Appunti su ne bis in idem e sanzione autonoma
1. Premessa
Dieci minuti costituiscono poco più di un sospiro per riflettere sullo stato dell’arte del divieto di bis in idem e della nozione di “sanzione autonoma” nel dialogo tra le Corti.
Il tema – già sconfinato nei suoi aspetti teorici – ha conosciuto, nell’anno appena trascorso, ulteriori e complessi intrecci, nei profili teorici e normativi, oltre che negli aspetti pratici e applicativi. Dunque, anche solo fare il punto su di esso presuppone, per un verso, di dare per note molte cose e, per altro verso, di adottare uno schematismo spinto, quasi una percursio, un “attraversamento veloce” a scapito di una doverosa e buona argomentazione.
Cerco, allora, di concentrarmi innanzitutto sui casi “difficili” in materia di bis in idem: quelli che – ritengo − rimangono problematici ben oltre le apparenze, poiché sotto di essi cova sempre il rischio di “collisione” tra ordinamento nazionale e dicta della giurisprudenza sovranazionale; se ne avrò il tempo, accennerò poi – per evitare di deprimersi troppo – anche a qualcuno dei casi “facili”, per i quali cioè si intravede, tra le giurisprudenze, un accordo già stabile sulla “sostanza” concettuale.
2. Gli abusi di mercato ed i reati tributari: profili problematici della giurisprudenza
2.1.Il primo e principale “caso difficile” nella materia del bis in idem è ancora rappresentato dagli illeciti in materia di abusi di mercato e dai reati tributari, tradizionalmente accomunati nella medesima problematica.
Entrando subito in medias res, il primo interrogativo che mi pare da porre è: come si è assestato il quadro giurisprudenziale nazionale dopo la pronuncia della Grande Camera A e B c. Norvegia (ricc. nn. 24130/11 e 29758/11), del 15 novembre 2016, e quali possono essere i punti di possibile frizione per il futuro?
Quesiti interessanti poiché, in apparenza, A e B c. Norvegia sembra aver chetato i dissidi dopo aver spostato l’“asse” di rotazione del divieto stesso. Detto altrimenti, mentre in forza della precedente giurisprudenza Cedu il ne bis in idem ruotava essenzialmente intorno a una (automatica) preclusione di tipo processuale (divieto di duplicazione dei procedimenti per il medesimo fatto, ancorché diversamente qualificato), dopo A e B c. Norvegia, il divieto parrebbe operare prevalentemente (se non esclusivamente) sul piano sostanziale: finalizzato, cioè, ad assicurare la complessiva proporzionalità delle diverse sanzioni inflitte nei procedimenti duplicati (“tollerati”, a differenza del passato) e divenendo così, alla fine, metronomo dell’entità della sanzione “integrata” complessivamente irrogata.
Occorre spendere, tuttavia, qualche riflessione sulla effettiva fondatezza di tale lettura “evolutiva” della giurisprudenza di Strasburgo.
È indubitabile come, attraverso lapidarie affermazioni, la sentenza Grande Stevens e altri c. Italia (Corte Edu, sez. II, ric. n. 18640/10, 4 marzo 2014) avesse strutturato il divieto di bis in idem nel territorio processuale. In quella circostanza, la Corte di Strasburgo aveva affermato, a chiare lettere e fugando ogni possibile dubbio, che la garanzia sancita dall’art. 4 Protocollo n. 7 «entra in gioco quando viene avviato un nuovo procedimento e la precedente decisione di assoluzione o di condanna è già passata in giudicato» e che, pertanto, essa fosse baluardo «contro nuove azioni penali o contro il rischio di tali azioni», a prescindere dal divieto di una seconda condanna o di una seconda assoluzione (Grande Stevens, § 220). Per contro, la nozione di “proporzionalità tra le sanzioni”, in quella pronuncia, risultava – più che recessiva – del tutto irrilevante.
