La giurisprudenza civile sull’esecuzione delle decisioni della Corte Edu
1. Alcune premesse di ordine generale
In termini generali, può dirsi che alla cd. efficacia di “cosa giudicata” della sentenza della Corte Edu sulla vicenda interna che ha originato il ricorso a Strasburgo si affianca, nella dottrina e, più di recente, anche nella giurisprudenza interna, la nozione di “autorità di cosa interpretata”[1], per indicare gli effetti che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo produce sul piano ermeneutico nei giudizi nazionali non direttamente investiti dai ricorsi individuali che hanno originato le pronunzie della stessa Corte.
I parametri convenzionali dai quali occorre muovere per comprendere la portata di tali espressioni si rinvengono, quanto alla prima, nell’art. 46 Cedu e, quanto alla seconda, nell’art. 32 Cedu.
Il primo articolo impone allo Stato che si è visto addebitare la violazione di una norma convenzionale di adottare, sotto il controllo del Comitato dei ministri, le misure di ordine particolare e generale idonee a eliminare gli effetti delle violazioni accertate all’interno di un ricorso proposto innanzi alla Corte Edu dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interno o, direttamente, nei casi di ricorso interno ineffettivi.
Il secondo parametro attribuisce espressamente alla Corte europea il compito di interpretare e applicare la Cedu e i suoi Protocolli.
Il tema che oggi sono chiamato a illustrare, incentrato sull’esecuzione delle sentenze della Corte Edu in ambito civile, costituisce un segmento di un più ampio ambito che guarda al “dopo” di una sentenza della Corte Edu, ai possibili “seguiti” e, dunque, alla fase discendente che ha visto già esaurito – anzi, direi, non ben esaurito – il compito del giudice nazionale chiamato, in prima battuta e prima di ogni altro, a esercitare il suo ruolo in sintonia con i diritti di matrice convenzionale, proprio in forza di quel canone generale e prioritario usualmente espresso facendo ricorso al principio di sussidiarietà.
Entriamo così in un clima di paura, di incertezza, a tratti di insofferenza quanto più acquisiamo la consapevolezza di uno sgretolamento che la giurisprudenza di Strasburgo è in condizioni di produrre, non tanto e solo sugli indirizzi ermeneutici delle giurisdizioni nazionali. Paura che, comprensibilmente, può contenersi se si muove dall’idea che l’efficacia di cosa interpretata è un processo liquido, elastico, che investe l’autorità nazionale di strumenti ermeneutici propri, la quale, dunque, è meno condizionata rispetto all’esistenza di un “giudicato” formatosi sulla stessa vicenda interna su cui pende un giudizio di contrarietà alla Cedu pronunziato a Strasburgo.
In definitiva, il problema dell’esecuzione delle sentenze della Corte Edu nell’ordinamento interno è drammatizzato proprio dal fatto che gli interessi in gioco, una volta che la stessa ha pronunziato il suo verdetto, non sono più solo e tanto quelli che avevano originariamente animato l’agone giudiziario in ambito interno.
Limitandosi al processo civile, dunque, non vi è più tanto l’attore vittorioso e il convenuto sconfitto – o, talvolta, l’attore sconfitto senza alcun convenuto, inteso come controparte –, ma entra in gioco il “convitato di pietra”, e cioè il giudice nazionale che ha definito quel giudizio “corrotto” per effetto del riconoscimento di una violazione convenzionale.
In questa prospettiva, il soggetto condannato originariamente innanzi al giudice nazionale viene surrugato, se ci si passa l’espressione atecnica, da un altro condannato, per l’appunto il giudice-Stato che, agli occhi della Corte Edu, ha dato luogo a una violazione capace di stravolgere l’esito del giudizio interno. Giudizio che, dopo Strasburgo, è destinato a portarsi il marchio di processo comunque ingiusto.
Ma fino a quando il processo – e la regolamentazione degli interessi che esso aveva disciplinato – rimarrà ingiusto o, meglio, deve rimanere ingiusto e quando l’ingiustizia che ha corroso il giudicato potrà o dovrà essere purgata?
Questi interrogativi creano ansie e preoccupazioni.
La prima concerne la possibilità che il sistema convenzionale e la Corte Edu si ingeriscano ulteriormente, dopo avere già pesantemente riconosciuto la violazione convenzionale a carico dello Stato, nella verifica delle modalità adottate a livello nazionale per conformarsi alla sentenza in precedenza resa dalla medesima Corte, rispetto al parametro di cui all’art. 46 Cedu.
Paure oggi sicuramente attenuate da quanto affermato nella sentenza Moreira e Ferreira c. Portogallo della Grande Camera, sulla quale si avrà modo di tornare nel prosieguo.
Si tratta di un self-restraint, pur raggiunto in modo non indolore all’interno della Corte Edu, che oltre a salvaguardare il margine di apprezzamento riconosciuto ai singoli Stati quanto alle misure da adottare per eseguire le sentenze della Corte, ha probabilmente un particolare significato e gioca un ruolo centrale nella riflessione complessiva che si proverà a fare. Un significato che bisogna intendere nella sua reale portata e che, in definitiva, consentirà di comprendere che il tema dell’esecuzione rimane, intervenga o meno in seconda battuta nuovamente la Corte Edu, in tutta la sua pienezza e problematicità.
E infatti, con riserva di tornare sul tema in prosieguo, la decisione della Corte di modulare secondo precise coordinate il suo ruolo sul processo riaperto innanzi al giudice nazionale, in esito a una sentenza dalla stessa resa, non sposta di un centimetro il tema dell’obbligatorietà ed esecutività della sentenza della Corte di Strasburgo, sul quale tema il Comitato dei ministri è chiamato a controllare che lo Stato abbia correttamente eseguito la decisione.
L’altra paura è rappresentata dall’idea che la pronunzia della Corte europea faccia vacillare una delle colonne portanti dei sistemi nazionali, per l’appunto rappresentata dal giudicato formatosi a livello interno e, con esso, la certezza del diritto che il giudicato, quale “legge giudizialmente data”, ha tradizionalmente avuto in tutti i Paesi occidentali.
Non a caso si parla si parla di “attacco” al giudicato, in tal modo estremizzando la portata di ciò che è inteso come bandiera da sventolare e fortino da proteggere a ogni costo. Quest’idea nasce dal convincimento che, cadendo il giudicato, verrebbero travolti non tanto e solo i diritti o i principi ivi affermati, ma anche la scienza giuridica e i centri decisionali dei Paesi membri della Convenzione che sul giudicato interno hanno fondato la loro stessa legittimazione e primazia nell’ambito del diritto.
Oggi vi è una marcata consapevolezza del fatto che le sentenze della Corte di Strasburgo “si rispettano”.
In sintonia con questa indicazione di massima e con riferimento agli effetti delle pronunzie della Corte Edu sui giudicati penali interni, la sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale italiana ha infatti chiarito che il giudice comune non può «negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata (sentenza n. 210 del 2013)».
