Tra procedura e legittimazione politica.
Il (fragile) momento costituzionale della Corte europea dei diritti dell’uomo
1. Al volgere del decennio in corso, il sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo si prepara ad affrontare nuove sfide. Si ripropongono in particolare con rinnovato vigore, ma in termini in larga parte nuovi rispetto al più recente passato, gli interrogativi intorno al ruolo e ai limiti di azione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che di quel sistema costituisce l’istituzione più rappresentativa e autorevole, oltre che l’organo cui è affidata la funzione di interprete eminente della Convenzione e degli obblighi che da essa discendono per gli Stati contraenti.
Negli ultimi anni, la Corte europea è stata chiamata a far fronte a un vasto ed eterogeneo ordine di critiche e proposte di riforma, provenienti sia dall’interno dell’apparato istituzionale del Consiglio d’Europa, che presiede alla disciplina della sua organizzazione e della sua procedura, sia da quegli Stati che, in misura maggiore o minore, hanno criticato in modo aperto e sistematico le sentenze con cui la Corte prendeva atto di violazioni significative a livello nazionale.
Dal primo punto di vista, è noto come il processo di riforma interna degli strumenti operativi della Corte si sia avviato con il Protocollo n. 14 (sottoscritto nel 2004 ed entrato in vigore il 1° giugno 2010), cui hanno fatto seguito le successive conferenze di Interlaken (2010), Smirne (2011), Brighton (2012), Brussel (2015) e, da ultimo, Copenaghen (2018), in cui sono stati affrontati soprattutto i nodi relativi alla gestione dell’enorme arretrato che i giudici di Strasburgo si sono trovati a fronteggiare negli anni 2000. In tali occasioni, accanto a una modifica di taluni aspetti procedurali, si è talvolta assistito al tentativo di influire anche su aspetti propriamente sostanziali dell’operato della Corte, con l’intento non sempre celato di limitarne gli spazi di manovra e di contenerne la “creatività” interpretativa. Il fronte su cui si è tuttavia assistito, con maggiore evidenza, a reazioni molto critiche nei confronti della Corte è, dal secondo punto di vista, quello che ha spinto taluni Stati a “sfidare” apertamente la giurisprudenza europea, sia limitandone drasticamente in via giurisprudenziale l’efficacia a livello interno, sia giungendo talvolta a dichiarare in via sistematica l’inefficacia di quelle pronunce che non tenessero adeguatamente conto delle peculiarità del quadro costituzionale. Se i casi più noti sono quelli, emblematici nella loro diversità, del Regno Unito e della Russia (che sono arrivate entrambe a minacciare l’uscita dalla Convenzione, dopo avere in vario modo limitato l’efficacia delle sentenze nel diritto interno)[1], non bisogna dimenticare situazioni analoghe come quelle che si sono prodotte, più di recente, in Danimarca[2] e in Slovenia[3].
Su entrambi questi fronti, a venire in gioco pare, in ultima istanza, la ragion d’essere e la stessa legittimazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, per come essa si è venuta consolidando nella sua pluridecennale storia e dopo un lungo periodo – quello conseguente al crollo del muro di Berlino e all’allargamento a Est della sfera di applicazione della Cedu – in cui tale spinta propulsiva sembrava pressoché inarrestabile.
Nelle riflessioni che seguono si cercherà di esaminare congiuntamente questi due aspetti (le riforme della procedura e il diffondersi di fenomeni di backlash a livello nazionale) per
dimostrare come lungo questi due fronti, solo apparentemente slegati l’uno dall’altro, stia in realtà passando una complessiva riconfigurazione della fisionomia della Corte europea, del suo ruolo e della sua legittimazione. Se, da un lato, tale processo spinge ad abbandonare alcune classificazioni in voga in passato, dall’altro pone il problema di ripensare il fondamento su cui riposa l’effettività del sistema convenzionale e il rispetto delle sentenze del suo giudice.
