Inquinamento ambientale e diritti umani
1. Premessa
Il diritto all’ambiente non è previsto espressamente tra quelli riconosciuti dalla Cedu.
Tale mancanza, come rilevato nella opinione dissidente dei giudici Costa, Ress, Turmen, Zupančič e Sterner nella pronuncia della Grande Camera dell’8 luglio 2003 sul caso Hatton e altri c. Regno Unito, si spiega con il fatto che l’approvazione della Convenzione risale agli anni Cinquanta, quando non era ancora emersa nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo. Una consapevolezza maturata nel tempo e che ha trovato poi riscontro, a livello di individuazione principi fondamentali del diritto eurounitario, nell’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali (Cdfue), secondo cui «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».
Il riconoscimento del valore ambientale è, quindi, avvenuto mediante la sua progressiva emersione, da parte della giurisprudenza della Corte Edu, all’interno del sistema dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu, in una duplice prospettiva: quale limite all’espansione del diritto di proprietà[1], ovvero quale elemento caratterizzante i singoli diritti, quali, in particolare, il diritto al domicilio e alla vita privata e familiare (art. 8) e il diritto alla vita (art. 2).
2. La valenza ambientale del diritto al domicilio ed alla vita privata e familiare nella giurisprudenza della Corte Edu
Mentre il diritto alla vita riconosciuto dall’art. 2 è stato ritenuto leso soltanto in occasioni eccezionali, in presenza di gravi eventi di disastro ambientale che avevano causato la morte di persone (si veda la sentenza Öneryildiz c. Turchia, del 2004), numerose sono state le decisioni in cui la Corte Edu ha ritenuto che il valore ambientale caratterizza in modo stringente il diritto fondamentale al domicilio e alla vita privata e familiare garantito dall’art. 8.
La tutela accordata dalla norma non riguarda tre beni diversi, ma un unicum proteiforme, in quanto a essere considerato è l’insieme dei rapporti che ruotano intorno alla sfera più intima della persona.
Un contesto unitario, quindi, la cui violazione rileva sotto vari profili: da quello strettamente domiciliare, legato ai luoghi nei quali si svolge la vita privata, a quello che riguarda lo spazio di autonomia e di qualità di quest’ultima (che, nella valenza ambientale, si risolve nel diritto a goderne senza interferenze che alterino il benessere psico-fisico dell’individuo), fino alla tutela delle relazioni familiari che la qualificano e le danno consistenza.
È importante evidenziare come la violazione dell’impegno degli Stati contraenti a tutelare questo e gli altri diritti non riguardi soltanto comportamenti direttamente riconducibili alle istituzioni pubbliche, ma anche quelli posti in essere da privati laddove risulti che essi sono stati resi possibili da negligenze od omissioni da parte dello Stato (inteso, in senso ampio, come “Stato-apparato”, espressione riferita a tutte le sue articolazioni).
All’ampiezza del diritto al domicilio e alla vita privata e familiare corrisponde una vasta gamma di situazioni in cui la valenza ambientale di tale diritto è esaminata dalla Corte Edu.
Un primo versante riguarda i numerosi casi in cui la lesione è stata ravvisata in caso di inquinamento acustico, rispetto al quale la violazione è stata affermata quando sia risultata superata la soglia di tolleranza del rumore, attraverso l’analisi comparata del disturbo lamentato dagli interessati e delle misure in concreto adottate dal responsabile della immissione rumorosa, in una prospettiva di bilanciamento tra interessi contrapposti. Una verifica che ha portato all’esclusione della violazione in diversi casi di rumore aeroportuale rientrante nella sfera di tollerabilità. Ex plurimis, si vedano le sentenze Powell e Rayner c. Regno Unito, del 1990, Hatton c. Regno Unito, del 2003, Flamenbaum e altri c. Francia, del 2012. Altra fattispecie in cui è stato ritenuto congruo il bilanciamento di interessi da parte delle autorità nazionali è quella della sentenza Martínez Martínez e Pino Manzano c. Spagna, del 2012, relativa a soggetti residenti in prossimità di una cava attiva di pietra, che provocava rumore e inquinamento da polveri e nella quale si è esclusa la violazione per la collocazione dell’abitazione in una zona industriale e non residenziale, e per l’esito dell’accertamento tecnico da cui era risultato che i livelli di rumore e di inquinamento erano pari o leggermente superiori alla norma, ma erano tollerabili.
