La tutela dei disabili
1. I settori di intervento della Corte Edu in materia di disabili
Gli interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo a protezione dei disabili sono stati numerosi e relativi a diversi settori. La Corte si è occupata, tra l’altro, di casi di morte di una persona sordomuta trattenuta dalla polizia (Jasinskis c. Lettonia) o in una casa di cura, o in ospedale (Nencheva e altri c. Bulgaria), delle condizioni di detenzione del disabile (Vincent c. Francia; Semikhvostov c. Russia), di casi di molestie verbali e/o fisiche (Đorđević c. Croazia), di abusi sessuali (I.C. c. Romania), dello stupro di una persona con disabilità mentale (X e Y c. Paesi Bassi), fino alla sterilizzazione forzata (Gauer e altri c. Francia) o, in genere, al trattamento medico in mancanza di consenso (Glass c. Regno Unito), nonché alla privazione della capacità legale (Shtukaturov c. Russia); altre decisioni della Corte Edu hanno interessato gli aiuti finanziari per crescere il figlio disabile (La Parola c. Italia), il divieto di discriminazione (Glor c. Svizzera), l’istruzione (Gherghina v. Romania; Çam v. Turchia), la protezione della proprietà e dei diritti dei disabili in materia previdenziale e assistenziale (Koua Poirrez c. Francia; Kjartan Ásmundsson c. Islanda; Draon c. Francia e Maurice c. Francia; Béláné Nagy c. Ungheria).
In questa sede si vuole soffermare l’attenzione solo su alcune problematiche specifiche, trattate da importanti sentenze.
2. Condizioni di vita nelle case di cura o nei reparti psichiatrici
La tematica in rubrica è stata oggetto di pronuncia di Grande Camera nel caso Stanev c. Bulgaria, deciso il 17 gennaio 2012.
Si trattava di un uomo che sosteneva di essere stato messo contro la sua volontà, per molti anni, in un istituto psichiatrico sito in una remota località di montagna, in condizioni degradanti.
La sentenza ha osservato che l’art. 3 della Convenzione proibisce il trattamento inumano o degradante di chiunque si trovi sotto la custodia delle autorità, sia che si tratti di detenzione nel contesto di procedimenti penali, sia di ammissione a un’istituzione con lo scopo di proteggere la vita o la salute della persona interessata.
Nel caso di specie, anche se non c’era alcun indizio del fatto che le autorità avessero deliberatamente inteso trattare il richiedente in modo degradante, la Corte ha rilevato che, nel complesso, le condizioni di vita del ricorrente (il cibo era insufficiente e di scarsa qualità; l’edificio era scarsamente riscaldato e, in inverno, il richiedente doveva dormire nel suo cappotto; la doccia era possibile solo una volta alla settimana in un bagno antigienico e fatiscente; i servizi igienici erano in uno stato esecrabile; etc.), per un periodo di circa sette anni, integravano gli estremi dell’«inhuman and degrading treatment», in violazione dell’art. 3 Cedu.
3. Accesso a luoghi ed edifici pubblici
In un contesto che vede una pluralità di strumenti internazionali ed europei volti a promuovere i diritti e la piena partecipazione delle persone con disabilità nella società (si vedano le varie raccomandazioni nn. R(92)6 e Rec(2006)5 del Comitato dei ministri, le raccomandazioni nn. 1185 (1992) e 1592 (2003) dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nonché naturalmente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e l’intera disciplina antidiscriminatoria di matrice comunitaria), il tema dell’eliminazione delle barriere architettoniche è emerso in diverse sentenze della Corte Edu, con esiti del tutto insoddisfacenti.
Nel caso Botta c. Italia, del 24 febbraio 1998, ove il problema si era posto con riferimento alla mancanza di dotazione degli stabilimenti balneari per consentire alle persone disabili di accedere alla spiaggia e al mare, la Corte ha ritenuto che l’art. 8 non fosse applicabile nel caso, per difetto di specifica vicinanza o connessione dello stabilimento con il luogo di normale residenza del ricorrente.
Nel caso Zehnalova e Zehnal c. Repubblica Ceca, del 14 maggio 2002, il tema è stato esaminato con riferimento agli edifici pubblici e agli edifici aperti al pubblico nella città natale dei ricorrenti; anche qui, però, la Corte ha ritenuto la domanda inammissibile, per difetto di prova circa l’esistenza di un legame specifico tra gli edifici in questione e le esigenze particolari della vita privata dei ricorrenti, col risultato paradossale che la domanda, proprio perché indicava analiticamente un gran numero di edifici della città, è stata ritenuta generica.
La Corte evidenzia, peraltro, che gli obblighi positivi imposti agli Stati dall’art. 8 al fine della tutela della vita privata dei cittadini vanno inquadrati nell’ampio margine di apprezzamento che hanno gli Stati in materia per quanto riguarda la scelta dei mezzi da impiegare per adempiere agli obblighi previsti dalla legislazione in materia, al fine di realizzare un giusto equilibrio tra gli interessi confliggenti che fanno capo all’individuo e alla comunità nel suo complesso (tanto più se le questioni in gioco implicano una valutazione delle priorità nel contesto dell’attribuzione di risorse statali limitate; si veda pure, sul tema, Draon c. Francia).
