Scelte politiche della Corte tra interventismo e inerzia: il caso della Turchia
1. Le istituzioni politiche europee e il regime di Erdogan
Il tentativo di colpo di Stato avvenuto in Turchia il 15 luglio 2016 determinò un forte turbamento in tutti i democratici, come ogni colpo di Stato che interrompe la vita dello Stato di diritto. Tuttavia, ancor più colpì la reazione del regime autoritario di Erdogan, che accolse quel tentativo come una fortunata (e forse sperata) occasione per sbarazzarsi definitivamente di ogni opposizione, soprattutto quella civile e democratica, non a caso immediatamente aggredita, imprigionata e umiliata.
Con il pretesto, a tutt’oggi indimostrato, che i suoi oppositori fossero complici del tentativo militare, Erdogan ne approfittò per portare a compimento la sua politica di annientamento di ogni dissenso, calpestando leggi interne e convenzioni internazionali pur sottoscritte dalla Repubblica turca[1].
La Fondazione Basso, con una nota di Elena Paciotti del 22 luglio 2016, indirizzata al Segretario generale del Consiglio d’Europa, all’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Unione europea e al Presidente del Parlamento europeo, sollecitò l’immediata condanna dell’inaccettabile deriva dittatoriale del regime autocratico turco, che nessun consenso di maggioranza può mai far ritenere legittimo, tanto più in presenza di violazioni massicce e sistematiche di libertà e di diritti fondamentali della persona, con licenziamento di centinaia di migliaia di dipendenti statali e incarcerazione di migliaia di magistrati, avvocati, professori universitari, molti dei quali sono ancora detenuti, mentre altri, ancora più sfortunati, sono morti in carcere.
In tanti speravamo che dalle istituzioni dell’Europa (piccola e grande) sarebbe partita una pronta e soprattutto efficace reazione, volta a condannare senza esitazione e a isolare il regime turco, ribadendo l’essenza dei valori europei, incentrati sul rispetto dello Stato costituzionale di diritto e sulla protezione dei diritti umani e dei popoli. Prese di posizione e parole non mancarono, ma si trattò di declamazioni “rituali”, di pura di facciata, che si limitarono a sollecitare cautela all’autocrate turco, di cui ricordarono persino l’elezione popolare, come se la democrazia si potesse ridurre soltanto a investitura di potere dal basso.
Dobbiamo riconoscere che quel nostro appello alle istituzioni europee esprimeva una ingenua illusione. Come avrebbe potuto, del resto, essere diversamente? Una efficace presa di posizione europea avrebbe dovuto determinate l’adozione di adeguate sanzioni, con sospensione della Turchia da ogni partecipazione a istituzioni e organismi europei. Prima ancora, avrebbe dovuto comportare la cancellazione del patto, vergognoso e scellerato, che il 28 marzo 2016, in cambio di miliardi di euro, ha affidato a Erdogan il compito di bloccare il flusso di persone in fuga dalla violenza della guerra e della fame, profughi disperati che l’egoismo dei ricchi Paesi europei rifiuta e respinge, mentre piccoli e poveri Paesi come Libano e Cisgiordania danno loro un rifugio, con risorse e mezzi neppure lontanamente comparabili a quelli del vecchio continente.
2. La dichiarazione di irricevibilità di migliaia di ricorsi di cittadini turchi da parte della Corte di Strasburgo
Non inserimmo, tra i destinatari di quell’appello, la Corte europea dei diritti dell’uomo, non volendo neppure per un momento pensare che anch’essa potesse avere bisogno di sollecitazioni della pubblica opinione democratica per ritenere ammissibili i 27.000 ricorsi di cittadini turchi, allertando il proprio impegno e la propria sensibilità al tema della garanzia dei diritti fondamentali, che costituiscono la ragione della sua stessa costituzione ed esistenza.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo nacque nel clima di rifondazione del diritto e delle istituzioni internazionali, che – dopo l’orrore del nazifascismo che aveva prodotto l’Olocausto e le decine di milioni di morti della Seconda guerra mondiale – si erano impegnate, nello Statuto delle Nazioni Unite approvato dalla Conferenza di San Francisco il 26 giugno 1945, in un solenne mai più, fondato sul rispetto della pari dignità di ogni persona e di ogni popolo e sulla tutela dei diritti fondamentali dell’uomo.
Di quell’impegno la Cedu e la relativa Corte furono le espressioni più coerenti, essendo stato introdotto il ricorso diretto di ogni vittima di violazione di diritti umani commessa dagli Stati che avevano sottoscritto e ratificato la Convenzione.
