Il valore del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo
1. Premessa. Una pluralità di approcci possibili
Quando ci si accosta al tema del precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu), almeno due sono gli approcci possibili.
Può farsi in primo luogo riferimento all’ usodel precedente da parte della Corte Edu nel formarsi della sua giurisprudenza al fine di accrescere la sua legittimazione (sentenza Chapman c. Regno Unito, 18 gennaio 2001: « è nell’interesse della sicurezza giuridica, della prevedibilità e dell’uguaglianza davanti alla legge ch’essa non si discosti senza un valido motivo dai propri precedenti» – tdA) e, sempre più, di ridurre l’imponente arretrato che l’affligge e le impedisce di intervenire in modo tempestivo su casi importanti di violazione dei diritti umani.
Può farsi riferimento, altresì, all’uso nelle giurisdizioni nazionali delle sentenze Cedu come «precedente»o, meglio (considerato che i giudici nazionali e il giudice di Strasburgo non fanno parte di un unico ordinamento gerarchicamente strutturato dal punto di vista del sistema dei rimedi), come fonte esterna che guida il giudice interno nell’applicazione a casi concreti di principi e norme al cui rispetto lo Stato e i suoi agenti sono convenzionalmente obbligati.
Il primo punto di vista influenza necessariamente il secondo.
Poiché giudice nazionale e giudice europeo dialogano da pari a pari e non all’interno di un sistema giurisdizionale chiuso, il primo sarà evidentemente tanto più disponibile a utilizzare le sentenze della Corte Edu come «precedenti» ai fini della decisione dei casi che gli sono sottoposti (e, ovviamente, nei limiti in cui il sistema normativo e istituzionale lo consente) quanto più la creazione del precedente (cioè l’utilizzazione di casi passati per risolvere casi presenti) – e il dipartirsi dallo stesso – da parte della Corte Edu è coerente, lineare, adeguatamente motivato, trasparente, consistente, rispettoso del principio di parità di trattamento degli Stati membri, che è una sorta di corollario del principio di sussidiarietà e del rispetto del margine di apprezzamento degli Stati.
Il fatto che i due livelli, europeo e nazionale, del concetto in esame siano strettamente interconnessi è, del resto, ben illustrato dal meccanismo delle esecuzioni, affidate a un organo politico intergovernativo – il Comitato dei ministri in composizione diritti umani o CMDH – davanti al quale il ruolo chiave è giocato dallo Stato membro interessato. Per essere effettiva, una pronuncia, destinata a divenire nel futuro precedente, deve essere correttamente eseguita a opera degli organi interni dello Stato, in primo luogo le giurisdizioni.
Per quanto il tema del precedente nel sistema della Corte Edu sia universalmente ritenuto di grande importanza, non si rinvengono sullo stesso studi accademici di rilievo. Si segnala, per ampiezza e profondità della ricerca, la tesi per il dottorato di ricerca di Alexandre Palanco, Il precedente nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, presentata il 27 novembre 2017 all’Università di Montpellier sotto la direzione del professor Frédéric Sudre, davanti a una giuria di cui faceva parte anche la professoressa Françoise Tulkens, già vicepresidente della Corte Edu. Il testo è reperibile in open source.
2. Ancora una premessa. La Corte Edu e il contesto convenzionale
Il Consiglio d’Europa è stato creato dopo la Seconda guerra mondiale grazie all’iniziativa di dieci Paesi, tra cui l’Italia, persuasi che il consolidamento della pace fondata sulla giustizia e la cooperazione internazionale fosse un elemento vitale e imprescindibile per preservare la società umana e la civilizzazione. Come si legge all’art. 1 del Trattato istitutivo, aperto alla firma il 5 maggio 1949, «Il fine del Consiglio d’Europa è quello di realizzare un’unione più stretta tra i suoi membri al fine di salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che sono il loro patrimonio comune e di favorire il loro progresso economico e sociale». Per esserne membri, ai sensi dell’art. 3, gli Stati devono riconoscere il principio della preminenza del diritto e il principio in virtù del quale ogni persona collocata sotto la sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Gli Stati devono anche impegnarsi a collaborare sinceramente e attivamente al perseguimento del fine fissato all’art. 1.
La Convenzione (adottata nel 1950 ed entrata in vigore nel 1953) e la Corte europea dei diritti dell’uomo (entrata in funzione nel 1959 affiancandosi ai preesistenti organi, Comitato dei ministri e Assemblea parlamentare) – con l’affermazione solenne di un catalogo di diritti umani accompagnata alla volontaria sottomissione dei Paesi membri alla giurisdizione di una Corte europea, accessibile da chiunque si affermi vittima di una violazione di tali diritti ad opera delle autorità nazionali, che può constatare la sussistenza di una violazione condannando lo Stato che ne è autore – hanno acquisito un’importanza progressivamente crescente nel sistema del Consiglio d’Europa. Ciò anche a seguito dell’allargamento di questo ai Paesi dell’Est e alle nuove democrazie di quest’area geografica.
Una certa crisi di credibilità dell’Assemblea parlamentare (colpita anche da uno scandalo che ha coinvolto uno dei suoi presidenti) e le difficoltà di bilancio del Consiglio, conseguenti alla sospensione del pagamento del proprio contributo da parte della Russia e alla revoca dello status di grande contributore da parte della Turchia, hanno spinto ancor più la Corte in prima linea, come organo di punta del sistema convenzionale. Ciò nonostante, sarebbe un errore sottovalutare la natura di meccanismo complesso del Consiglio d’Europa, in cui la realizzazione dei diritti umani degli uomini e delle donne dei Paesi che ne fanno parte dipende dall’interazione tra decisioni sui casi concreti della Corte Edu e rafforzamento dello Stato di diritto e delle sue garanzie formali e sostanziali nei 47 Paesi membri, grazie all’azione del Comitato dei ministri e dell’Assemblea parlamentare combinata con quella del Commissario per i diritti umani e di altri organi specifici, tra cui: il Gruppo di Stati contro la corruzione (GRECO); il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT); la Commissione per l’Efficacia della Giustizia (CEPEJ); il CCJE et il CCPE, Consigli consultivi dei giudici e dei procuratori.
