Magistratura democratica

Nove anni come giudice italiano a Strasburgo

di Vladimiro Zagrebelsky
L’autore ripercorre alcuni aspetti del lavoro della Corte europea mettendo in evidenza differenze metodologiche rispetto a quello di un giudice nazionale di civil law, e menziona caratteristiche strutturali della Corte e specificità della sua giurisprudenza, segnalando tendenze negative rispetto sia al ruolo unificante sul piano europeo che dovrebbe esser proprio della Corte, sia rispetto alla crisi di efficacia rispetto al sistema del ricorso individuale per la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali.

1. Dopo la conclusione (2010) del mio mandato di giudice alla Corte europea dei diritti umani mi è stato più volte richiesto di esprimermi su quella che resta, per un magistrato dell’Ordine giudiziario italiano, una straordinaria esperienza. Straordinaria per il ruolo svolto e per il contesto di lavoro caratterizzato dalla composizione della Corte (giudici, avvocati, docenti di materie giuridiche di differente origine). Ma anche straordinaria per la rivoluzione culturale imposta a un giudice di civil law (penalista, in più!) proiettato in un mondo di concetti giuridici e di metodo di decisione delle cause profondamente diverso. Soprattutto sul piano dell’esperienza professionale personale, ciò che più conta è il drastico mutamento di metodo di lavoro, cui deve subito adattarsi il giudice italiano che assuma le funzioni di giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di modificare l’atteggiamento professionale proprio di chi è un “prodotto” della cultura giuridica di un sistema di civil law, verso quello che molto assomiglia al metodo e alla cultura dei giudici di common law.

Quanto al metodo, basti dire che l’interpretazione della Convenzione (e delle sue vaghe formule, cariche di elementi di valutazione) e la risposta ai quesiti posti dai singoli ricorsi passano per il richiamo ai precedenti tratti dalla giurisprudenza della Corte: precedenti che sono in linea di fatto vincolanti (salvo mutamento, come esito della eccezionale procedura della Grande Camera) e rispetto ai quali i giudici operano con il metodo del distinguishing, cercando gli elementi del fatto che consentano (o invece impediscano) di giungere a una conclusione diversa da quella indicata dai precedenti relativi a ricorsi analoghi. Il metodo del precedente, nel quadro di una giurisprudenza casistica, è forse la maggior ragione della forte torsione professionale cui è sottoposto un giudice italiano quando inizia il suo lavoro alla Corte europea dei diritti dell’uomo. A ciò si aggiunge come aspetto autonomo, ma anche collegato al primo ora accennato, lo straordinario interesse che deriva dal fatto che le camere di consiglio della Corte europea vedono seduti accanto, e impegnati a definire il contenuto della decisione, giudici che hanno alle spalle esperienze personali diverse e ordinamenti giuridici e società diversi. Da ciò deriva la ricchezza della discussione e del confronto nelle camere di consiglio, quando si tratti di discutere questioni nuove e delicate.

 

2. Superata la fatica dell’adattamento, ho maturato la convinzione che alcuni fondamentali concetti e profili di metodo che caratterizzano il lavoro della Corte europea sono più utili, in vista di decisioni di giustizia, di altri che continuano a essere (proclamati e insegnati come) pilastri identitari e garantistici dell’ordinamento giuridico italiano. Cercherò di mettere in luce taluni aspetti del lavoro alla Corte che mi paiono condurre a questa conclusione. Una prima precisazione, però, mi pare utile. Essa si riferisce al titolo dato a questo testo, che fa riferimento a un «giudice italiano». L’essere il «giudice nazionale» italiano non mi pare che abbia inciso in modo significativo, nel senso di differenziare il mio lavoro da quello degli altri colleghi. Su un punto preliminare ed essenziale, voglio dire che io ho potuto svolgere il mio lavoro in totale indipendenza, senza subire alcuna forma di pressione, richiesta, influenza da parte governativa italiana (il mio mandato si è svolto in un tempo che ha visto più governi susseguirsi, di diverso colore). Ciò non significa che le posizioni che ho assunto siano rimaste per me senza conseguenze e reazioni in Italia.

Nell’esperienza che ho vissuto – con i colleghi giudici in servizio alla Corte nel periodo 2001-2010 – ho visto manifestarsi il carattere e la cultura di ciascun giudice, molto più che la sua origine nazionale. Pur con i vincoli derivanti dal valore del precedente nella giurisprudenza della Corte, i margini che rimangono aperti alla valutazione individuale del giudice nella decisione della causa sono ampi. Basti pensare al criterio della «proporzione» dell’interferenza statale nel caso concreto. La proporzione, molto più che la legalità astratta, è il fondamentale carattere della ricerca della Corte ai fini della decisione del caso, insieme al peso dato a ciascun diritto o libertà quando più di uno entri in concorrenza nel caso concreto. Questo mi pare essere il motivo che distingue (separa) il giudizio della Corte europea da quello che è (o pretende di essere) il modello della sentenza del giudice di civil law.