Enorme è stata, perciò, la delusione di tanti democratici e giuristi di ogni Paese d’Europa e, soprattutto, di tante vittime del regime di Erdogan, che nei giudici di Strasburgo avevano riposto le loro speranze, di fronte alla burocratica dichiarazione di irricevibilità di decine di migliaia di ricorsi per «mancato esaurimento dei rimedi interni»[2], come se non fosse evidente la clamorosa sproporzione della reazione del regime al tentativo di colpo di Stato, con il reiterato prolungamento dello stato di emergenza ben oltre i limiti indicati dall’art. 15 Cedu, emergenza ritenuta cessata il 18 luglio 2018, dopo che Erdogan si era assicurato la vittoria nelle elezioni del 24 giugno. Un terribile biennio scandito dalla chiusura di centinaia di testate giornalistiche e televisive; da epurazioni e licenziamenti di massa (oltre 170.000) di professori universitari e insegnanti, di funzionari, di militari; da decine di migliaia (oltre 80.000) di arresti di cittadini, tra cui avvocati e giornalisti indipendenti ridotti al silenzio, magistrati e giudici (persino della Corte costituzionale!); da violazioni dei diritti fondamentali, a cominciare da quelli di difesa, di espressione e di manifestazione; dal fermo di polizia prolungato sino a 60 giorni; da confische di beni delle persone sospettate.
A quel diffuso sentimento di delusione dette voce un documento redatto nell’ambito della Fondazione Basso e diffuso nel marzo 2017 (primi firmatari Luigi Ferrajoli, David Cerri e Ignazio Juan Patrone), che, a distanza di molti mesi dal tentato colpo di Stato, sottolineava come, in presenza di tante e tali misure repressive, nessuna fiducia poteva essere riposta in un controllo giurisdizionale interno al regime turco, affidato a magistrati intimiditi e minacciati a loro volta di repressione, la cui indipendenza e affidabilità appariva pressoché nulla o, comunque, fortemente compromessa. Così come inefficaci si erano rivelate le reazioni delle istituzioni politiche europee (Consiglio d’Europa e Unione europea), del tutto timide e reticenti sono apparse anche le risposte della Corte di Strasburgo a fronte di una situazione gravissima, che la giurisprudenza di quella stessa Corte aveva ammesso, in passato, come eccezioni alla regola del previo esaurimento dei ricorsi interni[3].
A sua volta, in un intervento del 16 febbraio 2017[4], Luca Perilli, tra i più attenti e documentati osservatori della cappa buia che ha fatto calare la notte sullo Stato di diritto in Turchia, ha riferito di giudici arrestati o licenziati, con sostituzione a tempi di record tramite procedure d’urgenza che non possono garantirne l’imparzialità. In altra sede, riferendosi ai tanti giudici che, nel percorso di adesione del Paese all’Unione europea, avevano speso le loro migliori energie per l’affermazione dei diritti umani in Turchia, contribuendo alla modifica della legislazione e all’adozione del piano di azione per la tutela dei diritti fondamentali in conformità con la giurisprudenza della Corte Edu, Perilli sollecitava tutti a «immaginare il loro stato d’animo oggi nei confronti dell’Europa e soprattutto nei confronti della Corte», dopo le affermazioni di effettività dei rimedi previsti dal sistema giudiziario turco.
3. Le prime due sentenze di condanna del regime di Erdogan
Ovviamente, non sappiamo in che misura le critiche pubbliche abbiano influito sui convincimenti dei giudici di Strasburgo, ma è un fatto che il primo ripensamento intervenne, dopo tali critiche, con due decisioni depositate il 20 marzo 2017, relative ai casiSahin Alpay c. Turchia e Mehmet Hasan Altan c. Turchia, che condannarono la Turchia per avere violato, applicando la custodia cautelare a due giornalisti, gli artt. 10 (che assicura la libertà di espressione) e 5 (diritto alla libertà personale)[5] della Convenzione.
Nel caso di Alpay (arrestato con l’accusa di essere un componente dell’organizzazione terroristica Feto/PDY, ritenuta da Erdogan responsabile del tentato colpo di Stato), la Corte di appello aveva respinto la richiesta del giornalista di essere rimesso in libertà nonostante la Corte costituzionale turca, con sentenza dell’11 gennaio 2018, avesse accertato la violazione del diritto del ricorrente alla libertà personale, alla sicurezza e alla libertà di stampa.
La Corte europea, dopo avere osservato che nella notifica dell’applicazione della deroga alla Convenzione ex art. 15 Cedu non erano neppure stati indicati gli articoli la cui attuazione andava sospesa, rilevò che l’art. 15 non attribuisce agli Stati un potere illimitato e del tutto discrezionale nell’applicazione della deroga alla Convenzione e che, anzi, la norma è di stretta applicazione poiché devono emergere gravi pericoli all’ordine democratico costituzionale.
