Le principali decisioni della Corte in materia civile verso l’Italia
1. Premessa
L’ampiezza del tema di indagine impone un taglio meramente compilativo o divulgativo al presente contributo, con necessarie grandi approssimazioni, delle quali si chiede fin d’ora venia.
A causa di una tale impostazione, la fruttuosità della presentazione degli interventi della Corte Edu nella materia civile esige, prima di ogni altra cosa, una precisa delimitazione oggettiva e temporale: le pronunce più significative e attuali vanno ricercate negli ultimi tre lustri e alcuni settori del diritto civile hanno peculiarità assoluta; pensiamo alla vita privata e familiare, alla bioetica nonché all’ambito, assurto prepotentemente alla ribalta quale vera emergenza di quest’epoca, dei diritti dei migranti. A questa seconda partizione del tradizionale diritto civile va dedicato necessariamente altro e specifico contributo e, in questa sede, deve rinunziarsi a ogni ulteriore approfondimento sul punto.
Neppure rientra, a stretto rigore, nell’oggetto del presente contributo l’esame della problematica dell’applicazione del principio del ne bis in idem alle sanzioni amministrative, visto che, pur essendo in Italia queste devolute al giudice civile, la sua elaborazione riguarda propriamente l’interferenza col diritto penale[1]: sicché tale esame sarà riservato a quella sede.
Le linee di tendenza delle pronunce nel campo così delimitato sono consolidate: soprattutto in materia di espropriazione e di giusto processo, qui comprese quelle in tema di ragionevole durata e di verifica del sistema approntato dall’Italia per fare fronte alla sua strutturale mancanza sul punto. L’evoluzione di quest’ultima linea di tendenza si spinge, ora, al controllo sulla tenuta di alcuni snodi processuali importanti, come i filtri di accesso e l’effettività dell’accesso al giudice.
Benché, anche in campo civile, si sia riscontrata la tendenza del giudice nazionale delle leggi – particolarmente cauto verso la legislazione interna, sovente in nome della necessaria visione complessiva o di sistema richiesta alla Corte costituzionale, in contrapposizione a quella parcellizzata propria della Corte Edu – a rimarcare i limiti del recepimento della giurisprudenza convenzionale, deve intendersi come in prevalenza positivo l’effetto delle ricadute di importanti pronunce: da quelle su vicende peculiari della storia italiana (come quella delle frequenze televisive analogiche ai fini dell’essenzialità del pluralismo dell’informazione) al divieto di retroattività delle leggi; dalla riaffermazione più ampia della tutela del diritto al godimento dei beni, estesa ormai anche a diritti di credito, a un’amministrazione pubblica complessivamente intesa, troppo spesso negligente verso i fondamentali diritti protetti dalla Convenzione.
2. Il giusto processo civile
Può iniziarsi la rassegna con il diritto all’accesso al giudice, il quale è visto sempre in stretta correlazione all’oggetto della controversia che a questi si vuole sottoporre, sicché può dirsi che ogni diritto fondamentale esige l’effettività della tutela giudiziaria come imprescindibile componente o strumento di garanzia, mentre non è esatta la contraria affermazione, per la quale la tutela giudiziaria con le caratteristiche proprie dell’art. 6, par. 1, della Convenzione sarebbe limitata ai diritti fondamentali.
Il primo caso che è utile valutare è Mottola e altri c. Italia, ric. n. 29932/07, 4 febbraio 2014 (pronuncia definitiva: 4 maggio 2014)[2].
I ricorrenti, medici assunti in primo momento “a gettone”, nel 2004 avevano chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e soggetto alla disciplina del pubblico impiego – anche e soprattutto, ormai, al fine di conseguire il trattamento di pensione derivante dall’integrazione delle dovute contribuzioni previdenziali – anche per il primo periodo, prospettando l’equivalenza delle prestazioni a quelle dei ricercatori e invocando una giurisprudenza consolidata su situazioni analoghe; ma il Consiglio di Stato, riformando la sentenza di accoglimento resa dal Tar, sulla base dell’art. 69, comma 7, del Testo unico sul pubblico impiego (d.lgs 30 marzo 2001, n. 165), dichiarò irricevibile il ricorso, siccome proposto oltre il 15 settembre 2000.
La Corte di Strasburgo ha riconosciuto che questa limitazione temporale è incongrua, perché priva il titolare del diritto alla pensione, riconosciuto ai fini dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, di un’adeguata tutela giurisdizionale. In particolare, la Corte ha ricordato che la nozione di «beni» rilevante comprende sia i beni attuali che valori patrimoniali, ivi compresi – sia pure in certe situazioni particolari e ben definite – determinati crediti: i quali possono definirsi «valori patrimoniali» quando hanno una base sufficiente in diritto interno, come quando sono confermati da una consolidata giurisprudenza, sicché l’individuo può reputarsi titolare di una legittima aspettativa (richiamando la decisione Maurice c. Francia [GC], ric. n. 11810/03, 6 ottobre 2005). La Corte precisa che l’art. 1 del Protocollo n. 1 non garantisce un diritto ad acquisire beni e quindi, ad esempio, un trattamento pensionistico di un certo importo in base a una serie di versamenti; il trattamento diventa «bene» tutelabile quando il diritto alla pensione sia già stato riconosciuto con sentenza definitiva.