Tale risultato la Corte di cassazione ha perseguito, in ambito penale, in varie circostanze, utilizzando diversi strumenti processuali fra la revisione della sentenza di condanna, introdotta dalla sentenza n. 113/2011 della Corte costituzionale, dell’incidente di esecuzione e del ricorso straordinario per errore percettivo. In più, il giudice di legittimità ha contribuito a delineare e circoscrivere i cd. “effetti riflessi” del giudicato formatosi a Strasburgo nei confronti di imputati condannati che, pur non avendo proposto ricorso innanzi alla Corte europea, si erano trovati in posizione identica a quella del ricorrente vittorioso a Strasburgo.
Lo stesso tema dell’attuazione delle sentenza della Corte Edu ha assunto particolare rilevanza anche nei processi non penali, come dimostra la sentenza n. 123 del 2017 – confermata, nell’impianto, dalla successiva Corte cost. n. 93/2018 –, con la quale la Corte costituzionale, decidendo la questione di legittimità sollevata dall’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, ha espressamente affermato che la riapertura del processo civile e amministrativo, con il conseguente travolgimento del giudicato interno, compete alle scelte del legislatore, al quale spetta in via prioritaria il compito di addivenire ad una «delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi». In tal modo, si è escluso che lo strumento interno della revocazione sia idoneo a realizzare la tutela del diritto riconosciuto a Strasburgo.
In questo quadro, ancorché in progress e composito, il giudicato come valore fondamentale vive, ormai, tra i diritti fondamentali ed è destinato anch’esso a operazioni di bilanciamento con gli altri valori che sembrano destinate a giocarsi volta per volta[2].
Il punto è, semmai, capire “chi” è tenuto a compiere questi bilanciamenti: il giudice, il legislatore – come ha fin qui detto la Corte costituzionale in ambito civile – o quest’ultima, ove nuovamente investita da altre questioni di costituzionalità?
Bisogna dunque indagare sul come occorra dare attuazione alla sentenza della Corte Edu resa nei confronti del soggetto vittorioso a Strasburgo. Indagine sul “dopo”, sul seguito, che implica, come abbiamo detto, il confronto su temi di non marginale difficoltà anche solo dal punto di vista terminologico – si pensi all’uso del termine “esecuzione” con riferimento alle sentenze della Corte Edu, forse sdoganato dalla stessa sentenza n. 49/2015, già ricordata, quando afferma che «la pronunzia giudiziaria si mantiene sotto l’imperio della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa» (corsivo aggiunto) – e lessicale, dai quali poi, a cascata, derivano implicazioni ed effetti di natura sostanziale e processuale.
2. La Cedu e i rapporti fra privati: quale rilevanza?
Prima di affrontare il tema che si è già tratteggiato nelle sue linee generali occorre, però, chiedersi quale rilevanza abbia la Cedu nei rapporti interprivati. Tematica, quest’ultima, collegata a quella della risarcibilità diretta dei diritti di matrice convenzionale[3] e di recente approfondita anche in dottrina[4], manifestandosi in modo ormai marcato l’interesse sulle questioni che ruotano attorno all’applicazione diretta dei diritti fondamentali protetti dalla Carta dei diritti fondamentali ai rapporti fra privati[5].
Si tratta, per molti versi, di un terreno ancora da esplorare[6], rispetto al quale verrebbe agevole affermare che la Cedu ha come destinatario finale degli obblighi ivi assunti lo Stato, in tutte le sue multiformi articolazioni organiche. In effetti, ai sensi dell’art. 1 Cedu, ciascuno Stato contraente «riconosce ad ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel ... [la] Convenzione».
Così espressa la risposta risulterebbe, tuttavia, incompleta e insoddisfacente, essendo il tema decisamente più complesso, vuoi sotto il profilo dello svolgimento di funzioni pubbliche da parte di soggetti privati che dovrebbero rimanere sotto l’ombrello convenzionale, vuoi sotto l’aspetto, assai più rilevante, dell’esistenza, a carico dello Stato, di vari “obblighi positivi” che lo Stato assume nei confronti di tutte le persone al fine di assicurare l’esercizio dei diritti garantiti dalla Cedu.
La Corte ha, infatti, affermato – caso Marckx c. Belgio, 13 giugno 1979, § 31; caso Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981, § 49 – che, in aggiunta all’impegno soprattutto negativo dello Stato di astenersi dall’ingerenza nelle garanzie previste nella Convenzione, possono esservi obblighi positivi intrinseci a tali garanzie. La responsabilità dello Stato può, allora, essere impegnata in conseguenza dell’inosservanza del suo obbligo di adottare una legislazione interna idonea a preservare il diritto fondamentale che entra in gioco.
Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza della Corte Edu ha affrontato il tema degli obblighi positivi dello Stato rispetto ai danni prodotti da soggetti, anche privati, che espletano servizi pubblici (colpa medica: Calvelli e Ciglio c. Italia, 17 gennaio 2002; servizi sanitari: Storck c. Germania, 16 giugno 2005;raccolta rifiuti, Di Sarno c. Italia, 10 febbraio 2012; sanzioni e istruzione scolastica, Costello Roberts c. Regno Unito, 25 marzo 1993). In tali casi lo Stato risponde direttamente della violazione subita dal privato.
Sotto il secondo versante, il concetto di “obbligo positivo” si affianca, differenziandosene, a quello di “obbligo negativo”. A fronte dell’esigenza di “non danneggiare” un diritto su base Cedu imposta allo Stato, l’obbligo positivo impone a quest’ultimo un comportamento proattivo, obbligandolo a rendere in concreto esercitabile il diritto di matrice convenzionale. Ed è proprio attraverso il concetto di obbligo positivo che si giunge all’affermazione dell’efficacia indiretta od orizzontale della Cedu nei rapporti fra privati[7].
Chiarificatrici, in ordine alla crescente rilevanza dell’efficacia orizzontale della Cedu, risultano le osservazioni espresse dal giudice Wojtyczek nell’opinione concorrente resa nel caso Bochan c. Ukraine (n. 2), 5 febbraio 2015, deciso dalla Grande Camera della Corte Edu.
Tale prospettiva è chiarita in modo esplicito dalla Corte quando ha riconosciuto che essa non è, in teoria, tenuta a definire controversie di natura puramente privata, però immediatamente aggiungendo che «nell’esercizio del controllo europeo che le spetta, non può rimanere passiva laddove l’interpretazione da parte di un tribunale interno di un atto giuridico, sia esso una disposizione testamentaria, un contratto privato, un documento pubblico, una disposizione di legge o una prassi amministrativa, appaia illogica, arbitraria, discriminatoria o, più in generale, incompatibile con i principi sottostanti alla Convenzione» (Corte Edu, Pla e Puncernau c. Andorra, 13 luglio 2004, § 59 e Khurshid Mustafa e Tarzibachi c. Svezia, 16 dicembre 2008, § 33).
Occorre, a questo punto, chiarire in quali termini la Cedu è destinata a operare nell’ambito dei rapporti interprivati.
In generale, può dirsi che la protezione offerta ai diritti di matrice convenzionale non è piena tanto quanto quella che nasce dall’immediata applicazione dei diritti convenzionali direttamente azionabili nei confronti dello Stato, richiedendosi allo Stato un obbligo di garantire la protezione giurisdizionale dei diritti secondo la legislazione nazionale e purchè questa sia scevra da profili di arbitrarietà o da irragionevolezza evidenti.
