La pubblicità dell’udienza
1. Il diritto alla pubblica udienza nella giurisprudenza Cedu
Nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il diritto all’udienza pubblica si colloca nell’alveo delle garanzie che realizzano l’«equo processo», sancite dall’art. 6 Cedu. In particolare, la prima parte del par. 1 della disposizione normativa riconosce il diritto di ogni persona «a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti».
Invero, secondo l’interpretazione fornita dai giudici di Strasburgo, la pubblicità dell’udienza costituisce un elemento essenziale per l’attuazione del «fair trial», in quanto assicura trasparenza all’operato e alla decisione finale del giudice, impedendo «una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico». Inoltre è uno degli strumenti mediante i quali si realizza e preserva «la fiducia nelle corti e nei tribunali da parte della collettività, rassicurata sul fatto che lo sforzo di stabilire la verità sarà massimo». Ancora, in materia penale, la Corte europea sottolinea come il diritto a un’udienza pubblica abbia una valenza ulteriore, poiché garantisce all’imputato che «il suo caso è stato deciso da un tribunale, di cui egli ha potuto controllare indipendenza ed imparzialità»[1]. In tal senso, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, il carattere pubblico dei procedimenti diventa fondamentale in quei casi in cui, ad esempio, l’imputato è un detenuto accusato di reati compiuti all’interno dell’istituto penitenziario nei confronti degli agenti, quando, in aggiunta, gli unici testimoni sono altri agenti penitenziari: è evidente che si tratta di circostanze estremamente delicate, nelle quali il pubblico scrutinio contribuisce a dissipare i dubbi sulla corretta acquisizione della prova e, soprattutto, sulla piena imparzialità dell’organo giudicante[2].
Quanto al contenuto del diritto, la Corte insiste sul fatto che questo sia effettivo; pertanto, non basta che la pubblicità «non sia formalmente esclusa», ma deve essere «sostanzialmente garantita», facendo sì che il processo si tenga «in un luogo facilmente accessibile, in un’aula capace di contenere un certo numero di spettatori, normalmente raggiungibile e riconoscibile attraverso adeguata informazione». Nei casi eccezionali in cui il processo viene tenuto in luoghi particolari, al di fuori delle aule di giustizia, sarà compito precipuo dello Stato soddisfare queste condizioni.
L’esplicarsi di tale diritto realizza, quindi, sia una pubblicità immediata, poiché consente a ogni cittadino maggiorenne di partecipare al processo e avere una diretta percezione delle modalità con le quali viene amministrata la giustizia, sia una pubblicità mediata, capace però di raggiungere un numero illimitato di persone, attraverso la presenza della stampa e la sua opera divulgativa, contribuendo in tal modo alla realizzazione del diritto di cronaca riguardo alle vicende giudiziarie e all’attività dei pubblici poteri. Anche sotto quest’ultimo profilo, segnatamente, si coglie la funzionalità della pubblicità processuale ai fini della costruzione di una società democratica[3].
Se quanto detto è vero, tuttavia, l’obbligo di tenere un’udienza pubblica non è assoluto. In effetti, il par. 1 dell’art. 6 Cedu ammette che l’accesso alla sala d’udienza possa essere limitato al pubblico e alla stampa, durante tutto il processo o parte di esso, «nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia». Si tratta, in sostanza, di casi eccezionali, legati alla tutela di valori superindividuali o di interessi d’alto rango, di cui risultano portatori particolari soggetti. Da sottolineare è il richiamo finale alle «circostanze speciali», integranti un rovesciamento di prospettiva tale da rendere la pubblicità pregiudizievole nel caso concreto. A differenza delle ipotesi precedenti, tali situazioni non sono tipizzate, chiamando così il giudice del singolo processo a una valutazione sulla loro esistenza e incidenza nel procedimento in corso, a un bilanciamento con le esigenze di giustizia in gioco, fino a individuare la misura della limitazione strettamente necessaria alla pubblicità processuale. Non solo, proprio alla luce del carattere aperto della disposizione normativa, la giurisprudenza di Strasburgo riconosce alle autorità nazionali un «cospicuo margine di apprezzamento» nella tipizzazione interna dei limiti alla pubblicità. Resta fermo il fatto che, tanto tali norme interne quanto gli apprezzamenti giudiziali deroganti al principio di pubblicità, possono essere sottoposti al controllo della Corte europea[4].