È perfettamente nel vero, dunque, la Corte costituzionale allorquando, qualche anno dopo (sentenza n. 43 del 2018, § 5 del Considerato in diritto), pone in rilievo che «il divieto convenzionale di bis in idem aveva, alla luce della giurisprudenza vigente al tempo (…), natura esclusivamente processuale» e che «la tutela convenzionale basata su quella disposizione non richiedeva perciò alcun controllo di proporzionalità sulla misura della sanzione complessivamente irrogata, né, allo scopo di prevenire un trattamento sanzionatorio eccessivamente afflittivo, subordinava la quantificazione della pena inflitta per seconda a meccanismi compensativi rispetto alla sanzione divenuta definitiva per prima».
2.2. Che, rispetto a tale status quo, il mutamento di prospettiva di A e B c. Norvegia sia stato assai netto e marcato, è affermazione difficilmente contestabile: lo si è detto e scritto diffusamente. Come perspicuamente constatato dalla stessa Corte costituzionale, dopo quest’ultima pronuncia «non si può continuare a sostenere che il divieto di bis in idem convenzionale ha carattere esclusivamente processuale, giacché criterio eminente per affermare o negare il legame materiale [tra i due procedimenti eventualmente instaurati] è proprio quello relativo all’entità della sanzione complessivamente irrogata»: il ne bis in idem convenzionale, insomma, «cessa di agire quale regola inderogabile conseguente alla sola presa d’atto circa la definitività del primo procedimento, ma viene subordinato a un apprezzamento proprio della discrezionalità giudiziaria in ordine al nesso che lega i procedimenti, perché in presenza di una close connection è permesso proseguire nel nuovo giudizio ad onta della definizione dell’altro» (sentenza n. 43/2018, § 7 del Considerato).
Ma – è da chiedersi − ciò vale già a realizzare, per il divieto, un μετάβασις εἰς ἄλλο γένος, (metábasis eis állo génos), uno slittamento del divieto dalla terra del processo a quella della sanzione? E il giudice nazionale – da originario, inerme prigioniero di un automatismo processuale (la “tagliola” del bis in idem che scattava al solo avvio del nuovo procedimento, secondo l’ammonimento della Grande Stevens) – è divenuto davvero il demiurgo della proporzionalità della sanzione e, pertanto, il taumaturgo del divieto stesso?
Non è così, naturalmente. O, per meglio dire, non credo affatto che sia questo ciò che la Corte Edu, anche dopo A e B c. Norvegia, richieda alle supreme giurisprudenze nazionali.
Strasburgo non vuole affatto che la dimensione processuale del divieto venga relegata in uno sfondo di (quasi) insignificanza e che, quindi, il criterio di una sanzione penale “integrata” − che sia prevedibile e, in concreto, complessivamente proporzionata al disvalore del fatto −, da criterio eminente per affermare o negare il legame materiale fra i due procedimenti, divenga criterio unico; che, insomma, lo “stretto nesso materiale e temporale” della duplicità dei procedimenti sia ricavato, ex post, attraverso solo un “riallineamento” sanzionatorio.
2.3. Registro, tuttavia, che proprio quest’ultima pare essere l’odierna tendenza della giurisprudenza della nostra Cassazione penale e prevedo, quindi, che il nervo scoperto continuerà a dare scosse future, anche intense.
Ci sono, è vero, molti fattori che paiono assecondare e, quasi, giustificare questa prospettiva ermeneutica di un ne bis in idem in chiave sostanzialistica e sanzionatoria. È ben vero infatti che, in mancanza di chiari riferimenti normativi, l’esercizio ermeneutico nella materia de qua è assai complesso e articolato, e che la Corte di cassazione è chiamata a un metodo – quello della resecazione del caso concreto – ad essa culturalmente estraneo (almeno quanto familiare a Strasburgo); è ben vero, ancora, che individuare quale sub-criterio prevalente (tra i cinque enunciati in A e B c. Norvegia) quello della proporzionalità tra il cumulo delle sanzioni irrogate in relazione alla gravità dell’illecito rappresenta, spesso, l’unico spatium deliberandi per il giudice di legittimità, essendo l’unico profilo, sovente, di cui esso giudice è investito: quasi sempre, i ricorsi per cassazione in materia, infatti, censurano esclusivamente l’entità della sanzione inflitta.
