Il diritto alla verità nei casi di gross violation nella giurisprudenza Cedu e della Corte interamericana dei diritti umani
Un po’ più in basso, al suo fianco destro, sta la Legge.
A sinistra, la Forza. E la Verità?
M.R. Cutrufelli, I bambini della ginestra,
Frassinelli, Milano, 2012, p. 240)
1. Premesse
Ritengo che la possibilità offertami di partecipare a questo incontro, nel quale emerge, ancora una volta, la vocazione al dialogo del suo principale artefice, Antonio Ruggeri, costituisca un’irripetibile occasione di studio e confronto, capace di disvelare tematiche sulle quali non credo che il mondo europeo abbia ancora discusso adeguatamente e che, al contrario, proprio grazie all’esperienza maturata nei Paesi sudamericani, meriti un’attenzione assolutamente particolare.
D’altra parte, l’essere unico giudice di Corte di cassazione italiana presente fra gli interventori mi lusinga enormemente, sentendo forte il dovere di offrire alla comunità degli operatori del diritto alcuni imput che mi sono apparsi, nel corso di questa riflessione, assolutamente centrali sia per la formazione dei giuristi che per l’esistenza stessa delle democrazie occidentali.
Questo intervento nasce quasi occasionalmente da un incontro avuto qualche tempo fa presso l’avvocatura dello Stato di Rio de Janeiro. L’avvocata generale dello Stato, Grace Maria Fernandes Mendonça, in quell’occasione[1] accennò alla vicenda della legge sull’amnistia introdotta in Brasile all’indomani della fine della dittatura. Disciplina normativa che la Corte suprema brasiliana aveva ritenuto compatibile con la Costituzione brasiliana e che, per converso, era stata ritenuta essere in violazione della Carta interamericana dei diritti fondamentali, determinando non pochi dubbi in ordine alle misure da adottare per il futuro.
Le preoccupazioni espresse in ordine al “che fare” dopo la decisione della Corte interamericana dei diritti umani mi colpirono per la prontezza con la quale l’avvocata generale aveva raccolto la provocazione da me lanciata, ma non riuscirono, nell’immediatezza, a farmi cogliere la formidabile rilevanza di quell’intervento che, invece, tornato in Italia, ho potuto cogliere in tutta la sua portata, accostandomi a questa ricerca comparatistica fra le due Corti sovranazionali sul tema del diritto alla verità rispetto a crimini che hanno attentato al nucleo della persona umana, degradando e annientando la dignità dell’essere umano.
Interesse che, per l’un verso, attiene al ruolo e alla portata del diritto alla verità ma che, per altro verso, consente di dimostrare quanto siano comuni i dubbi circa il ruolo e la portata dei diritti fondamentali di più recente fattura delle due Carte internazionali dei diritti fondamentali e delle giurisdizioni sovranazionali prima – e, a cascata, nazionali – che le animano continuamente, la forza ed efficacia delle relative decisioni, le ricadute che esse sono in grado di operare negli ordinamenti dei Paesi membri, che pure hanno convintamente recepito e prestato adesione a quelle Carte.
Difficoltà e dubbi che chiamano, allora, gli operatori del diritto a un’analisi congiunta che si muove su ambiti territoriali e socio-politici davvero diversi, ma non per questo meno feconda per indagini comparatistiche, sulla rilevanza delle quali la migliore dottrina costituzionalistica non ha mancato di insistere ormai da tempo[2], in ogni caso capaci di alimentare nel modo più completo possibile una ricerca che si profila feconda e di grande rilevanza. Tale fecondità nasce, a sommesso giudizio di chi scrive, dall’essere essa idonea a lambire territori fin qui inesplorati, al punto da toccare ambiti di violazioni apparentemente estranei al tema del diritto alla non impunità classico – si pensi alle violazioni fiscali di rilevante gravità in danno dell’Unione europea –, ma che tendono ad avvicinarsi approfondendo una dimensione che si gioca, ancora una volta, sulla matrice plurale del diritto alla verità, come già detto, per l’un verso, “personale” delle vittime e dei loro familiari e, per altro verso, dichiaratamente pubblica e collettiva.
Se, dunque, si segue questa prospettiva, il compito del giurista – o forse anche di professionalità diverse – non sarà soltanto quello di approfondire le questioni giuridiche sottese al diritto alla verità, ma anche di conoscere e approfondire le vicende che quei diritti mettono in campo e, in tal modo, di aprirsi alla conoscenza dei fatti e delle condotte che chiamano lo Stato a dare delle risposte a questo diritto alla verità secondo quanto si cercherà di approfondire nella parte finale del presente intervento.
2. La Corte Idu e le leggi di auto-amnistia e premiali rispetto a gravi violazioni dei diritti dell’uomo
La Corte interamericana ha giocato un ruolo di primaria importanza nella determinazione del contenuto del diritto alla verità per violazioni dei diritti umani di particolare gravità.
Si ricorda quale leading case, a questo proposito, Corte interamericana – d’ora in avanti, breviter, Idu – Barrios Altos c. Perù, 14 marzo 2001, che, occupandosi delle leggi di amnistia peruviane successive alla dittatura, ritenne inammissibili tutte le disposizioni in materia di amnistia e di prescrizione nonché l’adozione di misure finalizzate a escludere l’accertamento delle responsabilità dei soggetti coinvolti, perché esse mirano a impedire le indagini e la punizione dei responsabili di gravi violazioni dei diritti umani quali la tortura, le esecuzioni sommarie, arbitrarie o extragiudiziali e le sparizioni forzate, tutte proibite perché violano i diritti inderogabili riconosciuti dal diritto internazionale relativo ai diritti umani.
In questa occasione, la Corte internazionale di San José ebbe espressamente a riconoscere che quelle leggi avevano impedito ai prossimi congiunti delle vittime e alle vittime sopravvissute di essere sentite da un giudice, violando il diritto alla tutela giurisdizionale allorché erano state impedite le indagini e si erano ostacolati l’accertamento dei fatti, la cattura, il perseguimento e la condanna dei responsabili degli eventi accaduti a Barrios Alto. Tutto ciò in violazione dell’art. 1, par. 1, e dell’art. 2 della Convenzione americana sui diritti umani del 1969. Tali disposizioni contengono gli obblighi generali ai quali sono tenuti gli Stati contraenti al fine di adottare tutte le misure necessarie ad assicurare che nessuno sia privato della tutela giurisdizionale e dell’esercizio del diritto a un ricorso semplice ed efficace ai sensi degli artt. 8 e 25 della medesima Convenzione.