Dal canto suo, la stessa Corte convenzionale ha sfruttato la formulazione dell’art. 6 Cedu per identificare fattispecie ulteriori nelle quali possa legittimamente derogarsi al canone della pubblicità. In special modo, i giudici di Strasburgo considerano rilevante, oltre alla necessità di proteggere la vita privata di terze persone, la natura delle questioni trattate nel procedimento, senza che possa darsi peso alla frequenza con la quale vengono affrontate: nel caso di questioni altamente tecniche, nelle quali la decisione si fonda su elementi contabili o pareri degli esperti (come nelle cause previdenziali, fiscali o disciplinari), nonché nel caso di questioni prettamente giuridiche, rispetto alle quali si pongano complessi problemi interpretativi, purché non entrino in gioco dispute relative alla credibilità dei soggetti – soprattutto dell’imputato o dei testimoni, in ambito penale – o alla valutazione e ricostruzione dei fatti, la Corte europea ritiene che i relativi procedimenti possano essere chiusi al pubblico, fino a ricevere una trattazione esclusivamente scritta. In queste circostanze, infatti, non possono ignorarsi esigenze di economia ed efficienza processuale, riguardo alle quali il principio di pubblicità risulterebbe recessivo e, addirittura, controproducente rispetto a un altro principio altrettanto fondamentale nell’ottica dell’equo processo: il diritto alla ragionevole durata del procedimento.
Alla luce di tali considerazioni, è interessante notare come la Corte europea abbia escluso che lo svolgimento del giudizio abbreviato italiano comporti una violazione dell’art. 6 Cedu, proprio perché con tale rito alternativo, a fronte di vantaggi indiscutibili per l’imputato, l’ordinamento persegue il fine di semplificare e accelerare la trattazione dei processi penali, garantendo un giudizio entro un termine ragionevole. Sennonché, in materia penale, concepita dalla Corte in modo ampio e autonomo, secondo i tre “criteri Engel”, in linea di principio è fondamentale che almeno l’udienza di primo grado sia tenuta rispettando tutti i canoni dell’art. 6 Cedu, tra cui la pubblicità. In effetti, il bilanciamento con le esigenze di economia e speditezza diviene più frequente nei giudizi di impugnazione, dove in genere sono affrontate quelle questioni che, in forza della giurisprudenza di Strasburgo, possono essere intese come “contro-limiti” al principio di pubblicità. In quest’ottica, è opportuno tener conto del procedimento nel suo complesso, per cogliere la funzione della giurisdizione d’appello o di cassazione, i relativi poteri, gli scopi perseguiti, nonché la natura delle questioni trattate: se un’udienza pubblica ha avuto luogo in prima istanza e i successivi gradi di giudizio affrontano appunto questioni di puro diritto o aspetti altamente tecnici, senza che si proceda all’assunzione di prove, può legittimamente giustificarsi l’assenza di pubblicità[5].