Ed è negli spazi aperti alla valutazione di proporzione e bilanciamento che emerge l’inclinazione personale del singolo giudice. In proposito – in questi tempi bui – posso segnalare un fatto di rilevante e positiva importanza. Si tratta delle sintonie che si instaurano tra giudici diversi nelle diverse materie, indipendentemente dall’origine nazionale o professionale e anche dall’orientamento politico dei governi che li hanno inseriti nella lista dei candidati. Alle sintonie tra taluni giudici corrispondono, evidentemente, anche le distonie che si ripresentano frequentemente con altri. Esse riflettono le comunanze o le diversità degli orientamenti culturali rilevanti nella decisione di un caso o dell’altro. Per chi attribuisce valore all’Europa – perfino quella dei 47 Paesi – è una buona notizia. L’Europa esiste sul terreno dei diritti umani. Essa non è monolitica, ma per fortuna pluralista. Le differenze di orientamento esistono e sono anche profonde, ma si manifestano in modi simili in ciascuno dei Paesi europei. In linea di principio e spesso nella realtà, ciascun giudice europeo si orienta senza considerare le frontiere che dividono l’Europa. L’orientamento di ciascuno produce “appartenenze” che non hanno carattere nazionale.

 

3. Vengo ora al «giudice nazionale». Furono i governi, nel corso dei lavori preparatori della Convenzione, a imporre la composizione della Corte con un giudice per ciascuno Stato parte della Convenzione. Si trattava, per i governi, di riprodurre nella Corte la struttura degli organismi del Consiglio d’Europa e in genere delle organizzazioni internazionali, in cui ogni Stato ha il suo rappresentante. Risultò perdente, invece, la proposta avanzata dalla Commissione che redasse il progetto e che indicava un numero fisso di giudici (nove), indipendente e minore di quello degli Stati parte. Era evidentemente un modo per sottolineare la differenza che esiste tra un organo giudiziario indipendente, composto da giudici indipendenti, e gli organismi politico-amministrativi internazionali in cui ogni Stato ha un suo rappresentante, voce del governo. La riproduzione, nella formazione della Corte, dello schema degli Enti internazionali riflette la difficoltà che i governi, che pur stavano istituendo (e accettando) una Corte, avevano a trarre le conseguenze della scelta fatta. I giudici, però, sono indipendenti e partecipano ai lavori della Corte a titolo individuale, non di rappresentanti del Paese a titolo del quale sono stati eletti. Essi sono chiamati a esprimersi liberamente.

Nella logica dei governi, che prevalse al momento della redazione della Convenzione, questa prevede che il giudice “eletto a titolo” di uno Stato che è parte nel giudizio sia obbligatoriamente membro del collegio giudicante. Si tratta di un’anomalia, poiché semmai la regola dovrebbe essere inversa. Ma si ritiene che, in tal modo, nella discussione e deliberazione collegiale possa entrare la voce di chi meglio degli altri conosce il sistema nazionale. Libero, naturalmente, il giudice di esprimersi e votare come ritiene giusto. Tuttavia, la previsione e l’appellativo stesso di “giudice nazionale” assegnato al giudice nella funzione ora detta, pone qualche problema, che merita di essere discusso chiedendosi se il giudice, escluso sia rappresentante, sia almeno in qualche misura «rappresentativo» del Paese di provenienza. Ma in quale modo o misura può esserlo? L’orientamento culturale prevalente nell’ambito di un Paese è nozione di difficile o nulla consistenza. I diritti e le libertà riconosciuti e protetti dalla Convenzione europea sono numerosi e diversi. È possibile essere inclini a spingere molto avanti la protezione e valorizzazione dell’uno ed essere invece piuttosto prudenti nei confronti di un altro, senza che vi sia chiaro nesso tra l’una e l’altra posizione. Le categorie che, qualche volta, sono state utilizzate per classificare i giudici della Corte tra “violazionisti” e “non violazionisti” sono svianti. Esse non colgono la grande varietà dei campi in cui interviene la Corte, cosicché occorrerebbe studiare l’atteggiamento dei giudici in ciascuna delle materie. Ma ciò sarebbe estremamente difficile, poiché la decisione del caso dipende grandemente dalle specifiche vicende che l’hanno prodotto. D’altra parte, indipendentemente da quanto riguarda i giudici della Corte, in società pluralistiche come sono quella italiana e, generalmente, quelle europee, ciascuno di noi si ritrova su posizioni (e in compagnie) diverse, tema per tema, questione per questione. Cosicché, piuttosto che a una maggioranza o a una minoranza, questione per questione si appartiene contemporaneamente a minoranze o maggioranze diversamente composte.

