] In effetti, la giustapposizione tra due sole ipotesi – giurisprudenza “consolidata” o “non consolidata” – appare molto artificiosa, dandosi nella realtà situazioni intermedie, con un’infinità di “gradazioni”, e il fatto di dover alla fine calare una mannaia (pur dopo aver fatto ricorso a tutti gli indici più sofisticati) per stabilire se una situazione stia da una parte o dall’altra non risulta molto soddisfacente.
Ove però si accolga il rilievo per cui, come si è accennato, anche nella “situazione deontica” del giudice possono esserci sfumature intermedie tra i due estremi dell’obbligo e del divieto di allinearsi a un orientamento giurisprudenziale europeo, e si consideri come l’onere di motivare le proprie decisioni, se preso sul serio, possa essere una cosa molto importante, si può ritenere che, dopo tutti gli assestamenti del caso, si potrà arrivare a un sistema più articolato in cui il giudice, in sostanza, dovrà approfondire, valutare e in alcuni casi ponderare, da una parte, il “grado di consolidamento” di un orientamento giurisprudenziale europeo e, dall’altra, la natura e il peso delle controindicazioni al suo accoglimento (controindicazioni fattuali o giuridiche: con speciale rilievo, tra queste ultime, di quelle costituzionali, alla stregua delle indicazioni, sotto questo profilo molto nette, della Consulta).
[9] In specie: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano».
[10] M. Bignami, Le gemelle crescono in salute: la confisca urbanistica tra costituzione, CEDU e diritto vivente, in Diritto penale contemporaneo, n. 2/2015, p. 293; si veda anche, Id., Ordinamento nazionale e CEDU. Impressioni al sole che è sorto, in Questione Giustizia on line del 14/7/2016, www.questionegiustizia.it/articolo/ordinamento-nazionale-e-cedu_impressioni-al-sole-che-e-sorto1_14-07-2016.php.
[11] In una relazione svolta a Roma nel luglio del 2016 nell’ambito dello “Stage di Diritto Europeo” organizzato per la formazione iniziale dei nuovi Mot dalla Scuola superiore della magistratura (e pubblicata con il titolo La tutela dei diritti fondamentali nella Costituzione, nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in Rivista AIC,n.1/2017, disponibile online (www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/1_2017_Sciarabba.pdf).
[12] M. Bignami, Da Strasburgo via libera alla confisca urbanistica senza condanna, in Questione Giustizia on line del 10/7/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/da-strasburgo-via-libera-alla-confisca-urbanistica-senza-condanna_10-07-2018.php.
[13] Ibid.
[14] V. Sciarabba, Il ruolo della CEDU, op. cit.
[15] M. Bignami, Da Strasburgo, op. cit.
[16] Per alcune sottili distinzioni su questo punto, vds. anche M. Bignami, Le gemelle crescono, op. cit., p. 292.
[17] Sembra questa l’unica ipotesi eccezionale da far salva.
[18]Così nel nostro La tutela dei diritti fondamentali, op. cit., p. 25.
In altri termini, si paventava il rischio che si possa diffondere tra i giudici comuni un abito mentale secondo cui le singole decisioni della Corte europea, e a maggior ragione le eventuali interpretazioni autonome di disposizioni della CEDU sarebbero sistematicamente (o almeno in linea di massima) destinate a restare irrilevanti, e cioè, in un certo (anzi incerto: v. subito oltre) senso, a soccombere. Ma – ci si potrebbe e dovrebbe a questo punto chiedere – a soccombere di fronte a cosa, e precisamente in che senso, in che modo?
