Le misure di prevenzione sono convenzionalmente ancora compatibili?
1. Soglie di iniquità
Ogni società, affermava Claude Lévi-Strauss a conclusione del suo capolavoro, Tristi tropici[1], anche quella in apparenza più giusta e democratica, è costretta a convivere con una “soglia di iniquità”, una serie di dispositivi di esclusione, tanto di natura giuridica quanto di natura sociale, il cui obiettivo è quello di marginalizzare – al limite, criminalizzare – una determinata categoria di soggetti considerati pericolosi per la pacifica convivenza del gruppo in cui vivono. Nessuna società è perfetta – neanche quelle democratiche –, e questo perché «Ognuna include per natura una impurità incompatibile con le norme che proclama e che si traduce concretamente in una certa dose di ingiustizia. (…) [N]essuna società è profondamente buona e nessuna è assolutamente cattiva; offrono tutte certi vantaggi ai loro membri, tenuto conto di un residuo d’iniquità che sembra più o meno costante e che corrisponde forse a un’inerzia specifica in contrasto, sul piano della vita sociale, agli sforzi di organizzazione»[2].
Anche la nostra società, quindi, certamente più complessa ed “evoluta” rispetto a quelle studiate da Lévi-Strauss, prevede tali dispositivi di esclusione che non vanno cercati soltanto all’interno delle «istituzioni totali»[3], perché spesso consistono in particolari istituti giuridici volti a proteggere la pubblica convivenza da quei soggetti che il senso comune, ancor prima che il codice penale, considera come “socialmente pericolosi”. Tra questi istituti, certamente possiamo annoverare le misure di prevenzione, un vero e proprio sotto-sistema penale di polizia presente sin dalle origini nel nostro ordinamento giuridico[4].
Nel periodo liberale, la loro funzione era limitare la circolazione degli oziosi, dei vagabondi, dei mendicanti e di tutte quelle persone che conducevano una vita “sospetta”, inclusi gli operai che, ad esempio, erano tenuti a portare sempre con loro uno speciale libretto identificativo, oltre a un certificato di buona condotta rilasciato dal datore di lavoro, qualora si fossero allontanati dal proprio comune di residenza[5]. Ci penserà, poi, il fascismo a estendere le misure di prevenzione, in particolar modo il confino di polizia, nei confronti di «coloro che svolgono o abbiano manifestato il proposito di svolgere un’attività rivolta a sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l’azione dei poteri dello Stato, o un’attività comunque tale da recare nocumento agli interessi nazionali»: in pratica, tutti coloro che erano semplicemente indiziati dalla polizia politica di essere oppositori del regime[6].
È però interessante notare come, nel dibattito in Assemblea costituente, non si sia sentita la necessità di introdurre in Costituzione un articolo, o più semplicemente un comma, per far rientrare nell’alveo della legalità democratica questi strumenti di repressione politica e sociale. A questa «singolare reticenza» dei costituenti[7], fece eccezione soltanto l’emendamento dell’On. Pietro Bulloni – presentato, tra l’altro, con Costantino Mortati –, che aveva l’obiettivo di aggiungere un ulteriore comma all’attuale art. 13 Cost., dal seguente tenore letterale: «Misure di polizia restrittive della libertà personale a carico di persone socialmente pericolose possono essere disposte solo per legge e sotto il controllo dell’Autorità giudiziaria. In nessun caso la legge può consentire tali misure per motivi politici».
Si trattò di un «emendamento fantasma»[8], tanto è vero che, nel corso dell’adunanza del 10 aprile 1947, non venne discusso né messo ai voti: insomma, passò di fatto inosservato e i proponenti, scoraggiati dall’atteggiamento della prima sottocommissione, così come dalla freddezza delle principali forze politiche presenti in Costituente, decisero di non ripresentarlo in Assemblea. Ma perché questo emendamento non venne preso sul serio, visto che – ad esempio – i nostri padri costituenti dedicarono un comma specifico, il terzo dell’art. 25 Cost., al divieto di sottoposizione alle misure di sicurezza («se non nei casi previsti dalla legge»), che pure erano state utilizzate discrezionalmente dalla polizia fascista per reprimere il dissenso politico?
L’emendamento di Bulloni e Mortati creò non pochi imbarazzi ai tre grandi gruppi politici presenti in Assemblea, forse perché uno dei primi provvedimenti delle forze anti-fasciste riunite nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) fu proprio quello di estendere ai membri del Pnf le misure di prevenzione che il regime aveva applicato ai loro militanti durante il ventennio. Con i decreti legislativi luogotenenziali nn. 419/1944 e 149/1945, infatti, il Cln estese le misure di prevenzione, in particolare quella del confino di polizia, agli iscritti e ai dirigenti del Pnf, con l’intento di neutralizzarne l’attivismo politico eversivo in quella delicata fase, in cui le fragili istituzioni democratiche stavano prendendo vita.
Le misure di prevenzione “fasciste” vennero poi riscritte dal Parlamento repubblicano, con la legge n. 1423/1956, in forte continuità con i testi precedenti, al fine di colpire non solo gli oziosi e i vagabondi abituali, ma anche quanti dovevano ritenersi – sulla base di elementi di fatto o notori – abitualmente dediti a traffici delittuosi, ovvero che per la loro condotta e il loro tenore di vita dovevano ritenersi, sempre sulla base di meri elementi indiziari, vivere grazie ai proventi di attività delittuose. Peraltro, il legislatore non si limitò soltanto a queste categorie, visto che estese l’applicazione delle misure, da un lato, a quanti fossero ritenuti dediti al favoreggiamento ovvero allo sfruttamento della prostituzione, alla corruzione dei minori, al contrabbando, al traffico di stupefacenti e alle scommesse clandestine; dall’altro, a coloro i quali, per il loro comportamento pubblico, dovessero ritenersi – sempre sulla base di meri elementi di fatto –, dediti alla commissione di reati che offendevano o mettevano in pericolo l’integrità fisica e morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza ovvero la tranquillità pubblica. Quanto alle misure previste dalla legge, esse andavano dalla diffida del questore al rimpatrio con foglio di via obbligatorio nel luogo di residenza, fino alla sorveglianza speciale e al divieto ovvero all’obbligo di soggiorno in determinati comuni o province. Queste ultime tre misure, inoltre, erano comminate con l’obbligo, per il destinatario, di rispettare una serie di precetti non tassativi, ossia: vivere onestamente, rispettare le leggi, cercarsi un lavoro, non frequentare luoghi e persone sospette, non rincasare troppo tardi la sera e non uscire troppo presto la mattina, previo avviso alle autorità di pubblica sicurezza in caso di spostamento diurno.