Se, quindi, la Corte ritiene rispettato l’art. 6 Cedu anche quando viene esclusa in toto la trattazione pubblica, a vantaggio del rito camerale, sempre che ricorrano le condizioni sopra esposte, tuttavia, vi è un ulteriore elemento in presenza del quale, nonostante le legittime deroghe, torna a riaffermarsi la necessità dell’udienza pubblica: si tratta dell’elevata «posta in gioco». Quando infatti, nel procedimento, sono coinvolti beni primari del giudicando, rispetto ai quali la decisione è destinata ad incidere in modo diretto e sostanziale, «non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato». In questi casi deve essere riconosciuta al giustiziabile la possibilità di richiedere al tribunale un’udienza pubblica, che potrà essere rifiutata solo qualora ciò sia «strettamente imposto dalle circostanze della causa», ossia da quei motivi particolari sopra richiamati. In definitiva, quando la disposizione normativa non prevede la pubblicità dell’udienza quale “modulo procedimentale”, la Corte europea affida al giudice del caso concreto un compito di grande rilevanza, quello cioè di valutare la causa, il suo impatto sulla situazione personale del giudicando e sui suoi interessi primari, al fine di ripristinare e mantenere la garanzia di un processo giusto in tutti i suoi aspetti. In questo modo, la pubblicità cessa di essere un canone oggettivo del fair trial, per trasformarsi in un diritto individuale, attivabile su domanda dell’interessato[6].
2. Le condanne subite dall’Italia per la violazione del canone di pubblicità
Nonostante il principio di pubblicità non sia espressamente incluso tra i paradigmi costituzionali del processo, il nostro ordinamento, all’art. 471 cpp, prevede la pubblicità quale regola generale dell’udienza dibattimentale, tutelata a pena di nullità. La norma successiva detta, poi, una serie di casi eccezionali in cui il giudice può o deve procedere a porte chiuse, a garanzia di interessi della collettività, dello Stato, o di soggetti coinvolti nel procedimento. Accanto a questa disciplina, non mancano diversi riti celebrati in camera di consiglio, senza la presenza del pubblico e variamente articolati: si va dalla forma ordinaria ex art. 127 cpp, nella quale le parti sono libere di partecipare o non all’udienza, a quella dell’art. 666 cpp, che richiede la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero, fino alla camera di consiglio non partecipata, prevista dall’art. 611 cpp per il giudizio di cassazione rispetto a provvedimenti non emessi in dibattimento, nella quale il contraddittorio è meramente cartolare.
Ora, ferma la legittimità di tali procedimenti, i quali perseguono innegabili esigenze di semplificazione ed economia processuale, la Corte europea vi ha riscontrato alcune criticità, arrivando a sentenze di condanna per l’Italia, le quali hanno inevitabilmente avviato un processo di adeguamento interno agli standard convenzionali. La prima di tali pronunce, la sentenza Bocellari e Rizza c. Italia del 2007, ha investito il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione reali, tenuto in camera di consiglio, rispetto al quale la Corte europea ha ritenuto violato l’art. 6, §1, Cedu, poiché non era prevista dalla normativa in materia la possibilità, per il prevenuto, di richiedere lo svolgimento di un’udienza pubblica. La Corte, infatti, pur riconoscendo l’esigenza di tutelare interessi superiori, nonché il carattere tecnico del procedimento, ha sottolineato come non possa ignorarsi l’elevata posta in gioco delle procedure di prevenzione, destinate a incidere sulla situazione patrimoniale del giustiziabile: «davanti a tale posta in gioco, non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato». Il principio è stato confermato anche in successive pronunce, sempre relative al procedimento di prevenzione, con le quali, quindi, i giudici di Strasburgo hanno messo in luce un vero e proprio deficit interno di tutela rispetto alla fair hearing convenzionale[7].
La medesima conclusione è stata affermata dalla sentenza Lorenzetti c. Italia del 2008, con riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione. In quell’occasione, i giudici di Strasburgo hanno escluso che il procedimento riguardasse questioni di carattere tecnico, le quali avrebbero giustificato l’assenza di pubblicità, perché – al contrario – i giudici interni sono chiamati a valutare se l’interessato, con la sua condotta, abbia contribuito alla propria detenzione intenzionalmente o per colpa grave. Trattandosi di questioni di fatto, non può essere esclusa a priori la presenza del pubblico e il suo controllo, così dovendo quanto meno consentire al ricorrente di sollecitare un’udienza pubblica[8].