3. L’oggetto di questo breve saggio
In un recente numero di Questione Giustizia (Rivista trimestrale, n. 4/2018), autorevoli studiosi hanno affrontato i temi del precedente, delle modificazioni giurisprudenziali, del rapporto tra normazione per clausole generali e precedente. Questo esonera dalla ripetizione o rielaborazione di concetti complessi, che costituiscono l’indispensabile “conoscenza di sfondo”. Del resto, oggetto di questo breve saggio non è lo studio del precedente applicato al vasto campo della giurisprudenza della Corte Edu (che richiederebbe altri approfondimenti, tempi e spazi) bensì la posizione di alcuni problemi, pratici e non solo teorici, che ruotano attorno a questo tema. A tali scritti si rimanda.
Ci limitiamo qui a ricordare che la questione del precedente è quella dell’eventuale vincolo o elemento di referenza esercitato dalla decisione di un giudice (in genere sovraordinato) sulla decisione, successiva nel tempo, che un altro giudice deve adottare in una situazione fattuale simile a quella già decisa. La medesima questione può porsi orizzontalmente allorquando il medesimo giudice (singolo o organo) deve adottare una decisione in una situazione fattuale simile a quella da lui decisa in passato. Il legame che sussiste tra la decisione del passato e quella del presente è il legame che esiste tra il fatto e il diritto, tra la situazione fattuale e la soluzione giuridica. L’intensità del legame dipende dall’ordinamento giuridico in cui si colloca e dal livello di libertà che ha il secondo giudice nel definire la situazione fattuale a lui sottoposta (se, cioè, sia suo compito ricostruire la fattispecie concreta o se, invece, debba tener conto del fatto così come ricostruito, ad esempio, da un altro giudice).
Merita anche sottolineare che, indipendentemente dai sistemi e dalle culture giuridiche, è universalmente accettato che stabilità e movimento devo andare di pari passo e che un certo margine di flessibilità è indispensabile per adattare la norma all’evoluzione della società in senso lato.
Come un grande giudice e giurista ci ricorda: «Il giudice deve garantire la stabilità nel cambiamento così come il cambiamento nella stabilità. Proprio come l’aquila in volo che mantiene la sua stabilità solo quando è in movimento, il diritto, anch’esso, è stabile solo quando si evolve»[1].
4. Il precedente della Corte Edu
Il precedente della Corte Edu in relazione allo sviluppo della sua giurisprudenza non è un precedente vincolante, ma un precedente persuasivo che promana da una Corte superiore e che, per questa ragione, è dotato non solo di forza di convincimento e di razionalità, ma anche di autorevolezza. La regola dello stare decisis non vige davanti alla Corte Edu. In quanto precedente persuasivo, lo stesso si coniuga, secondo la tradizione civilista, col concetto di “giurisprudenza costante”. Quest’ultimo concetto è espressamente richiamato dall’art. 28 Cedu, al fine di fondare la competenza del comitato di tre giudici (vds. infra), ma è anche comunemente utilizzato dalla Corte Edu allorquando, nel suo ragionamento, si appoggia sul precedente – le formule utilizzate dalla Corte sono: «jurisprudénce bien établie», «established case-law» (solo a titolo di esempio, inter alia, Hämäläinen c. Finlandia, Frydlender c. Francia, Salduz c. Turchia, Correia De Matos c. Portogallo, Süssmann c. Germania, Ruiz-Mateos c. Spagna), «jurisprudence constante» inter alia, Maslov c. Austria, Sürmeli c. Germania, Mckay c. Regno Unito). Che la Corte, nell’utilizzare tale concetto, faccia riferimento a una serie di pronunce che hanno affermato i medesimi principi rispetto a situazioni similari trova conferma sia nel fatto che, quando richiama la sua giurisprudenza consolidata, la Corte citi espressamente una pluralità di sentenze accompagnando la citazione da «inter alia», «ex multis», «voir, parmi d’autres précédents» ed espressioni simili, sia nell’utilizzo del concetto di giurisprudenza consolidata dei tribunali e delle corti nazionali (vds. inter alia, Centro Europa 7 Srl e Di Stefano c. Italia: «base suffisante en droit interne, par exemple lorsqu’il est confirmé par une jurisprudence bien établie des tribunaux»; Maslov c. Austria, Sürmeli c. Germania: «jurisprudence constante [des tribunaux]»). Un’ulteriore conferma si ha nel rapporto esplicativo al Protocollo addizionale n. 14 che ha modificato l’art. 28, laddove si afferma che «una “giurisprudenza consolidata della Corte” è il più delle volte una giurisprudenza costante di una camera. È tuttavia possibile, in via eccezionale, che una sola sentenza di principio della Corte possa costituire una “giurisprudenza consolidata”, in particolare nel caso di una sentenza della Grande Camera». L’eccezionalità del valore di precedente conferito a una sola sentenza, unita alla sua preferibile promanazione dalla Grande Camera, confermano che il valore di precedente è attribuito di regola alla giurisprudenza costante. Conviene anche ricordare che le sentenze di principio non sono tutte le sentenze che per contenuto hanno portata generale, ma le sentenze pilota. Si veda, in proposito, quanto affermava nel 2009 il professor Linos-Alexandre Sicilianos, oggi vicepresidente della Corte Edu: «Sapere se esiste una giurisprudenza “consolidata” è questione di interpretazione. Non è tuttavia necessario che si tratti di una giurisprudenza “costante”, termine che allude a una pratica giurisprudenziale più o meno lunga. È possibile infatti che una sola sentenza di principio, in specie se emessa dalla Grande Camera, esprima la posizione “consolidata” della Corte. Ne consegue che, dal momento in cui la Corte si pronuncia con una sentenza “pilota” sull’esistenza di un problema strutturale nell’ordine giuridico interno di uno Stato membro, tutte le richieste conseguenti che sollevano essenzialmente la stessa questione potranno essere giudicate da un comitato di tre giudici»[2] (tdA).
