Magistratura democratica

Le leggi interpretative retroattive nella diversa impostazione di Corte Edu e Corte costituzionale

di Michele Massa
Alcuni noti contenziosi lavoristici e previdenziali hanno alimentato la dialettica tra Corte Edu e Corte costituzionale su un problema classico del diritto pubblico: la compatibilità tra leggi retroattive (e di interpretazione autentica) e legittimo affidamento. Per effetto di ciò, la Corte costituzionale sembra incline a passare dalla tradizionale deferenza per il legislatore a uno scrutinio più penetrante. È un’evoluzione da incoraggiare.

1. Premessa

L’argomento di questo contributo non può mancare, in una raccolta dedicata alla Corte Edu, ai punti di contatto fra la sua giurisprudenza e l’ordinamento italiano e alle questioni ancora aperte al riguardo. Non molti anni fa, Guido Raimondi, intervistato per una rivista italiana, rilevava le maggiori differenze tra la Corte costituzionale e quella europea proprio a proposito delle leggi interpretative, con riguardo alla loro efficacia retroattiva[1].

L’attenzione per questo argomento si è dilatata, in seguito, a due noti contenziosi: quello seguito alla riunificazione dei ruoli del personale scolastico ATA e quello relativo alle cd. “pensioni svizzere”[2]. Si tratta di esempi significativi dei tipi di contenzioso che, spesso, ha attirato l’attenzione del legislatore-interprete: seriali ed economicamente rilevanti, anche al di là dell’ambito lavoristico e previdenziale.

La letteratura, da sempre ampia, si è ulteriormente arricchita. In particolare, i riferimenti giurisprudenziali sono stati ripercorsi già molte volte, sicché – rinviando, per il resto, alla bibliografia – qui sarà possibile limitare l’attenzione alla loro «sostanza» (per parafrasare la sentenza n. 311 del 2009), al fine di esprimere un giudizio in proposito e di ipotizzare alcune indicazioni operative su come trattare, in futuro, eventuali casi analoghi. A ciò conviene premettere cinque annotazioni sullo stato del dibattito in Italia: presupposto e, in certa misura, anche risultato della dialettica giurisprudenziale ora in esame.

In primo luogo, quello tra le corti è solo l’ultimo sviluppo di un dialogo giuridico che attraversa tutta la storia e la geografia del diritto occidentale, con una continuità concettuale che, da sempre, ha favorito la comparazione e il trapianto di modelli argomentativi. Tra le molte testimonianze, piace ricordare anzitutto un saggio in cui Gerardo Broggini ricostruisce il dibattito romanistico sino alle soglie della codificazione e, tra l’altro, osserva come su questo tema la scienza giuridica europea abbia «mostrato in modo esemplare la sua profonda unità»[3]. Anche le trattazioni scientifiche dell’Italia repubblicana abbondano di riferimenti storici e comparati: non solo quelle seminali del 1970 che, per dare una forma compiuta al tema, naturalmente hanno guardato all’esperienza tedesca e statunitense; ma pure quelle più recenti[4].

Per questa via – in secondo luogo – la dottrina è arrivata a mettere radicalmente in discussione il concetto di retroattività. Più di dieci anni fa, in un lavoro già citato, Massimo Luciani ha sostenuto che il concetto non riesce, in alcuna delle sue varianti, a spiegare perché una barriera all’efficacia delle nuove leggi dovrebbe cadere in un momento o in altro della storia, spesso lunga e complicata, del rapporto tra fatto e norma. Ciò vale anche per la classica distinzione, di matrice germanica, tra retroattività propria e impropria: riferita, quest’ultima, a una riqualificazione di fatti passati con effetti solo ex nunc (ad esempio, modifica solo per il futuro di un rapporto giuridico stabilito nel passato e ancora pendente)[5]. Su note analoghe si è concluso un recente convegno: la nozione di retroattività è convenzionale e accomuna fenomeni eterogenei[6].

In terzo luogo, gli esiti dissolventi e spiazzanti di questa analisi sono compensati dal rilievo che – come osservato ancora da Luciani – il problema non è definire il fenomeno in astratto, ma capire come le singole leggi rivalutino (retro-valutino) fatti del passato, per poi raffrontare le relative conseguenze con le norme costituzionali di riferimento. Occorre, però, identificare queste norme. Anche a questo proposito, in assenza di dati positivi espliciti salvo che per la materia penale, le idee sono varie, e variamente combinate[7]: alcuni indicano principi non scritti come quelli di buona fede o neminem laedere; altri, principi fondamentali desumibili dagli artt. 1 (base fiduciaria del rapporto tra autorità e consociati), 2 (doveri di solidarietà, rispetto della dignità umana) o 3 (eguaglianza) Cost.; altri ancora, le singole disposizioni costituzionali protettive di determinati interessi individuali[8]; quest’ultimo approccio è presente nella giurisprudenza costituzionale, che peraltro oscilla tra esso e la considerazione dell’irretroattività come principio a sé stante, ricollegato al canone generale di ragionevolezza.

Comunque, un quarto punto è ormai assodato: la retroattività va letta come problema di iura (di diritti individuali) più che di lex (di teoria delle fonti); perciò richiede approcci sostanziali, piuttosto che formali, e soluzioni calibrate sulle singole situazioni, secondo i canoni generali limitativi del potere pubblico (ragionevolezza, proporzionalità, giustizia sostanziale, prevedibilità)[9]. È probabilmente questo il punto in cui si avverte maggiormente oggi, in Italia, l’influenza della Cedu. Ma già prima la dottrina aveva sollecitato una concretizzazione dell’analisi, a garanzia della separazione dei poteri e della sfera della giurisdizione, oltre che della tutela dei diritti[10].