Come si può notare, per quanto riguarda gli obblighi accessori che accompagnavano (e, come vedremo, ancora oggi accompagnano) la comminazione delle misure di prevenzione, si annidavano profili di illegittimità evidenti che, mai considerati con il dovuto rigore dalla giurisprudenza costituzionale, sono stati invece attentamente valutati, proprio di recente, dalla Corte di Strasburgo. Nel corso delle prossime pagine, pertanto, analizzerò i percorsi giurisprudenziali di queste due Corti che, negli ultimi quarant’anni, si sono incrociati e – per così dire – biforcati verso direzioni opposte, rischiando oggi di dar vita a una nuova “guerra tra corti”[9].
Infatti, con l’importante sentenza De Tommaso del febbraio 2017, la Grande Chambre sembra essersi assestata su una posizione di netta critica delle misure di prevenzione italiane: una presa di posizione talmente dirompente per il nostro ordinamento giuridico che, in attesa che la Consulta si esprima su una serie di questioni di legittimità pendenti, ha spinto cautelativamente le sezioni unite penali della Cassazione a formulare un’interpretazione adeguatrice (costituzionale e convenzionale al tempo stesso) della normativa vigente che, però, non appare esente da critiche.
2. La Corte costituzionale, le misure di prevenzione e i limiti della legge n. 1423/1956
Come detto, l’impianto normativo della l. n. 1423 è stato più volte oggetto di valutazione da parte della Consulta che, nel corso dei decenni, si è sempre espressa a favore della legittimità costituzionale delle misure di prevenzione, spesso con argomenti oscillanti e soltanto in parte condivisibili. Paradigmatica di questo atteggiamento è la sentenza n. 27/1959, con cui la Corte dichiarò non fondata la questione di legittimità dell’art. 5, che vietava al sorvegliato speciale, da un lato, di associarsi abitualmente alle persone che avevano subito condanne, ovvero che erano state sottoposte a misure di prevenzione e/o di sicurezza; dall’altro, semplicemente di partecipare a pubbliche riunioni, in palese contrasto con l’art. 17 Cost. La motivazione della Consulta sul punto fu quanto mai eloquente: «Non è dubbio che questa [norma], apporti limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione; ma tali limitazioni sono informate al principio di prevenzione e di sicurezza sociale (…). È questa una esigenza e regola fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta dalla nostra Costituzione. (…) [A]mmesso in via generale dalla Costituzione il principio di una limitazione dei diritti di libertà per le esigenze della sicurezza sociale, le prescrizioni disposte a carico del sorvegliato speciale [sono tali] (…) da rientrare pienamente nella normale e logica applicazione del principio, visto che si ispirano alla direttiva fondamentale dell’attività di prevenzione, cioè tener lontano l’individuo sorvegliato dalle persone e dalle situazioni che rappresentano il maggiore pericolo»[10].
Inoltre, questa sentenza definiva come «ristrette e qualificate» le categorie di soggetti potenzialmente destinatarie della sorveglianza speciale, purché la comminazione della misura fosse fondata su elementi concreti e prove effettive da cui emergesse univocamente la pericolosità sociale del sorvegliato. A nulla, quindi, ad avviso della Corte, avrebbe rilevato una lamentata violazione del principio di stretta legalità con specifico riferimento alla libertà di circolazione, ovvero alla tassatività della fattispecie – presupposto dell’applicazione della misura – perché, in materia di prevenzione dei reati, il riferimento ai «casi previsti dalla legge» si concretizzava comunque in un giudizio prognostico sulla personalità del destinatario della stessa[11].
Il che, sia detto per inciso, appare un criterio che si esponeva (e si espone) a non pochi abusi nella prassi, tenuto anche conto che in quegli anni le forze di polizia erano ancora composte da funzionari formatisi nel precedente regime politico e, pertanto, avevano non poche difficoltà a conformarsi ai principi garantisti della Costituzione[12]. A ben vedere, la Consulta dovette implicitamente riconoscere che l’elenco dei potenziali destinatari delle misure di prevenzione non fosse così «ristretto e qualificato» nella sentenza n. 23/1964, quando venne chiamata a valutare proprio l’art. 1 della l. n. 1423, constatando un grave deficit di tassatività con riferimento a quelle condotte, anche semplicemente indiziarie, che inducevano a considerare determinati soggetti come “socialmente pericolosi”.
Ancora una volta, la Corte giunse a dichiarare infondata la questione: forte dei principi fissati nella propria giurisprudenza precedente, evidenziò come l’art. 1 della l. n. 1423 non presentasse vizi sotto il profilo della formulazione legislativa, perché: «Dalle indicate finalità delle misure di prevenzione deriva che l’adozione di esse può essere collegata non al verificarsi di fatti singolarmente determinati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una “condotta”, assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale. Discende, pertanto (…), che nella descrizione delle fattispecie il legislatore debba normalmente procedere con criteri diversi da quelli con cui procede nella determinazione degli elementi costitutivi di una figura criminosa, e possa far riferimento anche a elementi presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili»[13].
Appare evidente come, in questo caso, il problema concernesse la tassatività dell’individuazione di quei soggetti a cui potevano essere applicate le misure e la formulazione della norma rischiava di esautorare – oltre che eludere – le garanzie previste dall’art. 13 Cost., a fronte di un’attività di polizia indiziaria e discrezionale che trovava nel giudizio della magistratura una conferma tralatizia[14].
Le due sentenze qui analizzate sono i pilastri su cui si fondò tutta la giurisprudenza successiva della Consulta: a ben vedere, già con la sentenza n. 11/1956 – con riferimento al Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza fascista –, posta di fronte alla necessità di bilanciare la garanzia della libertà personale e di circolazione con l’attività di prevenzione dei reati[15], la Corte aveva affermato che in questo ambito trovava comunque applicazione il principio di stretta legalità e di tutela giurisdizionale del destinatario della misura, alla luce delle garanzie previste dall’art 13 Cost. Non può non evidenziarsi, tuttavia, come questa continuità di approccio al tema confermi il limite di fondo sotteso alla vigenza dell’istituto, a prescindere, quindi, dal fatto che esso sia stato introdotto nel nostro ordinamento da un regime classista, dittatoriale o democratico: sono proprio gli argomenti e l’atteggiamento di self-restraint del giudice delle leggi, infatti, che confermano l’esistenza (e la persistenza) di quella soglia di iniquità di cui parlava Lévi-Strauss e che la dottrina più progressista non ha mai smesso di denunciare[16].