Se il principio del precedente opera certamente nella giurisprudenza della Corte Edu, in funzione sia di legittimazione della Corte sia di creazione di un acquis in materia di diritti umani dal quale in principio non si può retrocedere, siamo certamente di fronte a un concetto fluido in relazione alle molteplici particolarità del sistema convenzionale, della struttura, delle prassi della Corte. La complessità della questione si apprezza in un passo dell’opinione parzialmente concorrente e parzialmente dissidente del giudice Pinto de Albuquerque alla sentenza Herrmann c. Germania: «È nell’interesse della certezza del diritto, della prevedibilità e dell’uguaglianza dinanzi alla legge che la Corte non si discosti dalla sua precedente giurisprudenza senza valide ragioni se le circostanze della nuova causa non sono “materialmente” distinte da quelle dalla causa precedente. Un precedente consolidato della Corte può essere accantonato quando vi è un consenso emergente, sia negli ordinamenti giuridici interni degli Stati membri del Consiglio d’Europa, nell’ordinamento giuridico interno dello Stato convenuto o in base a strumenti internazionali specializzati, a favore di uno standard giuridico diverso, o quando vi sono nuove conoscenze scientifiche che incidono sulla questione in esame. Tuttavia, mentre l’effetto di una precedente sentenza della Corte non si limita alla persuasività delle ragioni che essa fornisce, essa non possiede la forza della regola dello stare decisis (…). Infatti, la Corte è pronta a rivedere la propria giurisprudenza quando quest’ultima è incerta o ha bisogno di “ulteriore sviluppo”, al fine di ampliare l’ambito di protezione offerto dalla Convenzione. Inoltre, l’interpretazione della Convenzione come “strumento vivente” che garantisce diritti effettivi, non illusori, è intrinsecamente incompatibile con un effetto orizzontale di “stare decisis” della giurisprudenza della Grande Camera. Poiché la Convenzione deve essere interpretata alla luce delle circostanze attuali, la Grande Camera non è vincolata dalla propria giurisprudenza precedente. Al contrario, la struttura interna della Corte implica un effetto di “stare decisis” verticale della giurisprudenza della Grande Camera sulle sentenze di camera. Esiste un’unica eccezione a questa regola: nei casi in cui la camera intenda discostarsi dalla precedente giurisprudenza della Grande Camera e spogliarsi del caso, ma una delle parti vi si opponga, la camera può discostarsi successivamente dalla suddetta giurisprudenza. Il successivo rinvio della causa darà la possibilità alla Grande Camera di riesaminare la propria giurisprudenza alla luce della sentenza della camera impugnata. La stessa situazione eccezionale può verificarsi anche quando una camera desideri discostarsi dalla precedente giurisprudenza della camera. In considerazione dell’effetto orizzontale delle sentenze camerali sulle future sentenze camerali, la sezione è vincolata dalla propria giurisprudenza precedente o da quella di altre sezioni, tranne quando si spogli della causa e una delle parti vi si opponga. Pertanto, la coerenza della giurisprudenza della Corte dipende da una delicata e intricata differenziazione dei problemi giuridici e delle circostanze di fatto delle cause che le sono sottoposte. Tuttavia, questo delicato compito di differenziazione tra le cause non deve evolvere in una sottile manipolazione delle caratteristiche specifiche della causa per evitare l’applicazione di un principio stabilito dalla giurisprudenza della Corte. Una simile manipolazione screditerebbe la Corte e indebolirebbe l’autorità delle sue sentenze» (tdA)[3].
Non possiamo, in questa sede, che limitarci a un’elencazione delle particolarità del sistema, ognuna delle quali merita di formare oggetto di futuri approfondimenti.
- La Cedu non è uno strumento di uniformazione del diritto interno degli Stati contraenti, che conservano le loro caratteristiche di fondo e di procedura; è uno strumento di armonizzazione minima del diritto degli Stati contraenti che hanno «un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto» (preambolo alla Convenzione).
- La Corte Edu è l’unico organo che, nel sistema convenzionale, decide sulle eventuali violazioni; inoltre, non esiste un organo legislativo che può intervenire facendo evolvere il sistema normativo e, se del caso, incidendo sull’interpretazione datane dalla giurisprudenza.
- Le sentenze della Corte Edu hanno per funzione primaria quella di risolvere i casi concreti, accertando se nello specifico e nell’ambito di un ricorso individuale, vi sia stata violazione di un diritto stabilito dalla Convenzione; peraltro, allo stesso tempo, chiarificano, salvaguardano e sviluppano le norme della Convenzione, contribuendo in questo modo al rispetto degli impegni che gli Stati hanno assunto (Irlanda c. Regno Unito, par. 154).
- Le norme della Convenzione sono di tipo costituzionale e, di per sé, mal si adattano a un discorso di precedente rigido, dovendosi adattare la loro interpretazione alle modificazioni della vita pubblica e della società.
- La Corte Edu non è un organo che si colloca al vertice di un sistema giudiziario organizzato – in maniera più o meno ampia – in modo gerarchico, per cui si può parlare di precedente solo in senso orizzontale, salvo che nella relazione tra camera e Grande Camera, che è di tipo verticale.