Al contempo, il diritto a un tribunale non può considerarsi assoluto e può ben essere assoggettato a limiti, anche temporali, purché sul punto non vi sia incertezza interpretativa e – quindi – giurisprudenziale sulla norma che la parte poteva raffigurarsi vigente al momento della proposizione della domanda, come nel caso dell’applicazione della disciplina transitoria processuale in tema di pubblico impiego: in tali casi, è frustrato il diritto a una decisione nel merito.
Altra importante decisione, anch’essa conclusa con una condanna per l’Italia, è Schipani e altri, ric. n. 38639/09, 21 luglio 2015. Nel caso in oggetto, i ricorrenti, medici specializzandi che avevano agito per la corresponsione della remunerazione adeguata del loro periodo di frequenza di scuole di specializzazione postuniversitarie in medicina, non avevano ottenuto alcuna risposta dalla Corte di cassazione in punto di loro richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea (Cgue). La Corte di Strasburgo ha ribadito la sua giurisprudenza sull’obbligo, per i giudici di ultima istanza, di espressa motivazione del rifiuto di disporre il rinvio pregiudiziale alla Cgue in base alla giurisprudenza di quest’ultima (in sintesi, ricorrenza di un acte claire o di consolidata giurisprudenza della stessa Corte di Lussemburgo). Rilevato che non poteva rinvenirsi nessuna giustificazione sul punto (nemmeno implicita, invece pur sempre ammessa, come poi consentito – tra le altre – dalla stessa Corte Edu in Wind Telecomunicazioni Spa c. Italia, ric. n. 5159/14, 8 settembre 2015, che ha pure escluso la violazione del diritto all’accesso al giudice in caso di limiti istituzionali della cognizione del giudice di ultima istanza), la Corte ha riconosciuto la violazione del diritto all’accesso al giudice (nella specie, eurounitario).
Meritano un accenno anche due casi in cui la Corte ha escluso la violazione, da parte dell’Italia, dei principi del giusto processo.
Il primo è Trevisanato c. Italia, ric n. 32610/07, 15 settembre 2016, causa nella quale è stata ritenuta legittima l’introduzione della condizione di ammissibilità del ricorso in Cassazione consistente – secondo la normativa in vigore all’epoca della presentazione del ricorso – nella formulazione di un quesito di diritto che permettesse di individuare il contenuto del ricorso e il ragionamento della parte: tale norma è stata ritenuta non integrare la violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu sotto il profilo del diritto di accesso a un tribunale, in quanto non integrante una lesione sproporzionata al diritto a un tribunale per non comportare alcun particolare sforzo supplementare da parte del ricorrente. Dai principi sottesi a questa sentenza e alle altre ivi richiamate – e successivamente intercorse anche nei confronti di altri Stati membri –, la Corte di cassazione italiana ha tratto, a più riprese, la conclusione che i requisiti di ammissibilità, soprattutto in grado di impugnazione, sono legittimi[3] purché sia superato il consueto vaglio di proporzionalità nel bilanciamento tra esigenza di certezza del diritto (e buona amministrazione della giustizia) e diritto del singolo al giusto processo, alla quadruplice condizione che il singolo requisito formale: a) sia funzionale al ruolo del giudice adito (e, quindi, a quello nomofilattico proprio della Corte di cassazione); b) non sia interpretato in senso eccessivamente formalistico; c) sia imposto in modo chiaro e prevedibile; d) non imponga un onere eccessivo per chi deve formare l’atto introduttivo (se del caso, tenuto conto della particolare professionalità attesa dal difensore abilitato alla difesa della parte davanti al giudice da adire).
Nel secondo caso, Maniscalco c. Italia, ric. n. 19440/10, 2 dicembre 2014, a una dipendente di istituto di credito, accusata di avere distratto fondi e convenuta per il risarcimento dei danni, non era stato consentito ascoltare un testimone, siccome interessato all’esito della lite. In tale circostanza, la Corte ha, da un lato, precisato che non è garantito esplicitamente il diritto ad ascoltare testimoni, essendo la relativa disciplina rimessa al diritto interno; dall’altro, ha richiamato Dombo Beheer BV c. Paesi Bassi, ric. n. 14448/88, 27 ottobre 1993, in cui aveva statuito che, nelle controversie che riguardano interessi privati confliggenti, il principio della parità delle armi implica che, a ciascuna delle parti, sia ragionevolmente garantita la possibilità di esporre le proprie ragioni, ivi inclusi gli elementi di prova, in condizioni che non la pongano in situazione di svantaggio sostanziale rispetto alla controparte.
