L’indipendenza dei giudici della Corte
I giudici di Strasburgo sono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nell’ambito di una terna proposta, per ogni Paese, dai rispettivi governi. Si tratta di un processo eminentemente politico, per garantire la qualità del quale sono state adottate varie risoluzioni e raccomandazioni descritte in altro contributo del presente volume (D. Cardamone, La procedura di elezione dei giudici della Corte Edu, al successivo capitolo).
Come è evidente, il principale problema di un organo giudiziario i cui componenti sono politicamente selezionati è di garantire l’indipendenza e l’imparzialità dei suoi giudici, precondizioni indispensabili per il funzionamento della giustizia, anche internazionale. Non a caso, la Magna Carta dei giudici, approvata dal Consiglio consultivo dei giudici europei – organo del Consiglio d’Europa – prevede che i principi in essa contenuti, e che concernono le garanzie di indipendenza, la nomina, la responsabilità, l’etica e la deontologia dei giudici, nonché l’accessibilità e la trasparenza della giustizia, si applichino anche ai giudici dei tribunali europei e internazionali (punto 23).
Nel 2008, la Corte ha adottato una risoluzione sull’etica giudiziaria, che detta i principi di base su indipendenza, imparzialità, integrità e diligenza. Non sono previsti meccanismi di responsabilità, ma solo un eventuale rapporto del presidente della Corte all’assemblea plenaria sull’applicazione di tali principi.
La prima garanzia di indipendenza, come anche per i giudici nazionali, è la professionalità. Certamente, le procedure disegnate nel corso degli anni dagli organi del Consiglio d’Europa per pervenire a designazioni, da parte degli Stati membri, di giuristi di altissima competenza e indiscussa moralità vanno in questo senso. Nondimeno, la diversità di estrazione, esperienza, sistema giuridico e modello deontologico di riferimento dei giudici continua a rappresentare una sfida notevole per la Corte. Si aggiunga che non tutti i giudici eletti godono in patria della garanzia di un posto di lavoro dal quale si proviene e a cui si può tornare (come avviene in molti Paesi per giudici e professori universitari) e l’incertezza per il proprio futuro, che può combinarsi con la giovane età, può costituire un elemento di rischio allo stato difficilmente contrastabile. Infatti, se l’indipendenza esterna della Corte Edu come organo è garantita attraverso l’attribuzione di risorse umane e di bilancio adeguate e da meccanismi di governo che la sottraggono a improprie pressioni degli organi intergovernativi del Consiglio d’Europa, l’indipendenza esterna del giudice come singolo è garantita soltanto contro l’uso eventualmente strumentale del potere sanzionatorio, penale o amministrativo che sia, degli Stati. Mancano, invece, meccanismi che, liberando il singolo dalla preoccupazione del futuro proprio e della propria famiglia, lo rendano indipendente da possibili pressioni esterne indebite. Tali meccanismi potrebbero essere: la raccomandazione agli Stati membri di garantire il posto di lavoro e lo sviluppo di carriera per tutti coloro che svolgessero un’occupazione dipendente prima dell’elezione, e un’indennità per coloro che avessero lasciato, per la durata del mandato, una professione liberale – come quella di avvocato.
Come accennato, ai giudici e alle loro famiglie (coniugi e figli) sono riconosciuti privilegi, immunità, esenzioni e agevolazioni accordati secondo il diritto internazionale ai rappresentanti diplomatici, ai sensi del Sesto Protocollo addizionale all’Accordo generale su i privilegi e le immunità del Consiglio d’Europa.
Ai sensi dell’art. 3 di tale atto, «Al fine di assicurare ai giudici una totale libertà di parola e una totale indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni, i giudici continuano a beneficiare dell’immunità giurisdizionale per le parole, gli scritti o gli atti da essi emanati nell’adempimento delle loro funzioni anche dopo la conclusione del loro mandato».
L’art. 4 prevede che: «I privilegi e le immunità sono accordati ai giudici non a loro vantaggio personale, ma per garantire la totale indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni. La Corte, riunita in assemblea plenaria, è la sola legittimata a pronunciare la revoca dell’immunità; essa ha non solo il diritto, ma anche il dovere di revocare l’immunità di un giudice in tutti i casi in cui, a suo parere, l’immunità impedirebbe che giustizia sia fatta e in cui l’immunità può essere revocata senza pregiudicare lo scopo per il quale è accordata».