Per leggere una declaratoria di incostituzionalità in questa materia, bisogna attendere l’inizio degli anni Settanta: con la sentenza n. 76/1970, infatti, seppur sinteticamente, la Corte rigettava ancora una volta le questioni che investivano l’intera struttura normativa della l. n. 1423, ma era comunque costretta a dichiarare illegittimo l’art. 4, comma 2, con riferimento all’art. 24 Cost., per la omessa previsione dell’assistenza di un difensore al momento dell’interrogatorio del destinatario della misura[17]. A parte questo “incidente di percorso”, una incrinatura significativa del sistema delle misure di prevenzione si sarebbe avuta soltanto con la sentenza n. 177/1980, quando la Corte arrivò a dichiarare l’illegittimità dell’art. 1, n. 3, l. n. 1423, nella parte in cui elencava tra i potenziali destinatari delle misure di prevenzione coloro che «per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere».
Per la prima volta nella sua giurisprudenza, quindi, la Consulta riconosceva come l’art. 1 l. n. 1423 fosse viziato da un elevato grado di indeterminatezza, con riferimento ai presupposti fattuali (rectius: agli indici presuntivi) a cui il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi per formulare il giudizio prognostico sulla pericolosità sociale del destinatario della misura. Del resto, era evidente che la formulazione letterale dell’art. 1, n. 3 non descrivesse «né una o più condotte, né alcuna “manifestazione” cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale (…). I presupposti del giudizio di “proclività a delinquere” non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei “casi” (come vogliono sia l’art. 13, che l’art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità»[18].
Ho voluto soffermarmi soltanto su queste sentenze – nonostante la Corte si sia più volte espressa favorevolmente sulla legge n. 1423[19] –, perché è proprio questo risalente orientamento che, di recente, la Corte di Strasburgo ha preso in considerazione nella sentenza De Tommaso, per criticare non soltanto la formulazione delle fattispecie legislative che regolano le misure di prevenzione, ma addirittura la giurisprudenza costituzionale nella sua interezza. Senza dubbio, come abbiamo visto, l’approccio della Consulta appare non privo di incertezze e, proprio per questo motivo, ritengo utile confrontare questo filone giurisprudenziale con quello inaugurato dalla Corte Edu all’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la pubblicazione della sentenza n. 177/1980. Nel corso del prossimo paragrafo, pertanto, mi soffermerò sulla diversa ricostruzione giurisprudenziale che di queste misure ha fornito il giudice europeo, per verificarne le differenze e i profili di compatibilità, alla luce degli esiti più recenti che questo mancato dialogo tra corti ha provocato.
3. La giurisprudenza della Corte Edu e le misure di prevenzione italiane: un mancato dialogo tra corti
Come detto, proprio in concomitanza con la pubblicazione della sentenza n. 177/1980 della Corte costituzionale, i giudici di Strasburgo hanno preso per la prima volta posizione sulle misure di prevenzione allora vigenti nel nostro ordinamento: con l’importante decisione Guzzardi del 6 novembre 1980, in seduta plenaria, la Corte Edu condannò l’Italia per violazione dell’art. 5, primo paragrafo, della Convenzione, per aver sottoposto a sorveglianza speciale il ricorrente, affiliato a un’associazione mafiosa[20].
Poiché, al momento in cui la causa venne iscritta al ruolo, il nostro Paese non aveva ancora ratificato il Protocollo n. 4 alla Convenzione – il cui art. 2 tutela specificamente la libertà di circolazione –, la Corte era stata adita al solo fine di dichiarare le misure in contrasto con l’art. 5, par. 1, Cedu che, come noto, garantisce i cittadini degli Stati membri da arbitrarie limitazioni della libertà personale. Soltanto per ragioni tecniche, quindi, in questa prima fase della giurisprudenza sovranazionale, le misure di prevenzione sono state considerate alla luce delle tradizionali garanzie connesse all’habeas corpus: si tratta di un dato giuridico estremamente significativo che, come vedremo, verrà poi ribadito dalla Corte anche nelle sue sentenze successive.
Recuperando una suggestiva immagine della difesa, la Corte definisce la sorveglianza speciale un «carcere a cielo aperto» (par. 95), una limitazione della libertà personale che non trovava nell’ordinamento italiano alcuna tassativa base legale e, quindi, risultava in contrasto sia con le eccezioni stabilite dal primo paragrafo della Cedu sia, specificamente, con la lett. e) dell’art. 5, par. 1, che comunque consente la detenzione di determinati soggetti pericolosi per la pubblica sicurezza, ossia gli alienati, gli alcolizzati, i tossicodipendenti e i malati contagiosi[21].
L’inquadramento giuridico delle misure di prevenzione, tuttavia, appare sin da subito diametralmente opposto a quello della Corte costituzionale: innanzitutto, i giudici sovranazionali dichiarano esplicitamente che queste misure limitano in maniera penetrante la libertà personale del ricorrente, equiparandole de facto a una forma di detenzione non fondata su una base legale sufficientemente chiara e prevedibile. Inoltre, evidenziano come la limitazione della libertà personale possa essere certamente prevista per determinate categorie di soggetti – così come stabilito alla già citata lett. e), par. 1 dell’art. 5 Cedu –, ma al solo fine di tutelare tali persone da loro stesse, in quanto incapaci di autodeterminarsi: la legittimità di tali misure, infatti, si fonda su un obbligo positivo statale a tutela della salute e dell’incolumità di quegli stessi (determinati) individui, ancor prima che a tutela dell’ordine pubblico generale (così al par. 98 della sentenza).
La ricostruzione dell’istituto trova un ulteriore approfondimento nella sentenza Raimondo, del 22 febbraio 1994: il ricorrente, anch’egli affiliato a un’associazione mafiosa, si era visto confiscare alcuni immobili quale misura di prevenzione patrimoniale ed era poi stato sottoposto a sorveglianza speciale. Anche in questo caso, la Corte Edu dichiarava che le misure di prevenzione avevano leso, rispettivamente, il diritto di proprietà (art. 1 Protocollo n. 1) e la libertà di circolazione (art. 2 Protocollo n. 4, nel frattempo ratificato dall’Italia) del ricorrente. Quello che vorrei evidenziare di questa sentenza è, però, l’argomento che la Corte utilizza per accertare la violazione dell’art. 2 Protocollo n. 4: se è vero, infatti, che in concreto questa violazione era dovuta al ritardo nella revoca dell’esecuzione della misura comminata da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, tuttavia i giudici, soltanto in apparente contrasto con la sentenza Guzzardi, sottolineano come la sorveglianza speciale resti una misura illegittimamente limitativa della libertà di circolazione – e non della libertà personale in senso stretto – del proprio destinatario[22].