3. Pluralismo dell’informazione e tutela del credito
Di grande importanza è la sentenza della Grande Camera, del 7 giugno 2012, nella causa Centro Europa 7 Srl e Di Stefano c. Italia (ric. n. 38433/09)[4], relativa alla nota vicenda della compressione del diritto di trasmissione della legittima concessionaria di una frequenza televisiva analogica, per essere la relativa banda occupata da una delle tre reti televisive di una società privata. La condanna dell’Italia è stata netta e anche per un valore significativo (10 milioni di euro), per violazione dell’art. 10 Cedu e dell’art. 1 del Protocollo n. 1, con due affermazioni di principio solenni e di sensibile rilevanza.
Si è, dapprima, individuata la condotta lesiva nel rilascio alla società ricorrente di un’autorizzazione alla trasmissione televisiva per l’80 per cento del territorio nazionale, con l’assegnazione di tre frequenze, e nella successiva omessa assegnazione delle frequenze stesse, intuitivamente necessarie alla trasmissione: e tanto mediante l’assunzione di condotte contraddittorie e omissive, consistite essenzialmente nell’aver subordinato l’efficacia dell’autorizzazione all’approvazione di un piano di assegnazione, a sua volta conforme a un piano di adeguamento da adottarsi a cura dell’Agcom, che non è mai stato adottato.
Sotto il primo profilo, la mancata effettiva assegnazione delle frequenze al Centro Europa 7 e il conseguente vantaggio indebito concesso alle stazioni di trasmissione che già detenevano le frequenze, nel loro illegittimo protrarsi, hanno comportato la violazione del principio del pluralismo nel settore radio-televisivo e, quindi, dell’art. 10 della Convenzione.
La Corte ha ribadito che «non ci può essere democrazia senza pluralismo, poiché la democrazia vive di libertà di espressione». La libertà di espressione, come garantito dall’art. 10 Cedu, costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e una delle condizioni fondamentali per il suo progresso, sicché i media audiovisivi, come la radio e la televisione, hanno un ruolo particolarmente importante in questo senso, per mezzo del loro potere di trasmettere messaggi attraverso suoni e immagini, con effetto più immediato e potente della carta stampata. Una situazione in cui è consentito a un potente gruppo economico o politico di avere una posizione dominante sui media audiovisivi e, quindi, di poter esercitare pressioni su emittenti, eventualmente limitando la loro libertà editoriale, mina il ruolo fondamentale della libertà di espressione.
Nel caso di specie, è stata la condotta ostruzionistica dello Stato italiano a rendere de facto impossibile l’esercizio del diritto della ricorrente di «diffondere informazioni e idee», perché la mancata assegnazione delle frequenze per la società ricorrente ha privato la licenza di ogni scopo pratico, in quanto l’attività, pur se formalmente autorizzata, è stata resa impossibile da svolgere per quasi dieci anni: un ostacolo sostanziale e un’indebita ingerenza nella libertà di espressione.
La violazione dell’art. 10 Cedu ha, poi, comportato anche il riconoscimento della violazione dell’art. 14, sul divieto di discriminazione: è stato rilevato che il trattamento riservato, sia pure de facto, all’impresa che quelle frequenze già occupava (il noto gruppo di un imprenditore, poi divenuto Presidente del Consiglio dei ministri per lungo periodo della storia italiana), l’aveva beneficiata di misure legislative e amministrative discriminatorie, adottate in condizioni che implicavano un conflitto di interessi; ancora, la ricorrente è stata riconosciuta discriminata rispetto ad altri operatori del settore poiché, con la mancata assegnazione delle frequenze, le era stato impedito di entrare sul mercato radiotelevisivo.
Sotto il secondo profilo (violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1), la stessa condotta lesiva ha comportato la mancata effettiva assegnazione delle frequenze a Centro Europa 7 Srl e la conseguente frustrazione della sua legittima aspettativa in ordine allo sviluppo imprenditoriale e patrimoniale che avrebbe potuto conseguire se le frequenze le fossero state realmente assegnate.
La pronuncia ha grande importanza anche per la ridefinizione della nozione di «beni» rilevante ai fini dell’art. 1 del citato Protocollo: essa ha un significato autonomo (cioè espressamente definito, ai fini della Convenzione, in base ai suoi propri principi, che ben possono prescindere dai diritti nazionali), che è indipendente dalla qualificazione formale nel diritto interno e non si limita alla proprietà dei beni materiali. Infatti, quali veri e propri beni materiali, anche altri diritti e gli interessi attivi che questi determinano possono essere considerati «diritti di proprietà» e, quindi, «beni» ai fini della vista disposizione.