In tale occasione, la Corte Idu sottolineava che le leggi di auto-amnistia lasciano le vittime prive di difesa e perpetuano l’impunità, precludendo l’individuazione dei responsabili delle violazioni dei diritti umani e impedendo «alle vittime e ai loro prossimi congiunti di conoscere la verità e di ricevere la corrispondente riparazione».
È, peraltro, la stessa Corte a insistere sulla dimensione “plurale” del diritto alla verità, quando ha avuto modo chiarire la proiezione collettiva di tale diritto, così pronunziandosi a proposito dei contenuti del diritto alla verità[3].
Per le ragioni ora esposte e per la manifesta incompatibilità delle leggi di auto-amnistia con la Convenzione Idu, queste ultime dovevano ritenersi prive di effetto giuridico e inidonee a ostacolare il corso delle indagini volte ad accertare e punire i responsabili.
Questa posizione, che si è andata sedimentando nella giurisprudenza della Corte Idu, è stata ulteriormente confermata in una vicenda relativa, ancora una volta, a una legge di amnistia peruviana. In tale occasione la Corte, chiamata a verificare se l’assoluzione pronunziata in base a una legge di amnistia potesse determinare il divieto di doppia incriminazione a carico del responsabile che, dapprima prosciolto, era stato nuovamente sottoposto a processo penale e condannato, ha escluso che il principio del ne bis in idem fosse applicabile quando il procedimento conclusosi con l’archiviazione o con l’assoluzione dell’autore di una violazione dei diritti umani, in violazione del diritto internazionale, abbia avuto l’effetto di sottrarre l’imputato alla responsabilità penale, o quando esso non sia stato condotto con indipendenza, imparzialità e nel rispetto delle procedure previste dalla legge – Corte Idu, La Cantuta c. Perù , 29 novembre 2006.
Con riguardo a un caso di sparizioni forzate che era rimasto impunito per la legislazione peruviana, Corte Idu, Anzualdo Castro c. Perù, 22 settembre 2009, ha ribadito che lo Stato non poteva invocare o applicare una legge o una disposizione giuridica interna, presente o futura, per non ottemperare alla decisione della Corte di indagare e, se del caso, punire penalmente i responsabili dei fatti. Da qui l’affermazione netta che «lo Stato non può più applicare leggi di amnistia prive di effetti giuridici, presenti o futuri, o invocare concetti quali la prescrizione delle azioni penali, il principio della res iudicata e la garanzia della doppia incriminazione, o ricorrere a qualsiasi altra misura finalizzata a escludere la responsabilità al fine di sottrarsi al suo dovere di indagare e punire i responsabili».
Corte Idu, Gelman c. Uruguay, 24 febbraio 2011, ha poi ulteriormente specificato che, nel diritto internazionale, l’obbligo di indagare sulle violazioni dei diritti umani rientra tra le misure positive che gli Stati debbono adottare al fine di garantire i diritti riconosciuti nella Convenzione, integrando «un obbligo di mezzi piuttosto che di risultati, che lo Stato deve assumere in quanto obbligo giuridico e non in quanto pura formalità predestinata a essere inefficace e dipendente dall’iniziativa procedurale delle vittime o dei loro prossimi congiunti o dalla presentazione di prove da parte di privati». Per tale motivo, gli Stati debbono prevenire, indagare e punire tutte le violazioni dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, e debbono inoltre adoperarsi per ristabilire, se possibile, il diritto violato e, se necessario, riparare il danno causato dalla violazione dei diritti umani.
In tale occasione, la Corte Idu non mancò di sottolineare che essa Corte, la Commissione interamericana per i diritti umani, gli organi delle Nazioni Unite[4] e altri organi regionali o universali per la tutela dei diritti umani, pronunziando in numerosi casi resi nei confronti di diversi Paesi latino americani – oltre ai casi già ricordati di Perù e Brasile, anche quelli nei confronti di Haiti[5], Cile[6], El Salvador[7], Uruguay[8], Argentina[9], – si erano pronunciati sull’incompatibilità delle leggi di amnistia relative a gravi violazioni dei diritti umani e delle altre misure legislative analoghe che impediscono o pongono fine alle indagini e ai giudizi nei confronti di agenti di uno Stato che potrebbero essere responsabili di gravi violazioni della Dichiarazione americana o della Convenzione.
3. La cross-fertilization dei principi della Corte Idu sulla Corte Edu
A fronte di una tendenza generale che, secondo la dottrina, avrebbe visto la Corte Edu come giurisdizione trainante dei colleghi della Corte interamericana nello sviluppo delle linee giurisprudenziali in tema di diritti fondamentali tutelati dalla Carta di San Josè, il tema qui in discussione ha costituito uno dei terreni privilegiati in cui i richiami al sistema interamericano da parte della Corte Edu[10] sono assai rilevanti[11].
E infatti, la Corte Edu ha recepito alcuni dei principi espressi dalla giurisprudenza della Corte Idu a proposito dell’aggressione di persone in violazione degli artt. 2 e 3 Cedu.
Il leading case in materia è stato originato dalle vicende che avevano coinvolto un generale croato in crimini efferati – omicidio volontario di civili, gravi lesioni causate a un minore – in occasione del conflitto serbo-croato.
La Grande Camera della Corte europea – Marguš c. Croazia, 27 aprile 2014 –, a proposito dell’introduzione di una legge croata che aveva eliminato gli effetti dell’amnistia precedentemente concessa per crimini contro l’umanità, uniformandosi ai principi espressi dalla Corte Idu nella ricordata sentenza La Cantuta c. Perù, non ha mancato di sottolineare che il divieto di bis in idem garantito dall’art. 4 Protocollo n. 7 annesso alla Cedu va interpretato alla luce degli artt. 2 e 3 Cedu, i quali, prevedendo la tutela della vita e il divieto di tortura come valori fondamentali dell’intera Convenzione, impongono un bilanciamento con la garanzia di cui al ricordato art. 4. La Grande Camera ha quindi riconosciuto che gli obblighi di tutelare il diritto alla vita, ai sensi dell’art. 2 Cedu, e di assicurare una protezione contro i maltrattamenti ai sensi dell’art. 3 Cedu, in combinato disposto con l’obbligo generale degli Stati, ai sensi dell’art. 1 Cedu, di riconoscere a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà indicati nella Convenzione, esigono implicitamente anche che debba esservi qualche forma di indagine ufficiale effettiva quando delle persone sono state uccise a seguito dell’uso della forza. La Corte Edu, in piena sintonia con quanto riconosciuto dai giudici della Corte Idu, ha sottolineato che l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite aveva già avuto modo di affermare che amnistie e altre misure analoghe «contribuiscono all’impunità e costituiscono un ostacolo al diritto alla verità in quanto bloccano le indagini sui fatti nel merito, e sono pertanto incompatibili con gli obblighi spettanti agli Stati in virtù di diverse fonti di diritto internazionale», aggiungendo, «per quanto riguarda il falso dilemma tra pace e riconciliazione da un lato, e giustizia dall’altro», che «le amnistie che esonerano i responsabili di crimini atroci dalle sanzioni penali, nella speranza di assicurare la pace, spesso non sono riuscite a conseguire il loro obiettivo e hanno, invece, incoraggiato i loro beneficiari a commettere ulteriori crimini. Per contro, si sono conclusi accordi di pace senza prevedere amnistie in alcune situazioni in cui si era detto che l’amnistia era una condizione necessaria per la pace e molti temevano che le imputazioni avrebbero prolungato il conflitto» (sentenza cit., par. 61).