- La Corte Edu adotta una sorta di “nozione autonoma” di precedente, come è dimostrato dal fatto che si fa ricorso ai “precedenti” per ricordare le regole d’interpretazione delle norme convenzionali prima dell’analisi delle similarità fattuali o, anche, a prescindere da tale analisi; in tal modo, non è chiaro o non è esplicitato il nesso che lega il precedente al nuovo caso sottoposto all’esame del giudice europeo, il che è particolarmente evidente quando i precedenti citati fanno riferimento a contesti fattuali e normativi completamente diversi dalla fattispecie concreta da decidere (vds. McKay c. Regno Unito in relazione alla citazione del precedente Kudla c. Polonia; Idalov c. Russia in relazione ai precedenti Irlanda c. Regno Unito, Vasyukov c. Russia e Alver c. Estonia; Brazzi c. Italia in relazione ai precedenti Smirnov c. Russia, Modestou c. Grecia, Gustanovi c. Bulgaria; Arnoldi c. Italia in relazione ai precedenti Patrono, Sottani, Michova).
- Le motivazioni delle sentenze sono redatte secondo un modello standard, col concorso predominante della Cancelleria: svolgimento dei fatti, normativa interna o internazionale rilevante, questioni di ammissibilità, questioni di merito; entrambi i tipi di questioni sono trattati secondo lo schema: prospettazione delle parti, giurisprudenza della Corte, applicazione dei principi al caso di specie; di regola, il precedente e la sua motivazione non sono discussi e il caso può essere risolto con una condanna o una non-violazione, come nei precedenti invocati, senza un’analisi fattuale delle ragioni della sussunzione della fattispecie concreta sotto un precedente.
- La presenza statisticamente rilevante di opinioni separate – non solo dissidenti, ma anche concorrenti – dei giudici implica che, in alcuni casi, il ragionamento seguito dalla maggioranza sia abbastanza fluido (vedi Moreira Ferreira c. Portogallo, decisa con una maggioranza di 9 a 8, con opinione dissidente comune ai giudici Raimondi, Nußberger, De Gaetano, Keller, Mahoney, Kjølbro e O’Leary; opinione dissidente del giudice Pinto de Albuquerque, a cui si sono associati i giudici Karakaş, Sajó, Lazarova Trajkovska, Tsotsoria, Vehabović et Kūris; opinione dissidente del giudice Kūris, a cui si sono associati i giudici Sajó, Tsotsoria et Vehabović; opinione dissidente del giudice Bošnjak).
- Le nozioni cui si fa riferimento per allontanarsi dal precedente non sono stringenti («raisons impérieuses» o «motif valable»).
- Mentre i principi di sussidiarietà e del margine di apprezzamento acquistano sempre più importanza (vds. Dichiarazione di Copenaghen e Protocollo addizionale alla Cedu n. 15), nella giurisprudenza della Corte e nella prospettiva di lungo termine degli Stati membri, le problematiche istituzionali che affliggono le “nuove democrazie”, che a partire dagli anni Novanta hanno allargato i confini geografici del Consiglio d’Europa, e i chiari attacchi allo Stato di diritto cui assiste anche all’interno dell’Unione europea rendono ormai impossibile per la Corte Edu considerare i 47 Stati come “membri di un club” dove tutti rispettano le medesime regole di base[4].
5. Antecedente, precedente tout court o precedente consolidato?
5.1. Il precedente consolidato Cedu nella giurisprudenza della Corte costituzionale; la sentenza n. 49/2015 (legittimità della confisca urbanistica alla luce della sentenza Varvara)
Il confronto a distanza, che occupa in particolare le corti supreme nazionali e le Corti europee di Strasburgo e di Lussemburgo, e che viene riassunto con la formula positiva del “dialogo fra Corti”, non poteva non trovare nella questione del precedente un terreno di elaborazione. Particolarmente significativa, a questo proposito, è la sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale.
La questione rimessa al vaglio del giudice delle leggi era, in estrema sintesi, la legittimità della confisca urbanistica alla luce della sentenza della Corte Edu nel caso Varvara c. Italia, ritenendo il giudice remittente che l’art. 44, comma 2, dPR n. 380/2001 dovesse ormai assumere il significato attribuitogli dalla Corte di Strasburgo. La Corte costituzionale perviene ad una pronuncia di inammissibilità fissando i canoni ermeneutici che il giudice interno deve adottare e in particolare il valore da attribuire alle pronunce del giudice europeo.
La Corte costituzionale ha riaffermato i principi, già presenti nella sua giurisprudenza, secondo cui: a) compete al giudice comune di assegnare alla disposizione interna un significato quanto più aderente alla «dimensione ermeneutica che la Corte Edu adotta in modo costante e consolidato» (sentenza n. 239 del 2009); b) a condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (sentenze nn. 1 del 2013 e 219 del 2008); c) il dovere del giudice di cui sub a) è subordinato al «prioritario compito di adottare una lettura costituzionalmente conforme, poiché tale modo di procedere riflette il predominio assiologico della Costituzione sulla Cedu» (sentenze nn. 349 e 348 del 2007). Ed ha aggiunto che «Il più delle volte, l’auspicabile convergenza degli operatori giuridici e delle Corti costituzionali e internazionali verso approcci condivisi, quanto alla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, offrirà una soluzione del caso concreto capace di conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma, nelle ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, è fuor di dubbio che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana». Dopo aver ricordato che le sentenze della Corte Edu, anche se tendenti ad assumere un valore generale e di principio, restano legate alla concretezza delle situazioni che l’hanno originata (cfr. sentenza n. 236 del 2011), la Corte costituzionale ribadisce, da un lato, che «alla Corte di Strasburgo compete di pronunciare la “parola ultima” (sentenza n. 349 del 2007) in ordine a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi Protocolli, secondo quanto le parti contraenti hanno stabilito in forza dell’art. 32 della Cedu. Si tratta di una “funzione interpretativa eminente” (sentenza n. 348 del 2007), con la quale si assicura che, all’esito di un confronto ermeneutico, tale da coinvolgere nel modo più ampio possibile la comunità degli interpreti, sia ricavata dalla disposizione convenzionale una norma idonea a garantire la certezza del diritto e l’uniformità presso gli Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell’uomo»; dall’altro, che «la Cedu non ha reso gli operatori giuridici nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un comando esegetico impartito altrove nelle forme della pronuncia giurisdizionale». Infatti, «Il giudice nazionale non può spogliarsi della funzione che gli è assegnata dall’art. 101, secondo comma, Cost., con il quale si “esprime l’esigenza che il giudice non riceva se non dalla legge l’indicazione delle regole da applicare nel giudizio, e che nessun’altra autorità possa quindi dare al giudice ordini o suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto”» (sentenza n. 40 del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), «e ciò vale anche per le norme della Cedu, che hanno ricevuto ingresso nell’ordinamento giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento».