L’art. 1 del Protocollo n. 1 si applica solo ai beni esistenti di una persona: pertanto, il reddito futuro non può essere considerato «bene», a meno che non sia già stato guadagnato o sia sicuramente da pagare. In determinate circostanze, però, un «legittimo affidamento» sull’acquisizione di un bene può anche godere della protezione dell’art. 1. Pertanto, quando un diritto di proprietà è nella natura di un credito, la persona in cui è investito può essere considerata portatrice di un «legittimo affidamento», se c’è una base sufficiente per l’interesse nel diritto nazionale – ad esempio, dove una costante giurisprudenza dei tribunali nazionali ne confermi l’esistenza.
Nella specie, la Corte di Strasburgo ha rilevato che, essendo la ricorrente titolare, fin dal 28 luglio 1999, di una licenza nazionale per la radiodiffusione televisiva terrestre, gli stessi giudici amministrativi le avevano riconosciuto almeno un interesse legittimo – qualificato come posizione giuridica individuale indirettamente protetta e coerente con l’interesse pubblico – all’effettiva assegnazione delle frequenze di trasmissione; di conseguenza, la società ricorrente ben poteva vantare un legittimo affidamento legato agli interessi della proprietà come il funzionamento di una rete televisiva analogica in virtù della licenza, in quanto dotato di una base sufficiente per costituire un interesse sostanziale e, quindi, un «bene» ai sensi della norma prevista in apertura dell’art. 1 del Protocollo n. 1.
È di tutta evidenza la capitale importanza delle affermazioni di principio: l’una, relativa alla stessa impostazione del pluralismo nell’informazione quale elemento portante di una moderna società democratica; l’altra, inerente alla tutelabilità di beni come oggetto di diritti che, va ricordato, nel sistema Cedu sono qualificati – a differenza di molte costituzioni nazionali e, tra le prime, di quella italiana – come diritti fondamentali dell’uomo.
4. Effettività della tutela giudiziaria
Con la premessa che i casi di interferenza del legislatore saranno trattati più avanti (vds. par. 7), meritano segnalazione almeno due sentenze: una sul recupero dei crediti e una sul ritardo con cui il risarcimento è stato accordato.
La prima sentenza, relativa alla causa De Luca c. Italia, ric. n. 43870/04, 24 settembre 2013, riguarda l’impossibilità di recuperare un debito riconosciuto con sentenza definitiva contro un ente locale in risanamento.
In particolare, dichiarato lo stato di dissesto da un Comune (nel dicembre 1993), era divenuta non eseguibile – e improduttiva di accessori – la condanna recata in favore del ricorrente da una sentenza intervenuta nel 2003, ma su azione iniziata nel 1992; nel 2005, il competente organo straordinario di liquidazione aveva riconosciuto un credito per almeno 42.028,58 euro e proposto una definizione bonaria per l’80 per cento, rifiutata dal ricorrente.
La Corte ha rilevato come, in violazione dell’art. 1 del Protocollo n. 1, a seguito della dichiarazione di dissesto, il ricorrente si sia trovato impossibilitato ad agire in via esecutiva contro il Comune, sicché il debito non è stato pagato e il diritto del ricorrente al rispetto dei suoi beni è stato frustrato. La transazione non avrebbe contenuto significativamente il sacrificio del ricorrente (che avrebbe perduto non solo il 20 per cento del montante, ma anche gli interessi e quanto necessario a compensare, almeno in parte, la svalutazione monetaria). Inoltre, la mancanza di risorse di un ente locale non può mai giustificare il fatto che questo ometta di adempiere agli obblighi derivanti da una sentenza definitiva emessa nei suoi confronti – e, si rimarca, trattasi del debito di un ente pubblico, e dunque dello Stato, derivante dalla sua condanna al pagamento di un risarcimento con una decisione giudiziaria.
Il principio è costantemente riaffermato anche in altre pronunce contro Stati membri diversi dall’Italia: è sempre illegittimo giustificare l’inesecuzione di una sentenza contro un ente pubblico con la carenza di fondi; può ammettersi un ritardo nell’esecuzione, purché non vanifichi l’essenza del diritto protetto; l’impossibilità di conseguire l’esecuzione di un provvedimento giurisdizionale definitivo integra una lesione del diritto al pacifico godimento dei diritti e una violazione del primo articolo del Protocollo n. 1 (tra le ultime sentenze, si vedano Spahić e altri c. Bosnia-Erzegovina, ricc. nn. 20514/15 e altri 15, e Kunić e altri c. Bosnia-Erzegovina, ricc. nn. 68955/15 e altri 15, entrambe del 14 novembre 2017).
Il secondo caso riguarda un’altra vicenda peculiarmente italiana, quella delle cause di risarcimento del danno contro lo Stato per i danni alla salute derivati dalla massa di emotrasfusioni non sicure effettuate, per lunghissimo tempo, almeno fino al 1992.
Si tratta della sentenza resa il 13 novembre 2014, in causa G.G. e altri c. Italia (ricc. nn. 3168/11 e altri 18)[5], la quale, pur se inserita in un sistema di precedenti analoghi (cfr. G.N. e altri c. Italia, ric. n. 43134/05, 1° dicembre 2009), si nota per la riaffermazione della violazione dell’art. 2 Cedu (che tutela, com’è noto, il diritto alla vita), ma sotto il profilo procedurale.