Comunque sia, sono davvero rare le sentenze della suprema Corte autenticamente fedeli al côté processuale di A e B c. Norvegia e che dunque, per escludere l’esistenza del divieto, hanno motivato sulla “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta” tra il procedimento amministrativo e quello penale, sì che le due sanzioni siano parte di un unico sistema: un esempio – meritorio perché reso quasi agli albori – è Cass., sez. III, 22 settembre 2017, n. 6993 (dep. 14 febbraio 2018), ric. Servello, rv. 272588-01, che ha ben sottolineato, a questi fini, la contemporaneità dell’irrogazione delle due sanzioni a pochi mesi di distanza.
Viceversa, le pronunce più recenti della suprema Corte – mi riferisco, essenzialmente, a Cass., sez. V., 16 luglio 2018 (dep. 10 ottobre 2018), n. 45829, ric. Franconi e altri; sez. V, 21 settembre 2018 (dep. 31 ottobre 2018), n. 49869, ric. Chiarion Casoni, non massimate – assumono, nel delineare la portata del principio del bis in idem, “la centralità del profilo sanzionatorio”, ponendo così, quali criteri essenziali per ritenere o meno la violazione del divieto, il canone della proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio e l’entità della sanzione complessivamente irrogata. Entrambe le pronunce − a fronte di una sanzione “formalmente” amministrativa (ma la cui “natura penale” è incontestata) già irrogata agli imputati, poi condannati anche in sede penale – concentrano il percorso giustificativo (in ordine alla violazione o meno del divieto di bis in idem)sull’accertamento della proporzionalità sanzionatoria e sulla sua eventuale emenda attraverso un meccanismo compensativo del sistema sanzionatorio integrato: a garantire che la severità delle sanzioni inflitte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità della condotta. Si tratta, peraltro, di sentenze estremamente curate, di profonda elaborazione giuridica e di piena consapevolezza culturale del problema e della giurisprudenza Cedu: eppure, attuano la metabasi cui sopra si accennava.
2.4. Sono convinto, tuttavia, che su questa ‘peculiare’ lettura ed applicazione di A e B c. Norvegia da parte dei giudici della Corte di cassazione – tale da “spostare” progressivamente l’asse del bis in idem verso la (proporzionalità della) sanzione, facendone dimenticare la sua origine e il suo nucleo forte processuale − abbia influito un altro e preponderante fattore.
Mi riferisco all’erompere, ancora una volta, della giurisprudenza eurounitaria sul problema del bis in idem,con le tre pronunce rese il 20 marzo 2018 dalla Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea nelle cause Menci (C-524/15), Garlsson Real Estate SA in liquidazione, Ricucci Stefano, Magiste International SA c. Consob (C-537/16) e Di Puma c. Consob e Consob c. Zecca (C-596/16 e C-597/16).
Non ho naturalmente, in questa sede, possibilità alcuna di esaminare, neppure per cenni, il loro contenuto.