Dopo aver ben distinto la diversa situazione in cui il giudice debba dar corso alla sentenza Cedu per rimuovere la violazione accertata dalla Corte Edu nel caso concreto, ha ribadito che l’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito, in prima battuta, al giudice comune (cfr. sentenza n. 349 del 2007), il quale, in forza del coordinato disposto degli artt. 101, comma 2, e 117, comma 1, Cost., è tenuto a uniformarsi alla «giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009), «in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza» (sentenza n. 311 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 303 del 2011), fermo il margine di apprezzamento che compete allo Stato membro (sentenze nn. 15 del 2012 e 317 del 2009). È, pertanto, solo un “diritto consolidato”, generato dalla giurisprudenza europea, che il giudice interno è tenuto a porre a fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo esiste in tal senso a fronte di pronunce che non siano espressive di un orientamento oramai divenuto definitivo. Del resto, tale asserzione non solo si accorda con i principi costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo tra giudici nazionali e Corte Edu sul senso da attribuire ai diritti dell’uomo, ma si rivela confacente rispetto alle modalità organizzative del giudice di Strasburgo. Esso, infatti, si articola per sezioni, ammette l’opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere un contrasto interno di giurisprudenza, attraverso la rimessione alla Grande Camera. La nozione stessa di “giurisprudenza consolidata” trova riconoscimento nell’art. 28 della Cedu, a riprova che, anche nell’ambito di quest’ultima, si ammette che lo spessore di persuasività delle pronunce sia soggetto a sfumature di grado, fino a quando non emerga un well-established case-law che «normally means case-law which has been consistently applied by a Chamber», salvo il caso eccezionale su questione di principio, «particularly when the Grand Chamber has rendered it» (così le spiegazioni all’art. 8 del Protocollo n. 14, che ha modificato l’art. 28 della Cedu). Sottolineate le difficoltà nell’individuazione del consolidamento della giurisprudenza, la Corte costituzionale offre al giudice italiano una serie di indicatori: «la creatività del principio affermato, rispetto al solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali punti di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce della Corte di Strasburgo; la ricorrenza di opinioni dissenzienti, specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che quanto deciso promana da una sezione semplice, e non ha ricevuto l’avallo della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di specie, il giudice europeo non sia stato posto in condizione di apprezzare i tratti peculiari dell’ordinamento giuridico nazionale, estendendovi criteri di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla luce di quei tratti, si mostrano invece poco confacenti al caso italiano. Quando tutti, o alcuni di questi indizi si manifestano, secondo un giudizio che non può prescindere dalle peculiarità di ogni singola vicenda, non vi è alcuna ragione che obblighi il giudice comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte Edu per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti di una “sentenza pilota” in senso stretto.
Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo».
Sono noti gli ampi dibattiti sollevati da questa pronuncia, il cui chiaro argomentare si è voluto citare ampiamente per esteso, condividendolo e non potendolo rendere in forma migliore.
È noto anche che, almeno in suoi settori maggioritari, la Corte Edu non abbia apprezzato particolarmente questa sentenza, che l’allontana da quella funzione di corte costituzionale europea cui, in alcune sue componenti, aspira. Significativo un breve passaggio della sentenza GIEM e altri c. Italia, ancora in materia di confisca urbanistica. Pur pervenendo tale decisione ad approdi ermeneutici sostanzialmente armonici rispetto all’elaborazione della nostra Corte costituzionale, si afferma: «252. Tuttavia, se da un lato è chiaro che, come indicato nella sentenza Varvara (…), la dichiarazione di responsabilità penale richiesta è spesso contenuta in una sentenza penale che condanna formalmente l’imputato, in ogni caso ciò non costituisce una norma imperativa. In effetti, la sentenza Varvara non permette di concludere che le confische per lottizzazione abusiva devono necessariamente essere accompagnate da condanne penali ai sensi del diritto nazionale. Da parte sua, la Corte deve assicurarsi che la dichiarazione di responsabilità penale rispetti le tutele di cui all’articolo 7 e derivi da un procedimento che soddisfi le esigenze dell’articolo 6. In proposito, la Corte sottolinea che le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono pertanto dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate» (corsivo aggiunto), laddove la frase da noi messa in evidenza non ha alcuna funzione argomentativa, ma esprime, almeno per chi legge, solo il desiderio di rispondere alla nostra Corte costituzionale. In proposito osserva il giudice Pinto de Albuquerque (alla nota n. 96 della sua opinione parzialmente concordante e parzialmente dissidente): «L’inserimento di questa frase può sembrare singolare, ma ha una spiegazione. La Corte voleva porre un principio prima di iniziare l’analisi del valore della sentenza Varvara nei successivi paragrafi 255–261. Il principio, che riguarda il “carattere vincolante” e “l’autorità interpretativa” di tutte le sentenze della Corte, è una risposta diretta alla sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale nonché un messaggio rivolto a tutte le corti supreme e costituzionali in Europa».