Questo principio viene approfondito più analiticamente dalla Grande Chambre, con la sentenza Labita, del 6 aprile 2000: qui i giudici di Strasburgo osservano come, pur essendo prevista da una legge interna, l’applicazione concreta della misura di prevenzione era fondata su un’istruttoria indiziaria da parte dell’autorità di pubblica sicurezza, i cui esiti – la limitazione della libertà di circolazione del ricorrente – risultavano sproporzionati alla luce delle circostanze di fatto. In questo caso, la sorveglianza speciale era stata comminata al ricorrente perché sua moglie era la sorella di un capo-mafia, nel frattempo deceduto, e che questa informazione di dominio pubblico era stata considerata sufficiente per la polizia, prima, e per il giudice di merito, poi, al fine di sottoporlo alla sorveglianza speciale.
Inoltre, a fronte del rilievo del giudice italiano, il quale aveva dichiarato – formulando un mero giudizio indiziario, comunque consentito dalla normativa vigente – che il ricorrente non avesse mutato il proprio stile di vita, né si fosse effettivamente pentito, la Corte di Strasburgo obiettava come un simile giudizio fosse completamente privo di riscontri fattuali, in quanto «le requérant n’a aucun antécédent pénal, a été acquitté de l’accusation d’appartenir à la mafia au motif qu’aucun élément concret suggérant son affiliation à la mafia n’a pu être trouvé au cours des enquêtes préliminaires et du procès» (così al par. 196). La Corte ha poi concluso sottolineando come, senza voler sottovalutare la minaccia che la mafia rappresenta per l’ordine pubblico italiano, le limitazioni alla libertà di circolazione comminate al Signor Labita non potessero comunque essere considerate «necessarie in una società democratica» (cfr. par. 197).
Come si evince dal quadro giurisprudenziale sin qui tratteggiato, la Corte Edu, pur avendo affrontato casi di persone sottoposte a misure di prevenzione personali e patrimoniali appartenenti ad associazioni mafiose, ha svolto una valutazione a tutto tondo di questo istituto giuridico, considerandolo incompatibile con la legalità convenzionale: certo, al di là delle incertezze iniziali della propria giurisprudenza, derivanti soprattutto dalla mancata ratifica del Protocollo n. 4 alla Cedu da parte dell’Italia, dal punto di vista dogmatico appare senz’altro più corretto parlare di un’incompatibilità di fondo delle misure di prevenzione con quanto statuito all’art. 2 del Protocollo n. 4, piuttosto che con l’art. 5, par. 1 della Convenzione[23].
Intanto, nel dialogo tra giudici europei che, inevitabilmente, le decisioni della Corte Edu attivano, la Corte costituzionale non è rimasta indifferente: quando, a partire dal 2010, il problema della compatibilità delle misure di prevenzione (questa volta, con l’ordinamento sovranazionale) è ritornato all’attenzione del giudice delle leggi, quest’ultimo ha infatti dovuto riconsiderare i propri precedenti in materia. Non è questa la sede per valutare in che modo le sentenze della Corte di Strasburgo abbiano innescato un circolo virtuoso nel dialogo con i giudici interni in tale ambito[24]; possiamo, però, affermare che, con riferimento alle misure di prevenzione, il giudice sovranazionale ha comunque svolto una funzione di stimolo e di ripensamento dei percorsi argomentativi della Consulta.
Si tratta, a questo punto, di capire se questo ripensamento sia soddisfacente: si consideri, ad esempio, la sentenza n. 93/2010, con cui il giudice delle leggi ha affrontato la quaestio legitimitatis dell’art. 4 l. n. 1423 (oltre che dell’art. 2-ter l. n. 575/1965) nella parte in cui non prevedeva che la procedura per l’applicazione della misura di prevenzione si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica. Ebbene, in questo caso la Consulta ha avuto modo di osservare come la Corte di Strasburgo si fosse chiaramente espressa per un favor generalizzato della pubblicità delle udienze in materia: citando i precedenti Bocellari e Rizza c. Italia, Pierre e altri c. Italia, oltre che la sentenza Bongiorno del 2010, giungeva alla conclusione che l’udienza pubblica dovesse essere la regola nell’applicazione delle misure di prevenzione, quale garanzia essenziale del giusto processo, ex art. 6, par. 1, Cedu.
Del resto, la Corte non poteva non tenere in considerazione le specifiche caratteristiche procedimentali di un processo, quello di comminazione della misura, «all’esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell’individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale e il patrimonio (…), nonché la stessa libertà di iniziativa economica (…), il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione il principio di pubblicità delle udienze è preordinato»[25].
Certo, nel giudizio principale si discuteva della necessità di comminare una misura di prevenzione patrimoniale e non personale: si potrebbe sostenere, allora, che tutto sommato la Corte sia giunta a dichiarare l’incostituzionalità di una norma processuale perché si trattava di una scelta meno impegnativa di una valutazione di fondo sulla compatibilità delle misure di prevenzione con l’ordinamento convenzionale[26].
Di lì a poco, tuttavia, con la sentenza n. 282/2010, il giudice delle leggi ha dovuto affrontare una nuova questione sollevata dal Tribunale di Trani, che dubitava della tassatività dell’art. 9, comma 2, l. n. 1423, nel frattempo modificato dalla l. n. 155/2005 in materia di terrorismo[27]: la commissione di un reato da parte del soggetto destinatario delle misure di prevenzione, infatti, poneva un problema di violazione delle prescrizioni previste dall’art. 5, comma 3, prima parte, l. n. 1423, quelle cioè che si riferivano all’obbligo di «vivere onestamente, rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti», la cui formulazione appariva non tassativa e riferibile indistintamente all’intera collettività dei consociati.
Sebbene, nell’ordinanza di rimessione, il giudice a quo non facesse esplicito riferimento alla giurisprudenza della Corte Edu, la sentenza della Consulta risulta di grande interesse, perché proprio sull’oggetto del giudizio si determina una totale divergenza tra giudice delle leggi e giudice sovranazionale. Con la sentenza n. 282/2010, la Corte costituzionale dichiarava non fondata la questione, osservando che, se prima facie la prescrizione del «vivere onestamente», interpretata in maniera isolata, potesse apparire generica, tuttavia, se «collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5 e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso soltanto da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, essa assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di “vivere onestamente” si concreta e si individualizza»[28].