Da ultimo, merita di essere menzionata anche la nota sentenza Grande Stevens c. Italia del 2014, relativa al procedimento di irrogazione delle sanzioni per «manipolazione del mercato». Dopo aver affermato il carattere penale delle sanzioni in questione, nel merito, la Corte europea ha ammesso che non è contrario all’art. 6 della Convenzione un procedimento amministrativo che porti all’irrogazione di sanzioni, senza rispettare tutti i crismi dell’equo processo, purché però tale decisione sia sottoposta successivamente al controllo di un organo giudiziario avente piena giurisdizione. Nel caso in questione, le sanzioni inflitte erano prima state contestate dinanzi alla corte d’appello e, in seguito, alla Corte di cassazione, superando in tal modo i precedenti deficit di garanzia processuale, a eccezione di quello relativo alla pubblicità dell’udienza. In effetti, l’appello si era svolto con un rito camerale, benché la controversia fosse inerente a fatti, e le sanzioni, al di là del loro valore economico, avessero un carattere infamante, potendo pregiudicare l’onorabilità e il credito professionale dei destinatari. Non poteva neanche darsi peso al fatto che un’udienza pubblica fosse stata tenuta in Cassazione, poiché «quest’ultima non era competente per esaminare il merito della causa, accertare i fatti e valutare gli elementi di prova». In definitiva, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato una violazione dell’art. 6 Cedu proprio per la mancanza della garanzia della pubblicità, impiegando, anche nel contesto di un procedimento amministrativo avente, però, caratteristiche penali, i criteri della natura delle questioni trattate e della rilevanza della posta in gioco[9].
3. Le implicazioni nell’ordinamento interno
Come anticipato, le pronunce dei giudici di Strasburgo hanno inevitabilmente smosso le acque e innescato nell’ordinamento nazionale un percorso di adattamento ai dicta europei, percorso che ha preso il via proprio dal procedimento di prevenzione. Innanzitutto, in materia di misure di prevenzione, è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 93 del 2010, la quale ha fatto propria l’impostazione della Corte europea, dichiarando costituzionalmente illegittimi gli articoli che all’epoca ne disciplinavano il procedimento di applicazione, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica davanti al tribunale e alla corte d’appello. Secondo la Consulta, l’assenza nella Costituzione di un esplicito riferimento al principio di pubblicità non ne scalfisce il valore costituzionale, poiché «la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione». È pur vero che tale principio non ha valore assoluto, ma può venire meno solo qualora ricorrano ragioni giustificative obiettive e razionali, che, nel caso del dibattimento penale, perseguono esigenze di tutela di beni costituzionalmente rilevanti. Nel procedimento di prevenzione, il giudice è chiamato a esprimere un giudizio di merito, destinato a incidere su beni dell’individuo a rilevanza costituzionale, quali la libertà personale, il patrimonio, nonché la libertà di iniziativa economica; pertanto, non può negarsi al prevenuto il diritto di chiedere un’udienza pubblica, la quale potrà essere negata dal giudice in base alle peculiarità del caso concreto, nei limiti dell’art. 472 cpp[10].
La Corte costituzionale ha invece escluso la medesima conclusione, nell’ambito del procedimento di prevenzione, con riferimento al giudizio di legittimità, il quale si svolge nelle forme dell’udienza camerale non partecipata. La relativa questione di legittimità costituzionale è stata rigettata sul presupposto che il principio affermato dalla Corte di Strasburgo in materia di pubblicità fosse riferito unicamente ai giudizi di merito: infatti, secondo la Consulta, la mancata menzione del giudizio di legittimità assume «una valenza ad excludendum». Considerando la natura dei giudizi di impugnazione e, in special modo, di quello di legittimità, richiamando anche la consolidata giurisprudenza europea sul punto, si afferma come «la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso alla sala d’udienza (…), si apprezza, difatti (…), in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative»[11].