Confesso, però, di provare rispetto ad esse la medesima sensazione già percepita all’indomani della sentenza Fransson (Cgue [GS], Aklagarem c. Akeberg Fransson, C-617/10, 26 febbraio 2013), in relazione alla precedente giurisprudenza Cedu: e cioè che Corte di giustizia e Corte Edu (fossero allora e) continuino a essere assai lontane su concezione, metodi di verifica e ipotesi di soluzione del problema del bis in idem. Sono distanze innanzitutto culturali e di “ruolo” giudiziale, poiché Strasburgo è giudice delle garanzie individuali, mentre Lussemburgo è giudice dell’effettività della repressione delle violazioni agli interessi finanziari dell’Unione, e interessato quindi essenzialmente alle alchimie sanzionatorie. Non è un caso che il percorso giustificativo del trittico delle sentenze della Corte di Lussemburgo di marzo 2018 sia speso, in massima parte, per ribadire i consolidati criteri funzionali all’identificazione della natura sostanzialmente penale di una sanzione formalmente amministrativa; per l’accertamento dell’idem (sentenza Menci, rispettivamente, §§ 26 ss. e §§ 34 ss.; sentenza Garlsson Real Estate, §§ 28 ss. e 36 ss.); per evidenziare la necessaria complementarietà finalistica del cumulo sanzionatorio («scopi complementari vertenti, eventualmente, su aspetti differenti della medesima condotta di reato interessata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare»: sentenza Menci, § 44; sentenza Garlsson Real Estate, § 46) in vista della realizzazione di un “obiettivo di interesse generale”. Soprattutto – come poi perfettamente recepito da Cass., n. 49869/2018, cit. − la Corte di giustizia, insistentemente, richiama il canone di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio, «canone che – a conferma della dimensione prevalentemente sostanziale riconosciuta al ne bis in idem nell’ambito del diritto dell’Unione europea – rinviene il proprio fondamento anche nell’art. 49, comma 3, della Carta, in forza del quale le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato». Il discorso è giocato esclusivamente sul problema della compensazione/limitazione del cumulo di sanzioni di “natura penale”. Secondo la Grande Sezione, a esso «devono accompagnarsi norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte corrisponda alla gravità del reato di cui si tratti, considerato che un’esigenza siffatta discende non soltanto dall’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, ma altresì dal principio di proporzionalità delle pene di cui all’articolo 49, paragrafo 3, della medesima», norme che «devono prevedere l’obbligo per le autorità competenti, qualora venga inflitta una seconda sanzione, di far sì che la severità del complesso delle sanzioni imposte non sia superiore alla gravità del reato constatato» (sentenza Menci, § 55; sentenza Garlsson Real Estate, § 56).
La “distanza” tra tali postulati e quelli della giurisprudenza della Corte Edu mi pare evidente. Volendo, per la tirannia del tempo, esprimerla in una proporzione matematica, si potrebbe dire che le sentenze Menci e Garlsson stanno ad A e B c. Norvegia come Akeberg Fransson stava a Zolotukhin c. Russia, Jusila c. Finlandia, etc., e, in generale, alla pregressa giurisprudenza Cedu sul bis in idem.
Si riapre insomma la distanza – un baratro mascherato – tra i dicta di Corte di giustizia e Corte Edu in materia di bis in idem.
2.5.Quale il messaggio, infatti, che dalla Corte di giustizia perviene al giudice nazionale? Univoco, direi: vale a dire che «spetta, in definitiva, al giudice del rinvio valutare la proporzionalità dell’applicazione concreta della summenzionata normativa nell’ambito del procedimento principale, ponderando, da un lato, la gravità del reato tributario in discussione e, dall’altro, l’onere risultante concretamente per l’interessato dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni di cui al procedimento principale» (sentenza Menci, § 59; sentenza Garlsson Real Estate, §§ 59 e 61). È pur vero che la sentenza Menci non si scorda completamente di Strasburgo e, in un rapido passaggio (§§ 60 e 61), afferma che occorre «tenere conto dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Cedu ai fini dell’interpretazione dell’articolo 50 della Carta», limitandosi tuttavia a ricordare che, «a tale riguardo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha giudicato che un cumulo di procedimenti e di sanzioni tributarie e penali volte a reprimere una medesima violazione della legge tributaria non lede il principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 4 del Protocollo n. 7 della Cedu, quando i procedimenti tributari e penali di cui trattasi presentano un nesso temporale e materiale sufficientemente stretto (sentenza della Corte Edu del 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, § 132)». Sembra quasi una fuggevole concessione obbligata al bon ton istituzionale, più che uno sforzo di condividere concetti e armonizzare principi.
Se questo è il quadro, pare di poter affermare che il giudice nazionale, una volta di più, rimane ancora “nella morsa” delle due Corti, per usare la felice e sempre acuta espressione di Marco Bignami.