Al successo di questa stessa dottrina – rafforzato dal contatto, anche qui, con il pragmatismo di Strasburgo – si deve la quinta e ultima annotazione, riguardante specificamente le leggi di interpretazione autentica. È ormai acquisito che esse non sono mera dichiarazione di una volontà normativa preesistente, ma vera e propria innovazione del diritto oggettivo[11]. La disposizione interpretata resta intatta, ma la disposizione interpretativa (ovviamente anch’essa da interpretare) incide comunque sulle valenze normative della prima, imponendo una di queste ed escludendo le altre. Insomma, la legge di interpretazione autentica è solo una variante tecnica della legge retroattiva; il suo scrutinio può presentare delle particolarità, solo se e quando gli fanno da sfondo dilemmi effettivi sul significato della disposizione interpretata, che possono impedire il consolidarsi di un valido affidamento.

2. Giurisprudenza europea

Anche nel sistema Cedu, nonostante l’assenza di norme convenzionali specifiche con riguardo alla materia civile, il principio di irretroattività si è affermato tramite la giurisprudenza: sulla base dell’art. 6 Cedu, norma fondamentale sulla difesa in giudizio, e dell’art. 1 del Protocollo n. 1 (art. P1-1), principio generale di tutela (del pacifico godimento) dei diritti entrati nel patrimonio di ciascun individuo (compresi i diritti di credito e le aspettative adeguatamente radicate nella legislazione, nella giurisprudenza o in atti ufficiali).

Questa giurisprudenza ha preso forma in due tipologie di casi. La prima è di minore interesse in questa sede, perché si riferisce a vicende epocali affrontate da alcuni degli Stati del Consiglio d’Europa, come le transizioni alla liberaldemocrazia dalla dittatura o dal socialismo, il ristoro delle spoliazioni subite e inflitte in tempo di guerra[12]. La seconda tipologia concerne casi, per così dire, più quotidiani e simili a quelli consueti oggi in Italia: interventi legislativi – interpretativi, di sanatoria, retroattivi in genere – volti a porre fine a contenziosi seriali tra i cittadini e lo Stato, o organismi pubblici, oppure anche, più raramente, istituzioni private[13].

I principi affermati in questo secondo ordine di pronunce, sulla base dell’art. 6 Cedu, si possono riassumere in questi termini: in materia civile, non è vietato al legislatore regolamentare, con nuove disposizioni retroattive, diritti risultanti da leggi in vigore; tuttavia, il principio della preminenza del diritto e il concetto di giusto processo ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all’ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine di influenzare l’esito di un determinato contenzioso giudiziario; le ragioni addotte per giustificare interventi siffatti devono essere assoggettate a uno scrutinio giudiziario particolarmente severo. Si tratta di una severità non solo affermata, ma realmente praticata, come è evidente dalle frequenti vittorie dei ricorrenti. La Corte europea non deflette da questo atteggiamento, nemmeno quando il legislatore interviene a fronte di reali incertezze giurisprudenziali: si tratta comunque di interferenze nel ruolo spettante, di norma, ai giudici e, in particolare, a quelli di nomofilachia[14].

Nondimeno, la portata dell’art. 6 Cedu non è illimitata: 1) non tocca alcuni settori che costituiscono, per così dire, il nucleo duro del diritto pubblico – come, ad esempio, i rapporti tributari –; 2) non riguarda interventi legislativi anteriori all’inizio del contenzioso e agli eventuali preliminari conciliativi, se obbligatori; 3) vieta le interferenze con i giudizi in corso e con l’esecuzione del giudicato, ma non modifiche successive della situazione giuridica affermata nel giudicato o estranee alla portata di esso[15].

Inoltre, anche all’interno della sfera di applicazione dell’art. 6 Cedu, non sono vietati gli interventi che frustrano bensì le iniziative giudiziarie dell’interessato, ma solo allo scopo di correggere errori tecnici in un quadro normativo sostanzialmente chiaro sin dall’inizio, o di colmare vere e proprie lacune. In casi simili, la Corte europea analizza puntigliosamente tempi e modi del singolo intervento correttivo, che ha tante più chance di passare l’esame quanto più esso risulta rapido (rispetto all’emersione dell’errore tecnico da emendare) e prevedibile in concreto[16].

L’art. P1-1 protegge qualsiasi diritto o aspettativa che trovi un fondamento adeguato nella legge nazionale[17] e prescinde dal fatto che essi siano stati azionati in giudizio. Tuttavia, tollera le incisioni sulle posizioni individuali che siano previste dalla legge, giustificate da ragioni di interesse pubblico e conformi a un equo bilanciamento tra tali ragioni e quelle individuali. In quest’ultima prospettiva – che di solito è quella critica – rilevano sia la misura dell’incisione sulla sfera individuale, sia le eventuali compensazioni; difficilmente può considerarsi proporzionata la soppressione completa di un diritto, senza alcun indennizzo, tipica di molti interventi interpretativi su contenziosi pendenti.

Incidentalmente, si deve osservare che principi simili valgono anche per le riforme organiche che restringano l’accesso ai trattamenti previdenziali o ne riducano la consistenza. Tuttavia, queste fattispecie non sono sovrapponibili a quella oggetto del presente contributo e, quindi, non possono essere adeguatamente considerate in questa sede. Ci si limita a rinviare, per un inquadramento generale, alla risposta che il Consiglio d Stato (Commissione speciale, 26 luglio-3 agosto 2018, n. 2016/2018, n. aff. 1043/2018) ha dato recentemente al secondo dei quesiti posti dal Senato della Repubblica in merito alle ipotesi di riforma dei vitalizi senatoriali, riguardante i profili di legittimità costituzionale e convenzionale delle ventilate revisioni peggiorative.