Quel desiderio appare evidente nell’opinione concordante della giudice Motoc, preceduta da alcuni versi tratti dal Canto V del Paradiso dantesco («Apri la mente a quel ch’io ti paleso/ e fermalvi entro; ché non fa scienza,/ sanza lo ritenere, avere inteso»), dove si osserva che, all’affermazione del giudice delle leggi secondo cui la Costituzione è “assiologicamente” predominante sulla Convenzione, «la nostra Corte ha solo reagito in modo fermo ma moderato, sottolineando che “le sue sentenze hanno tutte lo stesso valore giuridico. Il loro carattere vincolante e la loro autorità interpretativa non possono quindi dipendere dal collegio giudicante che le ha pronunciate”». Ancor più significativa la lunga e articolata (circa 30 pagine) opinione parzialmente concordante e parzialmente dissenziente che il giudice Pinto de Albuquerque dedica a una replica minuziosa alla sentenza n. 49/2015, ritenendo che la sentenza GIEM abbia mandato un messaggio «forte e chiaro: tutte le sentenze della Corte hanno lo stesso valore giuridico, la stessa natura vincolante e la stessa autorità interpretativa». Rinviando alla lettura della complessa opinione, è interessante, anche ai fini del prosieguo della trattazione, sottolineare un passaggio, ove si afferma: «39. Tuttavia, il concetto di giurisprudenza consolidata differisce radicalmente da quello di “diritto consolidato” utilizzato dalla Corte costituzionale, nonostante un’apparente similitudine. In primo luogo, la funzione di una giurisprudenza consolidata non è in alcun modo quella di modulare la forza normativa o la “densità persuasiva” delle sentenze e delle decisioni della Corte in funzione del grado di “consolidamento”. L’unica funzione di una giurisprudenza consolidata è quella di conferire a un comitato la “competenza” di decidere su una causa invece di rinviarla a una sezione della Corte. Ciò non è dovuto al fatto che una giurisprudenza consolidata sarebbe in un certo modo superiore al resto della giurisprudenza, ma semplicemente al fatto che consente il ricorso a una procedura “semplificata” per le cause ripetitive. Inoltre, i ricorrenti possono contestare la natura consolidata della giurisprudenza appellandosi all’articolo 28 § 3 della Convenzione. La giurisprudenza consolidata permette alla Corte di operare una distinzione nella sua giurisprudenza sulla base della semplicità d’interpretazione, ma non è in alcun modo indicativa del carattere vincolante delle sue sentenze. 40. La Convenzione significa ciò che la Corte ritiene che la Convenzione significhi, né più né meno».
Sembra utile precisare che l’evoluzione della giurisprudenza italiana, che ha cercato di effettuare un efficace bilanciamento tra principi affermati dalla Corte di Strasburgo e scelte politiche del legislatore in materia di tutela ambientale, trova considerazione nell’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Spano e Lemmens.
L’11 gennaio 2019 si è tenuto presso la Corte costituzionale un incontro dedicato al dialogo tra la Corte di Strasburgo e le corti italiane, con la partecipazione dei vertici della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte costituzionale, della Cassazione e della relativa Procura generale, del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e del Consiglio superiore della magistratura. Come si legge nel comunicato stampa, «dalla discussione è emersa anzitutto la necessità che le Corti europee – in una fase storica di debolezza, in alcuni Paesi, dei diritti fondamentali – dialoghino tra loro per la piena tutela di questi diritti, anche assicurando l’armonizzazione delle rispettive giurisprudenze».
Ci attendiamo dunque ulteriori positivi sviluppi e una rinnovata reciproca comprensione[5].
5.2. WECL – well established case law: dal “precedente consolidato” al “precedente tout court” nella giurisprudenza della Corte Edu
L’insistenza della Corte Edu nell’affermare che tutte le sue sentenze e decisioni hanno la stessa efficacia vincolante, indipendentemente dal collegio che le ha adottate, è sorretta certamente da una ragione ulteriore a quella di rispondere “per le rime” alla Corte costituzionale italiana. È, infatti, da tempo in corso una revisione delle procedure interne della Corte tendente alla semplificazione delle procedure (in via di prassi e non di modifiche alle Regole della Corte), alla risoluzione dei casi con regolamenti amichevoli, alla riduzione del numero di casi decisi dalla camera composta da sette giudici, all’accoglimento delle richieste di rinvio alla Grande Camera di diciassette giudici tendenzialmente solo per casi idonei a tracciare la politica giudiziaria dell’organo. L’obiettivo è quello di consentire alla Corte, nelle sue composizioni maggiori (camera e Grande Camera) di concentrarsi sui casi “più rilevanti”. Lo strumento è la canalizzazione della stragrande maggioranza dei casi ammissibili (id est che hanno passato il vaglio di non manifesta inammissibilità) verso il comitato dei tre giudici. Questa operazione di court management passa attraverso l’estensione della nozione di “giurisprudenza consolidata” ai sensi dell’art. 28 Cedu.
Ma cominciamo dall’inizio.
A fronte delle problematiche gestionali del flusso di richieste, a partire dal 2010 si sono tenute varie conferenze di alto livello, su iniziativa della Presidenza di turno del Consiglio d’Europa, aventi ad oggetto il futuro della Corte Edu e il rafforzamento dell’efficacia e qualità della sua azione; ognuna si è conclusa con l’adozione di una dichiarazione che individuava obbiettivi e formulava raccomandazioni per la Corte, gli Stati membri (SM) e il Consiglio d’Europa.