La violazione dell’art. 8 è stata, invece, ritenuta:
¾ nel caso di rilevante superamento dei limiti di legge da parte di locali privati; ex plurimis, sentenza Moreno Gomez c. Spagna, del 2004 relativa al rumore causato al ricorrente da alcune discoteche vicine alla sua abitazione, che ne avevano disturbato il sonno in maniera prolungata, o la sentenza Mileva e altri c. Bulgaria, del 2010, in cui la doglianza riguardava il rumore causato da un ufficio, da un club in cui erano installati giochi elettronici e da un centro riparazioni di computer, che si trovavano tutti all’interno di appartamenti vicini a quelli dei singoli ricorrenti;
¾ nell’ipotesi di traffico veicolare pesante non regolamentato lungo la strada limitrofa alla residenza degli interessati; si veda, in proposito, la sentenza Dees c. Ungheria, del 2010, in cui la violazione dell’art. 8 è stata ravvisata nel caso di emissioni sonore superiori del 15 per cento rispetto al limite fissato dalla legge; la decisione ha risolto positivamente la questione se il contenuto sostanziale dell’art. 8 della Convenzione possa configurare, in capo allo Stato membro, l’obbligazione di adottare misure effettivamente idonee a limitare i disagi dovuti a un eccesso di rumorosità.
Un secondo versante in cui è stata configurata la violazione dell’art. 8 Cedu è quello dell’inquinamento industriale, rispetto al quale la Corte Edu ha affermato l’obbligo per le autorità pubbliche, quando siano messi in «funzione impianti inquinanti per il trattamento di sostanze potenzialmente nocive per la salute o lesive per l’ambiente (…) di operare un equo bilanciamento tra interessi contrapposti entrambi meritevoli di tutela: da una parte, vi è l’interesse della collettività all’esistenza dell’impianto, al fine di ridurre l’inquinamento complessivo e di implementare l’economia locale; dall’altro, quello individuale dei singoli abitanti dei luoghi limitrofi all’impianto a conservare un ambiente salubre e a che la propria vita privata e familiare e il libero godimento della propria abitazione non vengano oltremodo sconvolti. Questo equo bilanciamento comporta, per le Autorità, un dovere di premunirsi adottando tutti gli accorgimenti necessari a scongiurare che la messa in funzione di detti impianti abbia conseguenze abnormi sulla vita privata e familiare e sul diritto al godimento dell’abitazione dei singoli cittadini, pena l’infrazione dell’art. 8 della Convenzione, posto a tutela di tali diritti»[2].
L’equo bilanciamento in questione implica l’obbligo, per le autorità nazionali, di compiere un’adeguata valutazione preventiva sui rischi per l’ambiente derivanti da un’attività di tipo industriale, ponendo in essere le misure idonee a evitare la compromissione del benessere psico-fisico della persona caratterizzante il godimento del domicilio e della sfera privata – sentenza Tatar c. Romania, del 2009; conforme la sentenza Cordella e altri c. Italia, del 24 gennaio 2019, nella nota vicenda Ilva, che ha ritenuto violato l’art. 8 in quanto «la persistenza di una situazione di inquinamento ambientale mette in pericolo la salute dei richiedenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione che vive nelle aree a rischio» e «le autorità nazionali non hanno adottato tutte le misure necessarie per garantire una protezione efficace del diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita privata».
Altro aspetto che rende configurabile la violazione dell’art. 8 nel caso di inquinamento industriale è quello dell’omessa informazione dei rischi potenziali dipendenti dal continuare a vivere in un luogo esposto a pericolo di inquinamento o contaminazione, come riconosciuto fin dalle sentenze Guerra e altri c. Italia, del 1998 e Taskin e altri c. Turchia, del 2004, in quanto elemento che incide negativamente sul godimento del domicilio, a prescindere dalla effettività del danno alla salute.
A questo aspetto si collega la violazione dell’art. 13 Cedu, quando l’omessa informazione sullo stato dell’ambiente e sulle misure di prevenzione e riparazione che il sistema pubblico attua – o ha in programma di attuare – impediscano ai cittadini di ricorrere davanti a un giudice «contro l’impossibilità di ottenere misure anti-inquinamento, violando quindi il loro diritto a un ricorso effettivo» (sentenza Cordella e altri c. Italia, cit., con riferimento alla mancanza di informazioni sulle operazioni di bonifica del territorio).