In estrema sintesi, si afferma che, di fronte all’esigenza di offrire una tutela adeguata e rapida al diritto alla vita, in quanto tale protetto appunto dall’art. 2 della Convenzione, lo Stato italiano è risultato inadempiente per l’eccessiva durata dei procedimenti – nella specie, civili, ma complicati in modo singolare dalle procedure amministrative tendenti alla definizione bonaria, nonché rispetto al trattamento indennitario di cui alla legge n. 210/92 – che avrebbero dovuto tutelare quel diritto almeno sotto il profilo risarcitorio.
In particolare, ha avuto rilevanza l’oggetto del giudizio, cioè la qualità della vita in relazione al male incurabile da cui era stata menomata per il fatto della controparte pubblica, richiedendosi in questo caso una «diligenza eccezionale», nonostante il pure riconosciuto numero di cause intentate, «tanto più che si trattava di una questione i cui termini erano noti al Governo da diversi anni e la cui gravità non poteva sfuggirgli».
In termini analoghi, la Corte Edu si era espressa in M.C. e altri c. Italia, ric. n. 5376/11, 3 settembre 2013, ravvisando anche una violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1 nelle norme interne (soprattutto l’art. 11, comma 13, dl n. 78/2010) che, a vario titolo ostacolando l’esecuzione delle decisioni favorevoli già conseguite dai ricorrenti, hanno comportato una ingiustificata ingerenza nel diritto dei ricorrenti al rispetto dei loro beni: pur potendo ammettersi un contemperamento con interessi generali, non si era perseguito un giusto equilibrio, avendo finito le soluzioni legislative per imporre ai singoli ricorrenti un carico anormale ed esorbitante.
Sostanzialmente, l’esigenza di risparmio di spesa in tempo di crisi non può essere un criterio preponderante nel bilanciamento di interessi operato dal legislatore, con la conseguenza di privare i cittadini, oltretutto già danneggiati dalla condotta illecita dello Stato, quantomeno per inerzia o incuria nella tutela del diritto alla salute, delle risorse necessarie alla loro cura e, più in generale, alla tutela dei loro diritti come garantiti dalla Cedu[6].
5. Espropriazione per pubblica utilità
È questo, forse, il campo di maggiore incidenza diretta nel diritto civile classico delle pronunce di Strasburgo, le quali hanno costretto prima la giurisprudenza, poi – almeno in parte – il legislatore a riconoscere la forza cogente della Convenzione, con modifiche talvolta anche sostanziali della disciplina concretamente applicabile.
Costanti e continui sono stati gli interventi della Corte Edu in materia di privazione dei diritti di proprietà per esigenze pubblicistiche, alla quale si riconduce la vasta tematica in tema di espropriazione per pubblica utilità: evidentemente, la complessiva impostazione italiana resta qui caratterizzata da principi, istituti e concetti non conformi alla Convezione[7].
A partire dalle più celebri Scordino c. Italia - la prima [GC], ric. n. 36813/97, 29 marzo 2006; la terza, ric. n. 43662/98, 17 maggio 2005 e 6 marzo 2007 (equa soddisfazione) – e dalle pronunce immediatamente successive, sono stati bollati come illegittimi sia l’istituto pretorio dell’occupazione acquisitiva o accessione invertita, sia i criteri di liquidazione per valore inferiore a quello di mercato (almeno in origine, da calcolarsi al tempo della perdita della proprietà, maggiorato del valore delle costruzioni realizzate). Basti qui una menzione a un gruppo di sentenze della Grande Camera del 2008: Pisacane e altri c. Italia, ric. n. 70573/01, 27 maggio 2008; Bortesi e altri c. Italia, ric. n. 71399/01, 10 giugno 2008 (entrambe anche di condanna per l’adozione di criteri retroattivi di rideterminazione in peius dell’indennità di espropriazione); Gigli Costruzioni Srl c. Italia, ric. n. 10557/03, 1° aprile 2008.
Di sicura rilevanza in materia è pure Guiso-Gallisay c. Italia [GC], ric. n. 58858/00, 22 dicembre 2009, ma nel solco degli stessi principi c’è stato uno stillicidio di condanne per l’Italia. Tra le ultime, si segnalano: Messana c. Italia, ric. n. 30801/06, 16 novembre 2017[8], sentenza di condanna per l’occupazione dei fondi del ricorrente in violazione delle norme dettate in materia di espropriazione per pubblica utilità; Conti e Lori c. Italia, ric. n. 7527/05, 16 novembre 2017, che conferma come l’istituto dell’espropriazione indiretta violi l’art. 1 Protocollo n. 1 alla Convenzione; Odescalchi e altri c. Italia, ric. n. 38754/07, 7 luglio 2015, sulla contrarietà allo stesso art. 1 del Protocollo dei vincoli di inedificabilità in presenza di autorizzazione a esproprio ormai scaduta, concretanti anch’essi un caso di espropriazione indiretta. Segue un altro gruppo di sentenze del 2015 (tutte della sez. IV), in cause Mango, Russo, Quintiliani, Pellitteri e Lupo, Preite (rispettivamente: ricc. nn. 38591/06, 14231/05, 9167/05, 50825/06, 28976/05), sempre in tema di illegittimità dell’espropriazione indiretta.