La diversità fra la protezione di un diritto fondamentale nei confronti dello Stato e il medesimo diritto laddove entri in gioco all’interno di un rapporto fra privati si delinea, sia pur con specifico riferimento al diritto di proprietà, in Corte Edu, Vukušić c. Croazia 31 maggio 2016, ove la Corte sussume la vicenda in un ambito non esclusivamente privatistico, ritenendo che la protezione della quale gode in questi casi il privato è, dunque, più ampia, riguardando direttamente il contenuto del diritto di matrice convenzionale – qui l’art. 1 del Protocollo n. 1 annesso alla Cedu[8].
Questo non riduce affatto, tuttavia, la rilevanza della Cedu nei rapporti interprivati, ma si sostanzia nella necessità di interpretare comunque la legislazione interna in modo conforme alla Convenzione. Quando il diritto interno, come interpretato giudizialmente, rende legittima una condotta contraria alla Cedu, si realizza la violazione convenzionale, invece eliminabile informando la legislazione interna al rispetto dei canoni convenzionali, in primo luogo attraverso un’interpretazione convenzionalmente orientata. Il che, ovviamente, non elida le difficoltà correlate alla tipologia di sindacato richiesto al giudice nazionale quando è chiamato a riempire di contenuto un diritto fondamentale che vive dinamicamente nella giurisprudenza della Corte Edu e che, d’altra parte, lo chiama a un sindacato non agevole in ordine al carattere imprevedibile e/o arbitrario di una legge interna, di matrice normativa o contrattuale.
La prospettiva qui segnalata è emersa proprio con riferimento alla protezione del diritto di proprietà (Corte Edu, Vulakh e altri c. Russia[9], 10 gennaio 2012; in modo ancora più chiaro, Zagrebačka Banka d.d. c. Croazia[10], 12 marzo 2014), in tema di libertà di espressione (art. 10 Cedu: Corte Edu, Remusszko c.Polonia[11],16 ottobre 2013) e di libertà di associazione (art. 11 Cedu: Corte Edu, Redfearn c. Regno Unito[12], 6 novembre 2012).
Particolarmente proficuo può ancora risultare il richiamo al caso dei soggetti sfrattati dal proprietario per avere mantenuto un impianto parabolico non consentito dal contratto di locazione.
In Kurshid Mustafa e Tarzibachi c. Svezia (16 dicembre 2008), la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la decisione adottata dal giudice nazionale infrangeva il diritto alla libertà di informazione (art. 10 Cedu), in relazione al fatto che i conduttori, di origine persiana, avevano utilizzato il sistema parabolico per ricevere programmi televisivi in arabo e in persiano dal loro Paese natale. La Corte, in definitiva, ha inteso verificare se le motivazioni fornite dalle autorità nazionali per giustificare l’ingerenza fossero «pertinenti e sufficienti» e se la misura presa fosse «proporzionata ai fini legittimi perseguiti». Si chiarisce, così, testualmente, che «la Corte deve convincersi del fatto che le autorità nazionali, basandosi su una valutazione accettabile dei fatti pertinenti, abbiano applicato regole conformi ai principi racchiusi nell’art. 10 Cedu» (corsivo aggiunto).
In questo, dunque, si sostanzia l’obbligo di interpretazione convenzionalmente orientata al quale è tenuto il giudice nazionale allorché la controversia, sia anche essa pendente tra privati, involge l’esame di diritti di matrice convenzionale.
Ancora di recente, in Fabris c. Francia (ric. n. 16574/08, 7 febbraio 2013), la Grande Camera, chiamata a verificare l’inadempimento (parziale) di uno Stato a una pronunzia resa dal giudice di Strasburgo in un procedimento diverso da quello attivato dai ricorrenti (Mazurek c. Francia, ric. n. 34406/97, 1° febbraio 2000) che aveva riconosciuto, in termini di violazione di sistema, una discriminazione in danno del figlio adulterino rispetto ai diritti successori riconosciuti al figlio legittimo, ha esaminato il regime transitorio introdotto dalla legge interna, alla cui stregua era stata, sì, eliminata detta discriminazione non estendendo temporalmente, tuttavia, gli effetti innovativi da essa previsti alla vicenda del ricorrente, originata in epoca precedente alla prima decisione di condanna resa dalla Corte di Strasburgo.
La decisione fa il paio con altre pronunzie nelle quali la Corte Edu, proprio nel campo delle discriminazioni, non ha avuto esitazione a riconoscere la piena applicazione della Cedu nei rapporti interprivati.
Il che si verifica, poi, in termini generali, rispetto al parametro del giusto processo – art. 6 Cedu – come chiarito, tra le altre, da Corte Edu, Arras e altri c.Italia, 14 febbraio 2012[13].
Senza dire che è numericamente rilevante la giurisprudenza della Corte Edu sulle questioni che involgono relazioni familiari di vario genere che, all’evidenza, intercorrono fra privati e che, non per questo, riducono gli obblighi positivi dello Stato affinché i diritti dei diversi soggetti che risultino coinvolti vengano protetti dallo Stato in maniera concreta, effettiva ed efficace.
In chiave riepilogativa può, dunque, risultare utile il richiamo a Corte Edu, Pla e Puncernau c. Andorra, 13 luglio 2004, in materia di interpretazione di un testamento contenente disposizioni discriminatorie per alcuni dei figli[14].
3. L’esecuzione delle sentenze della Corte Edu nell’ordinamento interno in ambito non penale. La casistica prima di Corte cost. n. 123/2017. Diagnosi preimpianto: Costa e Pavan c. Italia, 28 agosto 2012, ed efficacia di “cosa giudicata” della sentenza della Corte Edu
Il nostro ordinamento non ha disciplinato le conseguenze prodotte da una sentenza della Corte Edu che ha riconosciuto la violazione di un parametro convenzionale – processuale o sostanziale che sia – rispetto a un giudizio civile definito in sede nazionale.
L’assenza di discipline positive ha quindi messo l’interprete in una situazione assai peculiare, nella quale lo scarso interesse della dottrina al tema, unito alla diffidenza con la quale spesso si sono accolte le decisioni di condanna a carico del nostro Paese, ha favorito l’emersione di soluzioni molto spesso caratterizzate dalla specificità dei casi posti volta per volta all’attenzione dei giudici.
Si pensi, in prima battuta, a due vicende che hanno destato particolare interesse anche sui media, relative alla diagnosi preimpianto per le coppie fertili, ma portatrici di malattie che potrebbero determinare gravi malformazioni del feto, e al desiderio del figlio di conoscere l’identità della madre che si era avvalsa, all’atto della nascita, del diritto all’anonimato assoluto. Entrambe le vicende avevano visto i ricorrenti rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione dell’art. 8 Cedu. Nelle sentenze Costa e Pavan c. Italia (ric. n. 54270/10, 28 agosto 2012) e Godelli c. Italia (ric. n. 33783/09, 25 settembre 2012), la Corte di Strasburgo aveva riconosciuto l’esistenza delle violazioni prospettate.