La sentenza, peraltro, si segnala per la particolare accuratezza con la quale il giudice europeo ha affrontato il tema, avendo riscontrato l’assenza di consensus da parte dei singoli Stati in ordine alle condizioni capaci di limitare l’uso di leggi di amnistia in caso di gross violation dei diritti umani. Questa verifica, che in astratto avrebbe potuto determinare un atteggiamento elastico della Corte in favore di un ampio margine di accertamento in favore degli Stati parti, non ha per converso attenuato la protezione offerta dal giudice europeo alle vittime. La Corte, confermando la sua vocazione all’apertura verso le carte internazionali dei diritti e il diritto internazionale, ha ritenuto che la Cedu e i suoi Protocolli non possono essere interpretati isolatamente, dovendo operare in armonia con i principi generali del diritto internazionale di cui fanno parte. Tale opzione, peraltro, non ha determinato un appiattimento incondizionato del giudice di Strasburgo a quanto affermato sul piano internazionale. La Corte ha, infatti, attentamente ponderato l’argomento di alcuni soggetti intervenuti nel procedimento, che avevano sottolineato la mancanza di accordo tra gli Stati a livello internazionale quando si tratta di vietare senza eccezioni la concessione di amnistie per gravi violazioni di diritti umani fondamentali, compresi quelli previsti dagli artt. 2 e 3 della Convenzione. Tale circostanza non ha, però, impedito al giudice europeo di riconoscere che «non erano accettabili amnistie in relazione a gravi violazioni di diritti umani fondamentali, poiché tali amnistie avrebbero gravemente compromesso il dovere degli Stati di indagare sui colpevoli di tali atti e di punirli». Da qui la conclusione che «Anche se si dovesse accettare che tali amnistie siano possibili in presenza di particolari circostanze, quali un processo di riconciliazione e/o una forma di risarcimento per le vittime, l’amnistia concessa al ricorrente nel caso di specie risulterebbe comunque inaccettabile» in assenza di prova di risarcimento dei danni per le vittime (sentenza cit., par. 139).
4. Torture, maltrattamenti e lesioni perpetuate dalle forze di polizia all’interno della scuola «Diaz» e della caserma di Bolzaneto in occasione del G8
La riunione del G8 svoltasi nel 2001 a Genova è rimasta tristemente famosa per gli atti di particolare violenza perpetuati da appartenenti alle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti che si erano opposti all’incontro dei capi di Stato delle otto superpotenze mondiali.
Le violenze perpetuate all’interno della scuola «Diaz» e della caserma di Bolzaneto[12] trovano una descrizione nitida e cruda dapprima nelle sentenze rese dalla Cassazione penale sulla vicenda[13] e, poi, nelle sentenze dei giudici europei che, a posteriori, hanno ricostruito i fatti accertando pesanti responsabilità dello Stato italiano[14].
Nella prima sentenza – Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015– la Corte Edu ha ricordato che «quando un individuo sostiene in maniera difendibile di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1 della Convenzione di “riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà definiti (...) [nella] Convenzione”, richiede, per implicazione, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva. Tale inchiesta deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili. Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi impunità, i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo». La Corte ha poi aggiunto che l’inchiesta deve essere effettiva e celere, in modo da permettere di identificare e di perseguire i responsabili e di giungere all’accertamento delle responsabilità penali e disciplinari. Tali misure, prosegue la Corte, sono fondamentali se si vuole preservare l’effetto dissuasivo del sistema giudiziario vigente e il ruolo che esso è tenuto a esercitare nella prevenzione delle violazioni del divieto di maltrattamenti. Quanto all’adeguatezza della sanzione, direttamente collegata alle circostanze particolari della causa determinata, la Corte ha ricordato che in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da parte di agenti dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto della prescrizione, né di amnistie e della concessione della grazia, pure precisando la contrarietà di altre misure premiali – sospensione condizionale dell’esecuzione della pena, liberazione anticipata. D’altra parte, l’assenza di una legislazione penale sufficiente per prevenire e punire effettivamente gli autori di atti contrari all’art. 3 Cedu non poteva, secondo la Corte Edu, impedire alle autorità di perseguire le offese a questo valore fondamentale delle società democratiche, di valutarne la gravità, di pronunciare pene adeguate e di escludere l’applicazione di qualsiasi misura che possa alleggerire eccessivamente la sanzione, a scapito del suo effetto preventivo e dissuasivo.
Ai fini dell’accertamento della violazione degli obblighi procedurali sanciti dall’art. 3 Cedu è stata decisiva la circostanza che, al termine del procedimento penale, nessuno era stato condannato per i maltrattamenti perpetrati nella scuola «Diaz» nei confronti del ricorrente, in quanto i delitti di lesioni semplici e aggravate si erano estinti per prescrizione. In effetti, le condanne confermate dalla Corte di cassazione riguardano, piuttosto, i tentativi di giustificazione di questi maltrattamenti e l’assenza di base fattuale e giuridica per l’arresto degli occupanti della scuola. Per di più, le pene erano state ridotte di tre anni in applicazione della legge n. 246 del 29 luglio 2006, che stabiliva le condizioni da soddisfare per ottenere l’indulto. Da ciò era conseguito che i condannati avrebbero dovuto scontare, nella peggiore delle ipotesi, pene comprese tra tre mesi e un anno di reclusione.
Tali circostanze dimostravano che la reazione delle autorità non era stata adeguata tenuto conto della gravità dei fatti, conclamandone l’incompatibilità con gli obblighi procedurali che derivano dall’art. 3 della Convenzione.
Quanto alle misure disciplinari nei confronti dei responsabili, la Corte ha ribadito che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi, dovendo in ogni caso lo Stato condurre un’inchiesta approfondita ed effettiva e accordare, se del caso, al danneggiato una indennità o, almeno, la possibilità di chiedere e ottenere riparazione del danno che i maltrattamenti in questione gli hanno cagionato.