Al diritto di informazione è altresì collegato quello delle associazioni ambientaliste all’accesso alla giustizia, riconosciuto dalla Corte con riferimento all’art. 6 Cedu (sentenza L’Erablière ASBL c. Belgio, del 2009).
Un terzo versante nel quale è stata configurata la violazione dell’art. 8 Cedu è quello dell’inquinamento da rifiuti.
Oltre a ribadire, anche in tal caso, gli obblighi delle pubbliche autorità di verifica preventiva dell’impatto ambientale di un nuovo insediamento[3], di particolare importanza è il caso della “crisi dei rifiuti” campani esaminato dalla Corte Edu con la sentenza Di Sarno c. Italia, del 2012, della quale è utile riprodurre i punti 104-107 perché ricognitivi dei principi generali:
«104. La Corte ricorda che i gravi danni ambientali possono incidere sul benessere delle persone e privarle del godimento del loro domicilio in modo da nuocere alla loro vita privata e familiare (López Ostra, sopra citata, § 51; Guerra e altri, sopra citata, § 60).
105. Peraltro, sottolinea che l’articolo 8 non si limita a costringere lo Stato ad astenersi da ingerenze arbitrarie: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti ad un rispetto effettivo della vita privata. Comunque sia, che si affronti la questione in termini di obbligo positivo dello Stato ad adottare misure ragionevoli e adeguate per proteggere i diritti della persona in virtù del primo paragrafo dell’articolo 8 o in termini di ingerenza di un’autorità pubblica, da giustificare ai sensi del secondo paragrafo, i principi applicabili sono abbastanza simili (López Ostra, sopra citata, § 51, e Guerra, sopra citata, § 58).
106. Gli Stati hanno prima di tutto l’obbligo positivo, in particolare nel caso di un’attività pericolosa, di mettere in atto una regolamentazione idonea alle specificità di detta attività, soprattutto a livello del rischio che potrebbe derivarne. Questo obbligo deve regolare l’autorizzazione, la messa in funzione, l’esercizio, la sicurezza e il controllo dell’attività in questione, nonché imporre a qualsiasi persona interessata da tale attività l’adozione di misure di ordine pratico idonee ad assicurare una protezione effettiva dei cittadini la cui vita rischia di essere esposta ai pericoli inerenti al campo in causa (vedere, mutatis mutandis, Oneryildiz c. Turchia, [GC], n. 48939/99, § 90, CEDU 2004-XII).
107. Per quanto riguarda gli obblighi procedurali che derivano dall’articolo 8, la Corte ricorda che essa attribuisce una particolare importanza al fatto che il pubblico abbia accesso alle informazioni che gli permettano di valutare il rischio al quale è esposto (Guerra, sopra citata, § 60; Taşkin e altri c. Turchia n. 46117/99, § 119, CEDU 2004-X; Giacomelli c. Italia, n. 59909/00, § 83, CEDU 2006 XII; Tătar c. Romania, n. 67021/01, § 113, CEDU 2009 ... [estratti]). Per di più, ricorda che l’articolo 5, § 1, c) della Convenzione di Aarhus, ratificata dall’Italia, prevede che ogni Parte faccia in modo che “in caso di minaccia imminente per la salute o per l’ambiente, imputabile ad attività umane o dovuta a cause naturali, siano diffuse immediatamente e senza indugio tutte le informazioni in possesso delle autorità pubbliche che consentano a chiunque possa esserne colpito di adottare le misure atte a prevenire o limitare i danni derivanti da tale minaccia”».
La sentenza riguarda una fattispecie in cui i ricorrenti lamentavano di essere stati costretti a vivere in un ambiente inquinato dai rifiuti abbandonati per le strade. La Corte ha ritenuto che «questa situazione abbia potuto portare ad un deterioramento della qualità di vita degli interessati e, in particolare, nuocere al loro diritto al rispetto della vita privata e del domicilio».