In nessuno dei due casi, però, la Corte Edu aveva affrontato specificamente il tema degli effetti della decisione che accertava la violazione, semmai lasciando intendere che, in entrambe le vicende, esisteva un certo margine di apprezzamento in favore dei singoli Stati sulle modalità con le quali regolare i diritti al rispetto della vita privata e familiare che erano stati lesi.
Orbene, la vicenda che coinvolse i Signori Costa e Pavan innanzi alla Corte Edu è successivamente approdata innanzi al giudice nazionale comune[15]. Infatti, l’accertamento della violazione dell’art. 8 Cedu certificata dalla Corte europea non aveva comunque consentito ai ricorrenti di ottenere la soddisfazione del bene della vita che li aveva spinti a ricorrere a Strasburgo e, in definitiva, la possibilità di fruire delle pratiche connesse alla diagnosi preimpianto negate in precedenza a livello interno. Da qui la necessità della coppia di ottenere un “titolo” capace di attuare la sentenza della Corte europea.
Il 23 settembre 2013, il Tribunale di Roma, investito in sede cautelare della domanda avanzata dalla coppia, ha ritenuto che il “giudicato” formatosi a Strasburgo non richiedeva alcun intervento della Corte costituzionale per eliminare la norma interna, inserita nella l. n. 40/2004, che impediva la diagnosi preimpianto, dovendo il giudice nazionale dare attuazione a quel giudicato, a meno che vi sia un rischio di contrarietà fra la norma convenzionale che riconosce il diritto fondamentale e i principi costituzionali – nel caso di specie, peraltro, escluso dal giudicante.
Il Tribunale di Roma, nell’inerzia del legislatore interno, rimasto silente rispetto alla pronunzia della Corte europea malgrado l’obbligo di adottare misure capaci di eliminare gli effetti dell’accertata violazione (art. 46 Cedu), si è dunque trovato a dovere “misurare” gli effetti della sentenza sopra ricordata non già rispetto a casi simili od omogenei, ma proprio nei confronti dei medesimi soggetti che avevano sollecitato alla Corte europea l’accertamento della violazione del diritto sancito dall’art. 8 Cedu a carico dell’Italia, che non aveva consentito alla coppia di accedere alla diagnosi preimpianto.
In tale occasione il Tribunale, sottolineando la peculiarità della vicenda rispetto al prisma dei principi fissati dalla Corte costituzionale in tema di rapporti fra ordinamento interno e Cedu, ha ritenuto essersi formato un “giudicato formale” favorevole alla coppia che non rendeva, pertanto, necessario ricorrere alla Corte costituzionale per fare dichiarare la normativa interna contrastante con la Cedu alla stregua dell’art. 117, comma 1, Cost. Ipotesi che, per contro, «dovrà essere limitata alle sole questioni che, pur in presenza di una regola Cedu autoapplicativa, evidenzino un possibile contrasto tra quest’ultima e i principi supremi dell’ordinamento costituzionale».
Nel fare ciò il giudice monocratico ha ricordato, fra l’altro, la sentenza della Corte costituzionale n. 210/2013, della quale si dirà a breve, pure menzionando un orientamento espresso dalle sezioni unite civili in tema di immediata efficacia delle norme convenzionali nell’ordinamento interno anteriore alle sentenze gemelle (Cass., sez. unite, 23 dicembre 2005, n. 28507).
In questa occasione, in verità, l’attività del giudice nazionale non è stata ostacolata da un precedente giudicato, poiché la coppia si era direttamente rivolta alla Corte edu, saltando le vie di ricorso interno proprio in relazione all’impossibilità di utilmente precorrerle, nascendo la violazione dallo stesso tracciato normativo.
4. Diritto all’anonimato versus diritto alla conoscenza delle proprie origini dell’adottato. Corte Edu, Godelli c. Italia, 25 settembre 2012 e Corte cost., n. 278/2013: autorità di cosa “giudicata” e “interpretata”
I giudici nazionali sono stati, ancora una volta, chiamati a misurarsi con gli “effetti” di una sentenza resa dalla Corte Edu nell’ordinamento interno.
La Signora Godelli, non essendo riuscita – innanzi alle corti nazionali – a esercitare il proprio diritto a conoscere l’identità della propria madre, che si era avvalsa del diritto a non essere identificata all’atto dell’abbandono della figlia, poi adottata, per effetto del divieto dell’art. 28, comma 7, l. 4 maggio 1983, n. 184, si era rivolta alla Corte di Strasburgo chiedendo l’accertamento della violazione dell’art. 8 Cedu. La Corte Edu, con la sentenza resa il 25 settembre 2012, Godelli c. Italia, ha riconosciuto la violazione e un equo soddisfacimento.
A questo punto, la Godelli riproponeva innanzi al Tribunale per i minorenni di Trieste la domanda di poter esercitare il diritto alla conoscenza delle proprie origini, che la Corte Edu aveva ritenuto essere stato vulnerato in ambito interno. Quel giudice, tuttavia, con ordinanza del 9 ottobre 2013, sospendeva la decisione poiché il Tribunale per i minorenni di Catanzaro aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7, l. n. 184/1983. Ciò sul presupposto che il “giudicato” formatosi a Strasburgo in favore della Godelli non potesse, comunque, trovare applicazione nell’ordinamento interno, in ragione dell’esistenza di una disposizione che non impediva la protezione accordata dal giudice europeo al diritto a conoscere le proprie origini.
Successivamente, la Corte costituzionale ha accolto la questione sollevata dal Tribunale minorile di Catanzaro (Corte cost. n. 278/2013) e, nell’espungere dall’ordinamento il divieto previsto dal citato art. 28, comma 7, ha demandato espressamente al legislatore l’individuazione di un sistema (diverso da quello caducato, troppo sbilanciato in favore del diritto all’anonimato della partoriente) idoneo a contemperare e bilanciare i due diritti[16].
Si sono, così, riproposti i nodi problematici correlati all’efficacia delle pronunzie rese dalla Corte europea nel caso Godelli già esaminato dalle corti interne – ma anche negli altri, non oggetto di ricorso innanzi alla Corte Edu – chiedendosi ancora una volta se la parte vittoriosa a Strasburgo, in assenza di un intervento legislativo, avesse o meno diritto a ottenere una decisione a essa favorevole a prescindere dall’eventuale contrarietà della norma interna con la Costituzione (integrata dalla norma interposta Cedu)[17].
Una prima risposta al problema è stata offerta dal giudice minorile di Trieste che, tornato sul caso Godelli, ha ritenuto dapprima di potere iniziare le ricerche sull’identità del genitore anche nel silenzio del legislatore. In particolare, col decreto reso in data 2 luglio 2014, il giudice minorile, sul rilievo che nelle more di un intervento legislativo sussiste l’obbligo – in forza della sentenza stessa della Corte costituzionale, la quale ha recepito l’orientamento già espresso in materia dalla Corte Edu anche nei confronti dello Stato italiano – di provvedere all’identificazione della madre biologica affinchè la stessa potesse essere messa al corrente del ricorso e, eventualmente, di esercitare la sua facoltà di rimuovere il segreto sulla propria identità (che aveva inteso apporre successivamente al parto) ha dato incarico alla polizia giudiziaria di svolgere in via riservata gli accertamenti strettamente necessari per pervenire all’identificazione della madre biologica della istante. Ciò ai fini delle successive valutazioni e deliberazioni di questo Tribunale in ordine alle modalità di interpello, sempre in via assolutamente riservata, della madre biologica stessa circa la persistenza della sua volontà di non essere nominata a fronte della richiesta presentata dall’adottata.