È, insomma, un rischio serio che i plurimi criteri enunciati in A e B c. Norvegia dalla Corte Edu ad vitandum bis in idem conoscano una crasi applicativa, e siano piuttosto ricondotti, tutti, a una funzione di riduzionismo sanzionatorio: il giudice nazionale è il grande artefice del bilanciamento delle plurime pene, a prescindere dai procedimenti, dall’esame della loro connessione temporale e sostanziale, della loro complementarietà funzionale.
Se così sarà, mi attendo – e non per pessimismo di principio – più di un sussulto da parte della Corte di Strasburgo: un richiamo forte sul versante delle garanzie, di cui non mancano peraltro i prodromi. Ad esempio, in Jóhannesson e altri c. Islanda (Corte Edu, sez. I, ric. n. 22007/11, 18 maggio 2017), successiva ad A e B c. Norvegia, la Corte – in una fattispecie di reati fiscali per omissioni nella denuncia dei redditi, relativamente a entrate derivanti da pagamenti di prestazioni, fringe benefits, plusvalenze e altre fonti di reddito non emerse nelle relative dichiarazioni – ha ritenuto la violazione del divieto di bis in idem in ragione della sottoposizione dei due ricorrenti dapprima a un procedimento di accertamento dell’illecito tributario con applicazione di una sovrattassa (calcolata nell’importo del 25 per cento dell’imposta evasa) e, quindi, del procedimento penale (relativo alla medesima violazione).
In quel caso, i procedimenti paralleli erano sorti praticamente assieme, a seguito di denuncia delle autorità fiscali; l’azione penale era stata esercitata dopo la definizione irrevocabile del procedimento amministrativo sanzionatorio e il processo penale si era protratto per oltre quattro anni dopo tale momento: esattamente ciò che, di norma, accade nello scenario giudiziario italiano in materia di reati tributari e anche di market abuse. Inoltre, in quel caso, la suprema Corte islandese aveva dedotto dalla pena comminata nel procedimento penale la sovrattassa formalmente amministrativa irrogata in precedenza: secondo l’identico modus operandi adottato oggi dalla nostra Corte di cassazione. Ma i giudici di Strasburgo hanno nondimeno ritenuto la violazione “processuale” del divieto: per la prosecuzione di uno dei procedimenti (in questo caso, quello penale) dopo la definizione irrevocabile del primo (duplication of proceedings - bis) e per l’assenza di stretta connessione degli stessi, tale da determinare una indebita duplicazione probatoria a scapito della (necessaria) circolarità. È significativo che il cuore argomentativo della pronuncia sia l’espresso richiamo ai §§ 131 e 132 di A e B c. Norvegia, secondo cui «whether the relevant sets of proceedings are conducted in such a manner as to avoid as far as possible any duplication in the collection as well as the assessment of the evidence, notably through adequate interaction between the various competent authorities to bring about that the establishment of facts in one set is also used in the other set» (corsivo aggiunto).
Considerazioni, queste, che potrebbero essere traslate integralmente nei recenti ricorsi decisi dalla Cassazione italiana nelle sentenze sopra richiamate.
3. La nuova disciplina nazionale del market abuse: uno scenario poco rassicurante
3.1. A rendere ulteriormente precaria la futura stabilità degli assetti del divieto in materia è poi l’incerto, recentissimo intervento del legislatore nazionale nella disciplina dell’abuso di mercato, che ha lasciato irrisolti molti degli snodi problematici già manifestatisi in passato. Anzi, se possibile, li ha resi per certi aspetti maggiormente intricati.
Anche qui, sarò costretto a una sintesi estrema.
La direttiva 2014/57/UE in materia di market abuse (MAD 2) e il connesso regolamento (UE) 596/2014 (MAR) attendevano da tempo attuazione nell’ordinamento nazionale, avvenuta solo a mezzo del recente d.lgs 10 agosto 2018, n. 107 («Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE»).
Grande attesa – come ribadito da attenta e acuta dottrina[1] – era riposta in tale provvedimento normativo: esso era accompagnato dall’auspicio comune che proprio detta legge di attuazione costituisse la favorevolissima occasione per risolvere il (o quantomeno, attenuare gli effetti del) “doppio binario punitivo” che – com’è noto – da sempre caratterizza negativamente questo settore del diritto nazionale, più volte censurato dalla Corte di Strasburgo.