Per giurisprudenza costante, quindi, la violazione dell’obbligo di «vivere onestamente» – ci dice la Corte – integra un reato proprio: ed è su questo punto che si è consumato il “divorzio giurisprudenziale” tra Consulta e giudice sovranazionale. Tornerò subito su questo nodo esiziale che ha aperto di fatto un conflitto tra le due Corti: intanto, per ragioni di completezza, osservo come, anche con riferimento alla prescrizione del «rispettare le leggi» e del «non dare ragione di sospetti» – quest’ultimo obbligo certamente più problematico, sotto il profilo della tassatività della formulazione normativa, rispetto agli altri –, la Consulta è giunta alla stessa conclusione, ribadendo come fossero i concreti comportamenti del sorvegliato speciale che avrebbero indotto il giudice di merito a una valutazione oggettiva dei fatti contestati, purché idonei a rivelarne la pericolosità sociale.
La sentenza è certamente criticabile: ferma sulla propria consolidata giurisprudenza, la Consulta non ha voluto rimettere – ancora una volta – in discussione l’impianto generale della l. n. 1423 e, in questo modo, si è attestata su posizioni interpretative che non tenevano minimamente conto delle censure svolte dal giudice europeo con riferimento all’art. 2, Protocollo n. 4 alla Cedu. Anche in questo caso, tuttavia, la dottrina costituzionalistica si è poco interessata alla coerenza argomentativa dei ragionamenti della Corte, preferendo piuttosto soffermarsi a valutare, in termini generali e sistemici, in che modo i rapporti tra giudice delle leggi e Corte Edu fossero progrediti, alla luce dei principi fissati dalla Consulta stessa con le sentenze “gemelle” del 2007[29].
4. La sentenza De Tommaso della Grande Chambre e i rischi di una nuova “guerra tra corti”
Arriviamo, così, alla più volte citata sentenza del 23 febbraio 2017 della Grande Chambre, con cui i giudici di Strasburgo hanno fatto deflagrare una nuova “guerra tra corti”: sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, il Signor De Tommaso lamentava la violazione degli artt. 5, par. 1, 6 e 2 del Protocollo n. 4 alla Cedu, chiedendo una censura “sistemica” delle misure di prevenzione italiane. La Corte Edu accoglie in pieno la prospettazione del ricorrente, dichiara l’istituto contrario alla libertà di circolazione e gli obblighi accessori comminati con la misura principale carenti di tassatività, in quanto non precisamente formulati dalla legge interna. Senza dubbio, questa sentenzaassume un “tono costituzionale” in molti suoi passaggi, in ragione del fatto che i giudici di Strasburgo non solo valutano la compatibilità delle misure di prevenzione alla luce della legalità convenzionale, ma, soprattutto, rileggono criticamente la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia e non esitano a definirla insufficiente a tutelare i diritti fondamentali del ricorrente[30].
Nello specifico, la Corte Edu pone il problema della tassatività delle misure di prevenzione, osservando come la locuzione «prevista dalla legge», nella Convenzione, faccia riferimento anche alle modalità di formulazione della stessa, ossia alla sua “qualità” redazionale, in quanto il contenuto di una norma deve essere comprensibile dai suoi destinatari e i suoi effetti applicativi prevedibili. Ma è proprio la mancanza di prevedibilità della legge, ad avviso della Corte, che la rende non tassativa, in quanto «non è formulata con sufficiente precisione in modo da consentire ai cittadini di regolare la loro condotta; essi devono essere in grado (…) di prevedere, a un livello ragionevole nelle specifiche circostanze, le conseguenze che un determinato atto può comportare» (così al par. 107).
La prevedibilità, come è noto, nella giurisprudenza della Corte Edu, afferisce alla tutela contro le ingerenze arbitrarie dell’autorità pubblica nella sfera della libertà individuale, oltre che essere un contrappeso alla potenziale discrezionalità applicativa di determinate norme da parte di polizia e magistratura[31]. Ed è proprio partendo da questi presupposti che i giudici sovranazionali osservano come la formulazione – ma, soprattutto, l’interpretazione della Corte costituzionale – della l. n. 1423 non garantisce questo requisito: la Grande Chambre fa esplicito riferimento alla sentenza n. 177/1980 della Consulta che – lo abbiamo visto –, pur avendo dichiarato illegittimo l’art. 1 della stessa legge con riferimento alla non tassatività dei soggetti indicati al punto n. 3, aveva tuttavia considerato come chiaramente definite le categorie di soggetti a cui erano applicabili le misure di prevenzione.
Contrapponendosi a questa decisione, i giudici di Strasburgo partono all’attacco, osservando come nonostante «la Corte costituzionale sia intervenuta in diverse occasioni per chiarire i criteri da utilizzare per valutare se le misure di prevenzione fossero necessarie, l’applicazione di tali misure resta legata a un’analisi prospettica da parte dei tribunali nazionali, dato che né la legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le prove fattuali o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione» (così al par. 117).
Inoltre, con specifico riferimento agli obblighi accessori alla sorveglianza speciale, la Corte Edu critica la sentenza n. 282/2010, osservando come la Consulta non abbia risolto il problema della non prevedibilità delle conseguenze applicative: al par. 122, infatti, i giudici evidenziano come gli obblighi di «vivere onestamente, rispettare le leggi e di non dare ragione alcuna ai sospetti» siano stati delimitati in maniera insufficiente dal legislatore italiano e questo per due ordini di ragioni: «In primo luogo, il “dovere dell’interessato di adattare la propria condotta a uno stile di vita che osservi tutti i summenzionati obblighi” è altrettanto indeterminato dell’“obbligo di vivere onestamente e rispettare le leggi” (…). In secondo luogo, il dovere della persona interessata di rispettare tutte le regole prescrittive che le chiedono di comportarsi, o di non comportarsi, in un particolare modo – non solo le leggi penali, quindi, ma le disposizioni la cui inosservanza sarebbe un ulteriore indizio del pericolo per la società che è già stato accertato – (…) non fornisce ulteriori chiarimenti sulle specifiche norme la cui inosservanza rappresenterebbe un ulteriore indizio del pericolo rappresentato dalla persona per la società».
In conclusione, quindi, la Grande Chambre condanna l’Italia con un giudizio di netta incompatibilità della l. n. 1423 rispetto alla legalità convenzionale, in quanto non è possibile affermare che l’ingerenza nella libertà di circolazione del ricorrente sia fondata su disposizioni di legge che soddisfano i requisiti di legalità previsti dall’art. 2 Protocollo n. 4, e questo, si badi, prescindendo persino dal verificare se le misure di prevenzione possano essere considerate un istituto giuridico necessario in una società democratica, al fine di tutelare l’ordine pubblico[32].