Rispetto a questa prima presa di posizione del giudice triestino, si può dunque affermare che il giudicato sfavorevole alla ricorrente non fu ritenuto più costituire ostacolo al pieno dispiegamento del diritto della stessa a conoscere le proprie origini.
Ma la delicatezza della questione non si esaurisce ancora, occorrendo chiedersi anche fino a che punto il giudice può o deve spingersi per approfondire la tutela del diritto alla conoscenza delle proprie origini.
La soluzione resa, ancora una volta, nel caso Godelli dal Tribunale per i minorenni di Trieste – 8 maggio 2015 – di “espandere” il diritto alla conoscenza delle proprie origini in relazione all’intervenuto decesso della madre dell’adottata, che si era garantita il diritto all’anonimato e che, venuta a mancare, avrebbe consumato il limite alla conoscenza della persona a suo tempo generata, apre ulteriori scenari, pure scrutinati di recente dalla Corte di cassazione e che qui non è il caso di approfondire.
5. La vicenda Mottola e altri c. Italia
Va a questo punto menzionata la vicenda che ha dato le origini a Corte cost. n. 123/2017. Collocandosi in ambito amministrativo, essa merita di essere brevemente tratteggiata proprio per le affermazioni di carattere generale offerte dal giudice costituzionale nella sentenza da ultimo ricordata.
Occorre dunque premettere che la Corte Edu, con le sentenze Mottola e altri c. Italia (ric. n. 29932/07) e Staibano e altri c. Italia (ric. n. 29907/07),entrambe del 4 febbraio 2014, ha riconosciuto la violazione dell’art. 6, par.1, Cedu e dell’art. 1 Protocollo n. 1 annesso alla Cedu, in danno di alcuni medici (cd. “a gettone”) che si erano rivolti al giudice amministrativo richiedendo il riconoscimento della natura a tempo indeterminato del loro rapporto con l’università, ottenendo tale riconoscimento in primo grado, mentre l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato – modificando un precedente indirizzo giurisprudenziale – aveva dichiarato irricevibili i ricorsi proposti oltre il termine (di natura sostanziale) fissato normativamente, ma in quel caso inutilmente decorso, così impedendo la traslatio del giudizio innanzi al giudice ordinario dotato di competenza giurisdizionale. La Corte Edu ha ritenuto che i ricorrenti avevano avanzato la loro richiesta al giudice amministrativo in buona fede e in un quadro normativo che poteva condurre a una pluralità di interpretazioni, aggiungendo che gli stessi erano stati privati della possibilità di reintrodurre le loro azioni davanti al giudice infine considerato competente – giudice del lavoro. Da qui la violazione dei parametri convenzionali di cui agli artt. 6 Cedu e 1 Protocollo n. 1 annesso alla Cedu, fatta salva la determinazione dell’equo indennizzo, per il quale pende tuttora il giudizio innanzi alla medesima Corte.
I ricorrenti a Strasburgo, unitamente ad altri soggetti che si trovavano nella medesima condizione dei soggetti vittoriosi innanzi alla Corte Edu, pur non avendo proposto ricorso innanzi a quest’ultima, si sono successivamente rivolti al Consiglio di Stato, chiedendo la revocazione del giudicato interno per effetto della sentenza del giudice di Strasburgo[18].
Posta di fronte al problema degli effetti di “cosa giudicata” prodotti dal giudicato sovranazionale su quello interno, l’adunanza plenaria – ord. n. 2/2015 – reputava che «allorché, come nel caso di specie, i giudici europei abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorge per lo Stato l’obbligo di riparare tale violazione adottando le misure generali e/o individuali necessarie. La finalità di tali misure è quella della “restitutio in integrum” in favore dell’interessato, ossia porre il ricorrente in una situazione analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse stata (cfr. Corte cost. 113/2011... )». E, dopo avere ricordato le indicazioni che giungono, a livello europeo, a riaprire il processo in ambito interno – cfr. raccomandazione CM/Rec(2000)2 del 19 gennaio 2000 del Comitato dei ministri –, la stessa adunanza plenaria riteneva doveroso investire della questione la Corte costituzionale, visto che il contrasto fra diritto processuale interno e obbligo gravante sullo Stato di conformarsi alle sentenze della Corte Edu «possa sussistere anche nel caso di specie in cui è in discussione l’ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza del giudice amministrativo».
La situazione nella quale versavano i ricorrenti, non regolata come ipotesi di revocazione del giudicato, dimostrava, secondo l’adunanza plenaria, che «l’ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti alcuna possibilità per veder rimediata la violazione dei diritti fondamentali dagli stessi subita». Sicché i ricorrenti si sarebbero visti definitivamente privati della possibilità di accedere a un tribunale e, quindi, della facoltà di far valere i diritti pensionistici che assumevano essere loro spettanti, con duplice lesione delle disposizioni convenzionali in tema di giusto processo e della proprietà. Da qui la questione di legittimità costituzionale che ipotizzava il contrasto della normativa interna (art. 106 cpa e, in quanto richiamato dallo stesso, artt. 395 e 396 cpc con l’art. 117, comma 1, Cost., integrato dagli artt. 46 Cedu, 111 e 24 Cost).
6. La Corte costituzionale (sentenza n. 123/2017) sbarra le porte alla riapertura del processo civile
Con la pronuncia n. 123/2017[19], la Consulta ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate con riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., ritenendo infondata l’altra questione sollevata con riferimento all’art. 117, comma 1 Cost., integrato dall’art. 46 Cedu.
La Corte costituzionale, dopo avere escluso che i soggetti non ricorrenti a Strasburgo potessero godere delle medesime tutele “riflesse” garantite da Corte cost., n. 210/2013 con riguardo al caso cd. dei “fratelli Scoppola” in ambito penale, non ha ritenuto che la protezione offerta da Corte cost., n. 113/2011 – introducendo un’ulteriore ipotesi di revisione che può dare luogo alla riapertura del processo penale ai sensi dell’art. 630 cpc – ai casi di sentenze della Corte Edu che hanno riconosciuto la violazione di norme convenzionali in ambito penale potesse valere nei confronti dei soggetti parte di un procedimento giurisdizionale amministrativo o civile, definito con sentenza passata in giudicato, contrastante con la sentenza della Corte Edu.