L’auspicio ‒ perorato con forza anche dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 102 del 2016, resa proprio sul tema [2]− è tuttavia in gran parte rimasto inascoltato, poiché inappagante pare essere la soluzione normativa al problema.
Assai schematicamente, il legislatore nazionale, con il d.lgs n. 107/2018, ha formalmente sostituito il testo degli artt. 187-bis e 187-ter del Tuf ‒ vale a dire, le “pietre dello scandalo” che sancivano gli illeciti amministrativi dell’abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato in maniera del tutto omologa e quasi sovrapponibile alle corrispondenti incriminazioni penali (rispettivamente, artt. 184 e 185 Tuf) – e ne ha mutuato il nuovo testo con il richiamo, rispettivamente, agli artt. 14 e 15 del regolamento 2014/596/UE (MAR): ma tale sbrigativa operazione di tecnica legislativa recettizia non ha eliminato il problema.
Invero, per quanto di rilievo nella problematica del bis in idem, il d.lgs n. 107/2018 ha lasciato inalterata la delineazione delle corrispondenti fattispecie penali, generando così un sistema normativo in qualche modo zoppo. Se, insomma, il legislatore eurounitario, nella direttiva e nel regolamento citati, era stato preciso e analitico nella delineazione delle diverse condotte integranti l’illecito amministrativo e il reato, rispettivamente, in materia di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione di mercato ‒ sì da evitare in radice la possibile sovrapposizione di procedimenti e sanzioni proprio in ragione della diversa species facti idonea a integrare gli uni e gli altri ‒ il legislatore nazionale ha inteso intervenire solo sugli illeciti amministrativi del sistema nazionale, senza che a ciò abbia corrisposto una diversa formulazione degli originari illeciti penali.
3.2. La conseguenza è ovvia: a livello eurounitario, la descrizione del fatto punibile è differente tra illeciti penali e illeciti amministrativi (come si apprezza dal confronto tra le rispettive norme del regolamento e della direttiva) e, dunque, scema fortemente il rischio di bis in idem processuale (oltre che sostanziale); a livello nazionale, le (sostanzialmente) intatte fattispecie di incriminazione penale continuano in parte a coincidere con le nuove figure di illecito amministrativo: o, perlomeno, è questa l’impressione che si trae a prima lettura. In ogni caso, il legislatore nazionale non ha inteso adottare un criterio di diversificazione nella descrizione iniziale delle fattispecie e non ha costruito un meccanismo normativo per risolvere la contemporanea insorgenza di un “doppio processo” per i medesimi fatti sostanziali. Si rimanda insomma, ancora una volta, ad una ermeneutica giurisprudenziale, assai impervia e complessa, il compito di tracciare il “confine di sabbia” tra illecito amministrativo e illecito penale.
Non senza aggiungere ulteriore rammarico per ciò che l’intervento normativo avrebbe potuto realizzare, sempre per smorzare eventuali violazioni del divieto: nel campionario sanzionatorio amministrativo del market abuse permangono sanzioni di tipo interdittivo (quale l’incapacità ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo di società quotate) o conseguenze di tipo inabilitativo (ad esempio, la perdita dei requisiti di onorabilità) che si fa fatica a non considerare di natura “sostanzialmente” penale, secondo l’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo e, quindi, in potenziale frizione con il divieto.
4. Su alcune concordanze
Come preannunciato, si registrano poi alcune significative concordanze, tali da escludere, in piena armonia tra le giurisprudenze, la sussistenza della violazione del divieto: i “casi facili” ovviamente maturati nei tempi più recenti. Mi limito a citarne alcuni.