La Corte, pronunciandosi finalmente nel merito, accertò la violazione degli artt. 5 e 10 della Convenzione, ritenendo la detenzione dei giornalisti misura non necessaria, sproporzionata e dunque illegittima, comunque non utilizzabile per sanzionare la manifestazione di opinioni politiche, che sono e devono rimanere liberamente esprimibili. «Una delle caratteristiche principali della democrazia», si legge nelle predette sentenze, «consiste nella possibilità che essa offre di affrontare e risolvere i problemi attraverso il dibattito pubblico. Essa perciò deve nutrirsi di libertà di espressione (…) e, anche durante lo stato di emergenza, gli Stati devono tenere per fermo che le misure da adottare devono essere volte alla difesa dell’ordine democratico minacciato e devono fare di tutto per proteggere i valori della società democratica, come il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura (…). La detenzione provvisoria di voci critiche crea, invece, molteplici effetti negativi, non soltanto per chi viene ristretto in detenzione, ma per l’intera società, giacché la misura cautelare detentiva produce inevitabilmente un effetto dissuasivo sulla libertà di espressione, con l’intimidazione della società civile e la riduzione al silenzio delle voci dissenzienti».
Si tratta di affermazioni importanti, che indicano e valorizzano elementi essenziali dello Stato costituzionale di diritto, che costituisce un patrimonio giuridico e politico dei Paesi europei che ogni Stato ha il dovere di salvaguardare, potenziare e trasmettere alle future generazioni. Il forte richiamo della Corte di Strasburgo è tanto più importante in un momento storico in cui rinascenti sovranismi e nuove pulsioni nazionalistiche vorrebbero relativizzare e neutralizzare quel patrimonio di civiltà.
Di tali pronunce va rimarcato un altro aspetto, che costituisce allo stesso tempo la ragione della delusione prima espressa e una rinnovata speranza per il futuro della giurisprudenza di Strasburgo. La Corte europea sottolineò come particolarmente grave il fatto che sentenze della Corte costituzionale turca sull’illegittimità della detenzione fossero rimaste disattese da parte dei giudici del merito, tanto che non esitò a qualificare le loro decisioni come contrarie ai principi fondamentali dello Stato di diritto. L’avere i giudici del merito non tenuto in alcuna considerazione la sentenza della Corte costituzionale, che aveva ritenuto illegittima la protrazione della detenzione provvisoria, non solo – secondo Strasburgo – mette in discussione il ruolo e l’autorevolezza del vertice della giurisdizione turca, ma solleva seri dubbi circa l’efficacia di un ricorso individuale davanti al supremo organo costituzionale dello Stato in casi relativi alla detenzione preventiva.
È difficile resistere alla tentazione di domandare: se quella era la situazione alla fine del marzo 2017, come è possibile giustificare il non liquet operato dalla Corte con le declaratorie di irricevibilità di decine di migliaia di ricorsi nelle settimane precedenti, per il ritenuto mancato esaurimento di rimedi interni?
Senza voler indugiare sulla contraddizione, in questa sede è sufficiente ricordare che, talvolta, agli organismi politici bisogna concedere – sia pure turandosi il naso – condotte compromissorie o “diplomatiche”, essendo essi, il più delle volte, interessati a ottenere o mantenere risultati pratici (per esempio, il blocco dei profughi siriani o i contributi finanziari per il Consiglio d’Europa), ma alle istituzioni giurisdizionali non è consentito, per opportunismo o diplomazia, girare lo sguardo dall’altra parte e non rimarcare la specifica violazione lamentata dalla vittima, che in quel momento (non nell’evoluzione degli eventi politici o storici) ha bisogno di un rimedio effettivo ed efficace. Il prezzo che l’istituzione giudiziaria paga alla scelta opportunistica, dilatoria o anche soltanto “diplomatica”, è la perdita di autorevolezza della giurisdizione non solo presso le tante vittime del regime turco, ma presso la più vasta opinione pubblica europea, che guarda con allarme alla repressione del dittatore Erdogan e con preoccupazione alle derive autoritarie e populiste della Polonia e dell’Ungheria.