Secondo la Corte costituzionale, l’esigenza della restitutio in integrum – in base a una costante giurisprudenza della Corte Edu – era stata, in assenza di una regolamentazione comune da parte dei Paesi contraenti, particolarmente indicata come misura maggiormente satisfattiva rispetto ai processi penali nei quali erano emerse violazioni convenzionali. Epperò tale esigenza, pur espressa in certo modo anche per i processi civili e amministrativi[20], era sempre stata accompagnata dal riconoscimento di un certo margine di apprezzamento in capo ai singoli Stati, al fine di considerare e salvaguardare i principi della certezza del diritto e del giudicato interno formatosi nei confronti di soggetti terzi. È, prendendo a prestito le parole di Corte cost., n. 123/2017, «la tutela di costoro, unita al rispetto nei loro confronti della certezza del diritto garantita dalla res iudicata (oltre al fatto che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale), a spiegare l’atteggiamento più cauto della Corte Edu al di fuori della materia penale».
Mai, secondo Corte cost., n. 123/2017, era stata indicata dalla Corte Edu la misura della riapertura dei processi civili e amministrativi quando lo Stato destinatario della pronunzia di condanna non aveva già introdotto, nell’esercizio delle sue prerogative, strumenti normativi tesi alla revisione delle sentenze passate in giudicato – vds. p. 12 della sentenza in esame.
In definitiva, la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, compete alle scelte del legislatore, al quale spetta in via prioritaria il compito di addivenire ad una «delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi».
Corte cost., n. 123/2017 ha poi concluso nel senso che l’eventuale apertura della Corte Edu a una prassi capace di generalizzare l’intervento dei terzi nel processo innanzi a sé, attraverso la disposizione dell’art. 36, par. 2, Cedu o, comunque, la modifica dello strumento convenzionale nel senso di una maggiore tutela delle posizioni dei terzi, avrebbe potuto essere proficua. Ciò perchè, conclude la Corte, una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte Edu – avrebbe reso più agevole l’opera del legislatore nazionale.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 123/2017 sottolinea, quindi, che gli effetti di cosa giudicata delle sentenze della Corte Edu rispetto ai processi civili e amministrativi, i cui esiti contrastano con la Cedu, non possono essere trattati in modo omogeneo rispetto a quelli che promanano da sentenza del giudice europeo rese in ambito penale.
In questa direzione milita la forza del giudicato nazionale e l’esigenza, parimenti fondamentale, rappresentata dal rispetto del canone del contraddittorio che, par di capire, non risultando garantito dalla Corte Edu, renderebbe difficoltosa l’estensione degli effetti ai terzi già parti del giudizio interno.
7. L’ulteriore seguito nel caso Mottola - Corte Edu, 6 settembre 2018
Chiuse le porte del giudizio di revisione dalla Corte costituzionale, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, riesaminando il ricorso proposto dai soggetti vittoriosi a Strasburgo, dichiarò l’inammissibilità della richiesta di revisione (Cons. Stato, ad. plen., 20 dicembre 2017, n.12) osservando, in particolare, che, per effetto di quanto deciso da Corte cost., n. 123/2017, «il ricorso per revocazione (il cui petitum, per la eventuale fase rescissoria, era quello postulante la reiezione degli appelli proposti dalle amministrazioni e, per l’effetto, la conferma delle sentenze di prime cure impugnate e la corresponsione agli odierni ricorrenti del pagamento della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto) deve essere dichiarato inammissibile, in quanto risulta essere stato proposto per una ipotesi non contemplata dall’ ordinamento giuridico, ed è noto che per la costante giurisprudenza civile ed amministrativa, “attesa la loro eccezionalità, i casi di revocazione della sentenza, tassativamente previsti dall’art. 395 cod. proc. civ., sono di stretta interpretazione, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi”».
I ricorrenti vittoriosi a Strasburgo, però, hanno ottenuto soddisfazione rispetto alle pretese di natura patrimoniale azionate innanzi al giudice nazionale e mai dallo stesso esaminate nel merito, posto che la Corte Edu, con la sentenza resa il 6 settembre 2018, ha riconosciuto a titolo di equo soddisfacimento le differenze retributive reclamate.
8. Il giudicato concernente questioni non monetizzabili. Il pianeta famiglia
La Corte costituzionale ha avuto modo di ritornare sul tema degli effetti di cosa giudicata delle sentenze della Corte Edu in materia di famiglia.
Non erano mancate, in dottrina[21], voci autorevoli che, all’indomani della sentenza n. 123/2017, auspicavano un diverso indirizzo rispetto a quello concernente contenziosi di natura meramente patrimoniale che, poi, hanno trovato comunque soddisfazione innanzi alla Corte Edu in sede di giudizio ex art. 41 Cedu. Contenzioso rispetto al quale l’ipotesi della riapertura del processo innanzi al giudice interno avrebbe potuto consentire una ricomposizione dei traumi prodotti per effetto della decisione ritenuta in contrasto con la Cedu dalla Corte europea, in assenza di forme remediali ulteriori; traumi, per ciò stesso, non solo non monetizzabili, ma di tale rilevanza da suggerire l’introduzione di rimedi capaci di agire in tempi celeri, caratterizzandosi tali vicende per un loro dispiegarsi nel tempo capace, esso stesso, di produrre ulteriori effetti dannosi rispetto a quelli già prodottisi in relazione a una decisione resa in violazione dell’art. 8 Cedu.
Questa commendevole prospettiva, in definitiva, finiva col superare il convincimento, pure espresso dalla medesima autrice, che il bilanciamento fra interessi dei soggetti in buona fede o terzi aventi causa protetti dal giudicato nazionale e quello dei soggetti vittoriosi a Strasburgo potesse essere compiuto, come aveva affermato la Corte costituzionale, unicamente dal legislatore. Si afferma, infatti che rispetto alle questioni non patrimoniali correlate soprattutto a vicende familiari, il bilanciamento non può che pendere in favore degli interessi dei soggetti vulnerati dalle decisioni interne. Per tale ragione, la Corte costituzionale avrebbe potuto (e dovuto) operare in modo diverso proprio in una vicenda nella quale era in gioco il destino di un minore conteso fra genitori adottivi e naturali.
Mutamento di indirizzo che, tuttavia, non vi è stato nella Corte costituzionale.
Infatti, dopo una pronunzia di inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dal Consiglio di Stato su questione sovrapponibile a quella esaminata da Corte cost., n. 123/2017 (cfr. Corte cost., n. 19/2018), Corte cost., n. 93/2018, in una vicenda nella quale erano in gioco interessi familiari[22], ha confermato la linea interpretativa inaugurata con la sentenza n. 123/2017, anzi riscontrando, nella sopravvenuta giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera, Moreira Ferreira c. Portogallo), l’inesistenza di un diritto alla riapertura del processo civile in base alla Cedu.
9. Qualche notazione sulla sentenza n. 123/2017
Le conclusioni alle quali è giunta la sentenza n. 123/2017 presentano alcune criticità, già espresse in passato, che si intendono qui ribadire, per quel nulla che esse possano valere.
Anzitutto, essa sembra costituire un passo indietro rispetto alle affermazioni, di portata generale, contenute nella ricordata sentenza n. 49/2015 che, proprio per arginare gli effetti dei principi ivi espressi a proposito del carattere non vincolante della giurisprudenza non consolidata della Corte Edu, erano intese espressamente ad affermare un obbligo giuridico di esecuzione delle sentenze nei confronti dei soggetti vittoriosi a Strasburgo, già sopra ricordato.