Come appare evidente, il conflitto tra Corte Edu e Corte costituzionale risulta di difficile ricomposizione giurisprudenziale: del resto, la sentenza De Tommaso ha posto all’attenzione di tutti – giudici, dottrina e operatori del diritto – un problema di non poco conto con riferimento alla corretta interpretazione da dare agli obblighi accessori comminati con le misure di prevenzione personali[33]. Si sono rese conto della necessità di sciogliere in tempi brevi questo pernicioso contrasto giurisprudenziale le sezioni unite penali della Corte di cassazione, che hanno subito preso parola sulla questione, provando a mediare tra posizioni ormai inconciliabili e che, tuttavia, pure necessitano di essere tra di loro contemperate.
Così, con la sentenza del 27 aprile 2017, n. 40076, le sezioni unite hanno fornito un’interpretazione allo stesso tempo convenzionalmente e costituzionalmente orientata, con riferimento agli obblighi accessori connessi alla comminazione delle misure di prevenzione personali; un’interpretazione “tassativizzante e tipizzante” che, di fatto, è venuta in aiuto della Consulta, con l’obiettivo – quanto meno – di depotenziare il conflitto frontale inaugurato dalla Corte Edu con la sentenza De Tommaso[34]. Come osservato dal giudice della nomofilachia, infatti, la sollecitazione principale che questa decisione pone all’interprete riguarda il manifesto deficit di determinatezza del reato di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs n. 159/2011 – disposizione in cui sono stati ora trasfusi gli obblighi accessori alle misure di prevenzione, già previsti all’art. 9 l. n. 1423/1956 –, in relazione alle violazioni delle prescrizioni generiche del «vivere onestamente» e del «rispettare le leggi».
Queste prescrizioni, osservano le sezioni unite, «non impongono comportamenti specifici, ma contengono un mero ammonimento “morale”, la cui genericità e indeterminatezza dimostra l’assoluta inidoneità ad integrare il nucleo di una norma penale incriminatrice. D’altra parte, l’obbligo di rispettare le leggi [appare come] una prescrizione generale, che non indica alcun comportamento specifico da osservare nella misura in cui opera un riferimento indistinto a tutte le leggi dello Stato»[35].
Pertanto, non si può parlare di obblighi integranti una vera e propria fattispecie di reato in quanto – osservano le sezioni unite –, da un lato, non ne hanno né la struttura né la funzione; dall’altro, così come formulati dal legislatore, non consentono ai consociati di individuare univocamente le condotte da evitare per non essere imputabili penalmente. Tali obblighi, inoltre, non assurgono a fattispecie autonoma di reato neanche – osservano i giudici – nell’ipotesi in cui si accogliesse quel filone della giurisprudenza di legittimità che limita l’integrazione della fattispecie al solo caso della violazione di norme penali e/o di illeciti amministrativi di maggiore gravità, perché anche in questo caso comunque l’inosservanza di condotte colpose da parte del destinatario della misura integrerebbe una violazione della fattispecie. L’indeterminatezza degli obblighi accessori, quindi, è tale da impedire in maniera assoluta la stessa conoscibilità del precetto sia al destinatario della misura, sia al giudice chiamato a valutarne la violazione: si tratta di un principio affermato a chiare lettere dalle sezioni unite, che tradisce una vicinanza con la posizione espressa dalla Grande Chambre, pur dichiarando le sezioni unite di voler svolgere una rilettura ermeneutica degli obblighi accessori costituzionalmente orientata, evitando così di sollevare una questione di legittimità in via incidentale.
L’interpretazione adeguatrice è, tuttavia, l’esito di una rilettura altamente creativa dell’art. 75, comma 2, d.lgs n. 159/2011, che da fattispecie di reato autonoma si trasforma in mera circostanza di reato, ai fini dell’eventuale aggravamento della misura di prevenzione. Se fino ad oggi, osservano le sezioni unite, la violazione dell’obbligo di rispettare le leggi è stato considerato reato autonomo – concorrente, ai sensi dell’art. 81, comma 1, cp, con quello comune commesso dal sorvegliato speciale qualificato –, una volta stabilito che l’obbligo di rispettare le leggi non integra affatto una norma incriminatrice, il sorvegliato speciale che avrà commesso un reato comune o un illecito amministrativo sarà punito solo per quest’ultimo, mentre gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale potranno assumere, al massimo, una rilevanza ai fini dell’eventuale aggravamento della misura[36].
Siamo di fronte, senza dubbio, a una rilettura più garantista degli obblighi accessori che, però, non tiene conto del fatto che la norma in questione sia stata formulata dal legislatore come una fattispecie autonoma di reato: del resto, gli obblighi accessori sono sempre stati interpretati, per oltre sessant’anni, sia dalla Corte di cassazione sia dalla Corte costituzionale, come fattispecie autonoma di reato, la cui formulazione risultava tassativa e completamente prevedibile, nelle sue conseguenze concrete, da parte del destinatario della misura, nel pieno rispetto quindi dell’art. 25, comma 2, Cost.[37].
A mio avviso, quindi, le sezioni unite hanno nuovamente voluto salvare le misure di prevenzione, ma per farlo, questa volta, hanno dovuto svolgere un’interpretazione creativa della norma, ai limiti del proprio potere ermeneutico, al fine di renderle compatibili con i principi Cedu così come fissati nella sentenza De Tommaso, oltre che per evitare di aprire un conflitto giurisprudenziale tra Corte di Strasburgo e Consulta senza precedenti. Così facendo, quindi, le sezioni unite hanno provato a “parare il colpo” sferrato dai giudici sovranazionali alla giurisprudenza ormai pietrificata del giudice delle leggi, consentendo a quest’ultimo – quando sarà nuovamente chiamato a valutare la legittimità sistemica delle misure di prevenzione –, un margine di manovra per mettere in salvo l’istituto nella sua interezza, magari reinterpretandolo in maniera più garantista, ma senza dichiararlo incostituzionale[38].
5. Ritorno al futuro: una breve conclusione prognostica in attesa della Corte costituzionale
In conclusione, la parola spetta ora alla Corte costituzionale, che è stata chiamata a esprimersi su questo difficile rompicapo giurisprudenziale con le ordinanze di rimessione nn. 115, 156 e 164/2017, rispettivamente sollevate dai Tribunali di Udine e Padova nonché dalla Corte d’appello di Napoli. Non è possibile sapere, in questo momento, quale sarà l’esito di questi giudizi e se la Corte chiuderà oppure – come è molto probabile che sia – riaprirà il confronto/scontro giurisprudenziale sulla legittimità costituzionale e convenzionale delle misure di prevenzione.