Riprendendo il filo del discorso dopo questa breve parentesi, sulla base dei principi predetti, a partire dai due casi fondamentali (Raffinerie greche Stran; Pressos Compania Naviera) e in altri successivi (si comparino, ad esempio, le sentenze 9 gennaio 2007, Aubert e altri 8 c. Francia e Arnolin e altri 24 c. Francia), l’art. P1-1 ha funzionato parallelamente all’art. 6 Cedu: la medesima situazione concreta portava ad affermare, o negare, la violazione di entrambi i parametri. Una divergenza si è affacciata nel caso Maggio: la legge aveva bensì interferito sia con i giudizi in corso sia con i diritti previdenziali ivi azionati (violando l’art. 6), ma in una misura, a giudizio della Corte, non sproporzionata (compatibile con l’art. P1-1). Perciò, furono liquidati a favore dei ricorrenti indennizzi limitati, inferiori alle somme rivendicate dinanzi ai giudici nazionali. Da qui ha preso avvio un filone che evidenzia le differenze tra i due ordini di garanzie e la minore rigidità della tutela offerta dall’art. P1-1. Per un riesame di questo indirizzo, si veda la sentenza Azienda agricola Silverfunghi Sas e altri c. Italia, del 24 giugno 2014 (in particolare, criticamente, l’opinione dissenziente ad essa allegata).

3. Giurisprudenza costituzionale

La giurisprudenza passata in rassegna resta quasi completamente trascurata in Italia, sino a quando la Grande Camera adotta la sentenza Scordino c. Italia (n. 1), del 29 marzo 2006 (sui temi qui in esame, cfr. §§ 109-110 e spec. 126-133), che a propria volta porta la Corte costituzionale a pronunciare le celebri sentenze gemelle del 2007 (nn. 348 e 349). Da allora, nella materia delle leggi retroattive e interpretative, i riferimenti alla giurisprudenza europea sono diventati una presenza costante nelle questioni di legittimità costituzionale, anche perché tradizionalmente a Palazzo della Consulta, in questa materia, è prevalso un atteggiamento di deferenza ben diverso da quello corrente a Strasburgo.

Sorvolando su questioni più specifiche, i pertinenti principi possono essere riassunti come segue (sulla falsariga delle sentenze nn. 170, 162 e 74 del 2008 e n. 234 del 2007). Fuori dalla materia penale, la legislazione con effetti retroattivi è legittima, salvo che si riveli irragionevole nel penalizzare uno degli interessi coinvolti, ivi compreso il legittimo affidamento dei singoli. L’affidamento è valutato, però, alla stregua di canoni di sindacato empirici, elastici e comprensivi nei confronti del legislatore. Più specificamente, la legge che si presenti come interpretazione autentica è legittima se corrisponde a una delle letture (astrattamente) possibili delle disposizioni interpretate, a prescindere dal fatto che essa sia la più plausibile, o quella unanime o più diffusa presso la giurisprudenza (che potrebbe anche essere uniforme in senso opposto). In altre parole, il difetto di completa univocità della disposizione interpretata impedisce che su di essa si coaguli l’affidamento. Se proprio la legge interpretativa è irriconciliabile con il tenore della legge (in ipotesi, falsamente) interpretata, ciò ancora non determina di per sé l’illegittimità costituzionale, ma apre la via al sindacato sulla ragionevolezza, potendo al massimo valere come indice presuntivo di irragionevolezza (sentenze nn. 73 del 2017, 103 del 2013 e 41 del 2011). Solo in casi limite l’illegittimità della legge retroattiva è stata accertata per interferenza con i giudizi in corso (cfr., ad esempio, sentenze nn. 267 del 2007 e 123 del 1987); né la ragione di incostituzionalità può consistere esclusivamente nel contrasto con il diritto vivente giurisprudenziale: nella lettura tradizionale della giurisprudenza costituzionale, legislazione e applicazione giurisdizionale si muovono su piani ontologicamente differenti. Una tenuta maggiore ha maturato, invece, il giudicato, quantomeno nel resistere agli interventi per via di interpretazione autentica (salvo, poi, capire cosa esattamente un determinato giudicato garantisca: si veda, ad esempio, la sentenza n. 214 del 2016).

Dunque, entrambe le Corti affrontano i problemi della retroattività sulla base non di specifiche norme positive, ma di categorie teoriche generali, e li impostano sotto forma di sindacato sulle ragioni della retroattività. Tuttavia, la Corte europea prescinde da considerazioni dogmatiche – anzitutto, dalla rigida distinzione tra legislazione e giurisprudenza tipica della tradizione italiana – e guarda principalmente alla sfera individuale e a come essa sia stata incisa in concreto, considerando come e con quali effetti, in pratica, queste incisioni siano avvenute; perciò, essa finisce per dimostrarsi più severa. Secondo una attenta lettura, non si tratterebbe nemmeno di un sindacato sul bilanciamento, ma – piuttosto – dell’affermazione di un rigido divieto di interferenze legislative imprevedibili nei giudizi in corso[18]. Al contrario, la Corte costituzionale rispetta la discrezionalità del legislatore e, soprattutto, distingue in astratto la differenza tra il ruolo di quest’ultimo e quello del giudice: legge e giudizio si muovono su piani distinti; le interferenze tra essi sono quasi inconcepibili; nel proprio ambito, il legislatore è naturalmente chiamato a bilanciare una pluralità di interessi confliggenti; la conseguente discrezionalità e responsabilità politica può esprimersi pure lungo la dimensione temporale e, quindi, anche per il passato, con il solo e solito limite della ragionevolezza.

4. Un dialogo difficile

Le due impostazioni sono venute a confrontarsi direttamente, mettendo a fuoco le proprie divergenze, nei due casi citati in esordio, tra il 2009 e il 2012.