In seguito a tali pronunce, è intervenuto il legislatore, il quale ha provveduto a riformare la materia delle misure di prevenzione con il d.lgs 6 settembre 2011, n. 159, di fatto recependo agli artt. 7 e 10 la disciplina elaborata dalle Corti.
Nel 2012 un’analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata relativamente al procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, sulla scorta della pronuncia europea in materia, nella parte in cui non consente appunto l’udienza pubblica su istanza degli interessati. In quell’occasione, però, la Consulta ha dichiarato inammissibile la questione per difetto di rilevanza, poiché nel giudizio a quo la parte non aveva mai richiesto la trattazione pubblica. Tuttavia, l’orientamento espresso dalla stessa Corte costituzionale nelle precedenti decisioni lascia supporre che la censura possa, in un futuro, trovare accoglimento[12].
Nonostante non vi fosse stata una pronuncia della Corte europea, il nostro giudice delle leggi ha dichiarato incostituzionale il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza di fronte al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nella parte in cui non prevede la possibilità di un’udienza pubblica su richiesta dell’interessato. La conclusione raggiunta è la stessa delle sentenze precedenti: la Corte costituzionale ha ritenuto applicabile la giurisprudenza europea in materia di misure di prevenzione e ingiusta detenzione, sottolineando come nel caso di specie si tratti di un procedimento estremamente delicato, in cui si accerta la pericolosità sociale del soggetto, foriera di conseguenze rilevanti per la libertà personale dell’individuo. L’elevata posta in gioco e il carattere non tecnico del procedimento rendono la pubblicità, quanto meno su richiesta, una garanzia indispensabile ai fini dell’attuazione del giusto processo.
Le stesse argomentazioni hanno poi, come detto, portato alla pronuncia di incostituzionalità delle norme disciplinanti il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, nella parte in cui appunto non prevedono la pubblicità su istanza degli interessati[13]. Come ha evidenziato autorevole dottrina, in questo caso la pronuncia ha una portata ancora maggiore, poiché non riguarda una specifica procedura come le precedenti, ma tutte quelle di competenza del tribunale di sorveglianza[14]. Nello stesso anno, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime, per lo stesso motivo, anche le norme relative al procedimento di opposizione contro l’ordinanza applicativa della confisca, trattandosi di procedura incidente su un diritto «munito di garanzia convenzionale», caratterizzata da accertamenti di fatto e da un’elevata posta in gioco, il cui esito può pregiudicare anche un soggetto terzo rimasto del tutto estraneo al giudizio di cognizione. A fronte di tali caratteristiche, anche in questo caso, non è ammissibile una deroga assoluta al principio di pubblicità[15].
Da ultimo, va segnalata una recente pronuncia in cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del procedimento di riesame delle misure cautelari coercitive, sollevata proprio per l’impossibilità di richiedere un’udienza pubblica. Pur ribadendo il carattere costituzionale del principio di pubblicità delle udienze, la Consulta ha evidenziato il carattere incidentale e cartolare del procedimento in esame, non finalizzato all’acquisizione della prova, ma a una decisione che, seppur limitativa della libertà personale dell’individuo, «è intrinsecamente provvisoria, essendo destinata ad essere superata dagli esiti del successivo giudizio», nel quale, peraltro, «il principio di pubblicità trova il suo naturale sbocco, satisfattivo della relativa esigenza costituzionale». In sostanza, nel procedimento di riesame, l’assenza di pubblicità è il frutto «di un ragionevole esercizio della discrezionalità che al legislatore compete in materia», tenuto conto anche delle comprensibili esigenze di speditezza e segretezza esterna degli atti di indagine che lo caratterizzano – a differenza di quanto accade nei procedimenti relativi alle misure di prevenzione e di sicurezza, che sono procedimenti autonomi recanti giudizi definitivi sul thema decidendum, rispetto al quale non potrebbe più esercitarsi il controllo del pubblico[16].