4.1. Tali concordanze hanno, ad esempio, riguardato la materia delle sanzioni disciplinari. Nel recente arresto Lázaro Laporta c. Spagna (ric. n. 32754/16), del 3 luglio 2018, la terza sezione della Corte Edu ha ribadito, in linea con una giurisprudenza abbastanza consolidata - Moullet c. Francia (dec.), ric. n. 27521/04, 13 settembre 2007; Kremzow c. Austria, ric. n. 16417/90, decisione della Commissione europea dei diritti umani, 7 novembre 1990, e altre –, che «proceedings relating to disciplinary sanctions do not, in principle, involve “the determination of a criminal charge”. The fact that an act which can lead to a disciplinary sanction under administrative law also constitutes a criminal offence is not sufficient reason to consider that a person presented as responsible is “charged with a crime”». Affermazioni, queste, perfettamente in linea con quanto deciso dalla suprema Corte (Cass., sez. II, 15 dicembre 2016, n. 9184 - dep. 24/02/2017, pg in proc. Pagano, rv. 26923701) in un caso in cui essa ha annullato con rinvio la sentenza che aveva dichiarato non doversi procedere per il reato di danneggiamento aggravato commesso da un detenuto su una finestra della casa circondariale in cui era ristretto, sulla base della considerazione che l’imputato aveva già subìto la sanzione disciplinare della esclusione dalle attività in comune per cinque giorni. Il giudice di legittimità ha escluso la preclusione all’esercizio dell’azione penale (art. 649 cpc) non tanto sulla base dell’assenza, rispetto alla sanzione disciplinare, di un criminal charge, quanto sulla base dell’applicazione dei principi della sentenza A e B c. Norvegia, ritenendo cioè le due procedure complementari, in quanto dirette al soddisfacimento di finalità sociali differenti, e tali da determinare l’inflizione di una sanzione penale "integrata", prevedibile e, in concreto, complessivamente proporzionata al disvalore del fatto.
4.2. Notizie confortanti provengono anche dal settore delle misure interdittive adottate in occasione di manifestazioni sportive, i.e. il cd. “daspo”.
La decisione Corte Edu, sez. I, Serazin c. Croazia, dell’8 novembre 2018, – pur riconoscendo che «although it may be difficult in practice to draw a clear distinction between deterrence, as an element of a penalty, and prevention» – ha affermato che l’obbligo di firma presso l’ufficio di polizia in concomitanza dell’evento sportivo (onde evitare la partecipazione del soggetto che ne è destinatario) risulta «aimed at ensuring the safety of the public from a threat of violence rather than punishing the applicant for his previous conduct», con la conseguenza che «its application did not amount to the application of a “criminal penalty” within the autonomous meaning of the Convention».
Conclusioni, queste, che valgono a legittimare molta della giurisprudenza nazionale (in questa sede impossibile da sintetizzare) la quale, riguardo ai molteplici profili problematici dell’istituto, ne sottolinea la natura di misura di prevenzione in ragione della violenza occasionata da manifestazioni sportive, così dirimendo più di un dubbio anche di compatibilità costituzionale più volte avanzati.
Come dire: chi riesce a dialogare nel poco, riuscirà certamente a dialogare anche nel molto.
[*] Il testo riproduce la traccia scritta dell’intervento – nel tempo assegnato di dieci minuti – all’incontro di studio tra le Corti italiane e la Corte europea dei diritti dell’uomo sul tema: “Il dialogo tra la Corte di Strasburgo e le Corti italiane”, svoltosi presso la Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 gennaio 2019.
[1] V., in particolare, F. Mucciarelli, Gli abusi di mercato riformati e le persistenti criticità di una tormentata disciplina. Osservazioni a prima lettura sul decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 10, in Dir. pen. cont., 10 ottobre 2018; id., Illecito penale, illecito amministrativo e ne bis in idem: la corte di cassazione e i criteri di stretta connessione e di proporzionalità, ivi, 17 ottobre 2018.
[2] Nella quale si ribadiva come «non può negarsi che un siffatto divieto [di bis in idem processuale, n.d.r.] possa di fatto risolversi in una frustrazione del sistema del doppio binario, nel quale alla diversa natura, penale o amministrativa, della sanzione si collegano normalmente procedimenti anch’essi di natura diversa, ma è chiaro che spetta anzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle frizioni che tale sistema genera tra l’ordinamento nazionale e la Cedu»