Con la sentenza n. 311 del 2009 la Corte costituzionale si è misurata direttamente, per la prima volta, con la posizione europea. Nel 2007, la norma di legge in questione era scampata alle censure di legittimità costituzionale attraverso una prima decisione, basata sulla giurisprudenza tradizionale. Tornando a pronunciarsi sulla stessa norma nel 2009, la Corte costituzionale fa un uso «manipolativo»[19] della giurisprudenza di Strasburgo: ne enfatizza i punti di contatto con la propria, quasi che non ci fossero divergenze e, così, nega la violazione dell’art. 6 Cedu con gli stessi argomenti spesi nel 2007. Questa strategia prosegue negli anni successivi in altri casi (ad esempio, nella sentenza n. 1 del 2011), ma, quando la parola passa alla Corte europea, quest’ultima, con la sentenza Agrati, conferma il proprio rigore: accerta la violazione dell’art. 6 Cedu senza incertezze né particolare riguardo per gli argomenti della Corte costituzionale. La decisione è unanime; la richiesta di rinvio alla Grande Camera viene respinta, evidentemente sul presupposto che la questione fosse scontata; la posizione viene ribadita in altri casi riguardanti norme interpretative (ad esempio, nelle sentenze Arras e altri c. Italia, del 14 febbraio 2012 e, poi, Natale e altri c. Italia nonché Casacchia e altri c. Italia, del 15 ottobre 2013).

D’altra parte, poco prima, la stessa posizione era stata affermata nella questione delle cd. “pensioni svizzere” (sentenza Maggio). Quando, successivamente, la medesima questione arriva ai giudici di Palazzo della Consulta, essi non possono proseguire nella strategia precedente e negare che l’art. 6 Cedu sia stato violato. Forse si sarebbe potuto valorizzare di più il diverso esito, a Strasburgo, delle doglianze ex art. P1-1; invece, la Corte costituzionale attribuisce a questa circostanza un ruolo secondario e decide di motivare il rigetto della questione principalmente con impegnative tesi generali: il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie nazionali ed europee «deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma Cedu sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali»; quando, però, una massima europea collide con una garanzia costituzionale, e anche quando a tutela di un diritto convenzionale riduce oltre il ragionevole – secondo l’apprezzamento della Corte costituzionale – la tutela di un diritto o principio costituzionale, quella massima non può fungere da parametro del giudizio di legittimità costituzionale, interposto rispetto all’art. 117, comma 1, Cost[20]. Nella sentenza n. 264, gli antagonisti del principio di diritto europeo sono la «razionalità complessiva» del sistema previdenziale, il «vincolo imposto dall’articolo 81, quarto comma, della Costituzione», i principi di eguaglianza e solidarietà; la necessità di «evitare sperequazioni e (…) rendere sostenibile l’equilibrio del sistema previdenziale» per garantire «coloro che usufruiscono delle sue prestazioni».

A questo punto il contrasto è conclamato. In seguito, la Corte di Strasburgo ha continuato a pronunciarsi sui ricorsi dei pensionati svizzeri (sentenze Biraghi e altri c. Italia, e Cataldo e altri c. Italia, del 24 giugno 2014) e in una di queste sentenze (Stefanetti e altri c. Italia, 15 aprile 2014) ha affermato anche la violazione dell’art. P1-1 (oltre a quella dell’art. 6 Cedu) per la misura particolarmente incisiva della falcidia in relazione agli specifici ricorrenti. La Cassazione ha riportato la questione alla cognizione del giudice costituzionale che, nella sentenza n. 166 del 2017, l’ha nuovamente rigettata: ma per inammissibilità, sottolineando alcune importanti differenze tra la propria posizione e quella del giudice europeo. Quest’ultimo può considerare le situazioni individuali, per concludere che sui singoli ricorrenti era stato caricato un onere eccessivo e per calibrare gli indennizzi; invece, nel giudizio costituzionale, un esito di accoglimento richiederebbe di stabilire limiti generali alla riducibilità delle pensioni, il che, però, avrebbe implicato scelte riservate al legislatore (al quale è stato indirizzato, comunque, un monito).

Resta da dire che, nella vicenda del personale ATA, è intervenuta anche la Corte di giustizia Ue. Tra l’altro, le era stato chiesto se la norma interpretativa italiana non violasse il principio del giusto processo in veste comunitaria (art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, omologo dell’art. 6 Cedu) e meritasse, per ciò solo, di essere disapplicata. Disattendendo le conclusioni dell’avvocato generale, la Corte di giustizia (nella sentenza Scattolon, già citata in nota) ha trovato un modo per eludere questo interrogativo. Almeno in astratto, però, esso potrebbe riproporsi in relazione a norme nazionali analoghe, che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto Ue[21].

Nel prosieguo, la Corte di Strasburgo non ha modificato il proprio atteggiamento rigoroso: lo ha confermato a proposito di contenziosi seriali già menzionati (riguardanti il personale scolastico e quello bancario) e anche in altre fattispecie, non prive di qualche interesse[22]. La Corte costituzionale, invece, ha assunto un atteggiamento più ondivago: qualche volta, continua a ripiegare sugli indirizzi tradizionali (ad esempio, sentenze nn. 132 del 2016, 127 del 2015, 227 e 156 del 2014), sia pure con sfumature di maggiore realismo nelle argomentazioni (sentenza n. 15 del 2012). Più spesso, però, si mostra più severa nel valutare ragioni ed effetti degli interventi interpretativi o retroattivi (sentenze nn. 260 del 2015, 191 del 2014, 308, 170 e 92 del 2013, 78 del 2012), talora con annullamenti limitati all’efficacia per il passato delle norme in questione (sentenze nn. 267 e 147 del 2017, 108 del 2016). Più rispettoso della discrezionalità legislativa è rimasto, invece, il sindacato su leggi che modifichino solo per il futuro rapporti di durata, frustrando l’affidamento degli operatori economici ed esponendoli a ciò che la Corte stessa ha chiamato «rischio normativo di impresa»[23].