Nel mosaico di culture che vivono (anche in modo conflittuale) in Italia, mi chiedo se, concluso il mio mandato, io non debba ammettere – o piuttosto rivendicare – di avere operato come espressione, volta per volta, di una delle diverse Italie, che coesistono e si confrontano in tutta legittimità storica e culturale. Di ciò trovo conferma nel fatto che talora la stessa causa vede, in fasi diverse, intervenire una persona diversa nella funzione di “giudice nazionale” (ad esempio per l’intervenuta scadenza del mandato del precedente giudice). È accaduto che il nuovo “giudice nazionale” si sia orientato diversamente da quanto ha fatto il primo. Non è dunque la “nazionalità” che conta, ma la personale inclinazione culturale. E allora, non aveva forse visto giusto la Commissione di redazione della Convenzione, quando proponeva che nove giudici componessero la Corte, nessuno eletto “a titolo” di questo o quello Stato europeo, ma tutti e ciascuno eletti “a titolo” dell’Europa?

Invece la nozione di «giudice nazionale» – che nella Convezione ha una portata solo procedurale – talora induce e sollecita la pretesa, negli ambienti politici e di opinione pubblica nazionale, che il giudice difenda quelli che sono creduti gli interessi o gli orientamenti culturali del Paese. Con la conseguenza che, in caso diverso, emerge l’accusa di slealtà, tradimento, etc., specialmente in tempi di intolleranza crescente. La pretesa di assicurarsi un giudice su cui fare affidamento nella difesa dell’interesse del governo convenuto in giudizio davanti alla Corte, compare poi talora al momento della designazione da parte del governo della terna di candidati da proporre al Consiglio d’Europa.

 

4.La grande novità del sistema europeo di protezione dei diritti umani è costituita dall’instaurazione di un controllo giurisdizionale esterno agli Stati. I diritti dell’uomo, specie in Europa, erano naturalmente già riconosciuti a livello statale interno, con conseguente ruolo giocato dai giudici nazionali. Così era nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che essenzialmente rinviava alla legge (nazionale) la definizione dei diritti e le condizioni del loro esercizio. Mai si era ammesso che gli Stati rispondessero davanti a un giudice esterno delle violazioni dei diritti fondamentali dei singoli. La natura di “controllo giurisdizionale esterno” è tuttora la caratteristica principale del sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo.

Il fatto che la Corte europea assicuri un controllo esterno implica un certo numero di conseguenze profondamente innovative rispetto a categorie giuridiche tradizionalmente ammesse. Esso, innanzitutto, rompe i confini degli Stati e la connessa pretesa della legge statale di fondare ed esaurire un proprio ordinamento giuridico particolare ed esclusivo. La singola persona, poi, diviene soggetto di diritto internazionale, che fa valere diritti propri nella controversia contro uno Stato. La Corte europea applica un diritto europeo, maneggiando e creando un diritto che non origina dall’opera di Parlamenti e non trova in ciò la propria legittimazione. Si tratta di un diritto di origine largamente giurisprudenziale, la cui creazione (ri)dà spazio al ruolo del giudice giurista (in luogo di quello del giudice semplice esegeta della legge chiamato ad applicare). La giurisprudenza della Corte europea, legata come è ai casi specifici che le vengono sottoposti (giurisprudenza casistica) mette sullo sfondo la regola generale e astratta (come pretende di essere la legge) rispetto all’esigenza di disciplina richiesta ed espressa dal caso concreto. La soluzione del caso non deriva tanto dall’applicazione di una regola generale ed astratta che lo precede, quanto, al contrario (per la persuasività della ratio decidendi e per la forza del precedente), contribuisce a creare la regola per fatti analoghi. Lo scopo della Convenzione, «strumento vivente da interpretare alla luce delle condizioni di vita attuali» è quello di rendere «concreta ed effettiva e non teorica e illusoria» la protezione dei diritti e delle libertà dell’individuo.

