La Cedu e la Carta dei diritti fondamentali: overlap e distinzioni
1. La Carta dei diritti dell’Unione europea, che porta a termine il lungo e controverso processo di codificazione dei diritti fondamentali in sede “comunitaria”[1], offre non solo un elenco solenne di questi, ma mira – come in genere fanno le costituzioni – anche a definire i rapporti con le altre fonti nazionali e internazionali che disciplinano la materia, soprattutto in Europa, ove il pluralismo e la concorrenza tra higher laws di rango costituzionale è quanto mai evidente. Proprio l’esistenza di un ordinamento “intermedio” tra i due piani, e cioè il sistema giuridico sovranazionale che, pur nato secondo le regole proprie dei trattati internazionali, si è ampiamente evoluto nel corso dei decenni (grazie ai principi di stampo federalista del primato del diritto dell’Unione e dell’efficacia diretta di questo in ambito interno, così come implementati nella giurisprudenza, spesso creativa, della Corte di giustizia) sino ad avvicinarsi agli ordinamenti degli Stati, rendeva certamente necessario esplicitare e cercare di modulare questi rapporti con le altre fonti. Del resto, la Carta dei diritti è stata prima elaborata e poi, con il Trattato di Lisbona, resa obbligatoria per essere applicata non in chiave universale, ma solo nell’ambito del diritto dell’Unione, come recita con una certa solennità l’art. 6 del Tue e l’art. 51 della stessa Carta, mentre le costituzioni nazionali e anche la Cedu, pur essendo soprattutto la seconda certamente meno completa della Carta di Nizza, non soffrono di simili limitazioni (riguardanti la competenza). Nel momento in cui la Carta è stata resa obbligatoria, il nuovo art. 6 Tue introduceva un obbligo (seguendo il vecchio progetto di “Costituzione europea”) per l’Unione europea destinato a rivoluzionare i rapporti tra l’ordinamento “comunitario” e quello “convenzionale”, prevedendo l’adesione (secondo capoverso) dell’Unione alla Cedu, anche se tale adesione non avrebbe potuto di per sé «modificare le competenze dell’Unione definite nei Trattati». Come noto, si è cercato di onorare questo impegno, certamente molto complesso anche tecnicamente, involgendo il rapporto tra due Corti europee, i meccanismi propri del rinvio pregiudiziale e lo stesso principio di primato del diritto dell’Unione. Tuttavia, la bozza del Trattato di adesione è stata bocciata da un parere (molto negativo) della Corte di giustizia che ha, sostanzialmente, interrotto questa operazione. Pur essendo un dovere per l’Unione (l’art. 6 si esprime in termini perentori) l’adesione alle Cedu non è stata più seriamente rimessa in agenda, nonostante i rinnovati inviti del Parlamento europeo.
Tramontata quindi – almeno in questo contesto storico – l’idea dell’adesione, i rapporti tra le due Carte dei diritti europee rimangono affidati al terzo comma dell’art. 6 Tue e alla specifica clausola orizzontale che li regola nel “Bill of rights” di Nizza (art. 52, denominato «Portata dei diritti fondamentali»). Per quanto riguarda la prima disposizione, si è ribadito nel Trattato di Lisbona quanto già disposto nelle versioni precedenti dei Trattati, e cioè che «i diritti fondamentali garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». Ciò ha rappresentato, storicamente, una sorta di ratifica della giurisprudenza creativa (pretoria) della Corte di giustizia, sin dagli anni Settanta, circa una tutela dei fundamental rights come limite “interno” del diritto dell’Unione, che non aveva fondamento esplicito nei Trattati, ma che – a livello argomentativo, nella ricerca di una legittimazione – la Corte giustificava con riferimento a questo doppio ancoramento alla Cedu e alle «tradizioni costituzionali comuni». La congiunzione «e», al terzo comma dell’art. 6, rende però circoscritta l’utilizzazione della giurisprudenza di Strasburgo da parte degli organi giurisdizionali dell’Unione, posto che deve sussistere anche l’ulteriore condizione della conformità a tradizioni comuni di rango primario, dal punto di vista costituzionale, di ben 28 Paesi membri. Effettivamente, superano questo vaglio principi generalissimi (e, conseguentemente, molto vaghi) come, ad esempio, il diritto di essere ascoltati da parte di un giudice imparziale e altri consimili direttive che sono, comunque, agilmente rinvenibili anche nella Carta dei diritti, sicché la norma di cui al terzo comma dell’art. 6 finisce con l’essere poco significativa, costituendo solo una conferma della vecchia architettura garantistica nell’Ue prima della codificazione.