Sull’effettività dell’indennizzo si nota Chinnici c. Italia (n. 2), ric. n. 22432/03, 14 aprile 2015, che ha ritenuto violato l’art. 1 Protocollo n. 1 per l’omessa corresponsione della rivalutazione per l’inflazione relativa alla somma pure correttamente rapportata al valore venale del bene.
6. Ragionevole durata del processo
Non è questa la sede per ripercorrere la tematica della cd. “legge Pinto” e valutare la tenuta del relativo sistema alla luce della stessa giurisprudenza di Strasburgo.
Segnalando, sull’ineffettività del sistema, la nota sentenza Cocchiarella c. Italia [GC], ric. n. 64886/01, 29 marzo 2006, basti qui notare[9] che diversi sono i “punti caldi” ancora aperti rispetto al tema generale dei rapporti fra le misure introdotte a livello interno per conformarsi alla giurisprudenza europea e la ragionevole durata dei processi: nel magmatico sviluppo del settore aperto dalla l. n. 89/2001, hanno trovato posto orientamenti giurisprudenziali nazionali via via consolidati, accanto a revirement non meno marcati, talvolta suggeriti dalla Corte Edu, altre volte a essa ispirati, altre volte, invece, apertamente indirizzati a frenare la “mercificazione dei ritardi” del processo.
Le modifiche del 2012, volte al contenimento dell’impatto finanziario e allo snellimento procedurale (dl. n. 83/2012, convertito con modifiche in l. n. 134/2012), e del 2015 (legge di stabilità 2016, n. 208/15) necessitano ancora di una verifica quanto a compatibilità con la Convenzione, mentre ancora la giurisprudenza, soprattutto di legittimità, produce tuttora risultati talvolta distonici rispetto a quella di Strasburgo.
In materia, la Corte Edu è intervenuta anche di recente:
- con la sentenza resa in causa Cipolletta c. Italia, ric. n. 38259/09, 11 gennaio 2018, è stata riconosciuta sia la non ragionevole durata del processo, sia la carenza di un rimedio effettivo al creditore che non si sia visto esaminare per oltre venticinque anni la sua domanda di insinuazione o riconoscimento di un credito nei confronti di un’impresa soggetta a procedura concorsuale;
- con la sentenza resa in causa Bozza c. Italia, ric. n. 17739/09, 14 settembre 2017, è stata affermata la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo in relazione ai tempi complessivi non solo del giudizio di cognizione, ma pure del processo esecutivo a esso seguito, contrariamente alla decisione delle autorità nazionali, che anzi avevano perfino qualificato «tardivo» il procedimento “Pinto” computando il termine di decadenza dalla sentenza conclusiva del primo (con decisione confermata in Cassazione);
- con la sentenza resa in causa Olivieri e altri c. Italia, ricc. nn. 17708/12 e altri 3, 25 febbraio 2016, si è stabilito che integra la violazione dell’art. 13 Cedu, relativo al diritto a un ricorso effettivo, l’inammissibilità automatica dei ricorsi “Pinto”, basata unicamente sul fatto che i ricorrenti non hanno presentato istanza di prelievo, in quanto essa ha privato questi ultimi della possibilità di ottenere una riparazione adeguata e sufficiente;
- con la sentenza resa in causa Mongelli c. Italia, ric. n. 40205/02, 19 maggio 2015, l’eccessiva durata del procedimento “Pinto” – oltre sei mesi dopo il deposito della decisione alla cancelleria della Corte d’appello – è stata sanzionata a sua volta come violazione dello stesso art. 6, par. 1, della Convenzione;
- analogamente, con la sentenza resa in causa Di Sante c. Italia, ric. n. 32143/10, 27 aprile 2017, questo ritardo nel dare esecuzione alle decisioni “Pinto” è stato sanzionato come violazione di tale ultimo articolo, ma non anche dell’art. 1 Protocollo n. 1 alla Convenzione.
7. Retroattività delle leggi
Poiché è dedicato un distinto capitolo all’argomento[10], solo un cenno può, infine, essere fatto al divieto di ingerenza mediante provvedimenti legislativi su procedimenti in corso, con la sola eccezione di motivi imperativi di interesse pubblico: oggetto di diversi interventi proprio nei confronti dell’Italia, a partire dal caso del cd. “personale Ata” delle scuole e da quello delle cd. “pensioni svizzere”[11].