2. Un’analisi delle statistiche pubblicate sul sito della Corte Edu rivela che, negli ultimi anni, l’enorme arretrato pendente si è andato progressivamente riducendo, fino a toccare oggi numeri vicini alla stagione immediatamente precedente l’esplosione dei ricorsi[4]. Questo risultato pare dovuto a un insieme di fattori, in larga parte coincidenti con scelte organizzative introdotte con il Protocollo n. 14 o connessi a misure di organizzazione interna, ma anche legato ad alcuni indirizzi giurisprudenziali che, in modo talvolta creativo, hanno contribuito significativamente all’alleggerimento complessivo del carico decisionale e al “dirottamento” dei ricorsi verso il circuito nazionale di provenienza.
Dal primo punto di vista, basterebbe ricordare gli effetti prodotti dall’introduzione del cd. giudice unico che, ai sensi dell’art. 27 della Convenzione, «può dichiarare irricevibile o cancellare dal ruolo della Corte un ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 quando tale decisione può essere adottata senza ulteriori accertamenti». A una tale soluzione, definita eloquentemente come
«spectacular» dall’allora presidente Nicholas Bratza[5], si deve la gran parte dell’eliminazione dell’arretrato pendente, come è dimostrato dalla mole crescente di ricorsi dichiarati prima facie inammissibili già nei primissimi anni di applicazione del nuovo sistema[6]. Si tratta, però, di una soluzione che non ha mancato – come si vedrà – di suscitare perplessità, soprattutto tenendo conto del fatto che i provvedimenti che dichiarano l’irricevibilità risultano poco o nulla motivati e sono decisi, nella sostanza, più che dai singoli giudici delegati, da non-judicial rapporteur facenti parte della Cancelleria della Corte. Su questi soggetti, vista la mole di atti e di ricorsi trasmessi giornalmente, ricade il compito di istruire il fascicolo e sottoporre al giudice una proposta di eliminazione dal ruolo. Di norma, tale proposta diventa definitiva, a meno che il giudice la rifiuti espressamente, nel giro di un paio di settimane, e richieda che il fascicolo stesso sia assegnato a una camera (art. 29) o a un comitato (art. 28)[7].
Nella stessa direzione “deflattiva” andava, poi, la clausola introdotta nell’art. 35, par. 3, lett. b) Cedu, secondo la quale «La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che (...) (b) il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno». Con essa si mirava soprattutto a fornire alla Corte uno strumento in grado di filtrare ricorsi pretestuosi (trivial), così da sancire espressamente il principio de minimis non curat praetor, che pure era stato invocato da lungo tempo in talune opinioni dissenzienti[8]. Senonché, tale clausola si è rivelata largamente inservibile allo scopo, perché un’analisi intorno all’esistenza effettiva di un pregiudizio importante richiede pur sempre una valutazione di merito, il che spiega perché la percentuale di ricorso a questa causa di inammissibilità dei ricorsi è stata finora assai poco significativa[9].
Ben più rilevante si è rivelata, invece, la tendenza della Corte ad affrontare creativamente (quindi anche al di là degli strumenti ad essa forniti dal Protocollo n. 14) il problema dei cd. ricorsi ripetitivi, espressivi il più delle volte di violazioni sistemiche o strutturali della Convenzione da parte di un medesimo Stato membro.
Tali ricorsi, come si sa, possono essere presi in carico e risolti anche nel merito nel senso dell’accoglimento (oltre che dell’ammissibilità), lì dove esista un diritto consolidato della Corte, dai comitati di tre giudici istituiti dall’art. 28 della Convenzione, par. 1, lett. b). Ma quello dei ripetitive cases è, soprattutto, il fronte su cui si sono sviluppate negli ultimi anni le cd. sentenze pilota, che hanno trovato un esplicito riconoscimento nell’art. 61 del Regolamento di procedura della Corte e grazie alle quali essa è riuscita a gestire (e, spesso, a risolvere) casi di violazione sistemica, indirizzando le autorità nazionali verso procedure di adattamento e di compliance alle indicazioni provenienti dal sistema sovranazionale, facendo poi ricadere sulle medesime autorità interne il compito di soddisfare le pretese dei ricorrenti mediante strumenti compensativi o, dove possibile, restitutori.