2. Gli studiosi e gli operatori del diritto hanno guardato con maggiore interesse e con molte speranze a un’altra disposizione contenuta nella specifica clausola orizzontale della Carta: il comma terzo dell’art. 52, che recita: «laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, significato e portata sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa». Le «Spiegazioni» relative alla Carta esplicitano: che l’art. 52 vuole «assicurare la necessaria coerenza tra La Carta e la Cedu», che riguarda anche «le limitazioni ai diritti per cui il legislatore deve, in ogni caso, rispettare gli standard stabiliti dal regime di limitazioni previsto dalla Cedu»; che il raccordo vale anche per i protocolli alla Cedu; infine, si precisa che «il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non solo dal testo di questi strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia», fermo restando che l’Unione può accordare una protezione più ampia. Sembrerebbe, allora, che sia recepita l’idea della Convenzione come living instrument del garantismo europeo, anche se si aggiunge – in modo certamente non chiaro – che significato e portata dei diritti dovrebbero emergere anche da una ricognizione della giurisprudenza della Corte di giustizia. È evidente che una parte della dottrina e degli operatori del diritto abbiano guardato con speranza a questa norma, nella convinzione che gli orientamenti di Strasburgo potessero contare non solo come principi generali, ma nella loro specificità e più precisa determinazione: che si fosse in sostanza avuta una “comunitarizzazione” del diritto convenzionale, per cui alcune decisioni concrete e determinate di condanna degli Stati potessero avere, di per sé, ingresso nell’ordinamento dell’Unione con la forza di questo (primato ed efficacia diretta), pur nei limiti – secondo le aspettative più ragionevoli – della competenza dell’Unione. Questa tesi, piuttosto diffusa dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona, sembra ricevere ulteriore conferma nell’art. 53 della Carta, che stabilisce il principio del «trattamento di miglior favore», in base al quale la Carta non può essere interpretata in modo da ledere il livello di protezione assicurato – nel loro rispettivo ambito – dal diritto dell’Ue, dalle convenzioni internazionali di cui tutti gli Stati membri sono parte, dalla Cedu in particolare, o dalle costituzioni degli Stati membri.
Eppure, la tesi della “comunitarizzazione” della Cedu non ha resistito al vaglio della Corte di giustizia. I giudici di Lussemburgo, nello stabilire il contenuto dei diritti in giudizio, si sono spinti solo ad affermare che, in linea di principio, si dovrebbe tener conto della giurisprudenza di Strasburgo (ma non necessariamente recepirla) e che, quindi, vale un obbligo puramente argomentativo (non è ammissibile ignorare l’orientamento di Strasburgo). Mentre in campo penale o civile questo collegamento, di norma, avviene, nel settore sociale si deve registrare una certa ritrosia della Cgue a fare propri alcuni orientamenti della Corte Edu, in particolare sul tema dell’irretroattività della legge civile e anche su quello del divieto di discriminazione (cfr. le sentenze Carratù, ric. n. 361/12, 12 dicembre 2013 e Scattolon, ric. n. 108/12, 4 gennaio 2012). Ancor prima, nella sentenza Kamberaj, (ric. n. 571/10, 14 aprile 2012), la Corte di Lussemburgo osservava che non le spettava precisare il rilievo della Cedu negli ordinamenti dei member States e, su un caso di discriminazione di cittadini comunitari ed extracomunitari da parte di Enti locali italiani, provvedere ad applicare la sola normativa Ue (anche alla luce dell’art. 34 della Carta di Nizza). Nella sentenza Carratù, invece, in cui si discuteva della legittimità del’art. 32 della legge italiana n. 183/10 (cd. “collegato lavoro”), la Corte ha affermato che l’equiparazione (non dovuta, ai sensi della direttiva sui contratti a termine) tra le sanzioni previste nei casi di conversione del contatto a termine e quelle per il licenziamento illegittimo costituiva un trattamento di miglior favore riconosciuto dallo Stato italiano e consentito, però, dalla direttiva, ma ha ritenuto assorbita la questione della violazione del diritto a un giusto processo (art. 6 Cedu e art. 47 Carta di Nizza).