Conclusioni ribadite nelle sentenze Blair c. Italia e Azzolini c. Italia, del 26 ottobre 2017, per i fatti della caserma di Bolzaneto, rispetto alle quali la protezione offerta dal giudice europeo si è indirizzata anche verso ipotesi di maltrattamenti meno gravi di quelli accertati con riguardo ai fatti della «Diaz».
In tali ultime occasioni, la Corte ribadì che la mancata punizione dei responsabili era dipesa dall’assenza di una fattispecie incriminatrice capace di comprendere tutta la gamma di questioni sollevate da un atto di tortura di cui un individuo rischia di essere vittima. Tale deficit strutturale del sistema aveva reso la legislazione penale nazionale applicata nelle cause in discussione inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e priva dell’effetto dissuasivo necessario alla prevenzione di violazioni simili dell’art. 3 Cedu.
In questo contesto, la Corte ha invitato l’Italia a munirsi degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti rispetto all’art. 3, nonché a impedire che questi ultimi possano beneficiare dell’applicazione di misure che contrastano con la giurisprudenza della Corte, in particolare la prescrizione e l’indulto.
Per altro verso, il giudice europeo non mancò di sottolineare l’ineffettività delle misure interne in tema di indagini effettive rispetto a condotte di violazione dell’art. 3 Cedu, nuovamente richiamando gli elementi che rendono «una inchiesta ufficiale effettiva» come riassunti nella sentenza dalla stessa Corte Edu, resa nel caso Nasr e Ghali c. Italia, relativo alla sparizione forzata di Abu Omar.
Anche in queste ultime occasioni, la Corte Edu sottolineò nuovamente che, secondo quanto affermato dal Governo, i poliziotti coinvolti nei fatti di Genova non erano stati sospesi dalle loro funzioni durante il processo né sottoposti a provvedimenti disciplinari. Ciò contrastava con quanto dalla stessa Corte affermato in diversi precedenti circa la necessità – sopra richiamata – che, in caso di coinvolgimento degli agenti dello Stato in reati che implicano dei maltrattamenti, gli stessi siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi.
5. Il problema della prescrizione. La risposta offerta dalla Cassazione
Si è visto che nel caso Cestaro c. Italia e in quelli di poco successivi – Blair e altri c. Italia e Azzolina e altri c. Italia, 26 ottobre 2017 – la Corte Edu stigmatizzò la circostanza che la prescrizione e altre misure premiali avevano reso ineffettive le pene inflitte a carico dei responsabili di atti contrari all’art. 3 Cedu. E infatti, a fronte delle violenze integranti, secondo la Corte Edu, veri e propri atti di tortura, le condotte di maltrattamento e lesioni gravi non furono punite penalmente grazie all’applicazione della prescrizione e dell’indulto – per le ipotesi di falso –, che consentì agli appartenenti alle forze dell’ordine di subire condanne per gli altri reati non superiori a un anno di reclusione. La Corte Edu non ravvisò, tuttavia, alcuna responsabilità degli organi giudicanti per la violazione dei diritti fondamentali, invece fortemente vulnerati dalle condotte delle forze di polizia, che avevano pure rallentato il corso del procedimento penale, non cooperando attivamente all’accertamento della verità. In altri termini, le violazioni riscontrate erano dipese, si è detto, da deficit strutturali della legislazione interna, al cui interno aveva giocato un particolare significato il riconoscimento della prescrizione in favore dei soggetti ritenuti colpevoli nei gradi di merito dei processi.
In effetti, già innanzi alla Corte di cassazione si era posto il tema della compatibilità della prescrizione con il quadro delle garanzie costituzionali.
Il procuratore generale presso la Corte d’appello di Genova aveva, infatti, prospettato l’opportunità di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 157 cp per contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. in relazione all’art. 3 Cedu. Si era cercato di accendere i riflettori sul regime della prescrizione dei reati previsti dalle norme in concreto applicate nel caso – artt. 582, 583 e 585 cp; art. 61, n. 9, cp – e sulla sua incompatibilità con il quadro generale fissato dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Cass. pen., n. 38085/2012 (cit.), ritenne la questione manifestamente infondata. Secondo la Corte, la pronuncia che il ricorrente aveva sollecitato alla Corte costituzionale – puntando ad ampliare l’area di imprescrittibilità prevista per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo ex art. 157 cp, comma 8, a ipotesi di reato quali le lesioni aggravate di cui sopra e, genericamente, secondo la richiesta, a tutte le ipotesi di reato formulabili in relazione a fatti rientranti nel concetto di “maltrattamento” quali violazioni dell’art. 3 Cedu nel senso evidenziato – esorbitava dai poteri del giudice costituzionale, già fissati nelle sentenze nn. 364 del 2006 e 324 del 2008 nonché nell’ordinanza n. 65 del 2008 «a ciò ostando il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25 Cost., comma 2, in base al quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”». Il principio della riserva di legge, ricordò ancora la Cassazione, demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio, rendendo quindi inammissibili «pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti» o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione» (vds. Corte cost., 1° agosto 2008, n. 324). Nemmeno era possibile richiamare il sindacato di costituzionalità che la Corte aveva riconosciuto in tema di norme penali di favore. I giudici di legittimità conclusero, pertanto, nel senso che «la pretesa che la Corte costituzionale con una sua pronuncia possa espandere l’area dell’imprescrittibilità ad ipotesi attualmente non previste dall’art. 157 cp si pone al di fuori dei poteri della Corte per contrasto con un principio cardine del sistema costituzionale in materia penale che non può essere sacrificato all’attuazione di altro principio, a cui potrà attendere il legislatore, in adempimento degli obblighi scaturenti dalle diverse fonti convenzionali sopra individuate».
Analoga soluzione ha espresso la Corte di legittimità con riguardo ai fatti della caserma di Bolzaneto. Cass. pen., n. 37088/2013 (cit.), nel conformarsi ai principi espressi dalla sentenza sopra ricordata, ritenne altresì irrilevante l’analoga questione di legittimità costituzionale prospettata dal procuratore generale presso la Corte di appello di Genova, essa discendendo «dalla considerazione di un altro aspetto inerente alla portata precettiva del già citato art. 25 Cost., comma 1, a tenore del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Viene qui in considerazione il profilo temporale del principio di stretta legalità, in base al quale è vietato – con l’efficacia propria della norma superprimaria – che sull’autore del fatto possano gravare le conseguenze derivanti da una modifica apportata all’ordinamento penale in epoca successiva alla sua condotta. Si vuol dire con ciò che, quand’anche la Corte Costituzionale, in esito a un impensabile revirement della propria giurisprudenza, si ritenesse autorizzata a intervenire additivamente sulla norma penale introducendo il principio della imprescrittibilità di determinate ipotesi di reato (sulla cui tipicità sarebbe inoltre a discutersi, in assenza di una specifica norma incriminatrice), la normativa di risulta non sarebbe applicabile nel presente processo, riguardante una serie di fatti posti in essere in epoca anteriore alla divisata pronuncia. Considerazioni analoghe a quelle fin qui svolte rendono conto della manifesta infondatezza ed irrilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 241/2006».