In Gherghina c. Romania [GC], 9 luglio 2015, si poneva la questione dell’inaccessibilità degli edifici universitari e giudiziari, sicché il ricorrente, studente disabile che soffriva di una grave compromissione dell’apparato locomotore degli arti inferiori, lamentava l’impossibilità di conseguire un titolo di istruzione superiore.
La domanda aveva passato il filtro della valutazione di ammissibilità, in quanto il ricorrente aveva precisato che non si era rivolto ai tribunali competenti per porre rimedio alla situazione non solo in ragione dell’assenza di precedenti in materia di accessibilità e dell’assenza, nella legislazione, di termini per il completamento dei miglioramenti dell’accessibilità degli edifici pubblici, ma anche perché gli edifici adibiti a sede dei tribunali in questione erano essi stessi inaccessibili ai disabili. Una volta comunicato al Governo, successivamente il caso era addirittura confluito alla Grande Camera.
La ricerca comparata fatta per il caso aveva evidenziato che, oltre a esservi una forte disciplina antidiscriminatoria, specie di derivazione comunitaria, le discipline – di normazione primaria e secondaria – di quasi tutti gli Stati membri affermano che la mancanza di accesso o l’accesso inadeguato sono considerati come una discriminazione verso le persone a mobilità ridotta e perseguono un approccio inclusivo delle persone affette da disabilità nel campo dell’istruzione superiore.
La Grande Camera ha, tuttavia, ritenuto la domanda del ricorrente inammissibile, affermando che quest’ultimo, che comunque avrebbe potuto rivolgersi ai tribunali per il tramite di un rappresentante o mediante l’invio dei documenti per posta, avrebbe potuto richiedere un ordine giudiziale cautelare che imponesse all’università di installare una rampa di accesso per disabili; inoltre, avrebbe potuto comunque ottenere il risarcimento dei danni, anche non-patrimoniali, per l’impossibilità di proseguire gli studi universitari alle stesse condizioni degli altri studenti.
Quanto queste soluzioni giurisprudenziali evidenziate nel paragrafo siano soddisfacenti ognuno, abile o disabile che sia, è in grado di vedere.
4. Deprivazione di rapporti affettivi
La Corte Edu è intervenuta, in alcune occasioni, in relazione alla vita affettiva del disabile.
In Lashin c. Russia, veniva in questione il diritto di un disabile – dichiarato legalmente incapace a causa di un disturbo mentale – a sposarsi, in presenza di proibizione espressa del codice russo. La Corte ha, tuttavia, assorbito lo specifico motivo di ricorso sul punto (interessante resta, però, lo studio fatto dalla Divisione ricerca della Corte in vista della camera di consiglio, nella quale si evidenzia che solo in una minoranza degli Stati vi è un divieto esplicito del diritto di sposarsi per le persone mentalmente disabili).
Nel caso Kutzner c. Germania, deciso il 26 febbraio 2002, si trattava della separazione dei figli dai loro genitori e delle restrizioni sui relativi successivi contatti, a causa della presunta mancanza di capacità intellettuale dei genitori disabili di crescere i figli in modo corretto (come accertato, nel caso, da esperto nominato dal tribunale tedesco).
Per ragioni correlate alla capacità intellettuale riferita alla gestione e all’educazione della prole, ai ricorrenti era stata dunque tolta la potestà sulle loro figlie, conseguentemente collocate presso casa famiglia e, poi, in affidamento presso altra famiglia.
La Corte ha ritenuto all’unanimità che vi fosse stata violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita familiare) della Convenzione.
La Corte ha riconosciuto che il collocamento dei figli nella casa famiglia e presso gli affidatari, uniti alle restrizioni al contatto tra i genitori e i loro figli hanno comportato un’interferenza con il diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita familiare; tali misure erano, tuttavia, prescritte dalla legge e perseguivano gli scopi legittimi di proteggere la salute e la morale nonché i “diritti e le libertà dei bambini”.
Per quanto riguarda il fatto che le misure fossero necessarie in una società democratica, sia l’ordine per la collocazione dei bambini sia l’attuazione di una misura così radicale che li separava dai loro genitori era stato inappropriato (oltre che l’effetto di controverse affermazioni degli psicologi e dei medici intervenuti nella procedura); soprattutto, non era stato asserito in alcun modo che i bambini fossero stati trascurati o maltrattati dai genitori. Né le autorità e i tribunali nazionali avevano tenuto in sufficiente considerazione l’attuazione di misure aggiuntive, o alternative, che fossero meno radicali della separazione e più conformi alla tutela dell’interesse superiore dei bambini.