La tendenza al maggior rigore sembra confermata dall’ultima battuta del dialogo, la sentenza n. 12 del 2018: è stata salutata come una felice recezione, da parte della Corte costituzionale, dello scrutinio europeo (indiziario, induttivo, basato sui tempi e sui modi di approvazione della legge, anche attraverso i lavori preparatori), capace di svelare come la norma interpretativa in questione servisse a influenzare un preciso contenzioso pendente. Resta, però, il dubbio di quanto abbia influito, in tutto ciò, la consistenza tutto sommato esigua della posta in gioco per le casse pubbliche[24].

5. Conclusioni provvisorie

Si è verificato, dunque, un disallineamento tra Corte Edu e Corte costituzionale[25]. Ciò determina una situazione eccezionale e problematica, ma non drammatica: il dissenso può essere riassorbito, purché il problema sia inquadrato correttamente, anche in termini di diritto costituzionale; lascia ben sperare l’assenza di condanne nuove nel periodo più recente[26].

Già da tempo chi scrive[27] ha preso posizione a favore della svolta che sembra in corso nella giurisprudenza costituzionale. Non si tratta di contestare in linea di principio la legittimità delle leggi retroattive o interpretative; né di negare che esse possano svolgere una funzione apprezzabile, come strumenti di correzione degli errori legislativi, meglio se tempestive e modulate sul piano delle norme transitorie. Nemmeno si deve ritenere che il modello di bilanciamento debba essere necessariamente quello di Strasburgo: ben può sostenersi che più articolato è il quadro dei principi affidati in Italia, anzitutto, alla cura politica del legislatore e, poi, alla garanzia della giustizia costituzionale. Quest’ultima, comunque, è soggetta a condizionamenti operativi diversi da quelli che valgono in sede europea: giudicare norme generali, per annullarle o manipolarle, non è lo stesso che pronunciarsi su casi individuali, eventualmente per liquidare indennizzi.

Bisogna però abbandonare la raffigurazione, tradizionale nella giurisprudenza costituzionale, di un legislatore isolato, in una condizione di distacco quasi olimpico, dalle vicissitudini giudiziali. L’assioma che gli interventi legislativi scorrano su un piano distinto da quello della tutela giudiziaria dei diritti, e che non possano praticamente mai interferire con essa, non è accettabile. Esso, sul piano dogmatico, schematizza eccessivamente le interazioni tra legislazione e giurisprudenza; sul piano assiologico, sacrifica l’affidamento dei consociati a beneficio di interventi legislativi maldestri, o di obiettivi di mero risparmio. È preferibile lo stile realistico tipico di Strasburgo, che analizza approfonditamente ciascun intervento, nella sua dimensione concreta.

Quindi, occorrerà anzitutto ricostruire puntualmente la situazione normativa e la sua evoluzione: le vicende legislative e giurisprudenziali sulle quali incide un intervento interpretativo o retroattivo; l’iter legislativo di quest’ultimo e i lavori preparatori; gli effetti sulla sfera soggettiva degli interessati e sulla singola controversia e anche, se possibile (magari con l’ausilio dei lavori preparatori o delle informazioni a disposizione delle parti, se si tratta di soggetti istituzionali, organizzazioni sindacali o imprenditoriali etc.), sul contenzioso complessivo, pure in relazione ai pertinenti equilibri economici e finanziari; gli eventuali indici di prevedibilità dell’intervento, desumibili anche da attività o comunicazioni pubbliche pure se estranee ai lavori preparatori in senso stretto (ad esempio, dichiarazioni ufficiali di esponenti governativi). Qui troverà spazio, tra l’altro, la verifica tipicamente richiesta dalle leggi di interpretazione autentica: se esisteva una vera incertezza ermeneutica; se essa non era stata ancora risolta, al momento dell’intervento legislativo; se quest’ultimo si sia inserito nel quadro normativo armonicamente, oppure in termini arbitrari e, per questo, imprevedibili. Qui potrà trovare spazio, inoltre, la tassonomia dei vari tipi di retroattività (ad esempio, propria o impropria), ma solo allo scopo di puntualizzare gli effetti dell’intervento in esame sulle situazioni giuridiche soggettive e sui contenziosi di cui esse sono oggetto.

Ricostruito il quadro, si dovrà poi procedere alla ricognizione degli interessi coinvolti e alla valutazione del loro contemperamento. Si dovrà tenere presente anche il rilievo costituzionale degli interessi individuali toccati dall’intervento legislativo: ciò in relazione alle condotte sia passate, oggetto di rivalutazione, sia future, sulle quali incidono gli effetti dell’intervento in esame. In questa prospettiva, bisognerà considerare la differenza tra una finalità generica di contenimento della spesa, da un lato, e, dall’altro, esigenze più consistenti, come quelle – purché documentate – di evitare squilibri gravi e potenzialmente esiziali per determinati ambiti di attività economica (pubblica o privata). Questa potrebbe anche essere la sede per valutare una peculiare problematica tecnica delle leggi italiane: esse, se – anche per come sono interpretate e applicate – prive di copertura adeguata (da valutare alla luce dell’art. 81, comma 3, Cost. e dell’art. 17 della l. n. 196/2009, che ne costituisce puntualizzazione tecnica: cfr., ad esempio, sentenza n. 5 del 2018), sono incostituzionali, con quanto ne consegue circa la necessità di interventi correttivi e il dubbio se su di esse potesse formarsi un legittimo affidamento. Inoltre, si dovranno ponderare la misura del sacrificio imposto agli interessi individuali (permanente o temporaneo, parziale o totale etc.) e le eventuali compensazioni attribuite.