Dalle decisioni della Cassazione è, dunque, derivata l’impossibilità di accertare le penali responsabilità degli autori dei fatti accertati nel giudizio di merito in violazione dell’art. 3 Cedu.
6. Qualche riflessione preliminare
L’esigenza di salvaguardare il diritto alla conoscenza circa la sorte di congiunti scomparsi in occasione di conflitti armati fra Stati colloca, inizialmente, il tema del diritto alla verità all’interno di Convenzioni internazionali – quelle di Ginevra del 1949, con i rispettivi Protocolli (artt. 32 e 33) – e del diritto internazionale umanitario, ma viene progressivamente ampliando il proprio cono d’ombra in relazione ai periodi di violenza diffusa perpetrata in diversi Paesi dell’America Latina, tanto da collegare il diritto alla verità non più solo a un’esigenza connessa all’obbligo degli Stati già belligeranti di ricercare le notizie di persone scomparse, ma anche a quella di garantire un «diritto inalienabile di conoscere le circostanze e le ragioni che hanno portato, attraverso massicce e sistematiche violazioni, alla commissione di crimini»[15].
La forza espansiva del diritto alla verità e non impunità di gravi crimini contro i diritti fondamentali dell’uomo fa un ulteriore passo in avanti nella giurisprudenza della Corte Edu che, ripercorrendo in modo attento i vari passaggi della consorella Corte di San José e innestando tale posizione giuridica all’interno del divieto dei crimini contro la persona integranti vere e proprie torture, ha anch’essa – come si è visto – metabolizzato, sia pur con una certa prudenza e senza evocare espressamente il diritto alla verità, l’esigenza insopprimibile di offrire alle vittime di gravi crimini un diritto non all’individuazione del colpevole, ma al compimento di indagini effettive e alla riparazione completa del pregiudizio patito, per raggiungere la quale occorre perseguire in tutti i modi possibili l’esigenza di verità.
Questo passo avanti si coglie, forte, in tema di “sparizioni straordinarie”, nelle quali è stato ancora una volta coinvolto lo Stato italiano nella vicenda del sequestro di Abu Omar eseguito in territorio italiano da agenti della CIA[16]. La sentenza della Corte Edu resa nel caso Nasr e Ghali c. Italia, dopo avere ribadito – evocando espressamente la sentenza Cestaro c. Italia, cit. – che, «in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da parte di agenti dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto della prescrizione, così come l’amnistia e la grazia non dovrebbero essere tollerate in questo ambito», lo stesso discorso valendo «per la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena e nel caso di un indulto», non mancò di stigmatizzare i provvedimenti clemenziali adottati testualmente, affermando che «malgrado il lavoro degli inquirenti e dei magistrati italiani, che ha permesso di identificare i responsabili e di pronunciare delle condanne nei loro confronti, le condanne in questione sono rimaste prive di effetto, a causa dell’atteggiamento dell’esecutivo, che ha esercitato il suo potere di opporre il segreto di Stato, e del Presidente della Repubblica (...). Nel caso di specie, il principio legittimo del “segreto di Stato”, evidentemente, è stato applicato allo scopo di impedire che i responsabili dovessero rispondere delle loro azioni. Di conseguenza l’inchiesta, seppur effettiva e approfondita, e il processo, che ha portato all’identificazione dei colpevoli e alla condanna di alcuni di loro, non hanno avuto l’esito naturale che, nella fattispecie, era “la punizione dei responsabili” (paragrafo 262, supra). Alla fine vi è stata dunque impunità»(corsivo aggiunto).
Dunque l’impunità non poteva, agli occhi della Corte, prevalere sul segreto di Stato. Il bilanciamento che opera la Corte Edu è decisamente a favore dell’esigenza di verità[17] e giustizia! Ed è un bilanciamento operato rispetto a un crimine che ha violato i beni incomprimibili della dignità, in contrasto con l’art. 3 Cedu[18].
In definitiva, va crescendo sempre di più nella Corte europea il peso della verità nelle investigazioni quando sono in gioco i diritti fondamentali. Testimonianza nitida di quanto affermato si rinviene nelle recenti sentenze della Corte Edu, Abu Zubaydah c. Lituania, 31 maggio 2018, par. 610, e Al Nashiri c. Romania, 31 maggio 2018, par. 641, ove si è specificamente ritenuto che:
«where allegations of serious human rights violations are involved in the investigation, the right to the truth regarding the relevant circumstances of the case does not belong solely to the victim of the crime and his or her family but also to other victims of similar violations and the general public, who have the right to know what has happened. An adequate response by the authorities in investigating allegations of serious human rights violations may generally be regarded as essential in maintaining public confidence in their adherence to the rule of law and in preventing any appearance of impunity, collusion in or tolerance of unlawful acts. For the same reasons, there must be a sufficient element of public scrutiny of the investigation or its results to secure accountability in practice as well as in theory (see El-Masri, cited above, §§191-192; Al Nashiri v. Poland, cited above, § 495; and Husayn (Abu Zubaydah) v. Poland, cited above, § 489, with further references to the Court’s case-law)».
L’endiadi “verità e processo” che spesso si utilizza assume, dunque, a proposito dei temi qui in discussione, un assai particolare significato.
Tanto la prima espressione che la seconda si riempiono, infatti, di contenuti e dimensioni plurali, nelle quali si fondono, fino a modificarsi geneticamente quando entrano in contatto, la prospettiva individuale – della o delle vittime – e quella collettiva, che vede in gioco lo Stato-persona – tenuto a indagare, condurre i processi, adottare misure ripristinatorie e repressive nei confronti dei responsabili –, ma anche lo Stato-collettività, al cui interno viene emergendo un’esigenza diffusa alla conoscenza di fatti che costituiscono parte delle ragioni di identità dello Stato stesso. Quella che Stefano Rodotà, nel suo saggio dedicato al diritto alla verità, descrive in modo straordinariamente limpido, osservando che «È l’umanità intera, senza confini spaziali e temporali, che compare sulla scena, ed è proprio essa a dover essere traghettata verso tempi illuminati e redenti dalla forza della verità»[19].
Insomma, un’osmosi intensa fra verità processuale che pretendono le vittime e verità storica che reclama la società nel suo complesso.
E si farebbe torto alla realtà se non si considerasse che, nella prospettiva individuale, non vi è soltanto quella attuale dei parenti delle vittime, ma, ancora prima, vi è quella di chi per primo ha subito l’aggressione al valore supremo della vita e dell’integrità fisica.