L’ampia letteratura fiorita sul punto – soprattutto a causa della reazione della Corte costituzionale e del conseguente adeguamento della giurisprudenza nazionale, a partire da quella di legittimità – e l’attenzione a esso dedicata in altra sede di questo stesso volume, giustificano la brevità del presente riferimento a tali emblematiche vicende.
Nel primo di questi casi, la linea rigorosa e garantista nei confronti dei diritti dei singoli – anche contro lo strapotere delle imperative esigenze di ordine pubblico, sostanzialmente quasi sempre meramente economiche – è affermata in Agrati e altri c. Italia, ricc. nn. 43549/08 e altri 2, 7 giugno 2011 (confermata, tra le altre, da Caligiuri e altri c. Italia, ricc. nn. 657/10 e altri 2, 9 settembre 2014), con cui è stata riconosciuta la violazione di tale norma (sotto il profilo della violazione del diritto alla “parità delle armi” e quindi alla protezione di interventi a processi pendenti a vantaggio di una delle parti), insieme a quella dell’art. 1 Protocollo n. 1, ma solo ove la concreta diminuzione del trattamento fosse stata superiore alla metà, nel caso di una legge di interpretazione autentica, applicabile pertanto retroattivamente e anche ai processi in corso, sulla base del computo del trattamento pensionistico del personale ausiliario della scuola (cd. “personale Ata”, anche rispetto ai giudizi in corso a tutela dei diritti patrimoniali già acquisiti, contro i rischi di una loro riduzione).
Nel secondo di detti casi, una legge di interpretazione autentica ha inciso anche sui giudizi in corso intentati dai pensionati con contribuzioni pagate in Svizzera, ove però le aliquote erano oltre quattro volte inferiori a quelle italiane, per conseguire prestazioni identiche a quelle dei lavoratori italiani. Nonostante il precedente specifico Maggio e altri c. Italia (ricc. nn. 46286/09 e altri 4, 31 maggio 2011), che aveva condannato l’Italia per la violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu, la Corte costituzionale (con sentenza del 28 novembre 2012, n. 264) ha invece ritenuto che ostassero al recepimento in Italia dell’interpretazione convenzionale invalicabili principi di ordine costituzionale, non adeguatamente soppesati dalla Corte di Strasburgo.
Anche in casi di più marcata singolarità – in cui, come acutamente si osserva[12], il ruolo di vittime è stato riconosciuto a consiglieri di Stato per il mancato riconoscimento di trattamenti economici più favorevoli –, la Corte di Strasburgo ha individuato una indebita ingerenza del legislatore, come per l’inesigibilità, stabilita dalla legge n. 388/2000, di crediti riconosciuti per differenze stipendiali in base a sentenze non ancora definitive: è l’ipotesi esaminata dalla sentenza resa in causa Guadagno e altri c. Italia, ric. n. 61820/08, 1° luglio 2014.
Seguono diverse condanne dell’Italia per la vicenda della legge n. 326/2003: a partire dalla sentenza resa in causa Azienda agricola Silverfunghi Sas e altri c. Italia (ricc. nn. 48357/07 e altri 3, 24 giugno 2014), per giungere, almeno di recente, alla pronuncia in causa Alpe Società agricola cooperativa e altri c. Italia (ricc. nn. 8726/09 e altri 38, 19 ottobre 2017), o a quella del 7 dicembre 2017, resa in causa Frubona c. Italia (ric. n. 4180/08).
Con la legge citata fu stabilito che gli sgravi contributivi e fiscali per i lavoratori di aziende agricole dovevano intendersi, contrariamente al diverso uso a lungo invalso, come alternativi e non cumulativi, con conseguente insussistenza del diritto a beneficiarne contemporaneamente nell’insieme. Ciò ha comportato:
- da un lato, la violazione dell’art. 6, par. 1, Cedu: sotto il profilo di una vietata ingerenza legislativa in procedimenti giudiziari pendenti, salvo che per motivi imperativi di interesse pubblico, visto l’impatto decisivo della legge suddetta sull’esito di un giudizio pendente e l’assenza di motivi imperativi di interesse pubblico per la sua applicazione retroattiva, non potendo semplici considerazioni di ordine economico giustificare, di per sé, il fatto che il legislatore si sostituisse ai tribunali;
- dall’altro, non anche la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1: sia pure intesi come beni posseduti i diritti dei ricorrenti su somme illecitamente trattenute dall’Inps, sotto il profilo che tale ingerenza aveva raggiunto un giusto equilibrio tra l’interesse pubblico e la tutela della proprietà, per il margine di apprezzamento nel campo delle misure generali di strategia economica, le quali, nella specie, avevano cercato piuttosto di ridurre la spesa pubblica; ciò anche a fronte della non eccessività dell’onere alle società ricorrenti, poiché esse erano riuscite a portare avanti la loro attività, avevano scelto di rinunciare ai benefici cumulativi per un certo numero di anni e godevano tuttora di almeno uno dei benefici.