Dunque, alle parti e al giudice a quo è richiesta, per impostare la questione di legittimità costituzionale, quantomeno in termini di non manifesta infondatezza, una investigazione impegnativa: giuridica, ma anche storica e, probabilmente, economica e quantitativa. Ovviamente, la Corte costituzionale potrà poi arricchire ulteriormente l’indagine, con modi ed entro limiti che qui non è possibile approfondire.

La valutazione può risultare più semplice se esiste un precedente specifico di Strasburgo, oppure se un caso nuovo collima con i principi consolidati sulla base della Cedu. Occorre, però, verificare se le conclusioni raggiunte in sede europea siano compatibili con la Carta fondamentale, anche sotto il profilo del bilanciamento con altri diritti o principi costituzionali. Anche questo interrogativo è decisivo per la fondatezza della (eccezione o) questione: pertanto, il giudice civile non può esimersi dall’approfondirlo, anche nei risvolti economici e finanziari. Tuttavia, sembra condivisibile la prudenza di chi ritiene che, a maggior ragione in questi casi, il giudice civile debba coinvolgere la Corte costituzionale[28], e non risolvere direttamente la questione, arrestandola con una declaratoria di manifesta infondatezza.

Si è già ricordato che, in parallelo alla Cedu (art. 6 e art. P1-1), potrebbe essere invocato il diritto Ue, nel suo ambito di applicazione: in particolare, i principi ora codificati anche nella Carta dei diritti fondamentali (rispettivamente, artt. 47 e 17). Dato il tendenziale parallelismo tra questi principi e quelli costituzionali, in situazioni simili dovrebbe valere quanto ritenuto dalla Corte costituzionale nella recente e discussa sentenza n. 269 del 2017: dovrebbe essere sollevata con priorità la questione di legittimità costituzionale, in modo che i giudici delle leggi abbiano la possibilità di entrare subito nella discussione, che potrà poi anche proseguire in Lussemburgo. In realtà, la sentenza n. 269 ha suscitato un dibattito acceso, che qui non è possibile riportare e del quale occorrerà attendere gli sviluppi. Tuttavia, il genere di casi oggi in esame sollecita una considerazione: anche nei rapporti con la Corte di giustizia, come con la Corte di Strasburgo, è forse preferibile che sia coinvolta immediatamente la Corte costituzionale, perché l’indagine richiesta, nei vari profili sopra lumeggiati, è complessa e delicata e, dunque, è opportuno che avvenga subito con il massimo grado di approfondimento e autorevolezza.

[1] Intervista di D. Tega, Corte di Strasburgo e Stati: dialoghi non sempre facili, in Quad. cost., 2014, p. 469. E infatti il tema è segnalato anche da F. De Stefano, Le principali decisioni della Corte in materia civile verso l’Italia, in questo volume, cap. n. 38.

[2] Il primo contenzioso è culminato nelle sentenze Corte cost., n. 311 del 2009; Corte Edu, Agrati e altri c. Italia, 7 giugno 2011, (e in altri casi successivi, sino alla sentenza Caligiuri e altri c. Italia, 9 settembre 2014); Cgue, Scattolon c. MIUR, C-108/10, 6 settembre 2011. A proposito delle pensioni svizzere, i punti di riferimento principali sono due coppie di sentenze europee e costituzionali: Corte Edu, Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011, e Corte cost., n. 264 del 2012; poi Corte Edu, Stefanetti e altri c. Italia, 15 aprile 2014 (ma vds. anche le due sentenze Corte Edu, Biraghi e altri c. Italia e Cataldo e altri c. Italia, 24 giugno 2014); Corte cost., n. 166 del 2017. Il valore paradigmatico di queste vicende, almeno sul piano teorico, è testimoniato dalla loro analisi in A. Di Stasi (a cura di), CEDU e ordinamento italiano, Wolters Kluwer-Cedam, Assago-Padova, 2016: ibid., cfr. M.J. Vaccaro, Il contenzioso relativo al personale ATA, pp. 447 ss. – scettica, però (pp. 468 ss.), sulla consistenza dei risultati di garanzia concretamente raggiunti dai lavoratori, alla luce del seguito della sentenza Scattolon – e L. Ioele, Il contenzioso in tema di pensioni dei lavoratori italiani in Svizzera, in CEDU e ordinamento italiano, pp. 475 ss.

[3] La retroattività della legge in prospettiva romanistica, in Id., Coniectanea, Giuffrè, Milano, 1966, p. 408.

[4] Si vedano F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Giuffrè, Milano, 1970, poi riedito in Id., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “Trenta” all’“alternanza”, Giuffrè, Milano, 2001 (da cui si cita), pp. 3, 20 ss., 41, ma passim; e G. Grottanelli De’ Santi, Profili costituzionali della irretroattività delle leggi, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 27 ss., 42, ma passim. Poi, gli ampi riferimenti di M. Luciani, Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, in Giur. it., 2007, 1825 ss. e 2089 ss. – nonché in G. Cocco (a cura di), L’economia e la legge, Giuffrè, Milano, 2007, pp. 1 ss. –, ma anche la comparazione con il diritto canonico in A. Pugiotto, La legge interpretativa e i suoi giudici. Strategie argomentative e rimedi giurisdizionali, Giuffrè, Milano, 2003 (cap. I, par. 3, pp. 41 ss.). Per una recente trattazione comparatistica, L. De Grazia, La retroattività possibile, Maggioli, Santarcangelo di Romagna (RN), 2016.