Una spiegazione di questo non liquet può risiedere nell’orientamento della stessa Corte (si veda Hernandez e altri c. Spagna, ric. n. 198/13, 14 luglio 2014) per cui i trattamenti nazionali più favorevoli non sono sindacabili alla stregua della Carta perché non previsti dal diritto europeo (solo consentiti). Nel caso Scattolon, il mancato allineamento alla giurisprudenza di Strasburgo (Corte Edu, sentenza Agrati e altri c. Italia, ricc. nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, 7 giugno 2011) è stato ancor più marcato, visto che le due decisioni intervenute a breve distanza concernono proprio il vantato diritto del personale della scuola, trasferito ad altro comparto pubblico, a mantenere i «diritti di anzianità». La Corte di Strasburgo ha ritenuto illegittima la mancata attribuzione di tali diritti, negati in virtù di una legge di interpretazione autentica retroattiva, per la quale non è stata riconosciuta la sussistenza di «imperiose ragioni di ordine pubblico», mentre la Corte di giustizia ha qualificato il trasferimento come cessione di ramo di azienda e ha giudicato applicabile la direttiva in materia, attribuendo al giudice nazionale il compito di accertare in che limiti fosse stata violata. La Corte di giustizia non si è, quindi, occupata della questione della retroattività della normativa.
La nostra Corte di cassazione (privilegiando la sentenza della Corte di giustizia, pronunciata in una materia ove sussiste una competenza sovranazionale da tempo esercitata) ha perciò cassato le decisioni che, sulla base di quella legge, avevano respinto i ricorsi dei lavoratori, invitando i giudici di merito a verificare se i diritti stabiliti dalla direttiva per i lavoratori trasferiti (in sostanza, di mantenimento del livello salariale acquisito) fossero stati rispettati. Ciò ha portato, in genere, al rigetto delle domande[2]. Tuttavia, la stessa Corte costituzionale italiana ha più volte recisamente escluso la tesi della “comunitarizzazione”, marcando una netta distinzione, quanto a efficacia interna, tra il diritto dell’Unione (e la Carta dei diritti che, ex art. 6 Tue, ha lo stesso rango delle norme dei Trattati) e le disposizioni della Cedu così come interpretate dalla Corte di Strasburgo. Quest’ultima obbliga il giudice comune, in caso di violazione della Cedu da parte del diritto interno, a sollevare incidente di costituzionalità. La distinzione operata dalla Consulta sembra, nondimeno, essersi alquanto appannata nelle recente – e molto discussa – sentenza n. 269/2017. In un lungo obiter (dotato perciò di dubbia vincolatività), essa obbliga il giudice interno, anche quando dovrebbe disapplicare la norma interna per contrasto con uno dei diritti della Carta self executing, a disporre previamente incidente di costituzionalità laddove (quasi sempre) le disposizioni applicabili siano anche quelle della nostra Costituzione[3].
3. La soluzione individuata dalla Corte di giustizia (e accolta dal nostro giudice delle leggi) di un vincolo “argomentativo” tra le giurisprudenze delle due Corti europee, che presenta anche tensioni con la formulazione letterale degli artt. 52 e 53 della Carta, non è in realtà molto appagante ed è fonte di incertezza applicativa, benché sia fondata su ragioni di ordine sistematico-istituzionale di una certa serietà.
L’ordinamento europeo nasce (secondo alcuni) e si è sviluppato concretamente secondo una dinamica di tipo quasi federale o, comunque, di integrazione molto stretta – e, sotto molti profili, “politica”. Esso ha ampliato i suoi obiettivi e le sue competenze in ambiti vastissimi, per certi versi molto vicini alle storiche attribuzioni degli Stati sovrani, a cominciare da quel capitolo sociale che, introdotto dal Trattato di Amsterdam, è molto visibile anche in numerose norme a carattere sociale della Carta (in particolare, nei capitoli sull’uguaglianza e sulla solidarietà). L’ordinamento costruito attorno alla Cedu è di tipo liberal-democratico ed è specializzato nella tutela dei classici diritti di quest’ultima tradizione, non ha alcuna vocazione politica né, tantomeno, federalista. Questo vuol dire che, nell’interpretare e bilanciare gli stessi diritti della Carta, la Corte di giustizia non può prescindere dal considerare i primari obiettivi di integrazione del processo avviato dal Trattato di Roma e l’interesse “comune” agli europei, secondo un approccio decisamente meno indivualistico di quello pertinente al rispetto della Cedu.