Meno significativo statisticamente – ma ugualmente se non più indicativo delle strategie cui fa ricorso la Corte – è il caso delle decisioni in cui la predisposizione di percorsi generalizzati per porre rimedio a violazioni seriali è elaborata dalla Corte rispetto a situazioni simili ma non identiche (ad esempio, perché provenienti anche da Stati diversi), in cui essa adotta decisioni di principio (judgments of principle) nei confronti di uno Stato, chiamando gli altri Stati a rendere conto di come essi intendano adeguarsi a quanto stabilito, in presenza di un quadro fattuale e normativo analogo, nel “caso madre”[10]. Nel caso M.S.S. c. Belgio e Grecia[11], ad esempio, la constatazione di una violazione del diritto dei richiedenti asilo di essere rimpatriati in Grecia nell’ambito dell’applicazione del Regolamento di Dublino ha spinto la Corte a chiedere ad altri Stati, per i quali si poneva lo stesso problema, come intendessero dare applicazione al principio stabilito in M.S.S. e a dichiarare i relativi ricorsi inammissibili ove, dalle autorità nazionali, fossero venute chiare dimostrazioni di volersi attenere a quel principio[12].
È necessario da ultimo menzionare la novità, introdotta a partire dal 2009[13], consistente nella possibilità per la Corte di dotarsi di una priority policy, ossia di un elenco in cui si fissa l’urgenza della trattazione dei diversi ricorsi giunti alla Corte secondo un ordine decrescente di gravità riferito al parametro convenzionale violato o, soprattutto, alla tipologia di violazione lamentata[14]. Come è stato giustamente notato, la priority policy non si traduce per la Corte nella possibilità di operare una selezione delle issues di cui occuparsi, ma solo in una risposta alle sollecitazioni provenienti dai singoli ricorrenti e dalle ong attive nel campo dei diritti umani, che da lungo tempo hanno invocato questo strumento al fine di preservare la perdurante centralità del ricorso individuale come perno indefettibile dell’azione della Corte[15].
Il quadro che emerge dal complesso di queste novità, e dalle altre che sono contenute nel Protocollo n. 15 (non ancora entrato in vigore) e nel meccanismo dei pareri consultivi introdotto dal Protocollo n. 16 (entrato in vigore nell’agosto del 2018), restituiscono l’immagine di una Corte che ha saputo, da un primo punto di vista, sicuramente rinnovare i suoi metodi di lavoro, cercando soprattutto di preservare la complessa interazione – costitutiva per la sua stessa ragion d’essere e la sua perdurante legittimazione – tra il suo essere chiamata a rendere individual justice (mantenere cioè la centralità del sistema del ricorso individuale) e le aspettative di constitutional justice (che essa, cioè, fornisca standard oggettivi per l’identificazione dell’ordine pubblico europeo dei diritti fondamentali). Lo smaltimento dell’arretrato, la gestione dei repetitive cases tramite le sentenze pilota (e non solo), nonché la priority policy testimoniano chiaramente una maggiore propensione della Corte a dotarsi di linee di intervento capaci di sacrificare la necessità di rendere conto di ogni singolo ricorso, in nome dello svolgimento di una funzione che miri a guidare in termini maggiormente obiettivi e sistemici le carenze a livello nazionale in tema di rispetto dei diritti[16].
È anche vero, dall’altro lato, che i costi prodotti da un simile riassestamento procedurale (ad esempio, in termini di trasparenza e di accountability rispetto alla mole ormai sterminata di dichiarazioni di irricevibilità non motivate) potrebbero non essere compensati da un aumento della capacità di guidance della Corte Edu rispetto alle autorità nazionali. Infatti, la perdita consistente che deriva dalla mancata risposta ai ricorsi individuali (nel senso appena detto) non sempre è bilanciata dalla Corte elevando le sue pronunce a una effettiva giurisprudenza “di principio” capace di orientare, in via più generale, i comportamenti degli attori statali; piuttosto, sembrano prevalere preoccupazioni di efficienza interna. In quest’ottica, pare cogliere nel segno la critica di chi, auspicando una maggiore costituzionalizzazione della Corte Edu, si augura che essa possa dotarsi di poteri più incisivi e penetranti di selezione delle proprie cause, avvicinandone i criteri di azione a quanto avviene per la Corte suprema USA con il writ of certiorari: solo così la Corte potrebbe effettivamente garantirsi lo spazio per una principled jurisdiction in materia di diritti umani[17].