[5] Vds. su questo L. Nivarra, La retroattività della legge civile, in Europa e diritto privato, 2017, pp. 1229 ss. (in una trattazione orientata, in generale, su posizioni analoghe a quelle di Luciani e, per quanto riguarda l’interpretazione autentica, a quelle di Pugiotto, di cui oltre).

[6] Cfr. D. De Pretis, Osservazioni conclusive, in C. Padula (a cura di), Le leggi retroattive nei diversi rami dell’ordinamento, atti del convegno di Treviso, 18 novembre 2016, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pp. 243-244.

[7] Per una panoramica, F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza costituzionale, in Gruppo di Pisa (GdP), 18 settembre 2014, pp. 7 ss., disponibile online (www.gruppodipisa.it/images/rivista/pdf/Fabio_Francesco_Pagano_-_Il_principio_di_affidamento_nella_giurisprudenza_nazionale_e_sovranazionale.pdf).

[8] È il classico approccio di G. Grottanelli De’ Santi, Profili costituzionali, op. cit. Viene messo in discussione soprattutto da chi (ad esempio, P. Carnevale e G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge fra garanzia costituzionale e salvaguardia costituzionale, in Costituzionalismo.it, n. 1/2014, par. 2, disponibile online, (www.costituzionalismo.it/articoli/479/) teme che la tutela si parcellizzi e frantumi, riducendosi ai soli ambiti costituzionalizzati.

[9] D. De Pretis, Osservazioni conclusive, op. cit., p. 249. Cfr. anche, in precedenza, N. Zanon, Principio di unità dell’ordinamento e retroattività irragionevole della legge regionale, in Giur. it., 1992, I, p. 25.

[10] È la nota proposta di A. Pugiotto (unita a quella di contestare le leggi di interpretazione autentica attraverso conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato) in vari saggi, da La legge interpretativa, op. cit., pp. 310 ss., a Il principio d’irretroattività preso sul serio, in C. Padula (a cura di), Le leggi retroattive, op. cit., pp. 16-18. Vi è anche chi guarda con preoccupazione alla «torsione giurisdizionalista» che il principio può ricevere (P. Carnevale e G. Pistorio, op. cit., par. 4).

[11] Cfr., da ultimo, F. Pani, Prime note per uno studio sul principio di legittimo affidamento nel diritto pubblico: una nuova frontiera per l’ipotesi di mutamenti giurisprudenziali imprevedibili, in Rivista AIC, n. 3/2018, p. 12 (www.rivistaaic.it/images/rivista/pdf/3_2018_Pani.pdf).

[12] Su questa giurisprudenza si sorvola, se non per ricordare che al primo filone appartiene uno dei due casi fondamentali: la sentenza 9 dicembre 1994, Raffinerie greche Stran e Stratis Andreadis c. Grecia, 9 dicembre 1994.

[13] Tra le prime pronunce, l’altra sentenza fondamentale, Pressos Compania Naviera SA e altri c. Belgio, 20 novembre 1995; poi, le sentenze sul caso delle building societies (The National & Provincial Building Society, the Leeds Permanent Building Society e the Yorkshire Building Society c. Regno Unito, 23 novembre 1997) nonché Zielinski e Pradal e Gonzalez e altri c. Francia, 28 ottobre 1999 (il primo caso, per quanto consta, di ambito propriamente lavoristico). Esempi di pronunce riguardanti liti tra privati (concernenti, in particolare, banche) si possono trovare nella serie di decisioni su vicende transalpine inaugurata dalla sentenza Lecarpentier e altro c. Francia, 14 febbraio 2006.

[14] Si veda, in particolare, la sentenza Zielinski, cit., § 59; ma si considerino anche i casi decisi dalle sentenze Agoudimos e Cefallonian Sky Shipping Co. c. Grecia, 28 giugno 2001, e Smokovitis c. Grecia, 11 aprile 2002. Sui conflitti di giurisprudenza e sul ruolo della nomofilachia nel sistema convenzionale, si veda F. De Stefano, Contrasti di giurisprudenza, leggi interpretative, legittima aspettativa, in questo volume, cap. 66.

[15] Ad esempio, cfr., per quanto sub 1), SCI Parc de Vallauris c. Francia, 9 dicembre 2008, e Joubert c. Francia, 23 luglio 2009 (peraltro, il già citato caso delle building societies riguarda una disputa restitutoria, basata sul pagamento di una determinata imposta, cfr. sp. §§ 97-98). Per quanto sub 2), Organisation nationale des Syndicats d’Infirmiers Libéraux (ONSIL) c. Francia, 29 agosto 2009, e SCM Scanner de l’Ouest Lyonnais e altri c. Francia, 21 giugno 2007. Per quanto sub 3), Preda e Dardari c. Italia, 23 febbraio 1995, e Stella e Fédération Nationale des Familles de France c. Francia, 18 giugno 2002; Gorraiz Lizarraga e altri c. Spagna, 27 aprile 2004 (con particolare riguardo al rapporto tra giudicato amministrativo e mutamenti della legislazione in materia di pianificazione territoriale e ambientale); più di recente, M.C. e altri c. Italia, 3 settembre 2013, § 52 (nel § 53 si aggiunge che, finché il giudizio è pendente, una lesione dell’art. 6 non può ritenersi consumata).

[16] Si vedano il caso delle building societies, già citato, nonché la sentenza OGIS-Institut Saint Stanislas, OGEC St. Pie X et Blanche de Castille e altri c. Francia, 27 maggio 2004; la decisione EEG-Slachthuis Verbist c. Belgio, 10 novembre 2005; la sentenza Tarbuk c. Croazia, 11 dicembre 2012.