Anche se l’argomentazione svolta dalla Corte nella motivazione delle sue sentenze tende (o pretende) di dimostrare che essa «trova» il diritto piuttosto che «crearlo», non c’è dubbio che si è in presenza di un esempio chiaro della funzione creativa della interpretazione giudiziale, con richiamo alla dinamica della produzione del diritto da parte dei giudici del common law. La teoria statunitense dell’originalism non ha ingresso nella giurisprudenza della Corte europea e i lavori preparatori della Convenzione del 1950 hanno scarso peso. Così si spiegano i periodici mutamenti di giurisprudenza che la Corte, pur cauta nell’effettuarli, spiega con il mutare del quadro di riferimento normativo e culturale. Ecco perché la Corte ricerca il cosiddetto “consenso europeo”, la cui esistenza la autorizza ad essere più incisiva nel controllo delle varie soluzioni nazionali, mentre, quando sia inesistente, la spinge a maggior cautela e a riconoscere agli Stati un più ampio margine di apprezzamento nell’adeguarsi ai precetti della Convenzione. Così la società e gli Stati europei, destinatari delle sentenze della Corte, contribuiscono a fornire gli elementi che giustificano le scelte applicative della Convenzione, in un circuito che vede la Corte certificare in qualche modo ciò che la società europea produce, al tempo stesso consolidando l’acquis europeo nel campo dei diritti fondamentali.

 

5. La natura del processo decisionale della Corte e i frequenti momenti in cui essa si trova di fronte alla necessità di operare scelte largamente discrezionali spiegano la ragione per cui un gran numero di sentenze (tra quelle non meramente ripetitive) è reso alla maggioranza dei voti dei giudici componenti il collegio. Non è senza significato, quanto alla ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea, che il sistema stesso convenzionale ammetta che i giudici dissidenti rispetto al dispositivo delle sentenze, ovvero rispetto alle argomentazioni che lo sostengono, possano (e nella prassi instauratasi, debbano) allegare alle sentenze le loro opinioni separate, dissidenti o concordanti. Tali opinioni riportano (dovrebbero riportare) all’esterno non altro che gli argomenti che il giudice rimasto in minoranza ha sviluppato nella Camera di consiglio e che sono rimasti soccombenti. E si tratta di opinioni che si fondano su una ricostruzione dei precedenti della Corte o della loro pertinenza, diversa da quella adottata dalla maggioranza. In questo senso esse rappresentano un diritto possibile, anche se non affermato (o non ancora affermato). La stessa esistenza e pubblicità di tali opinioni separate dimostra la non incontrovertibilità dell’analisi dei precedenti. Poiché la giurisprudenza della Corte europea è evolutiva, anche il rapporto tra motivazione maggioritaria e opinioni separate risulta dinamico.

La Corte ricorda frequentemente che le conclusioni cui arriva sono strettamente legate al caso di specie, ciò che è coerente con la finalità delle sentenze di decidere una controversia tra le parti – il ricorrente e lo Stato convenuto in giudizio. Sono i dettagli del caso concreto che risultano decisivi per il giudizio di proporzionalità e necessità della interferenza statale nell’esercizio di un diritto della persona. Non vi sarebbe alcun problema se questo solo fosse lo scopo delle sentenze. Ma non è così, poiché le sentenze, come la Corte ha più volte detto, «servono non soltanto a decidere il caso sottopostole, ma più ampiamente a chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione e a contribuire in tal modo al rispetto, da parte degli Stati, degli impegni che hanno assunto nella loro qualità di parti della Convenzione» e «se il sistema ha per oggetto fondamentale quello di offrire un ricorso agli individui, esso ha egualmente quello di decidere, nell’interesse generale, delle questioni di ordine pubblico, promuovendo le norme di protezione dei diritti dell’uomo ed estendendo la giurisprudenza in materia all’insieme della comunità degli Stati parte della Convenzione». La convivenza dei due terreni di incidenza delle sentenze della Corte europea non è facile. Il margine di apprezzamento nazionale che la Corte riconosce agli Stati è anche frutto di tale difficile convivenza.

 