Si tratta di esigenze diverse che si alimentano, tuttavia, vicendevolmente e in modo inesauribile, al punto che risulta difficile individuare il confine fra le une e le altre.
La sfera intimista della vittima – primaria e secondaria –, in altri termini, si offre alla collettività perché a essa pure pertiene la sofferenza, il dolore, lo strazio, ma anche il diritto alla conoscenza (art. 21 Cost.), così del resto attuandosi concretamente quella precondizione di solidarietà che pure campeggia nella Costituzione italiana (art. 2). Un’appartenenza alla collettività, quest’ultima, che non è, tuttavia, di mero fatto o allo stato diffuso, ma è anch’essa personificata attraverso l’emersione della rilevanza superindividuale della vicenda, attenendo a un’esigenza di verità appunto collegata alla giustizia rispetto a condotte che hanno violentato barbaramente la persona umana, al centro della quale ruota lo Stato-persona, secundum Constitutionem.
Peraltro, al di là di questa prima e forse rozza dimensione, vi è parimenti l’ulteriore esigenza di formalizzare il diritto di cui si è detto, di trovarne la fonte – consuetudinaria e non –, di capire quali siano la sua azionabilità nei singoli ordinamenti e le forme di tutela rispetto a leggi o interessi che, magari, si oppongono al pieno riconoscimento di questo diritto alla verità e non impunità.
La matrice di questo diritto può senz’altro definirsi “liquida” in quanto, pur nascendo da fonti internazionali, trova la sua principale emersione attraverso il diritto consuetudinario, che costituisce fonte di diritto internazionale, pur traendo con sé la difficoltà di individuare il contenuto preciso del diritto.
È agevole riscontrare le difficoltà che, sul piano interno, ruotano attorno al tema dell’efficacia delle consuetudini internazionali nell’ordinamento nazionale, della loro immediata azionabilità e della capacità di prevalere sulle norme interne. Difficoltà confermate dalla nostra Corte costituzionale che, sul punto, ha offerto peraltro importanti chiavi di lettura a proposito delle norme consuetudinarie di diritto internazionale e del naturale adattamento del nostro ordinamento ad esse – in forza dell’art. 10 Cost. – purché non determinino la violazione dei principi fondamentali del nostro impianto costituzionale (cfr. Corte cost. n.238/2014[20]).
Quali violazioni esigono quest’esigenza assoluta, di quale gravità e come si bilanciano rispetto a esigenze parimenti fondamentali che possono risultare compresenti?
Esiste un diritto che il singolo può esercitare nei confronti dello Stato per violazione del diritto alla verità e, in caso positivo, che prospettive di tutela ha – risarcitorie, restitutorie –?[21]
Alcune recenti pronunzie dei tribunali di merito offrono importanti elementi per iniziare a tracciare i lineamenti del diritto alla verità.
Il Tribunale di Roma, nella vicenda del militare Davide Cervia, scomparso misteriosamente, nell’esaminare l’azione risarcitoria intentata dai parenti nei confronti dei Ministeri della giustizia e della difesa, che avrebbero ostacolato la ricerca della verità sulla sorte del loro congiunto, ha di recente ritenuto che l’ordinamento interno riconosce il diritto alla verità, in forza non soltanto degli artt. 2 e 21 Cost., ma anche dell’art. 97 Cost. sotto il profilo del corretto svolgimento della funzione giurisdizionale e dell’art. 111 della Costituzione (che contiene regole e principi attuativi del “giusto processo”). Si tratta, ad avviso del Tribunale, di «una situazione soggettiva di rango costituzionale, funzionale all’effettiva attuazione della piena e libera estrinsecazione della personalità dell’individuo» che si esplica nel «diritto di acquisire, senza ostacoli illegittimamente posti, informazioni e conoscenze ritenute utili o necessarie, sia in sé, sia quali precondizione per l’esercizio di altri diritti fondamentali. In questo senso è strumentale rispetto a quanto prospettato dagli attori». Si è ancora aggiunto che «Ogni attività, fatto o comportamento che, senza un’adeguata giustificazione che trovi fondamento in altri principi costituzionali, impedisca, limiti o condizioni l’acquisizione di informazioni siffatte, lede, conseguentemente, quel diritto».
Tale pronunzia, inizialmente impugnata dall’avvocatura dello Stato proprio sul profilo dell’esistenza del diritto alla verità, pare destinata a passare in giudicato, in relazione alle dichiarazioni del Ministro della difesa, che ha affermato di avere dato incarico all’avvocatura dello Stato di rinunciare all’impugnazione[22].
In precedenza, era stato il Tribunale di Palermo, con sentenza pubblicata il 21 settembre 2011, n. 4067, esaminando l’azione risarcitoria promossa dai parenti delle vittime del disastro di Ustica, a parlare espressamente di «interesse degli attori all’accertamento delle cause del disastro aereo» dotato di «un indubbio carattere non patrimoniale, consistendo nell’interesse a conoscere come e perché i loro congiunti sono morti, e anche perché tale conoscenza sia stata loro così evidentemente preclusa per trent’anni, quale esigenza la cui soddisfazione è indispensabile per poter definitivamente seppellire i loro morti, e compiutamente elaborare il lutto che è conseguito al disastro aereo di Ustica». Interesse che, d’altra parte, troverebbe conferma nella specifica funzione del processo penale, non soltanto funzionale alla individuazione del colpevole di una condotta di reato, ma prim’ancora ad accertare i fatti e, dunque, la verità.
In entrambe le occasioni si nota, dunque, un’oscillazione del giudicante fra dimensione soggettiva e oggettiva del diritto alla verità che comincia, tuttavia, a prendere forma e consistenza, valorizzando i parametri costituzionali.
In questo è abbastanza evidente ritrovare un aggancio alla giurisprudenza della Corte Edu, che ha configurato il diritto alla verità sulla protezione offerta al divieto di tortura e agli obblighi positivi e procedurali che scaturiscono dall’art.3 Cedu a carico dello Stato.
Su altro versante, occorre chiedersi quale rilievo potrà avere l’affermazione, espressa dalle sezioni unite civili (Cass., n. 5044/2004) a proposito dei crimini nazisti – nella quale si è innescato un contenzioso che ha visto pronunziarsi la Corte penale internazionale e la nostra Corte costituzionale (sentenza n. 238/2014) –, che ebbero a riconoscere non solo il principio della giurisdizione universale nelle controversie riguardanti la responsabilità di uno Stato per crimini contro l’umanità, ma anche l’imprescrittibilità di quegli stessi crimini, capaci di minare e minacciare l’umanità intera e le fondamenta stesse della coesistenza internazionale.