[17] Nozione, quest’ultima, da intendere nel significato ampio tipico di Strasburgo, relativamente indifferente alla distinzione tra legge e giurisprudenza: cfr. F.F. Pagano, Il principio di affidamento, op. cit., 16; in questo volume, F. De Stefano, Contrasti di giurisprudenza, op. cit., parr. 2-3. Sulla nozione di «bene» si vedano anche i riferimenti in Id., Le principali decisioni, op. cit., ibid., parr. 2-3.

[18] Così M. Bignami, La Corte EDU e le leggi retroattive, in C. Padula (a cura di), Le leggi retroattive, op. cit. (da cui si cita, ma anche in questa Rivista on line del 13/09/2017, www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-e-le-leggi-retroattive_13-09-2017.php), pp. 54 e 67-71. Questa conclusione andrebbe, però, misurata anche con la maggiore elasticità dell’art. P1-1, venuta maggiormente in luce negli ultimi anni.

[19] P. Carnevale e G. Pistorio, Il principio di tutela, op. cit., par. 5.

[20] A. Valentino, Ancora sulle leggi d’interpretazione autentica: il contrasto tra Corte di Strasburgo e Corte costituzionale sulle cc.dd. “pensioni svizzere”, in Osservatorio AIC, settembre 2013, pp. 18-19 (www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Nota%20Valentino.pdf), sottolinea che, però, la Corte costituzionale non ha annullato, previa auto-rimessione, la legge di esecuzione della Cedu nella parte in cui prevede la massima giudicata incostituzionale. È un atteggiamento di cautela apprezzabile, che lascia però allignare una certa qual contraddizione nell’ordinamento interno.

[21] Sulla tutela del legittimo affidamento come principio generale limitativo delle norme retroattive anche nel diritto Ue, cfr., da ultimo, S. Bastianon, La Corte di giustizia e le fonti retroattive, in C. Padula (a cura di), Le leggi retroattive, op. cit., spec. pp. 33-41 (e, ibid., ulteriori riferimenti, anche a S. Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2012).

[22] Ad esempio, la già citata sentenza Silverfunghi (notevole sotto più profili: il caso era stato esaminato anche dalla Corte costituzionale; l’analisi europea è particolarmente concreta e dettagliata; l’opinione dissenziente critica severamente la prassi legislativa italiana; l’esito è confermato dalle successive sentenze indicate in F. De Stefano, Le principali decisioni, op. cit., § 7); nonché la sentenza Guadagno e altri c. Italia, 1° luglio 2014 (in cui, sorprendentemente, assumono la veste di vittime alcuni consiglieri di Stato, che lamentavano il mancato accesso al cd. “galleggiamento retributivo”).

[23] L’espressione si trova nella sentenza n. 16 del 2017 (ma cfr. anche la sentenza n. 236 del 2016). Si veda, in argomento, la discussione sulle norme conformative di attività economiche private, quando esse incidano sull’affidamento di imprese e investitori, di Daria De Pretis con Luca Colombo, Aldo Travi e Mauro Renna in La Corte costituzionale e l’economia, a cura di chi scrive, Vita & Pensiero, Milano, 2019. Solo parzialmente connesso è il tema dell’efficacia immediata della nuova normativa rispetto ad assetti contrattuali prestabiliti: ad esempio, in tema di disciplina dell’arbitrato e clausole compromissorie preesistenti, si vedano, con diversità di prospettive, le sentenze nn. 13 del 2018 e 108 del 2015; si veda, su questo tema (ma nel contesto di una disamina più ampia) A. Giuliani, Retroattività e diritti quesiti nel diritto civile, in Le leggi retroattive, op. cit., pp. 118-122.

[24] Cfr. i commenti di A. Pugiotto, Retroattività legislativa e materia civile: Corte Costituzionale e Corte EDU parlano la stessa lingua?, in Osservatorio costituzionale AIC, n. 2/2018, n. 2 (www.osservatorioaic.it/images/rivista/pdf/Pugiotto%20definitivo.pdf) e di C. Di Martino, Leggi retroattive di contenimento della spesa pubblica e giusto processo (a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 12 del 2018), in Consulta online, n. 1/2018, pp. 318 ss. (in estratto: www.giurcost.org/studi/dimartino.pdf).

[25] R. Rordorf, Diritti fondamentali, leggi interpretative e leggi retroattive nel dialogo fra Corti supreme europee, in Foro it., 2017, V, pp. 95 ss.

[26] Così G. Bronzini, I limiti alla retroattività della legge civile tra ordinamento interno ed ordinamento convenzionale: dal “disallineamento” al dialogo, in Aa. Vv., Dialogando sui diritti. Corte di cassazione e CEDU, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, pp. 120-122 e 139. Dello stesso Autore, cfr. Limiti alla retroattività della legge civile, Key, Vicalvi (FR), 2016.

[27] In una serie di saggi e note a sentenza da Le leggi retroattive sfavorevoli nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in U. Breccia e A. Pizzorusso (a cura di) e, successivamente F. Dal Canto (a cura di), La responsabilità dello StatoAtti del seminario congiunto del Dottorato di diritto privato e del Dottorato di giustizia costituzionale e diritti fondamentali dell’Università di Pisa (21 ottobre 2005), Plus, Pisa, 2006, pp. 133 ss., sino a Giusto processo e dinamica delle norme nel tempo: l’art. 6 CEDU e le leggi retroattive, in G. Bombelli0 – L. Ferla – P. Mastrolia (a cura di), Quaestiones iuris. Contributi del seminario permanente dei ricercatori del Dipartimento di Scienze giuridiche, vol. I, Jovene, Napoli, 2018, pp. 225 ss.

[28] G. Amoroso, Corte di cassazione e tutela dei diritti fondamentali nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in E. Falletti e V. Piccone (a cura di), Il filo delle tutele nel dedalo d’Europa, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, pp. 177-178; G. Bronzini, I limiti alla retroattività, op. cit., pp. 137 ss.