Rilevato, poi, che «i ricorrenti non hanno sostenuto di essere stati colpiti da patologie ricollegabili all’esposizione ai rifiuti e che gli studi scientifici forniti dalle parti sull’esistenza di un nesso di causalità tra l’esposizione ai rifiuti e l’aumento del rischio di sviluppare patologie quali tumori o malformazioni congenite giungono a conclusioni opposte», la Corte ha osservato che «in queste circostanze, benché la Corte di giustizia dell’Unione europea, chiamata a pronunciarsi sulla questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania, abbia ritenuto che un accumulo nelle strade e nelle aree di stoccaggio temporanee di quantitativi così ingenti di rifiuti potesse costituire un pericolo per la salute della popolazione locale (vedere la sentenza C-297/08)» si deve «concludere che la vita e la salute dei ricorrenti siano state minacciate. Detto ciò, l’articolo 8 può essere invocato anche se manca la prova di un grave pericolo per la salute degli interessati (vedere sentenza López Ostra, sopra citata, § 51)».
La Corte ha poi rilevato che «la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti costituiscono senza dubbio delle attività pericolose», per cui «gravava sullo Stato l’obbligo positivo di adottare delle misure ragionevoli ed idonee in grado di proteggere i diritti delle persone interessate al rispetto della loro vita privata e del loro domicilio e, in genere, al godimento di un ambiente sano e protetto».
Ha, inoltre, ricordato «il margine di discrezionalità di cui godono gli Stati nella scelta delle misure concrete da adottare per tener fede agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione», per rilevare che «nel caso di specie, dal 2000 al 2008, il servizio di trattamento e smaltimento dei rifiuti è stato affidato a società di diritto privato, mentre il servizio di raccolta dei rifiuti è stato assicurato da varie società a capitale pubblico. Il fatto che le autorità italiane abbiano affidato a terzi la gestione di un servizio pubblico non può tuttavia dispensarle dagli obblighi di vigilanza loro imposti dall’articolo 8 della Convenzione».
Pur tenendo presente che «lo Stato italiano, a partire dal maggio 2008, ha adottato varie misure e preso iniziative per superare le difficoltà incontrate in Campania e che lo stato di emergenza, dichiarato in Campania l’11 febbraio 1994, è stato revocato il 31 dicembre 2009», ha escluso una situazione di forza maggiore[4] e ha concluso che, «anche se si considera, come afferma il Governo, che la fase acuta della crisi sia durata soltanto cinque mesi – dalla fine del 2007 al maggio 2008 – e nonostante il margine di discrezionalità riconosciuto allo Stato convenuto, è necessario constatare che l’incapacità protratta delle autorità italiane ad assicurare un corretto funzionamento del servizio di raccolta, trattamento e smaltimento dei rifiuti ha leso il diritto dei ricorrenti al rispetto della loro vita privata e del loro domicilio, in violazione dell’articolo 8 della Convenzione sotto il suo profilo materiale».
Al contrario, per quanto riguarda il profilo procedurale dell’articolo 8 e il motivo di ricorso relativo alla lamentata omessa divulgazione delle informazioni idonee a permettere ai ricorrenti di valutare il rischio al quale erano esposti, la Corte ha osservato che gli studi disposti dal Dipartimento della Protezione civile erano stati resi pubblici nel 2005 e nel 2008, per cui le autorità italiane avevano adempiuto all’obbligo di informare le persone interessate, compresi i ricorrenti, sui potenziali rischi ai quali si esponevano continuando a risiedere in Campania, escludendo la violazione dell’art. 8 sotto tale profilo.
3. Considerazioni finali
Il percorso seguito dalla Corte Edu per rilevare la violazione dei diritti fondamentali indicati, quale conseguenza di comportamenti materiali dovuti a dolo o colpa e non, invece, consentiti da norme non rispettose della sfera “ambientale” dei diritti stessi è, in qualche modo, analogo a quello della giurisprudenza italiana che, a partire dalla nota sentenza della Cassazione, sez. unite civili, 6 ottobre 1979, n.5172, riconobbe il diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione come inclusivo del diritto alla salubrità dell’ambiente in cui la persona abita o lavora e «riconosciuto dalla Costituzione in via primaria, assoluta, non condizionata ad eventuali interessi di ordine collettivo o generale, e, quindi, anche nei confronti dell’Amministrazione, cui è negato il potere di disporre di esso». Ne consegue che«nessun organo di collettività neppure di quella generale e del resto neppure l’intera collettività generale con unanimità di voti potrebbe validamente disporre per qualsiasi motivo di pubblico interesse della vita o della salute di un uomo o di un gruppo minore».