Finora, la Corte Edu ha avuto occasione di occuparsi di immunità una sola volta, nel 2011, nel contesto di una perquisizione dell’abitazione rumena del giudice Corneliu Bîrsan, uno dei più anziani della Corte (dal 1998). La moglie del giudice Bîrsan, giudice della Corte d’appello rumena, era indagata per corruzione, sospettata di aver accettato tangenti (gioielli e viaggi) in cambio di favori processuali. Quando la casa della coppia è stata perquisita in Romania, senza che le autorità rumene avessero chiesto la revoca dell’immunità, si era posto il problema della legittimità dell’operato degli organi inquirenti e delle forze di polizia. La Corte aveva allora emesso un comunicato rilevando che «nell’effettuare una perquisizione nell’abitazione del giudice rumeno nell’ambito di un’indagine sulle accuse riguardanti la moglie, le norme sull’immunità potrebbero non essere state rispettate. La Corte ha chiesto al governo rumeno di indicare se ha motivo di chiedere alla Corte di revocare l’immunità del giudice. Ai sensi dell’articolo 4 del Sesto Protocollo, solo la Corte plenaria è abilitata a revocare l’immunità di un giudice». Richiesta allora la revoca, la Corte aveva accolto la richiesta relativamente al coniuge, ma non per il proprio giudice, e solo nella misura «strettamente necessaria all’indagine». Tenuto conto che l’immunità è stata concessa ai giudici non a loro vantaggio personale, ma per garantire l’esercizio indipendente delle loro funzioni e preso atto del desiderio del Bîrsan di vedersi revocare l’immunità, la Corte ha così motivato: «1. I privilegi e le immunità di cui all’Accordo generale sui privilegi e sulle immunità del Consiglio d’Europa e al suo Sesto Protocollo aggiuntivo, in particolare l’immunità dalle indagini penali e l’inviolabilità della residenza privata dei giudici e dei loro coniugi, si applicano sia al giudice Corneliu Bîrsan che a sua moglie in tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, compresa la Romania. 2. L’immunità attribuita al giudice Bîrsan può essere revocata nei confronti della moglie Gabriela Victoria Bîrsan, senza pregiudizio dello scopo per il quale è stata concessa. L’immunità non è pertanto concessa alla Sig.ra Bîrsan, nella misura strettamente necessaria per l’indagine n. 82/P/2011 della Direzione nazionale per la lotta contro la corruzione menzionata nella richiesta del Governo rumeno del 16 novembre 2011. 3. La parte della domanda avente ad oggetto la revoca anche nei confronti dello stesso giudice Bîrsan è respinta, non essendo la Corte convinta che l’immunità impedisca che giustizia sia fatta o che possa essere revocata senza pregiudizio allo scopo per il quale è stata concessa. 4. La revoca dell’immunità non ha effetto retroattivo» (tdA).
La questione è stata, poi, portata dai coniugi Birsan davanti alla Corte Edu in veste di ricorrenti individuali; alla Corte hanno chiesto di accertare la violazione nei loro confronti della violazione degli artt. 6, 8, 17, 18 Cedu e 1 Protocollo n. 1 alla Convenzione. La Corte, nel 2016, ha dichiarato la richiesta irricevibile. Esclusa la configurabilità di una violazione dell’art. 6 Cedu, la Corte si è concentrata sulla possibile violazione dell’art. 8 Cedu e ha ritenuto irricevibile la richiesta sul punto per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Infatti, avendo ottenuto una declaratoria di illegittimità della perquisizione e delle intercettazioni subite nell’ambito del processo penale, i ricorrenti avrebbero dovuto dare allo Stato la possibilità di eliminare la violazione o i suoi effetti esercitando in sede civile un’azione per il risarcimento del danno. Quanto agli artt. 17 e 18, si veda l’interessante motivazione: «68. La Corte ricorda che l’articolo 17 della Convenzione si riferisce alla nozione di “democrazia capace di difendersi”, cui ha fatto riferimento in alcune delle sue sentenze e decisioni (…). Vietando l’“abuso di diritti”, mira a conferire alle democrazie il potere di combattere atti e attività che distruggono o limitano indebitamente i diritti e le libertà fondamentali, che tali atti o attività provengano da uno “Stato”, da un “gruppo” o da un “individuo”. 69. La Corte ha già avuto occasione di chiarire il campo di applicazione dell’articolo 17 della Convenzione in quanto si riferisce ad atti o attività di un “gruppo” o “individuo” (…). Tuttavia, non si è mai pronunciata sul campo di applicazione di questa disposizione nella misura in cui essa riguardi uno “Stato”. 71. A questo proposito, ha sottolineato che il termine “Stato” si riferisce necessariamente agli Stati parti della Convenzione. L’articolo 17 ha, quindi, due effetti. In primo luogo, impedisce agli Stati parti di fare affidamento su una qualsiasi delle disposizioni della Convenzione per distruggere i diritti e le libertà garantite. Secondo la Corte, il riferimento a tali norme, in questo caso e da questo punto di vista, è chiaramente irrilevante. In secondo luogo, impedisce agli Stati parti di fare affidamento su una disposizione della Convenzione per limitare i diritti e le libertà che essa garantisce in modo più ampio di quanto previsto dalla Convenzione stessa. Tuttavia, la Corte constata che non vi sono prove che lascino supporre che le autorità rumene abbiano agito in tal senso nel caso di specie. 72. Da quanto precede, la Corte conclude che l’articolo 17 della Convenzione non è destinato a essere applicato nella fattispecie. 73. L’articolo 18 della Convenzione prevede che le restrizioni imposte dalla Convenzione sui diritti e sulle libertà possono essere applicate solo per lo scopo cui sono destinate. Esso non ha un ruolo indipendente e può essere applicato solo in combinazione con altri articoli della Convenzione (…). Tuttavia, i ricorrenti non lo fanno. Inoltre, tra le disposizioni che invocano nell’ambito di altri motivi, appaiono rilevanti solo l’articolo 8 e l’articolo 1 del Protocollo n. 1, in quanto può esserci una violazione dell’articolo 18 solo in combinazione con un articolo relativo a un diritto o a una libertà soggetta alle restrizioni autorizzate dalla Convenzione (Goussinski, citato sopra, § 73). Tuttavia, va ricordato che gli Stati godono di una presunzione di buona fede (Tymoshenko, citato sopra, § 294) e che, sebbene tale presunzione non sia inconfutabile, il semplice sospetto che le autorità si siano rese colpevoli di abuso di potere non è sufficiente a rovesciarla (ibidem). Il ricorrente che invoca l’articolo 18 deve essere in grado di fornire prove dirette e incontestabili a sostegno delle sue affermazioni (…). Tuttavia, i ricorrenti non forniscono “alcuna prova che suggerisca che le autorità (...) hanno abusato del loro potere applicando una restrizione autorizzata dalla Convenzione per uno scopo diverso da quello cui era destinata” (…), ad esempio per intimidazione (…) o per punizione (…). Questa parte delle richieste è pertanto manifestamente infondata e deve essere respinta» (tdA).