4. Il ruolo dei giudici a difesa dello Stato costituzionale di diritto
Di tanto appare, finalmente, convinta la stessa Corte di Strasburgo, a giudicare dall’ultima decisione, pubblicata il 20 novembre 2018, nell’affaire Selahattin Demirtas c. Turchia, che ha accertato violazioni degli artt. 5, par. 3, 18 e 3 del Protocollo n. 1 alla Cedu nella protrazione della custodia cautelare (applicata il 4 novembre 2016), a seguito del rigetto dell’istanza di liberazione deliberato proprio dalla Corte costituzionale turca, in danno di Selahattin Demirtas, parlamentare fino alle elezioni del giugno scorso e Vicepresidente del Partito democratico del popolo (HDP), partito pro-curdo di sinistra.
I giudici della Corte Edu, pur affermando la plausibilità degli elementi d’accusa che condussero all’applicazione della custodia cautelare, hanno accertato la violazione delle norme sopra indicate, ritenendo del tutto insufficienti le stereotipate motivazioni adottate per giustificare la durata della detenzione e ribandendo che ogni sistema di detenzione provvisoria automatico sulla base di una presunzione legale è, di per sé, incompatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Di estremo interesse è, soprattutto, la motivazione relativa all’accertata violazione dell’art. 3 Protocollo n. 1, relativo agli effetti della protrazione della custodia cautelare sull’esercizio del mandato parlamentare (profilo esaminato per la prima volta nella storia della Corte di Strasburgo).
La Corte ricorda, innanzitutto, che il diritto a libere elezioni (riconosciuto e garantito da tale articolo) non si limita alla sola possibilità di partecipare alle elezioni legislative, ma si estende al diritto di esercitare il mandato che deriva dall’elezione, esercizio inibito al deputato Demirtas, che ha subito una continua e illegittima ingerenza del regime turco nell’esercizio dei suoi diritti politici.
Significativamente, la Corte di Strasburgo sottolinea che non soltanto i giudici del merito, ma anche la Corte costituzionale non tennero alcun conto della circostanza che Demirtas, oltre a essere un membro della Grande Assemblea nazionale turca, era anche uno dei leader dell’opposizione politica. Tale ruolo avrebbe dovuto implicare un più alto livello di protezione dell’uomo politico oppositore di Erdogan, mentre fu rigettata qualsiasi richiesta di misure alternative alla detenzione, senza peraltro fornire motivazione concreta e individualizzata.
L’impossibilità di partecipare alle attività dell’Assemblea a causa dell’illegittima prosecuzione della detenzione provvisoria, ha costituito una ingiustificata violazione della libera espressione del consenso popolare e del diritto di Demirtas di esercitare il suo mandato parlamentare, nonché una lesione del potere sovrano dell’elettorato che lo aveva eletto deputato.
Il passo della sentenza che meglio esprime il maturato sopravvenuto convincimento dei giudici di Strasburgo sul progressivo smantellamento dello Stato di diritto in Turchia è quello relativo all’accertata violazione del combinato disposto degli artt. 18 e 5, par 3, in cui sono presi in considerazione informazioni e dati contenuti in relazioni di osservatori internazionali, che hanno concordemente messo in luce i condizionamenti ambientali e le pressioni sulle decisioni dei giudici, e che trovano riscontro nella particolare durezza delle decisioni giudiziarie nei confronti degli oppositori politici e delle voci dissenzienti. Deriva da questa costatazione la conclusione della Corte, secondo la quale, in Turchia, non soltanto i diritti e le libertà del deputato Demirtas sono sotto attacco, ma è la stessa democrazia a essere in pericolo.
In questo clima, la prosecuzione della custodia cautelare di un leader d’opposizione, soprattutto nel corso di due decisive campagne elettorali ad alta criticità (referendum costituzionale ed elezione presidenziale), appare strettamente funzionale all’inconfessata finalità di soffocare il pluralismo e di comprimere e limitare il libero gioco del dibattito politico, che costituisce il cuore stesso della nozione di società democratica.
Qui dobbiamo riconoscere ai giudici di Strasburgo di aver parlato con il linguaggio severo e rigoroso proprio della giurisdizione, la cui chiarezza è di per sé un valore, soprattutto nei momenti difficili che sta attraversando l’Europa (sia nei 27 Paesi dell’Unione sia nei 47 Paesi del Consiglio d’Europa).
La Corte europea dei diritti dell’uomo, per tanti di noi, ha costituito un importante punto di riferimento, sia per ammodernare la legislazione italiana (e degli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa), sia per trarre criteri di orientamento per la giurisprudenza, soprattutto di legittimità. Proprio per questo, con la radicata convinzione della fecondità dell’argomentata critica pubblica ai provvedimenti giudiziari, come a tutti gli atti di esercizio di ogni potere, non potevamo omettere di esprimere una valutazione negativa sull’iniziale atteggiamento della Corte nei confronti di migliaia di cittadini turchi che nel giudice europeo dei diritti dell’uomo avevano confidato, con la stessa fiducia del mugnaio di Potsdam di fronte alle prepotenze di Federico di Prussia.