Si è visto come le giurisdizioni sovranazionali abbiano affrontato elegantemente la questione della riconciliazione come valore contrapposto – quasi un contro-limite – all’esigenza di verità e di accertamento della verità delle vittime, evidenziando che le esigenze a essa sottese dovessero comunque soccombere, in assenza di misure pienamente ripristinatorie nei confronti delle vittime. Tema assai complesso, anch’esso meritevole di ulteriore approfondimento.
Siffatte difficoltà, peraltro, non tolgono nulla alla necessità di fornire risposta adeguata agli interrogativi appena posti. Ecco che la ricerca qui abbozzata intende offrire alcuni spunti ricostruttivi utili, almeno agli occhi di chi scrive, non per fornire risposte, ma semmai per consentire un approfondimento di temi che toccano i giuristi, ma anche la società e i governi.
7. L’obbligo positivo dello Stato di garantire il diritto alla verità
Si può cominciare dalla mutua fertilizzazione che le Corti sovranazionali che si occupano di diritti fondamentali hanno messo in atto sul tema.
Lo scambio di esperienze non può che risultare fondamentale se solo si consideri la sintonia di base riscontrata fra i due plessi giurisdizionali sovranazionali, entrambi orientati a riconoscere una dimensione di grande rilevanza alla lesione dei beni giuridici in base al riconoscimento offerto da strumenti internazionali di diritto umanitario – ma non solo da quelli – rivolti a riconoscere un “obbligo positivo” a carico degli Stati di attivarsi per perseguire le condotte di aggressione in modo efficace e serio.
Siffatto obbligo positivo, messo in relazione alla violazione degli artt. 2 e 3 Cedu, ha consentito ai giudici europei di porre in secondo piano altri valori pure protetti da quelle stesse carte – per esempio, il ne bis in idem. Studiare, così, parallelamente i percorsi che i Paesi latinoamericani hanno seguito rispetto all’impatto della Carta interamericana nei sistemi interni e accorgersi che i processi di costituzionalizzazione del diritto internazionale siano apprezzati quanto quelli di internazionalizzazione del diritto costituzionale in quel contesto territoriale, come nel nostro, non può che produrre risultati fecondi anche sui temi dell’efficacia degli strumenti internazionali negli ordinamenti interni che agitano le corti nazionali dei Paesi europei[23].
Né può sottacersi, limitando ora la riflessione al tema qui sviluppato, che la posizione della Corte Edu sembra porsi in una dimensione assai peculiare, che finisce col risultare ulteriormente ampliativa del diritto alla non impunità di gross violation, direttamente collegandolo ad altri valori fondamentali della persona umana – diritto a un’indagine effettiva, divieto di tortura – anche se riferibili a una singola vittima o violazione, senza verificarne la riconducibilità al contesto politico nel quale essa si colloca. Tale ampliamento si spinge al punto da lasciare in penombra quell’esigenza – che sembrava, invece, congenita – di fare luce su “crimini di massa” correlati a regimi antidemocratici che, avendo riguardato un sistema illecito capace di porsi agli antipodi della democrazia, meritavano inevitabilmente una risposta forte dello Stato e, al contempo, un’esigenza forte di verità sui fatti accaduti.
La dimensione – a un approccio epidermico – forse ancora più personalistica che sembra emergere dalla giurisprudenza della Corte Edu, se si guarda alla centralità che assume, in quel sistema, l’esigenza di svolgere un’indagine effettiva quando entrino in gioco i beni primari della persona – su tutti, la dignità –, meriterà un’attenta considerazione anche per verificare le ricadute che tale impostazione potrebbe avere sul piano dell’individuazione della fonte della consuetudine internazionale, in un processo di emersione dei relativi contenuti sicuramente tanto complesso, ma non per questo meno indispensabile se si accede a una prospettiva, assai cara anche ad Antonio Ruggeri, di massimizzazione delle tutele dei diritti fondamentali[24].
8. I “seguiti” delle sentenze che hanno accertato le violazioni del diritto alla verità
Non meno intriganti appaiono i flussi di confronto fra i “seguiti” delle pronunzie rese dalle Corti sovranazionali in materia.
La vicenda di cui si è accennato all’inizio e che ha visto lo Stato brasiliano condannato innanzi alla Corte di San José – Corte Idu, 24 novembre 2010, Gomes Lund e altri c. Brasile – con riguardo all’annientamento della formazione guerrigliera del gruppo «Guerrella Aragaia» da parte dell’esercito brasiliano, fra il 1972 e il 1974, e alla legge sull’amnistia n. 6683/1979, introdotta per i crimini compiuti dalle forze di polizia e dell’esercito, pone problemi non dissimili da quelli che riguardano il “seguito” delle sentenze della Corte Edu nell’ordinamento dei Paesi contraenti – per i quali vds. Corte Idu, Barrios Altos, 14 marzo 2001, cit., par. 44 –, se si considera che la Corte suprema brasiliana, nel 2010, ha ritenuto la piena conformità delle legge sull’amnistia con la Costituzione adottata nel 1988, ritenendo dunque non vincolante la decisione resa dalla Corte interamericana dei diritti umani nei confronti del Brasile.
Anche qui, dunque, emergono le straordinarie affinità di questioni problematiche che ruotano attorno all’efficacia e al funzionamento delle due Corti sovranazionali al cui interno vi è, poi, quella centrale del ruolo che, rispetto a esse, gioca il giudice nazionale[25].
Si pensi, all’esigenza di proseguire i processi nei confronti di soggetti che hanno fruito di leggi di favore, ma anche di verificare che vi siano state risposte adeguate, sul piano disciplinare, nei confronti di soggetti autori dei crimini non puniti in relazione all’intervenuta prescrizione.
Del resto, come già ricordato, il tema è di strettissima attualità con riguardo alla vicenda del G8, poiché il Comitato dei ministri, esaminando lo stato di esecuzione delle sentenze rese dalla Corte Edu sopra ricordate e pur valutando con favore l’adozione, nell’ordinamento interno, della legge n. 110/2017 che ha introdotto il reato di tortura, ha fra l’altro espressamente chiesto notizie al Governo italiano sull’esistenza di procedimenti disciplinari nei confronti degli autori dei crimini perpetuati durante il G8[26].
Sarà certo interessante verificare cosa risponderà l’autorità italiana, a fronte di notizie che danno i responsabili di quei fatti non soltanto nel pieno delle loro funzioni, ma addirittura destinatari di promozioni ai vertici delle forze di polizia[27]. Capire quali conseguenze possa determinare una situazione di impasse delle autorità interne finisce con richiedere, ancora una volta, ulteriori energie, rivolte ad ampliare le conoscenze attraverso i casi, le dinamiche che li hanno caratterizzati, la complessiva condotta tenuta dallo Stato.