A soccombere di fronte a una interpretazione alternativa di una legge interna, più vicina all’intenzione del legislatore e/o al tenore letterale, ma teoricamente suscettibile di essere nel caso specifico superata proprio attraverso quell’interpretazione convenzionalmente orientata alla quale si va “prudenzialmente” a rinunciare? Di fronte a un insuperabile ostacolo legislativo, che richiederebbe di rivolgersi alla Consulta per ottenere l’annullamento della disposizione in presunto contrasto con la Cedu? E, ancora, di fronte a una disciplina legislativa “costituzionalmente obbligata” o, comunque, al servizio di diritti e principi di rilievo costituzionale che sarebbero in tutto o in parte sacrificati qualora si facesse spazio al presunto vincolo convenzionale? Oppure anche di fronte a una disposizione legislativa priva di qualsivoglia “copertura” costituzionale, in quanto non attuativa di diritti o principi previsti nella Costituzione, e nemmeno (cosa un po’ diversa) espressiva di ponderazioni e bilanciamenti tra diritti e principi di tal sorta?
Si tratta, come può notarsi, di domande alle quali, in parte, si è già fornito risposta (o elementi per trovare una risposta) nelle pagine che precedono; e, in altra parte, potranno ricevere risposta nelle pagine seguenti (anche in riferimento a una successiva decisione della Corte, la n. 68 del 2017).
[19] Ibid. A questo proposito, specie in vista di ciò che si dirà poco più avanti, meritano di essere riportate le considerazioni di R.G. Conti, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sovranazionali, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2016 (www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-4_08.pdf), secondo cui «[l]a ricostruzione che [in ipotesi] anestetizza il ruolo della giurisprudenza non consolidata della Corte Edu, oltre a non trovare alcuna conferma nella Cedu, tralascia di considerare che è proprio la suddetta Convenzione ad essere un trattato internazionale reso esecutivo con legge dello Stato, come tale pienamente “vincolante” a prescindere dal carattere consolidato o meno della giurisprudenza della Corte Edu» (pp. 96-97).
[20] Sulla stessa linea, merita poi di essere richiamata un’importante indicazione di Antonio Ruggeri, il quale ricorda che «la scissione tra Convenzione e giurisprudenza convenzionale è inevitabile nei casi in cui la seconda non abbia ancora avuto modo di pronunziarsi (ipotesi alla quale fa esplicito riferimento Corte cost. n. 68 del 2017), gravando comunque sul giudice nazionale l’obbligo di conformarsi alla prima, facendone pertanto oggetto di originale interpretazione»: A. Ruggeri, Corte europea dei diritti dell’uomo e giudici nazionali, alla luce della più recente giurisprudenza costituzionale (tendenze e prospettive), in Rivista AIC, n. 1/2018, p. 143. In effetti, al di là dell’ipotesi “estrema” di “totale vuoto giurisprudenziale”, che lo stesso A. considera “sempre più rara a verificarsi a motivo della copiosissima produzione giurisprudenziale che si ha a Strasburgo”, la notazione rimarca la necessità che il giudice rispetti sempre (o meglio, faccia sempre tutto il possibile perché sia rispettata) la Cedu, senza che sotto questo aspetto (di “intensità” del vincolo, se vogliamo) faccia alcuna differenza la circostanza che sulla fattispecie in esame vi sia un vuoto giurisprudenziale, una giurisprudenza isolata, frammentaria e/o controversa oppure una giurisprudenza copiosa e consolidata, tutto ciò incidendo, semmai, solo sul (grado di dettaglio circa l’effettivo) “contenuto” del vincolo e quindi sul residuo grado di autonomia interpretativa del giudice.
[21] R.G. Conti, Il sistema di tutela multilivello, op. cit., p. 96. Sul punto è tornato di recente, in termini molto efficaci, A. Ruggeri, op. ult. cit., pp. 145-146.
[22] Cfr. Rapporti tra Corti e rapporti tra Carte. Le “clausole orizzontali” della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in N. Zanon (a cura di), Le Corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, ESI, Napoli, 2006, in particolare p. 423 e pp. 438-449.
[23] Anche mediante il ricorso ad interpretazioni conformi… variamente orientate; oppure al promovimento di questioni di costituzionalità, pure in questo caso di varia natura (specie dopo gli sviluppi più recenti che portano il giudizio alla Consulta ad essere l’unico nel quale sia possibile fare contestualmente applicazione – nel modo più “forte”, cioè con effetti erga omnes in caso di accoglimento – della Cedu, ovviamente della Costituzione e oggi anche della Carta dei diritti fondamentali).