La scelta della Corte costituzionale, in definitiva, paralizza gli effetti delle sentenze della Corte Edu che certificano la persistenza del pregiudizio in relazione alla pronunzia interna, mettendo in non cale l’art. 46 Cedu, e suggella la circostanza che il nostro sistema in ambito civile non ha, allo stato, rimedi capaci di rendere effettive le pronunzie della Corte Edu quando gli effetti lesivi prodotti nei confronti dei soggetti vittoriosi a Strasburgo continuino a propagarsi in loro danno. Ancorché, nella prospettiva della stessa sentenza, il rimedio della riapertura del processo sembri essere un’opzione utile, allo stato tale rimedio non esisterebbe, nemmeno per eventualmente ottenere la rimozione della legge nazionale che si pone in contrasto con la sentenza della Corte europea – a voler seguire il ragionamento espresso da Corte cost., n. 210/2013 per il settore penale sostanziale.
È agevole osservare come una posizione di tal genere, oltre a porre il sistema interno in frizione evidente con la Cedu, scarichi sulla fase indennitaria ex art. 41 Cedu, innanzi alla Corte Edu, e su quella di controllo, innanzi al Comitato dei ministri, il peso dell’impossibilità di dare corso alle pronunzie della Corte Edu in favore dei soggetti vittoriosi, tagliando fuori lo Stato italiano (e il giudice interno) dai compiti che, invece, l’art. 46 allo stesso attribuisce.
Ci è parso, ancora, poco persuasivo l’invito rivolto alla Corte Edu dalla Corte costituzionale a rivitalizzare l’art. 36, par. 2, Cedu o, addirittura agli Stati parte del Consiglio d’Europa a modificare il trattato istitutivo della Cedu in modo da garantire meglio il diritto al contraddittorio.
Un’ulteriore riflessione critica merita la particolare sottolineatura che la sentenza n. 123/2017 ha riservato ai processi amministrativi, «anch’essi caratterizzati dalla frequente partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo Stato, di parti resistenti private affidatarie di un munus pubblico». In buona sostanza, la sentenza n. 123/2017 sottolinea che il deficit di contraddittorio nel processo davanti alla Corte Edu potrebbe avere gravi ripercussioni, al pari che nei processi civili, sulle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato, ove si decidesse di travolgere il giudicato interno.
Ora, sembra doversi dissentire da siffatta ricostruzione e dalla totale parificazione, operata dalla Corte costituzionale, fra processi civili (per i quali, a ben considerare, non vi era necessità di prendere posizione)[23] e processi – civili e amministrativi – nei quali è parte un amministrazione pubblica, ad essa sfuggendo che lo Stato, all’interno del procedimento svolto innanzi alla Corte Edu, rappresenta tutte le articolazioni pubbliche che a esso fanno capo, vigendo nel diritto internazionale il principio dello Stato come unico volto[24].
Ciò significa che, nell’esercizio dei poteri a esso conferiti innanzi alla Corte Edu, il Governo italiano ha piena libertà di sollecitare le eventuali amministrazioni pubbliche coinvolte nel processo giurisdizionale interno a fornire elementi utili alla difesa dello Stato medesimo. Tali considerazioni sembrano escludere la sovrapponibilità dei processi civili a quelli amministrativi, nel senso voluto dalla Corte costituzionale.
Si vuol dire, così, che l’esigenza della tutela del contraddittorio, alla quale fa espresso riferimento la sentenza n. 123/2017, non poteva essere avvertita rispetto al caso che aveva suscitato il rinvio alla Corte costituzionale – nel quale le amministrazioni pubbliche in giudizio erano state l’Università degli studi, l’azienda Policlinico e l’Inps – quanto rispetto ad altre vicende giudiziarie intercorse fra privati[25].
Parimenti, poco persuasivo ci è sembrato l’incitamento di Corte cost., n. 123/2017 a spingere sulla leva dell’art. 36, par. 2, Cedu per inserire stabilmente, all’interno del processo a Strasburgo, il terzo.
Si tratterebbe, in definitiva, di stravolgere la portata e il senso della cennata disposizione, essenzialmente rivolta a consentire, sempreché il presidente lo ritenga utile, l’intervento di persone diverse dal ricorrente in funzione di amicus curiae[26]. Di ciò vi è conferma nel fatto che il ricorso ritenuto ricevibile dalla Corte Edu in fase di delibazione preliminare non viene comunicato alle altre parti del processo interno, ma soltanto agli altri Stati contraenti[27]. Il che, ovviamente, non vuol certo nascondere la circostanza che anche l’altra parte del processo interno, intervenendo nel giudizio innanzi alla Corte Edu, possa fornire elementi di valutazione utili ai fini del ricorso proposto dall’altra parte[28].
In sostanza, non si vede quale frutti fecondi potrà produrre l’invito della Corte costituzionale rivolto alla Corte Edu – che è giudice del caso concreto e valuta caso per caso – a rivedere le modalità di applicazione dell’art. 46 Cedu, anche se sarà il tempo a dare il suo responso.
10. I nodi da sciogliere. Una premessa di sistema
Esaurita la fase descrittiva, occorre a questo punto passare a quella, sicuramente più complessa, della individuazione dei paletti entro i quali deve muoversi il tema dell’esecuzione della sentenza della Corte Edu: non tanto e solo sul giudicato civile formatosi in precedenza, ma in prospettiva più ampia sul diritto che la Corte Edu ha riconosciuto violato e meritevole di una protezione diversa da quella offerta in ambito nazionale.
Per impostare il discorso, occorre fugare un possibile fraintendimento di base, al quale potrebbe indurre una lettura non corretta della posizione espressa dalla Corte costituzionale.
Il giudice costituzionale, agganciandosi alla giurisprudenza della Corte Edu, resa a livello di Grande Camera, ha continuato a ripetere che il diritto alla riapertura del processo in ambito convenzionale non esiste.
Tale affermazione prende le mosse dalla giurisprudenza della corte europea, la quale, nei precedenti Bochan c. Ucraina e Moreira Ferreira c. Portogallo, è stata chiamata a verificare la giustiziabilità innanzi a sé del ricorso proposto dalla parte vittoriosa a Strasburgo, che aveva reinvestito il giudice nazionale delle medesima questione definita con il precedente giudicato interno. In tali frangenti, la Corte europea, determinando i confini del proprio sindacato, ha riconosciuto se e in quali limiti essa è chiamata a intervenire, in definitiva, circoscrivendo la verifica di conformità del nuovo giudizio all’art. 6 Cedu per le sole questioni sopravvenute rispetto a quelle già oggetto della precedente decisione del medesimo giudice europeo.