Con soddisfazione, possiamo oggi costatare che la Corte di Strasburgo ha progressivamente maturato un diverso convincimento e ha preso atto che, in Turchia, è in fase ormai avanzata lo smantellamento dello Stato di diritto, i cui principi e valori sono essenziali per ritenere autentica e vitale la democrazia.
In proposito, possiamo aggiungere che il consenso maggioritario scaturente dal suffragio universale è un elemento necessario per governare società complesse, ma non è affatto sufficiente.
Le derive identitarie, sovraniste e nazionalistiche, pur tra gli applausi contingenti di maggioranze che si cementano con il rancore, l’odio e il rifiuto del diverso (capro espiatorio di volta in volta individuato nell’ebreo, nel curdo, nello straniero, nel migrante, … ), non assicurano né pace né benessere, giacché la democrazia, per essere autentica, non deve escludere, bensì includere e tutelare ogni persona.
La tragica storia del Novecento ci illumina sui guasti e sulle perversioni e gli esiti nefasti delle dittature e delle autocrazie illiberali. I politici populisti, alla ricerca di facile consenso da spendere nei tempi brevi, alimentano e utilizzano paure e risentimenti accumulati nella società da violazione sistematica del principio di dignità sociale e di uguaglianza delle persone.
I giuristi, e soprattutto i giudici, a Istanbul come a Strasburgo, a Catania come a Ragusa, hanno il dovere di tenere a mente l’ammonimento-costatazione dell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che dal 1789 fonda la civiltà europea sul principio che non ha costituzione la società in cui non è assicurata la garanzia dei diritti di ogni persona né stabilita la separazione dei poteri.
[1] Il quadro drammatico della situazione vissuta dalle vittime della repressione di Erdogan è descritto dalle testimonianze rese dai diretti interessati nelle Letters from the Turkish Judiciary 2016-2017,pubblicate da Medel («Magistrats Européens pour la Démocratie et les Libertés»)nell’ottobre 2017, tradotte dall’edizione inglese in italiano da Vito Monetti e pubblicate in Questione Giustizia on line, 3/11/2018, www.questionegiustizia.it/stampa.php?id=1768; www.questionegiustizia.it/doc/lettere_dalla_Turchia_ita.pdf.pdf.
[2] Si veda M. Castellaneta, La Cedu sbarra la strada ai ricorsi contro la Turchia per le misure post golpe malgrado l’allarme degli organismi internazionali, 21 novembre 2016, disponibile online (www.marinacastellaneta.it/blog/la-cedu-sbarra-la-strada-ai-ricorsi-contro-la-turchia-per-le-misure-post-golpe-malgrado-lallarme-degli-organismi-internazionali.html).
[3] Sul punto, si veda specificamente Turchia. I diritti fondamentali, La reazione al tentato golpe e le deroghe alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Laboratorio dei diritti fondamentali - LDF, Boll. n. 20, gennaio 2017, disponibile online (https://labdf.eu/project/bollettino-n-20-gennaio-2017/).
[4] L. Perilli, Lo Stato di diritto, l’indipendenza della magistratura e la protezione dei diritti fondamentali: la tragica deriva della Turchia dal 2013, in La Magistratura, nn. 1-2/2017.
[5] Si veda F.L. Gatta, Detenzione di giornalisti e repressione della libertà di espressione: da Strasburgo un chiaro messaggio alla Turchia, ma verrà ascoltato? in Questione Giustizia online 9/04/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/detenzione-di-giornalisti-e-repressione-della-libe_09-04-2018.php; nonché M. Castellaneta, Turchia: la detenzione di due giornalisti viola la Convenzione europea. La deroga in caso d’urgenza non blocca l’esame del merito dei ricorsi dei reporter, 21 marzo 2018, disponibile online (www.marinacastellaneta.it/blog/turchia-la-detenzione-di-due-giornalisti-viola-la-convenzione-europea-la-deroga-in-caso-durgenza-non-blocca-lesame-del-merito-dei-ricorsi-dei-reporter.html); si veda, inoltre, A. J. Palma, Le sentenze Sahin Alpay c. Turchia e Mehmet Altan c. Turchia: un punto di svolta – forse più apparente che reale – nell’0dissea dei ricorsi avverso le misura emergenziali turche presso la Corte europea dei diritti dell’uomo; in Ordine internazionale e diritti umani, n. 2/2018, pp. 223-241 (www.rivistaoidu.net/maggio-2018).