- La tematica merita, peraltro, ben maggiore approfondimento[13], vista la differenza di prospettive tra la Corte di Strasburgo e la Corte costituzionale, e anche per la marcata distonia tra le relative pronunce, che prelude o sottintende una posizione di latente contrasto – se non vero e proprio conflitto – ancora più problematica nell’attuale contesto storico di sempre più spiccata riaffermazione delle peculiarità nazionali contro le strutture sovranazionali, pure fortemente volute sino ad appena pochi anni fa.
[1] In special modo, Grande Stevens e altri c. Italia, ricc. nn. 18640/10 e altri 4, 4 marzo 2014, compiutamente rivisitata da A. e B. c. Norvegia [GC], ricc. nn. 24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, ma anche richiamata da GIEM Srl c. Italia [GC], ricc. nn. 1828/06 e altri 2, 28 giugno 2018.
Tra gli approfondimenti anteriori alle due ultime sentenze della Grande Camera è inevitabile un rinvio a: G. De Amicis, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in A. Di Stasi (a cura di), Cedu e ordinamento italiano, CEDAM, Padova, 2016, p. 515; R. Bernabai, Sanzioni amministrative e Cedu, in V. Piccone (a cura di), Dialogando sui diritti – Corte di cassazione e Cedu a confronto, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, p. 109.
[2] Su cui si veda F. Verdoliva, Il diritto di accesso ad un giudice, in A. Di Stasi, Cedu, op. cit, CEDAM, Padova, 2016, p. 302.
[3] Tra le altre: Cass., sez. unite, 27 dicembre 2017, n. 30996. Sulla seconda parte: Cass., sez. III civ., ordinanza interlocutoria 14 febbraio-5 aprile 2017, n. 8845. Ha fatto applicazione del criterio della non univocità e non prevedibilità Cass., sez. III civ., 28 giugno 2018, n. 17036, per escludere un’interpretazione eccessivamente formalistica del n. 3 dell’art. 366 cpc.
[4] Per tutti, si veda M. Cuniberti, Pluralismo dei media, libertà di espressione e “qualità” della legislazione: il caso “Centro Europa 7” di fronte dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo, 25 settembre 2012, disponibile online: www.associazionedeicostituzionalisti.it (ultimo accesso 30 luglio 2018). Si veda anche M. Orofino, La libertà di espressione tra Costituzione e Carte europee dei diritti: Il dinamismo dei diritti in una società in continua trasformazione, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 46 ss.
Sulla nozione di beni a questi fini, si veda, fra molti, A. Gambaro, Beni e cose nel diritto europeo, in P. Cerami e M. Serio (a cura di), Scritti di comparazione e storia giuridica. II: ricordando Giovanni Criscuoli, Giappichelli, Torino, 2013, p. 209.
[5] Su cui si veda D. Marrani, Indennizzo per trasfusioni, in A. Di Stasi (a cura di), Cedu, op. cit., pp. 493 ss.
[6] Si veda D. Marrani, op. ult. cit., p. 499. Si tratta dei noti principi espressi già in tema di illegittimità delle limitazioni degli indennizzi ex lege 24 marzo 2001, n. 89 (“legge Pinto”), su cui vds. infra (par. 6).
[7] Per un panorama, nella vastissima produzione dottrinale, si veda, tra molti, G. Mari, Occupazioni sine titulo, espropriazione indiretta, acquisizione sanante e obblighi restitutori: gli orientamenti della giurisprudenza (ordinaria e amministrativa) a confronto, in Rivista giuridica dell’edilizia, n. 69/2016 (soprattutto p. 4, per le implicazioni dirette che riguardano la Corte Edu).
[8] A. Pisapia, La Ceduvaluta l’espropriazione indiretta, in Immobili e proprietà, n. 4/2018, p. 237.
[9] In linea con R. Conti, Legge Pinto, Corte di cassazione e Cedu su alcune questioni ancora controverse, in V. Piccone (a cura di), Dialogando, op. cit., p. 153.
[10] Si veda, in questo stesso volume, M. Massa, Le leggi interpretative retroattive nella diversa impostazione di Corte Edu e Corte costituzionale (n. 68).
[11] Per tutti, con riferimento a entrambi i leading case, si veda M. Massa, op. ult. cit., soprattutto il par. 2; vi si affronta, poi, anche la ricca e complessa problematica della tendenza al disallineamento, quando non proprio al conflitto, da parte della nostra Corte costituzionale rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Sul tema in generale, si vedano: G. Bronzini, I limiti alla retroattività della legge civile tra ordinamento interno ed ordinamento convenzionale: dal “disallineamento” al dialogo?, in V. Piccone (a cura di), Dialogando, op. cit., p. 119; M.J. Vaccaro e L. Ioele, Legge di interpretazione autentica ed equo processo, in A. Di Stasi (a cura di), Cedu, op. cit., p. 447.
[12] M. Massa, op. cit., par. 4, nota n. 22.
[13] Si rinvia, per tutti e per compiuti riferimenti, al contributo di M. Massa in questo stesso volume, già citato.