6. La nozione di “margine di apprezzamento nazionale” che la Corte è, sempre più spesso, pronta a riconoscere ai governi nel riconoscimento dei diritti convenzionali in campo nazionale suppone una unità di fondo delle società dei singoli Stati e la capacità dei governi di rappresentarla. Un’unità, dico, che non può essere una maggioranza su questo o quel tema, perché il rischio è di dar spazio indebito – appunto – a una maggioranza, quando invece i diritti dell’uomo e le sue libertà fondamentali richiedono la protezione delle minoranze e degli individui singoli. Anche contro, evidentemente, la volontà della maggioranza. Ho già detto dell’estrema difficoltà di definire l’orientamento maggioritario della popolazione di un Paese in riferimento a cultura e valori morali e religiosi. Ma la questione del ruolo della maggioranza apre soprattutto un diverso ordine di problemi, che si lega a quello del significato e dell’accertamento del cd. “consenso europeo”. A cosa, infatti, ci si riferisce quando si afferma che la portata di un diritto o di una libertà è lasciata all’apprezzamento dello Stato o del governo? Si arriva ancora una volta all’opinione e alla forza della maggioranza, e al rischio di emarginazione degli individui e delle minoranze. Ma il dato di esperienza che ho vissuto nel corso degli anni è proprio la rivendicazione di sempre più ampio margine di apprezzamento nazionale da parte dei governi e la disponibilità della Corte a riconoscerlo. Si tratta di rivendicazione che non riflette soltanto l’attuale crescita del nazionalismo e la crisi europea, ma – io credo – anche frutto di un fenomeno legato alla giurisprudenza della Corte. L’orientamento evolutivo della giurisprudenza della Corte la conduce non solo ad aggiornare il contenuto della protezione, ma anche ad ampliarlo. Esso ha avuto, come contrappeso (e come via di composizione di contrastanti orientamenti dei giudici della Corte), un allargamento della portata del margine di apprezzamento nazionale, che lascia campo libero a notevoli differenze di tutela dei diritti convenzionali. La domanda che occorre ora porsi è se, nell’interesse della costruzione di un’area tendenzialmente omogenea del livello di tutela dei diritti, il ruolo della Corte debba essere riportato all’affermazione rigida del livello minimo comune di tutela, invece che a quello diverso e, forse, opposto di stimolo a più elevati livelli di tutela, accompagnato però dall’ammissione di ampia differenza pratica nei diversi sistemi nazionali. L’origine storica della Convenzione, con il suo Preambolo e l’ancora irrealizzato progetto di unificazione europea, mi paiono spingere nella prima direzione.

 

7. Specificità del sistema europeo di protezione giurisdizionale dei diritti umani è il ricorso individuale, nella versione semplice e senza filtri in vigore dal 1998. Perché la difesa individuale sia efficace e non si riduca al riconoscimento, quando verrà la sentenza, a un indennizzo monetario, occorre che la decisione della Corte sia tempestiva. Essa, comunque, giunge dopo la lunga trafila dell’esaurimento delle vie interne. Ma a quel periodo di tempo si aggiunge quello, incredibilmente lungo, dell’attesa della sentenza della Corte. Il tempo di attesa non è solo lunghissimo (specie se si pensa che in gioco sono diritti fondamentali), ma anche imprevedibile e casuale. Per fare un esempio, nello scorso mese di luglio 2018, la Corte ha pubblicato sentenze relative a ricorsi introdotti nel 2004 (una contro la Russia), nel 2006 (una contro la Georgia e una contro Russia e Moldova), nel 2007 (due contro la Russia), nel 2008 (una contro la Turchia), nel 2009 (due contro la Bulgaria, una contro il Belgio), nel 2012 (una contro la Germania, una contro l’Ucraina), nel 2013 (una ciascuna contro Romania, Armenia, Macedonia e Lituania), nel 2015 (una ciascuna contro Malta e Montenegro), nel 2017 (una contro l’Olanda). Tempi non solo lunghi, ma anche molto diversi per ciascuna sentenza, senza che natura e importanza del caso offrano una spiegazione. La spiegazione è, piuttosto, da ricercare nell’organizzazione della Corte, con le sue divisioni di cancelleria separate per Paese e lingua, con il diverso carico di lavoro e disponibilità di personale, etc. Non si tratta quindi di poca produttività, ma di problemi strutturali della Corte, anche legati alla quarantina di diverse lingue in cui giungono i ricorsi. E, soprattutto, alle decine di migliaia di ricorsi presentati annualmente. Nel corso del mio mandato, con difficoltà e resistenze da parte degli uffici amministrativi e soprattutto dei giudici, è stato ammesso il sistema delle priorità nella trattazione dei casi. Ma se la Corte chiudesse ora l’accesso di nuovi ricorsi e decidesse di trattare solo i casi prioritari, sarebbe impegnata per anni!

Vi è dunque una crisi della Corte, grave e non reversibile con gli espedienti di cancelleria recentemente introdotti. La crisi riguarda la capacità della Corte di incidere realmente, in particolare assicurando quello che si continua a dire essere pilastro del sistema: il ricorso individuale e il diritto dell’individuo di ottenere tutela. Ma di questo aspetto del sistema non si parla. Della crisi e dei modi di affrontarla non si discute seriamente. E la Corte si dice «vittima del suo successo». Tendendo a segnalare, però, solo gli – indiscutibili – profili di successo.