Nemmeno tanto sullo sfondo rimane la questione dell’efficacia delle sentenze della Corte Edu in una sfera extraprocessuale, non collegata al caso esaminato o, se si vuole, alla cd. efficacia di cosa interpretata.
Tema, quest’ultimo, ancora una volta trasversale, se si considera che la sentenza Barrios Altos già ricordata aveva, in definitiva, operato la disapplicazione della legge sull’amnistia peruviana senza che fosse, a suo dire, necessario un intervento delle autorità nazionali volto a eliminarla dal mondo giuridico – id est ha ritenuto la disapplicazione della legge interna contrastante con la Convenzione americana. Al punto che, nella successiva sentenza La Cantuta, del 29 novembre 2006, la stessa Corte Idu non aveva mancato di precisare che i principi della sentenza Barrios Altos costituivano norme di diritto interno immediatamente applicabili da parte delle autorità peruviane[28].
Ulteriori profili di approfondimento sembrano potersi profilare con riguardo alla posizione espressa dalla Cassazione penale sul tema della prescrizione. Posizione che, fin qui, sembra fare il paio con quella espressa sul medesimo tema, ma in tutt’altro ambito, dalla Corte costituzionale – Corte cost. 115/2018, in vicenda “post Taricco” – e che, tuttavia, potrebbe a sua volta essere rivisitata, se solo dovesse riconoscersi il valore consuetudinario sul piano internazionale del diritto alla verità, potendo porsi un’esigenza di bilanciamento fra valori costituzionali e di segno diverso.
Né può escludersi l’apertura di un ulteriore fronte, ancor più ampliativo dell’esigenza di non impunità di autori di reati che minano, con condotte evasive, le risorse vitali dello Stato e/o dell’Unione europea.
Si vuole qui soltanto accennare all’esigenza di perseguire i crimini che vanno a incidere sulle finanze dell’Ue, che aveva costituito il sostrato della posizione della Corte di giustizia nella “vicenda Taricco” (cfr. Cgue, Taricco, C-105/14, 8 settembre 2015), poi parzialmente rivista (Cgue, Grande Sezione, M.A.S. e M.B., C-42/17, 5 dicembre 2017)[29] in relazione al rinvio pregiudiziale promosso dalla Corte costituzionale, e di recente riesaminata dalla dottrina in chiave tutt’affatto nuova – per l’appunto collegandola all’emersione, sul piano internazionale, del canone di imprescrittibilità dei reati di evasione fiscale, confermata dalla posizione espressa dalla Corte penale internazionale –, le pene erano state ridotte di tre anni[30].
Tale esigenza si collega, in parte, a quella qui esaminata, anche se correlata a istanze in apparenza meramente patrimoniali che, tuttavia, se guardate in altra prospettiva, potrebbero dimostrare la centralità delle risorse economiche per salvaguardare i diritti fondamentali e la dignità delle persone che abitano nell’Unione europea colorandosi, così, di connotati meritevoli di adeguata attenzione e ponderazione, pur all’interno dell’area, sempre più ampia, di un’esigenza alla verità e giustizia.
9. Altri possibili sviluppi sulla strada della piena affermazione del diritto alla verità
Ci si avvicina, così, inavvertitamente, ad altre vicende interne, alcune delle quali, di recente, alimentate con grande passione dalla richiesta di “verità” avanzata da Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, magistrato ucciso dalla mafia insieme agli agenti della sua scorta nel luglio del 1992, in ordine a quello che è stato definito uno dei più grossi depistaggi della storia della Repubblica.
Il grido di verità[31] che Fiammetta Borsellino porta avanti a distanza di ventisei anni da quella strage[32] non è diverso da quell’esigenza di conoscenza e di verità che ha animato collaterali vicende processuali rispetto alla strage di Via D’Amelio, relative alla cd. trattativa fra Stato e mafia[33]. Esigenza che, a ben considerare, non appartiene soltanto alle vittime primarie di quell’eccidio e di altre stragi rimaste impunite, ma anche – e, ancora una volta, in una dimensione plurale e collettiva – a un’intera nazione. Un’esigenza che tende a contrapporsi a tutte quelle condotte, attive od omissive, che si frappongono al pieno dispiegarsi del diritto alla verità.
Ci si accorge, allora, di quanto il diritto alla verità e alla non impunità di crimini che hanno caratterizzato particolari periodi storici di una nazione diventi centrale per le democrazie moderne, confrontandosi con valori fondamentali di pari rango che vanno ancora una volta bilanciati, anche se in gioco entrano beni di valore pregnante, quali potrebbero essere quelli che si intendono non esternare avvalendosi del segreto di Stato, utilizzato, come noto, nella vicenda di Abu Omar.
L’esigenza della verità, che nei Paesi sudamericani si sta ora percorrendo attraverso l’istituzione di apposite «Commissioni per la verità» costituisce, ancora, elemento da approfondire per capirne il ruolo, l’efficacia, la portata e gli effetti nel nostro sistema. Anzi, all’osservatore attento non può essere sfuggito come la rinnovata attenzione riposta, in questi ultimi tempi, al tema della prescrizione dei reati e alla prospettata modifica dell’attuale assetto sia, forse inconsapevolmente, collegata ai temi che si è qui cercato di affrontare.
Tutto questo sta a dimostrare quanto sia ineliminabile la necessità di attingere alle fonti sovranazionali e alle giurisdizioni sovranazionali per realizzare al meglio le esigenze di giustizia e, dunque, di conoscere quei sistemi, il loro modo di operare e le interazioni che producono nell’ordinamento interno.
10. Conclusioni
Rileggere le riflessioni fin qui svolte provoca, in chi le ha maturate, un senso di appagamento misto a incredulità.
È, infatti, la scoperta che i tasselli che qui si è cercato di mettere insieme sembrano indirizzarsi, quasi inconsapevolmente e oltre le intenzioni di chi li ha posizionati, verso la dimensione primaria della persona, che è per l’appunto rappresentata dalla sua dignità.
Questa ricerca della verità, nel modo cangiante e multiforme che si è qui cercato di rappresentare, altro non è, forse, se non la “colla” che tiene unita la generazione presente a quella che non c’è più o non c’è ancora. Ho qui usato le parole che Antonio Ruggeri ha speso ritornando, di recente, a riflettere sulla dignità, anche quando ricorda che «La memoria del passato, specie di quello più doloroso in cui si è assistito a comportamenti offensivi della dignità posti in essere da uomini trasformatisi in bestie feroci, illumina il presente, dà a quest’ultimo insegnamenti preziosi, che non possono (e non devono) essere dimenticati; allo stesso tempo in cui aiuta alla comprensione del presente, prepara