Quello che appare evidente è che le questioni sollevate, soprattutto da parte del Tribunale di Udine e dalla Corte d’appello di Napoli, pongono senza mezzi termini, da un lato, il problema della qualificazione degli obblighi accessori alle misure di prevenzione, ma soprattutto, dall’altro, la valutazione da parte del giudice ordinario della decisione De Tommaso alla luce della sentenza n. 49/2015 della Corte costituzionale. Quest’ultima ha stabilito che il giudice a quo non ha l’obbligo di porre a fondamento del proprio iter ermeneutico la giurisprudenza della Corte Edu, a meno che essa non sia espressione di un orientamento consolidato, anche se, nel caso in oggetto, la decisione proviene direttamente dalla Grande Chambre[39].
Di un certo interesse, al riguardo, è la quaestio legitimitatis sollevata dalla Corte d’appello di Napoli che, pur trattando nel giudizio a quo di misure di prevenzione patrimoniali, osserva che, siccome il contrasto tra legalità convenzionale e costituzionale è stato ricostruito dalla Corte Edu in maniera «totalmente demolitiva», a partire da una censura netta della formulazione dell’art. 1 l. n. 1423/1956, inevitabilmente tale incompatibilità di fondo determinerebbe effetti a catena non soltanto sulle misure di natura personale, ma anche su quelle patrimoniali successivamente introdotte dal legislatore, in quanto verrebbe meno – in caso di declaratoria di illegittimità – l’elenco dei potenziali destinatari delle misure, riferibili sia alle misure personali, sia – per l’appunto – a quelle patrimoniali.
Come si vede, i nodi giuridici sembrano finalmente essere giunti al pettine e la Corte costituzionale si troverà, a fine novembre 2018, quando sono previste le udienze di discussione delle ordinanze, a dover prendere una posizione chiara sul punto. L’auspicio, per chi scrive, è che finalmente venga eliminata questa “soglia di iniquità” ormai insostenibile per il nostro ordinamento democratico: ma le vicende di lungo periodo che hanno interessato le misure di prevenzione in Italia fanno presumere esiti diversi.
Infatti, è molto probabile che la Consulta ritorni su quanto affermato nella sentenza n. 49/2015, in tema di interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata, indicando in maniera più puntuale ai giudici a quibus come intendere il vincolo giurisprudenziale che proviene da una sentenza della Grande Chambre, comunque corredata da molte opinioni dissenzienti e concorrenti, e magari considerandola proprio per questo motivo non ancora giurisprudenza consolidata. Si consideri, infatti, che la sentenza De Tommaso è stata comunque decisa a maggioranza dalla Grande Chambre e che la spaccatura all’interno del collegio è stata molto forte, come dimostrano le ben sei opinioni concordanti e le quattro dissenzienti che sono state redatte dai giudici a margine della causa. Si tratta di un dato che non può essere trascurato, anche perché la Consulta potrebbe utilizzare proprio questo rilievo per sostenere che, pur essendo una pronuncia della Grande Chambre, la sentenza De Tommaso non può essere considerata come un precedente consolidato: semmai, un precedente importante, ma suscettibile di overruling da parte della Corte Edu.
Tuttavia, siccome mi sto limitando a formulare un giudizio meramente prognostico di che cosa potrebbe sostenere la Corte costituzionale, evidentemente, giunti a questo punto dell’analisi non è più possibile andare oltre: l’auspicio è che in questa materia si ritorni ai principi garantisti del costituzionalismo moderno, quei principi che sembrano essere stati dimenticati dal nostro legislatore e dalla giurisprudenza costituzionale. Non sarà un caso, del resto, se la Camera della Repubblica cisalpina, nel 1805, abbia rigettato un disegno di legge volto a disciplinare l’attività di polizia e a introdurre, in quella che allora veniva chiamata «Repubblica italiana», le misure di prevenzione, con una motivazione tanto sintetica quanto efficace: «Nello Stato di un governo libero non dovrebbe esservi condizione mediana tra i colpevoli e gli innocenti, e chi non è in contrarietà alla legge non debba dar conto a nessuno delle sue azioni»[40]. Una lezione di garantismo, questa, che risale a più di duecento anni fa, ma che dovrebbe essere tenuta in grande considerazione anche oggi, visto che ormai viviamo un tempo così pericolosamente attratto da ideologie e progetti di riforma, in materia di pubblica sicurezza e di tutela dell’ordine pubblico, di impronta illiberale se non addirittura esplicitamente autoritaria[41].
[1] Cfr. C. Lévi-Strauss, Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 331
[2] Ibid.
[3] Si fa qui riferimento all’ormai classico lavoro di E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Einaudi, Torino, 2010.
[4] Sull’evoluzione storica delle misure di prevenzione come sotto-sistema penale di polizia, si rinvia a L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 2000, pp. 818 ss. e G. Conso, L’ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 1979, pp. 259 ss.
[5] Così come previsto agli articoli che andavano dal 28 al 34 della legge piemontese di pubblica sicurezza n. 3720 del 1859, poi estesa, subito dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, all’intero Regno. La normativa sarà poi rifusa nel Testo unico delle leggi di p. s. varato dal Governo Crispi, n. 6144/1889. Per un giudizio critico sulla legislazione liberale, si veda I. Mereu, Cenni storici sulle misure di prevenzione nell’Italia “liberale”, in Aa. Vv., Le misure di prevenzione. Atti del Convegno di Alghero, Giuffrè, Milano, 1975, pp. 197 ss.; sullo status dei lavoratori subordinati e sulla loro “innata” pericolosità sociale, si rinvia a L. Chevalier, Classi lavoratrici e classi pericolose: Parigi nella rivoluzione industriale, Laterza, Roma-Bari, 1976.
[6] Così l’art. 181 del Testo unico delle leggi di p. s., n. 773/1931, nella sua formulazione originaria.
[7] Una reticenza lamentata da uno dei più autorevoli costituzionalisti italiani, che certamente non può essere tacciato di radicalismo: cfr. L. Elia, Libertà personale e misure di prevenzione, Giuffrè, Milano, 1962, ora in Id., Studi di diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2005, pp. 457 ss.
[8] Così sempre L. Elia, op. ult. cit., p. 460.