Fin dalla prima Dichiarazione, quella di Interlaken, gli SM si sono posti il problema del crescente arretrato della Corte Edu e del suo impatto negativo sull’efficacia e la tempestività del suo intervento. Nelle Dichiarazioni succedutesi tra il 2010 e il 2015 (Interlaken, Smirne, Brighton, Bruxelles) – pur centrate sulle obbligazioni degli Stati che, attraverso attuazione dei diritti convenzionali ed esecuzione delle sentenze, dovrebbero favorire la diminuzione del flusso delle richieste –, vari inviti sono rivolti alla Corte per l’adozione di misure (un “filtro” efficace, “decisioni pilota”, incentivazione dei regolamenti amichevoli) idonee all’eliminazione delle pendenze di ricorsi inammissibili e ripetitivi. In quegli anni, l’art. 61 delle Regole della Corte introduce le sentenze pilota, entra in vigore il Protocollo 14 alla Convenzione, che introduce la formazione del giudice unico e quella del comitato di tre giudici, viene creato un filtro efficace. Sia la Dichiarazione di Smirne che quella di Brighton incoraggiano l’applicazione dell’art. 28 e un’ampia interpretazione del concetto di precedente consolidato («well established case-law» – WECL), in modo da aumentare il numero di casi giudicati con la procedura di comitato, senza pregiudizio di un adeguato esame delle circostanze del caso e dell’efficacia non vincolante delle decisioni contro Stati diversi da quello che ne è destinatario (punto 20, lett. f). Filtro, giudice unico per le inammissibilità, distacco di giuristi nazionali hanno come risultato l’eliminazione dell’arretrato costituito da ricorsi manifestamente irricevibili.
Nel marzo 2015 la Conferenza di Bruxelles si è conclusa ponendo l’obbiettivo imprescindibile della riduzione dell’arretrato come precondizione di una decisione in un termine ragionevole dei nuovi casi. È stata sottolineata l’importanza di individuare efficaci metodi di gestione dei casi secondo criteri di priorità e nuovi metodi di trattazione degli affari ripetitivi e gli SM sono stati incoraggiati a privilegiare soluzioni alternative alle procedure contenziose.
La Corte Edu ha individuato tali metodi nell’allargamento del concetto di “precedente consolidato” che consente l’aumento esponenziale dell’assegnazione dei casi ai comitati di tre giudici. A giugno 2017, la Corte ha adottato un Rapporto sui metodi di lavoro per aumentare il numero di casi decisi dal comitato di tre giudici, anticipato per estratto agli SM nel luglio e presentato durante la riunione degli agenti del governo del dicembre dello stesso anno. Di particolare rilievo, ai nostri fini, le linee guida fissate per l’assegnazione dei casi al comitato; in sintesi:
- un nuovo caso, che abbia superato il filtro di ammissibilità, va assegnato al comitato a meno che: sollevi una questione di interpretazione o di applicazione nuova, riguardante la Convenzione o i Protocolli, o, pur in presenza di principi generali consolidati, vi siano dubbi sufficientemente seri sulla sussistenza della violazione, nei quali casi va assegnato alla camera;
- un caso va sempre assegnato alla camera se “di primo piano” o “sensibile”, intendendo per tale un caso sul quale c’è molta attenzione a livello interno o che ha riflessi sui mass media;
- rientrano nella procedura WECL-comitato:
c1. i casi che pongono questioni che sono già risolte con giurisprudenza costante, cioè: gli affari ripetitivi in senso stretto, gli affari “clone”, gli affari che rientrano in una sentenza pilota (ad esempio: durata eccessiva dei processi, mancanza o ritardo nell’esecuzione dei giudicati interni, durata eccessiva della detenzione provvisoria, condizioni di detenzione inadeguate);
c2. i casi ripetitivi secondo un’interpretazioneestensiva dell’art. 28 Cedu – «si deve (…) interpretare [l’articolo 28] più estensivamente, in modo da ricomprendervi anche gli affari che vi si presterebbero, attualmente registrati come casi di camera standard e classificati nella categoria IV, allorquando le questioni sollevate sul terreno della Convenzione possono essere considerate come oggetto di una giurisprudenza costante – consolidata – nel senso precisato nel rapporto» – (tdA)[6];
c3. casi che rientrano «grosso modo» in un precedente senza che vi sia necessità che un affare identico sia stato deciso;
c4. casi decisi da una sentenza recente di camera;
c5. casi che non pongono questioni nuove, che non hanno un interesse giurisprudenziale, che non hanno un interesse rilevante per lo Stato;
c6. casi che rientrano in tre precedenti adottati verso altri Stati.
Il 18 aprile 2018, è intervenuta la Dichiarazione di Copenaghen, la quale si è limitata a prendere atto delle nuove misure, invitando la Corte a ricercare, in cooperazione con gli Stati membri, nuovi ed efficaci modelli di gestione, nel rispetto del principio del ricorso individuale e del diritto di difesa delle parti, che la moltiplicazione di procedure semplificate e l’estensione del concetto di precedente potrebbero mettere a rischio.
L’obbiettivo di un aumento dell’efficacia gestionale dei flussi dei ricorsi e dell’effettività della tutela dei diritti umani da parte della Corte è primario e condiviso. Non può, peraltro, non chiedersi se ciò possa avvenire senza danni abbandonando – in via di decisione “amministrativa” o manageriale anziché attraverso un processo di evoluzione della giurisprudenza che si confronti con la necessità di motivazione e convinzione – un chiaro concetto di giurisprudenza consolidata quale «pluralità di decisioni omologhe di una Camera o una sentenza pilota o una sentenza della Grande Camera» (emergente dall’art. 28 Cedu, dal rapporto esplicativo al Protocollo n. 14 e, soprattutto, dalla giurisprudenza della Corte) per sostituirlo col «precedente unico di Camera» o coi «tre precedenti contro altri Stati». Le implicazioni, anche sulla base di quanto fin qui esposto, sono evidenti. Le conseguenze possibili sono rilevanti e non possono essere sottostimate: si va dall’erosione delle prerogative degli Stati membri (pericolosa in un periodo di crisi del Consiglio d’Europa quale l’attuale)[7] all’involuzione del rapporto di fiducia con i giudici nazionali. Questi ultimi, infatti, per farsi doverosamente applicatori delle opzioni ermeneutiche della Corte Edu, devono essere convinti (il giudice, per sua funzione, esercita la ragione critica e non fa atti di fede). La “neverending story” del concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso lo dimostra.