Tale indirizzo interpretativo, tuttavia, non ha spostato affatto né incrinato né ridotto la portata del giudicato formatosi a Strasburgo e dell’obbligo dello Stato di rimuovere gli effetti delle violazioni accertate con misure di ordine “particolare” e generale. Obbligo che costituisce la base stessa del sistema della Cedu e senza il quale la giurisdizione della Corte di Strasburgo finirebbe con l’essere una mera lustra. Il che non è se, appunto, si pensa che essa viene investita direttamente – anche – dal soggetto che assume di essere leso in un proprio diritto – e pronunzia la condanna dello Stato nei confronti di tale ricorrente.
Quanto fin qui affermato, ancorché si possa trovare talvolta espresso in filigrana nella giurisprudenza della Corte Edu – cfr. Kontalexis c. Grecia (n. 2) [sez. I], ric. n. 29321/13, 6 settembre 2018, parr. 28 e 63 –, non costituisce un dato ben espresso. E non è sufficiente ritenere che ciò costituisce l’in se del sistema della Cedu stessa.
Tale argomentare tralascia, infatti, di considerare che gli Stati dialogano, studiano e confrontano la giurisprudenza della Corte Edu, risultando decisamente condizionati da quanto essa afferma.
Sicché, ritenere che l’obbligatorietà delle sentenze della Corte Edu in ambito civile sia talmente scontata da non meritare una specificazione sul punto sembra costituire una petizione di principio che, in definitiva, depotenzia il ruolo della giurisdizione sovranazionale e, prima ancora, dei diritti protetti dalla Cedu.
11. Pregi e difetti della sentenza n. 123/2017
Malgrado le opacità evidenziate rispetto alla sentenza n. 123/2017[29], un merito va riconosciuto alla Corte costituzionale: l’impianto e la struttura di base della pronunzia, per l’approfondimento dei richiami giurisprudenziali alla Corte Edu e per le affermazioni ivi contenute, sembra rappresentare una sorta di “clone” della pronunzia n. 129/2008, che dichiarò infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Bologna con riguardo al caso Dorigo. Anche in quell’occasione, la Corte sottolineò il ruolo del legislatore ai fini della riapertura del processo e fu, in definitiva, antesignana della successiva svolta intrapresa dalla sentenza n. 113/2011.
In sostanza, il legislatore, al quale la Corte costituzionale attribuisce, in via prioritaria, il compito di individuare un rimedio capace di consentire l’esecuzione delle sentenze della Corte Edu incidenti su giudicati civili e amministrativi nell’ordinamento interno in favore dei soggetti vittoriosi a Strasburgo, sembra avvisato che non saranno consentiti ulteriori rinvii, altrimenti toccando comunque al giudice – costituzionale o comune – l’individuazione di una via di fuga capace di realizzare l’obiettivo di una riapertura del processo al cui interno le parti, nel pieno contraddittorio, potranno, a seconda dei casi, riaprire la partita tenendo conto della pronunzia della Corte Edu[30].
Né sembra peregrino ritenere che, proprio nei casi in cui l’oggetto della questione attiene a diritti del cittadino nei confronti dello Stato e/o di altre articolazioni pubbliche che continuano a subire pregiudizio in epoca successiva al “giudicato” della Corte Edu, l’esigenza di ricomporre il quadro interno (ancorché “coperto” dal giudicato nazionale) in modo da renderlo compatibile con l’accertata violazione della norma convenzionale risulta essere un’esigenza talmente prioritaria da meritare, già oggi, di essere pienamente e prontamente protetta.
Non può, del resto, revocarsi in dubbio che l’art. 46 Cedu dimostra che l’obbligo di esecuzione delle sentenze della Corte Edu incombe sullo Stato nella sua integralità e, dunque, anche nei confronti dei giudici innanzi ai quali le parti decidessero di rivolgere le loro istanze volte a rendere effettivo e concreto un pronunciamento della Corte Edu e i diritti che sono stati violati, soprattutto quando il responsabile sia un potere pubblico. Esiste, dunque, un canone fondamentale che «impone al giudice nazionale l’obbligo di garantire, conformemente all’ordinamento costituzionale vigente e nel rispetto del principio della certezza del diritto, il pieno effetto delle norme della Convenzione, nell’interpretazione loro data dalla Corte» - Corte Edu [GC], Fabris c. Francia,p.19[31].
Se va, quanto meno, contenuta la prospettiva che sposti sulla monetizzazione del pregiudizio la soluzione del problema[32], figlia di una concezione che tende a esaurire la tutela della persona umana nel profilo del risarcimento del danno e a non considerare il valore dell’esistenza della persona, direttamente protetto a livello costituzionale (art. 2 Cost.)[33], la pronunzia della Corte costituzionale n. 123/2017 rappresenta, in ogni caso, un forte stimolo a mettere in moto un processo culturale capace di porre al centro del dibattito dottrinale[34] e giudiziario – al cui interno occupano una posizione equiordinata giudici e avvocati – il tema, indubbiamente complesso e poliedrico, degli effetti e dell’esecuzione delle sentenze della Corte Edu[35], dovendosi dare risposta a un interrogativo che ormai sempre di più compare quando si pone al centro del sistema la protezione dei diritti fondamentali, qualunque ne sia la fonte.
Interrogativo che, involgendo anche il parallelo settore delle misure di ordine generale che lo Stato è chiamato a introdurre per eliminare – sempreché ve ne siano – violazioni ulteriori rispetto a quelle patite dal soggetto vittorioso a Strasburgo, chiama lo studioso e gli interpreti delle varie discipline a individuare non soltanto le specificità che riguardano i singoli settori, ma altresì il confine, se esiste, tra ciò che è necessario fissare in termini generali e astratti per rispondere a un’esigenza di certezza e prevedibilità e ciò che, invece, va necessariamente riservato all’attività di concretizzazione e attuazione del principio al caso concreto, senza il quale soluzioni normative preventivamente delineate in termini analitici e generalizzanti potrebbero non essere utili e capaci di fornire adeguata risposta all’esigenza, comune, di offrire un elevato standard di protezione ai diritti fondamentali[36].
In questa prospettiva ci si avvede, davvero, che le maglie lasciate dalla sentenza n. 123/2017 siano, paradossalmente, più aperte rispetto a quelle che lo stesso giudice disegnò in occasione della sentenza n. 113/2011, con la quale venne determinato in modo preciso il “rimedio” della riapertura del processo penale per violazione di ordine processuale. La Corte sembra avere voluto non invadere il campo che lei stessa ha riservato al legislatore quanto alla tipologia dei rimedi – riapertura, risarcimento del danno, etc. –, in definitiva sposando l’idea, sottesa al sistema convenzionale, che appunto demanda allo Stato, all’interno del margine di apprezzamento al medesimo offerto, l’individuazione del miglior rimedio.
12. Che fare, allora?
Dunque, la questione rimane quella del rimedio da adottare per dare efficacia alla sentenza della Corte Edu.
È passato più di un anno e mezzo senza che il legislatore abbia risposto al monito della Corte costituzionale a intervenire. Un monito senza sanzione e senza tutela per le parti vittoriose a Strasburgo, visto che, con la sentenza n. 123/2017 e con la gemella n. 93/2018, la Corte costituzionale non aveva ancora maturato l’idea, innovativamente adottata nel caso Cappato, di dare un termine al legislatore per provvedere, riservandosi all’esito (qualunq