La Corte di Strasburgo continua (questo anche per responsabilità della stessa Unione che ha abbandonato, come detto, l’idea dell’adesione) ad avere come referenti gli Stati e gli individui e, pur conoscendo certamente la categoria dell’interesse pubblico, non suole connetterlo alla dimensione continentale, ma a quella nazionale; pur avendo numerose volte richiamato la Carta dei diritti, certamente non è la Corte deputata a dare alle sue disposizioni il significato più pertinente in riferimento alle dinamiche che riguardano i 28 Paesi membri.
È, quindi, inevitabile che l’Unione (e, per essa, la propria Corte), nel valutare gli stardard di rispetto dei diritti fondamentali, non possa che partire dagli obiettivi delle proprie politiche nella connessione con il rafforzamento del processo di integrazione, bene primario dei suoi cittadini. Inevitabilmente, possono prodursi sensibilità diverse e qualche disallineamento tra le due giurisprudenze, soprattutto in materia sociale o nel campo dei nuovi diritti, come quelli di natura ecologica, ove la Cedu manca di indicazioni normative univoche. Va, tuttavia, rimarcata l’apprezzabile tendenza dei giudici di Strasburgo a dare copertura anche ai diritti sociali attraverso una loro riqualificazione (il che, a sua volta, può essere discutibile sul piano costituzionalistico) quali diritti di proprietà o l’aggancio ad altre prerogative procedurali, come il divieto di retroattività della legge civile. Se pure appar certo che queste virtuali tensioni non possono essere rimosse nell’immediato e che anche una revisione del progetto di adesione alla Cedu[4] difficilmente potrebbe rimuovere le difficoltà di rapporto tra ordinamenti così diversi (non solo per composizione interna, ma anche per mete ultime ed obiettivi intermedi), resta però la constatazione che l’art. 52 della Carta è tutt’altro che privo di effetti. Di regola, e in moltissime materie, il dialogo tra le due Corti europee mediante una fusione delle loro giurisprudenze e una felice integrazione tra fonti (con effetti garantistici di tipo cumulativo), è pienamente operante nel settore della privacy, nei diritti procedurali di tipo penale (soprattutto da quando l’Ue si è dotata di un insieme di direttive a largo raggio, che fanno comunemente riferimento alla Carta e alla Cedu), nelle libertà civili fondamentali e persino sull’incendiario terreno dei diritti dei migranti. Insomma, le due Carte e le due Corti convivono, nella stragrande maggioranza dei casi, benissimo e si alimentano vicendevolmente. In concreto, tramite la Carta dei diritti e la Cedu nel loro enforcement quotidiano da parte delle Corti europee e, a cascata, di quelle nazionali, si rafforza progressivamente uno ius commune continentale e un “blocco di costituzionalità” oltre gli Stati, fenomeno che certamente trascende le poche occasioni di tensione o disallineamento.
Per fare una battuta finale: sarà per questo che tutti i media, anche i più importanti e informati (e non pochi magistrati e avvocati), confondono sistematicamente le due Carte (europee) e le due Corti?
[1] Per una trattazione più organica, rinvio ai miei contributi: G. Bronzini, L’Europa dei rimedi, in A. Guerra e A. Marchili (a cura di), Europa concentrica, Sapienza Università Editrice, Roma, 2016; G. Bronzini, La Carta dei diritti dell’Unione europea come strumento di rafforzamento e protezione dello Stato di diritto, in Politica del diritto, n. 1/2016; G. Bronzini, L’efficacia della Carta di Nizza alla luce dei primi 5 anni di applicazione come testo obbligatorio, cenni generali, in R. Cosio - F. Curcuruto - R. Foglia (a cura di), Il licenziamento collettivo in Italia nel quadro del diritto dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2016.
[2] Sulla vicenda, si veda G. Bronzini, Limiti alla retroattività della legge civile, Cendon, Roma, 2016.
[3] Si veda V. Piccone e O. Pollicino (a cura di), La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Applicabilità ed effettività, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.
[4] Si è anche parlato di un’adesione dell’Unione alla Carta sociale europea: cfr. G. Guiglia, Le prospettive della Carta sociale europea, in Jus: rivista di scienze giuridiche, n. 3/2010, pp. 505-538 (disponibile online su Forum costituzionale: www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0234_guiglia.pdf).