4. Riflessioni conclusive
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Quello che emerge dal panorama sopra delineato in tema di pubblicità è uno scenario composito, nel quale risultano protagoniste la Corte europea e la Corte costituzionale. Quest’ultima, in particolare, pur dimostrandosi sensibile alle sollecitazioni della Corte di Strasburgo, applicandone gli orientamenti anche al di fuori dei casi espressamente oggetto del sindacato europeo, non manca, però, di salvaguardare altresì quelle esigenze che sono alla base dei procedimenti camerali, rispetto alle quali un’estensione generalizzata della trattazione pubblica potrebbe risultare nociva. Nondimeno, dalle sentenze additive della Consulta, analogamente a quanto statuito dalla Corte europea, prende vita una forma di pubblicità “su richiesta” dell’interessato che ha sollevato diverse perplessità e timori in dottrina. In effetti, si è detto che in tal modo viene delineato un diritto alla pubblicità in termini potestativi, di fronte al quale il giudice nazionale non avrebbe quel potere di valutare in concreto se sia prevalente l’interesse alla pubblicità, ma sarebbe vincolato all’istanza dell’interessato, senza alcun margine di apprezzamento, se non la verifica delle circostanze tipizzate dall’art. 472 cpp. Inoltre, le pronunce non chiariscono come assicurare la pubblicità qualora vi sia una pluralità di giudicabili: secondo alcuni, sarebbe necessaria la richiesta di tutti i possibili interessati, come previsto per il giudizio abbreviato; secondo altri, sarebbe sufficiente anche una sola domanda, non ritenendo applicabile la disciplina del rito abbreviato per diversità di ratio[17]. Ancora, ci si interroga su quali siano le forme da adottare qualora venga accolta la richiesta di pubblicità nel corso del rito camerale. Secondo autorevole dottrina, l’espressione «nelle forme dell’udienza pubblica», impiegata nelle sentenze costituzionali esaminate, induce a ritenere che non sia sufficiente la mera apertura al pubblico della camera di consiglio, dovendo trovare applicazione tutta la disciplina dell’udienza contenuta nel Libro VII del codice penale[18].
In conclusione, le numerose pronunce sopra richiamate e gli interrogativi che ne derivano palesano l’esigenza di un intervento legislativo che, recependo gli insegnamenti della Corte europea e della Corte costituzionale, si assuma il compito di chiarire quando e come garantire il diritto alla pubblica udienza all’interno dei vari procedimenti camerali, anche al fine di eliminare ingiustificate disparità di trattamento normativo. Sennonché, risulta fondamentale evitare che il rispetto del canone di pubblicità sfoci in una irrazionale solennizzazione delle forme, poiché se è vero che il principio di pubblicità è funzionale alla realizzazione dell’equo processo, è altrettanto vero che quest’ultimo passa anche attraverso modalità semplificate, funzionali a un’efficiente amministrazione della giustizia, nell’interesse dei singoli e di quella stessa collettività in genere chiamata a effettuarne il controllo.
[1] Per tutti tali principi, si veda Corte Edu, Riepan c. Austria, 14 novembre 2000, § 27; Tierce e altri c. San Marino, 25 luglio 2000, § 92; Serre c. Francia, 29 settembre 1999; Szucs c. Austria, 24 novembre 1997; Acsen c. Germania, 8 dicembre 1983.
[2] Corte Edu, Riepan c. Austria, cit.
[3] Sul contenuto del diritto, in giurisprudenza, ibidem, relativamente a un’udienza tenuta in carcere, senza che il pubblico fosse stato adeguatamente informato sulle modalità con cui raggiungere l’istituto penitenziario, accedervi e assistere al processo, tenuto – per giunta – in una stanza non adeguatamente attrezzata come aula di giustizia. In dottrina, sugli aspetti della pubblicità, si vedano, tra gli altri: A. De Caro, Udienza pubblica e diritto alla partecipazione diretta al processo, in A. Gaito (a cura di), I principi europei del processo penale, Dike, Roma, 2016, p. 429; M. Chiavario, sub art. 6,in S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDAM, Padova, 2001, pp. 154-248,precisa che, stante il riferimento al «trial», contenuto nella disposizione normativa, il regime della pubblicità è richiesto solo in relazione al “giudizio”, ossia alla fase che prelude a una decisione idonea a chiudere il processo. Perciò, la norma non impedisce che fasi di mero passaggio o momenti meramente preparatori siano chiusi al pubblico.