5.3. Il ruolo delle esecuzioni (e del CMDH)
Almeno per grandi linee deve, infine, riflettersi sul ruolo che hanno le esecuzioni nella formazione del precedente consolidato, in specie ai fini dell’applicazione di quel precedente a livello di sistema interno. La responsabilità dell’esecuzione delle sentenze Cedu appartiene agli Stati membri, coadiuvati dal Comitato dei ministri. Le misure individuali (pagamento dell’equa soddisfazione e delle spese giudiziali; eventuale revisione del processo o adozione dei provvedimenti atti a rimuovere la violazione individuale) sono di facile individuazione, esecuzione e accertamento. Più complessa è, evidentemente, l’individuazione e l’attuazione di tutte quelle misure che siano idonee a impedire che violazioni simili si ripetano nel futuro. Possono essere necessarie riforme normative, attività di formazione, messa a disposizione delle autorità competenti delle risorse umane e materiali necessarie per rendere le riforme operative, attività di diffusione di consapevolezza (si pensi alla violenza di genere o ai trattamenti disumani e degradanti). Il Comitato dei ministri in composizione diritti umani supporta, consiglia, indirizza lo Stato in questo compito, non sempre facile, di concreta realizzazione dei diritti umani nel sistema interno. Accanto a casi che richiedono un grande sforzo ideativo e applicativo dello Stato (si pensi ai casi Talpis, Nasr e Ghali, Khlaifia, Scoppola, i cui atti si possono leggere su HUDOC EXEC), ve ne sono altri nei quali non esiste un problema strutturale o sistemico, non vi sono rischi (salvo patologie imprevedibili) di ripetizione della violazione, che si rivela essere stato un caso isolato, il frutto di una decisione sbagliata (l’errore umano), che nessuna norma o meccanismo di allerta potrà mai prevenire. Le decisioni del Comitato dei ministri di chiusura dell’esecuzione (o mantenimento del monitoraggio sostenuto) sono, in tal senso, una guida sicura per comprendere di fronte a che tipo di decisione ci si trovi: una violazione sistemica o ricorrente, che richiede azioni di correzione e (secondo i casi) adeguamento alle scelte ermeneutiche da parte del giudice nazionale (coi limiti segnati dalla Corte costituzionale), o una violazione isolata, rispetto alla quale la condanna ha rilevanza individuale, ma non di sistema. Le decisioni di quest’ultimo tipo non possono evidentemente svolgere un ruolo di precedente ma, al massimo, di campanello d’allarme contro il rischio di errore del singolo.
[1] A. Barak, L’exercice de la fonction juridictionnelle vu par un juge: le rôle de la Cour suprême dans une démocratie, in Revue française de droit constitutionnel, n. 2/2006, pp. 227-302, spec. p. 233.
[2] L.-A. Sicilianos, Le Protocole 14 bis à la Convention européenne des droits de l’homme: un instrument (heureusement) éphémère, in Annuaire français de droit international, vol. LV, 2009, pp. 729-742, spec. p. 739.
[3] Non sono state tradotte e riportate le note all’opinione per non appesantire il testo; le medesime possono essere lette nel testo originale su HUDOC.
[4] Su questa importante problematica, si veda R. Spano, The Future of the european Court of Human Rights – Subsidiarity, Process-Based Review and the Rule of Law, in Human rights law Review, n. 18/2018, pp. 473 ss.
[5] vedi da ultimo Romboli, L’influenza della CEdu e della Corte Europe dei Diritti dell’Uomo nell’ordinamento costituzionale italiano in Consulta on Line, 2018, fascicolo III, pag 618 ss.
[6] «il faudrait (…) interpréter [l’article 28] plus extensivement, de manière à englober aussi les affaires qui s’y prêteraient, actuellement enregistrées comme affaires de chambre standard et classées dans la catégorie IV, lorsque les questions soulevées sur le terrain de la Convention peuvent être regardées comme faisant l’objet d’une jurisprudence constante – bien établie – comme le précisent les observations faites dans le rapport explicatif».
[7] Lo Stato può opporsi, ma non ha un diritto di veto rispetto al rinvio davanti al comitato, al cui collegio non partecipa necessariamente, come alla camera, il giudice nazionale – l’unico che, in principio, conosce il diritto interno e può leggere integralmente gli atti –, le cui decisioni sono definitive senza che possa essere chiesto il rinvio in Grande Camera. Per valutare l’ampiezza della lesione delle prerogative degli Stati membri, deve considerarsi che la previsione ha avuto carattere di “concessione” degli stessi, la quale dovrebbe pertanto essere applicata secondo il suo significato originario e non innovandone il senso. Sulla mancanza del potere di veto e sulla non obbligatorietà della presenza del giudice nazionale, si veda L.-A. Sicilianos, Le Protocole 14 bis, op. cit., il quale sottolinea come gli Stati più reticenti si siano infine convinti sia per non rendere troppo difficile il funzionamento del comitato sia perché «la presenza di questo giudice non è necessaria tenuto conto del fatto che il comitato si pronuncerà su questioni già definite [déjà tranchées] dalla Corte». Quid quando a definire la questione siano state le camere che si occupano di altri Stati con altri ordinamenti giuridici? O la camera dello Stato, ma con una sola decisione, che potrebbe avere profili di problematicità?