La Corte ha quindi concluso che, sebbene i motivi dell’intervento statale fossero fondati, essi non erano tuttavia sufficienti a fondare la soluzione radicale attuata, sicché, nonostante il margine di apprezzamento delle autorità nazionali, l’interferenza non era stata proporzionata agli scopi legittimi perseguiti.
5. Esigenza di protezione speciale e deroghe al diritto comune
La principale sentenza in materia è resa dalla Grande Camera nel caso Centro delle risorse giuridiche per conto di Valentin Câmpeanu c. Romania, deciso il 17 luglio 2014.
La domanda era stata presentata da un’organizzazione non governativa (ong) per conto di Valentin Câmpeanu, morto nel 2004 all’età di 18 anni in un ospedale psichiatrico, il quale, abbandonato alla nascita e inserito in un orfanotrofio, era fin da bambino sieropositivo e affetto da una grave disabilità mentale.
In questo caso, la Grande Camera ha ritenuto la sussistenza di una violazione dell’art. 2 della Convenzione, sia nei suoi aspetti sostanziali sia in quelli procedurali.
La Corte ha, in particolare, accertato: che Valentin Câmpeanu era stato collocato in strutture sanitarie che non erano attrezzate per fornire un’assistenza adeguata alle sue condizioni; che il paziente era stato trasferito da un’unità all’altra senza una diagnosi adeguata; che le autorità non erano riuscite a garantire il trattamento appropriato con farmaci antiretrovirali.
Secondo la Corte, le autorità, consapevoli della difficile situazione esistente – mancanza di personale, cibo insufficiente e mancanza di riscaldamento – nell’ospedale psichiatrico in cui era stato collocato, avevano irragionevolmente messo la vita del paziente in pericolo, senza poi condurre un’indagine efficace sulle circostanze della sua morte.
La Corte ha anche riscontrato una violazione dell’art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) della Convenzione, in combinato disposto con l’art. 2, considerando che lo Stato rumeno non era riuscito a fornire un meccanismo appropriato di riparazione a persone con disabilità mentali dichiaranti di essere vittime ai sensi dell’art. 2.
Infine, ritenendo che le violazioni della Cedu, nel caso di Valentin Câmpeanu, riflettessero un problema più ampio, la Grande Camera, ai sensi dell’art. 46 (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze) della Convenzione, ha raccomandato alla Romania di prendere le necessarie misure generali per garantire che le persone con disabilità mentali in una situazione analoga possano beneficiare di un rappresentante indipendente, che possa richiedere tutela giurisdizionale per loro conto in ordine alla loro salute e alle cure necessarie.
Al di là della particolare congiuntura negativa – ed estrema – del caso, va rilevato che la Grande Camera ha affermato che il disabile, sia pure in tali eccezionali circostanze, è meritevole di una speciale protezione ai sensi della Convenzione, idonea anche a consentire deroghe al diritto comune. Nel caso in esame, infatti, la Corte ha ammesso la ong non solo ad agire in giudizio per conto del disabile, nonostante il suo già avvenuto decesso, ma anche a rappresentare quest’ultimo nonostante l’assenza di qualsiasi incarico in tal senso, e anche in mancanza di procedure giudiziarie interne, in deroga alla regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
Ai punti 105 e 112 della sentenza vi sono le argomentazioni che portano la Corte, in modo rivoluzionario e con un balzo giurisprudenziale progressivo estremo, ad ampliare l’area della tutela dei diritti in favore dei disabili, in vista dell’effettività della Convenzione:
«105. In the Court’s view the present case does not fall easily into any of the categories covered by the above case-law and thus raises a difficult question of interpretation of the Convention relating to the standing of the CLR. In addressing this question the Court will take into account the fact that the Convention must be interpreted as guaranteeing rights which are practical and effective as opposed to theoretical and illusory (see Artico v. Italy, 13 May 1980, § 33, Series A no. 37, and the authorities cited therein). It must also bear in mind that the Court’s judgments “serve not only to decide those cases brought before the Court but, more generally, to elucidate, safeguard and develop the rules instituted by the Convention, thereby contributing to the observance by the States of the engagements undertaken by them as Contracting Parties” (see Ireland v. the United Kingdom, 18 January 1978, § 154, Series A no. 25, and Konstantin Markin v. Russia [GC], no. 30078/06, § 89, ECHR 2012)».
Dunque, la Corte ammette deroghe al diritto comune perché la sua applicazione equivarrebbe a impedire che accuse così gravi di una violazione della Convenzione vengano esaminate a livello internazionale, con il rischio che lo Stato convenuto possa sfuggire alla responsabilità ai sensi della Cedu (per esempio, a causa della mancata nomina di un rappresentante legale ad agire per conto del disabile, o a causa della sua morte). E, dice la Corte, permettere allo Stato convenuto di eludere la responsabilità in questo modo non sarebbe coerente con lo spirito generale della Convenzione, né con l’obbligo delle Alte Parti Contraenti, ai sensi dell’art. 34 Cedu, di non ostacolare in alcun modo l’esercizio effettivo del diritto di portare una domanda davanti alla Corte.