[4] Sul punto, Corte Edu, Guisset c.Francia, 26 settembre 2000; Hakansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990; Engel c. Paesi Bassi, 8 giugno 1976, §§ 82-83. In dottrina, M. Chiavario, sub art. 6, op. cit., p. 200; P. Bronzo, La pubblicità delle udienze, in A. Gaito e D. Chinnici (a cura di), Regole europee e processo penale,CEDAM, Padova, 2016, p. 138.
[5] Sulle possibili deroghe al canone della pubblicità: Corte Edu, Chiper c. Romania, 27 giugno 2017; Jussila c. Finlandia, 23 novembre 2006; Hermi c. Italia, 18 ottobre 2006; Miller c. Svezia, 8 febbraio 2005; Botten c. Norvegia, 19 febbraio 1996; Schuler-Zgraggen c. Svizzera, 24 giugno 1993; Monnell e Morris c. Regno Unito, 2 marzo 1987; Sutter c. Svizzera, 22 febbraio 1984. Riguardo al giudizio abbreviato, ex multis: Corte Edu, Hermi c. Italia, cit., §§ 22-24; Greco c.Italia, 28 ottobre 2013; Fornataro c. Italia, 26 settembre 2017, la quale ribadisce che la rinuncia a parte delle garanzie di un processo equo «non deve essere in contrasto con alcun interesse pubblico importante»; si veda anche Cass. pen., sez.unite, 21 dicembre 2017, n. 14800. Sui criteri Engel: Corte Edu, Engel c. Paesi Bassi, cit; Jussila c. Finlandia, cit., § 43, nella quale si ammette come la Corte abbia finito per accogliere una nozione molto ampia di materia penale, nella quale sono confluiti anche gli illeciti amministrativi, quelli disciplinari, doganali, penitenziari, fiscali, fino a quelli relativi al diritto di concorrenza. In dottrina, parla di «contro-limiti» al principio di pubblicità P. Bronzo, Pubblicità delle udienze e dialogo tra corti: la pubblicità “su richiesta”,in Cass. pen., 2016, p. 1766; in tema, anche S. Furfaro, Il diritto alla pubblicità dell’udienza tra sistema interno e giusto processo europeo, in Giur. it., 2008, p. 1765.
[6] Ex plurimis Corte Edu, Bocellari e Rizza c. Italia, 13 novembre 2007; Martinie c. Francia, 12 aprile 2006. In dottrina, P.Bronzo, La pubblicità, cit., pp. 139 e 164, il quale definisce l’«alta posta in gioco» come una circostanza contro-eccezionale a quelle che giustificherebbero la trattazione camerale; parlano di «delega di bilanciamento in concreto», con riferimento all’attività del giudice, A. Guazzarotti, Bilanciamenti e fraintendimenti: ancora su Corte costituzionale e Cedu, in Quad. cost., 2010, p. 595, e F. Licata, Il rito camerale di prevenzione di fronte ai diritti fondamentali, in Giur.cost., 2010, p. 1080. Vds. anche S. Ciampi, Alla ricerca di un procedimento camerale “giusto”: l’udienza pubblica tra esigenze di garanzia ed obiettivi di funzionalità, in Dir. pen. proc., n.4/2014, p. 15.