A differenza del percorso italiano, però, quello della Corte Edu non è partito dall’espressa previsione del diritto alla salute tra quelli fondamentali per, poi, ampliarne la portata da individuale a collettiva attraverso la sua evoluzione come diritto a un ambiente salubre, ma ha attratto l’aggressione o interferenza nella sfera privata sul versante del benessere psico-fisico nell’ambito di tutela del diritto fondamentale al domicilio e alla vita privata, nonché, in casi eccezionali, del diritto alla vita.
Una prospettiva, in qualche modo, più “antropocentrica” della tutela dell’ambiente, rispetto a quella di carattere misto, individuale e collettivo, che caratterizza il riconoscimento del diritto all’ambiente da parte della giurisprudenza italiana.
[1] Si veda la sentenza Hamer c. Belgio del 2007, relativa a una fattispecie in cui il ricorrente, dopo essere stato sottoposto a procedimento penale per avere edificato, in territorio forestale, contro il divieto di edificazione e aver subito la demolizione del manufatto, aveva lamentato la violazione del diritto alla protezione della proprietà di cui all’art. 1 Protocollo n. 1 alla Cedu. La violazione è stata esclusa dalla Corte, dichiarando la prevalenza dell’ambiente quale valore in sé, anche se non espressamente previsto dalla Convenzione, rispetto al quale sono recessive considerazioni economiche al pari del diritto di proprietà, specie quando lo Stato abbia legiferato nella materia.
[2] In tal senso, la felice sintesi della sentenza Lopez Ostra c. Spagna, del 1994, operata da A. Scarcella, Giurisprudenza Cedu e diritto dell’ambiente: i principali «filoni» della Corte di Strasburgo, in Ambiente e sviluppo, n. 2/2013, pp. 129-137. Lo stesso Autore ricorda, nella medesima prospettiva, la sentenza Fadeyeva c. Russia, del 2005, in cui «la ricorrente era una cittadina russa che, vivendo in un’area ad alto inquinamento industriale, aveva ottenuto dal giudice un provvedimento che ordinava il suo reinsediamento a spese delle autorità in una zona limitrofa bonificata e l’assegnazione gratuita del relativo alloggio: tale provvedimento non veniva tuttavia eseguito ritenendosi che l’aggiudicazione alla ricorrente avrebbe comportato l’esclusione dal beneficio di altri soggetti legittimati all’assegnazione degli stessi alloggi per motivi di indigenza». In questo caso, la Corte, «pur riconoscendo che non rientra tra gli obblighi positivi di uno Stato, in vista del rispetto dell’art. 8 della Convenzione, quello di garantire un alloggio gratuito, osserva che (…) le autorità non avevano compiuto alcun passo per attenuare i rischi di coloro che vivevano nella zona inquinata, omettendo di operare un corretto bilanciamento tra gli interessi della comunità e quelli della ricorrente al rispetto effettivo del suo diritto ad una casa ed alla vita privata» e ha ritenuto «sussistere la violazione dell’art. 8, qualora le autorità nazionali non abbiano adempiuto gli obblighi positivi finalizzati alla tutela della salute degli abitanti di una zona residenziale afflitta da emissioni gassose nocive provenienti da un impianto industriale privato», poiché nella specie «il Governo russo avrebbe dovuto fornire alla ricorrente una soluzione effettiva che le consentisse di spostarsi dalla zona di sicurezza e avrebbe dovuto adottare, nel rispetto della normativa nazionale, misure specifiche finalizzate alla prevenzione o, quantomeno, alla riduzione delle emissioni tossiche prodotte dall’impianto» (ibid., pp. 133-134).
[3] Sentenza Giacomelli c. Italia, del 2 novembre 2006, in cui è stata ravvisata la violazione dell’art. 8 perché l’autorizzazione dell’impianto di trattamento di rifiuti in prossimità dell’abitazione degli interessati era stata effettuata senza un’adeguata previa verifica del suo impatto.
[4] Si legge in sentenza: «a tale proposito, la Corte si limita a ricordare che ai sensi dell’articolo 23 degli Articoli della Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite sulla responsabilità dello Stato per atto internazionalmente illecito, la “forza maggiore” consiste in “(…) una forza irresistibile o in un avvenimento imprevedibile, fuori dal controllo dello Stato, che rende materialmente impossibile, nelle circostanze, agire in conformità dell’obbligo” (…). Avuto riguardo anche alle conclusioni della Corte di giustizia della Unione europea nella causa C-297/08 sopra citata, la Corte ritiene che le circostanze invocate dallo Stato italiano non possano rientrare fra le cause di forza maggiore».