[9] Si fa qui riferimento al noto conflitto che si instaurò, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, tra la Corte costituzionale e la Corte di cassazione, su cui si vedano in dottrina almeno A. Simoncini, L’avvio della Corte costituzionale e gli strumenti per la definizione del suo ruolo: un problema storico aperto, in Giur. cost., 2004, pp. 3065 ss. e V. Onida, L’attuazione della Costituzione fra magistratura e Corte costituzionale, in Aa. Vv., Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. IV, Giuffrè, Milano, 1977, pp. 541 ss.; volendo, cfr. anche A. Ciervo, Saggio sull’interpretazione adeguatrice, Aracne, Roma, 2011, pp. 217 ss.
[10] Così si legge nella parte in diritto della sentenza citata.
[11] Come ha avuto modo di evidenziare lucidamente E. Gallo, voce Misure di prevenzione, in Enciclopedia giuridica, vol. XX, Treccani, Roma, 1996, p. 2, la questione che la Corte costituzionale si è posta, a partire da questa sentenza, può essere così efficacemente sintetizzata: «In base a quale principio è lecito limitare la libertà personale di chi non ha commesso alcuna violazione della legge penale, e tuttavia è dato ritenere, attraverso una certa diagnosi della sua personalità, che sussistano per l’avvenire probabilità ch’egli ne commetta ?». Come appare chiaro dagli argomenti riportati nel testo, la Corte ha risposto a questa domanda limitandosi ad affermare, al limite della tautologia, che il principio di prevenzione è stato recepito in Costituzione e che, pertanto, tali misure dovevano considerarsi compatibili con la legalità costituzionale.
[12] Al riguardo, netta e impietosa fu la presa di posizione della dottrina più progressista: cfr., per tutti, L. Basso, Il Principe senza scettro, Feltrinelli, Milano, 1958, p. 220: «La Costituzione italiana fu (…) una delle più larghe nel riconoscimento e nella tutela di questi diritti, negando in questa materia ogni facoltà discrezionale della polizia (…). Sarebbe difficile trovare in altra legislazione un complesso di norme che suonasse maggiormente sfavorevole nei confronti della polizia (…). Si è verificata una situazione paradossale: che in Italia vige una Costituzione tra le più larghe del mondo in materia di diritti di libertà, e in pari tempo è applicata una delle leggi poliziesche più offensive dei diritti di liberà fra quante esistono al mondo. Salvo la più accentuata e già rilevata libertà in materia politica, l’Italia si è andata distaccando dalla precedente prassi fascista solo con sforzo, caso per caso».
Sull’abuso delle misure di prevenzione da parte dei governi democristiani, nei primi decenni del secondo dopoguerra, si vedano M.G. Rossi, Il governo Scelba tra crisi del centrismo e ritorno anticomunista, in Italia contemporanea, n. 197/1994, pp. 791 ss. e, più in generale, R. Canosa, La polizia in Italia dal 1945 ad oggi, Il Mulino, Bologna, 1976 nonché D. Della Porta e H. Reiter, Polizia e protesta: l’ordine pubblico dalla Liberazione ai “no global”, Il Mulino, Bologna, 2003.
[13] Così al punto 3 del «Considerato in diritto».
[14] Come opportunamente evidenziato da L. Elia, Le misure di prevenzione tra l’art. 13 e l’art. 25 della Costituzione, in Giur. cost., 1964, pp. 938 ss. oltre che da G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 329 ss. Ma al riguardo si veda anche A. Barbera, I principi costituzionali della libertà personale, Giuffrè, Milano, 1967, p. 225, secondo il quale la legittimità delle misure di prevenzione non può non dipendere dal rispetto del principio di legalità: «Questa (tenue) garanzia che, nel sistema penale, è data al cittadino dalla circostanza che non gli sarà applicata una misura di sicurezza se non avrà commesso un fatto previsto dalla legge come reato (…) deve trovare corrispondenza, nel diritto di polizia, nella garanzia che non sarà applicata alcuna misura di prevenzione se non a seguito alla rilevazione di un comportamento tipico, previsto con sufficiente determinatezza, in una puntuale fattispecie legale, tenendo soprattutto presente la necessità di limitare al massimo la discrezionalità dell’organo competente ad applicare tali misure».
[15] Su cui già criticamente P. Nuvolone, Appunti e spunti tra precetti e sanzioni, in Rivista italiana di diritto penale, 1956, pp. 441 ss.
[16] Ai lavori degli Autori già citati, possono qui aggiungersi quelli di F. Bricola, Forme di tutela “ante delictum” e profili costituzionali della prevenzione, in Aa. Vv., Le misure di prevenzione, op. cit., pp. 29 ss., e di M. Pavarini, Le fattispecie soggettive di pericolosità nelle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423 e 31 maggio 1965, n. 575, ibid., pp. 283 ss.
[17] Si trattava, in realtà, di un mero atto dovuto, visto che due anni prima, con la sentenza n. 53/1968, la Corte aveva già dichiarato incostituzionali gli artt. 636 e 637 cpp vecchio rito, proprio al fine di evitare gli abusi in fase istruttoria dell’applicazione delle misure di sicurezza da parte dell’autorità di polizia. Per una ricostruzione analitica del percorso argomentativo che portò la Consulta a questa declaratoria di incostituzionalità, si veda, nella dottrina dell’epoca, P. Caretti, Diritto di difesa e misure di sicurezza post-delictum, in Giur. cost., 1968, pp. 820 ss.
[18] Così al punto 6 del «Considerato in diritto». Per un’interessante analisi della sentenza, cfr. M. Branca, In tema di fattispecie penale e riserva di legge, in Giur. cost., 1980, pp. 1537 ss.; è ritornato più di recente sull’importanza di questa decisione, M. Ceresa-Gastaldo, Misure di prevenzione e pericolosità sociale: l’incolmabile deficit di legalità della giurisdizione senza fatto, in Dir. pen. cont., 3 dicembre 2015, pp. 6 ss., disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/4341-misure-di-prevenzione-e-pericolosita-sociale-l-incolmabile-deficit-di-legalita-della-giurisdizione).
[19] Al riguardo si ricordano, sinteticamente: a) la sentenza n. 45/1960, che dichiarò non fondata la questione di legittimità dell’art. 2 con riferimento all’ordine di rimpatrio con foglio di via obbligatorio, in quanto non equiparabile all’ammonizione vigente prima della legge del 1956: già con la sentenza n. 11/1956, infatti, la Corte rilevò che l’ammonizione si risolveva in una sorta di degradazione giuridica in cui taluni individui venivano a trovarsi, per effetto della sorveglianza di polizia cui erano sottoposti, e che costringeva a tutta una serie di obblighi, mentre l’ordine di rimpatrio non determinava alcuna conseguenza di questo genere, non interferendo neppure sulla libertà personale del destinatario dell’ordine stesso; b) la sent