[7] Sul punto, Corte Edu, Bocellari e Rizza c. Italia, cit., §§ 38-40; successivamente, Corte Edu, Perre e altri c. Italia, 8 luglio 2008; Bongiorno c. Italia, 5 gennaio 2010; Leone c. Italia, 2 febbraio 2010; Capitani e Campanella c. Italia, 17 maggio 2011. Gli stessi principi sono stati recentemente estesi anche al procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione personali: Corte Edu, De Tommaso c. Italia, 23 febbraio 2017. In tema, tra gli altri, S. Ciampi, Alla ricerca, op.cit., p. 14; A. La Placa, Dalla Corte europea dei diritti dell’uomo un’importante sottolineatura della pubblicità delle udienze come carattere fondamentale del giusto processo,in Leg. pen., 2008, p. 2658; N. Plastina, Il rito camerale nelle procedure per le misure di prevenzione nell’ordinamento italiano: la Corte europea ne assolve l’equità, ma ne censura parzialmente la mancata pubblicità, in Cass. pen., 2008, p. 1633. Sulla pubblicità interna, P. Bronzo, La pubblicità, op. cit., p. 140.
[8] Corte Edu, Lorenzetti c. Italia, 10 aprile 2012, §§ 33-34.
[9] Corte Edu, Grande Stevens c. Italia, 4 marzo 2014, §§ 116-123, 139, 155. Sul punto, P. Bronzo, La pubblicità, op. cit., p. 152; S. Ciampi, Alla ricerca, op.cit.,p. 22.
[10] Corte cost., 12 marzo 2010, n. 93. La pronuncia ha dichiarato incostituzionali gli artt. 4 l. n. 1423/1956 e 2-ter l. n. 575/1965.
[11] Corte cost., 11 marzo 2011, n. 80. Critico sulla sentenza A. De Caro, Udienza pubblica, op.cit., p. 442.
[12] Corte cost., 18 luglio 2013, n. 214. In dottrina, S. Ciampi, Alla ricerca, op. cit., p. 20; P.Bronzo, La pubblicità, op. cit., p. 147.
[13] Riguardo al procedimento per l’applicazione di misure di sicurezza, Corte cost., 19 maggio 2014, n. 135; sul procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, Corte cost., 15 aprile 2015, n. 97.
[14] Secondo M. Ruaro, Il diritto alla pubblicità dell’udienza nel procedimento di sorveglianza: un plauso alla Corte con qualche (non piccolo) interrogativo, in Giur. cost., 2015, p. 1566, la disciplina emergente non risulterebbe sempre giustificata, in quanto, da un lato, il diritto a chiedere l’udienza pubblica è stato esteso anche a procedimenti nei quali potrebbe risultare controproducente, come nel caso della riabilitazione; dall’altro, ne sono rimasti esclusi quelli di fronte al magistrato di sorveglianza, talvolta molto delicati (si pensi a quelli ex artt. 35-bis o 35-ter). Critico anche P. Bronzo, Pubblicità delle udienze, op. cit., p. 1773, il quale ritiene che la Corte avrebbe dovuto fare una verifica più accurata sulla compatibilità della disciplina interna con la Convenzione secondo un itinerario a tre fasi, da seguire in tutti i casi in cui, come quello in questione, non vi è stata una specifica condanna della Corte di Strasburgo.
[15] Corte cost., 15 aprile 2015, n. 109.
[16] Corte cost., 24 ottobre 2017, n. 263.
[17] Le osservazioni critiche sono di P. Bronzo, La pubblicità, op. cit., pp. 158 ss; contra F. Licata, Il rito camerale, op. cit., p. 108, il quale ritiene che la Corte costituzionale abbia avallato l’impostazione della Corte europea nel senso di riconoscere al singolo giudice nazionale il compito di bilanciare le esigenze di tutela del caso concreto, a fronte dell’istanza di pubblicità.
[18] A. Gaito e S. Furfaro, Consensi e dissensi sul ruolo e sulla funzione della pubblicità delle udienze penali,in Giur. cost., 2010, pp. 1073-1074.