La riprova indiretta di questo limite è ravvisabile nel fatto che, all’esito delle modifiche di procedura di cui si è brevemente dato conto, la Corte non ha visto aumentare lo spazio per condurre una simile azione. Al contrario, si assiste al riemergere della tendenza a farsi sempre più “giudice del caso concreto”, come è dimostrato dalla nuova centralità acquisita (per il raccordo che lega i ricorrenti individuali, gli attori statali e della società civile, i meccanismi di sorveglianza e monitoraggio del Consiglio d’Europa) dallo strumento dell’equa riparazione di cui all’art. 41 Cedu. Le statistiche degli ultimi anni dimostrano che la mole delle riparazioni pecuniarie (che rappresentano, talvolta, l’unica forma di soddisfazione dell’interesse dei singoli) e la loro distribuzione rispetto al tipo di violazione prospettata finiscono per assegnare alla Corte una funzione di gestione quasi “amministrativa” del contenzioso. Ciò non solo non soddisfa le ambizioni costituzionali di cui si parlava, ma si limita a istituzionalizzare i conflitti senza poi poterli effettivamente risolvere una volta per tutte, contribuendo così a disegnare i tratti poco rassicuranti di uno «small claims tribunal»[18].
È vero che un’enfasi eccessiva nei confronti della possibile costituzionalizzazione della Corte Edu solleva non pochi interrogativi[19], a partire dalla compatibilità dei poteri di docket selection con l’art. 47 Cedu, che consacra ancora oggi la centralità del ricorso individuale[20]. Anzi, in una direzione contraria sembra andare, con tutta evidenza, la rinnovata enfasi nei confronti del principio di sussidiarietà degli Stati, oggi corroborato dall’appello sempre più frequente al modello della shared responsibility[21], con particolare riferimento all’esecuzione delle sentenze di condanna e al crescente rilievo del margine di apprezzamento (codificato espressamente, come si sa, nel Protocollo n. 15). Peraltro, è anche vero che queste critiche focalizzano la questione nel momento in cui sottolineano come sia stato sicuramente abbandonato un modello consolidato, quello della “vecchia” Corte Edu e del suo giudizio, imperniato sulla necessità che la Corte desse risposta a ciascun ricorso individuale, senza aver prefigurato un modello alternativo chiaramente delineato. In questo senso, il ricorso alla sola efficienza operativa non si presta a fornire alla Corte quel surplus di legittimazione di cui ha bisogno nel momento in cui vengono radicalmente criticati i suoi pronunciamenti e, più sullo sfondo, la sua stessa ragion d’essere.
3. I problemi che più in profondità continuano ad affliggere la Corte Edu provengono dall’esterno, in particolare dall’interrogativo ancora non risolto intorno alla sua fisionomia alla luce del rapporto con gli Stati contraenti, tenuto conto soprattutto dell’esigenza di mantenere il fragile equilibrio tra il rispetto dei diritti contenuti nella Convenzione e il perseguimento del bene comune a livello nazionale – nel rispetto delle forme democratiche e dello Stato di diritto[22].
Dei molteplici aspetti in cui si manifesta questa difficoltà si colgono tracce rilevanti nelle dichiarazioni adottate in occasione delle diverse conferenze intergovernative succedutesi negli ultimi anni, di cui prima si è dato conto. Nell’ultima di tali dichiarazioni, adottata a Copenaghen nell’aprile del 2018, traspare chiaramente l’intento di arginare alcune prassi interpretative che, negli ultimi tempi, hanno condotto a un’espansione del ruolo dei giudici di Strasburgo. Il riferimento concerne sia il crescente coinvolgimento della Corte nel processo di monitoraggio e controllo dell’esecuzione delle proprie sentenze[23], sia il consolidamento dei risultati raggiunti rispetto allo smaltimento dell’arretrato[24], sia infine la prevedibilità della sua azione e il corretto impiego del margine di apprezzamento. Su quest’ultimo punto in particolare, è da notare come la versione finale della Dichiarazione sia stata particolarmente attenuata nel suo contenuto “polemico” rispetto alla stesura iniziale avanzata dal Governo danese (Draft Declaration), che invitava la Corte a tenere apertamente conto, nell’elaborazione dei suoi test di giudizio, delle
«constitutional traditions» e delle «national circumstances». Anche per effetto di una ferma presa di posizione della stessa Corte Edu[25], tali formulazioni sono state eliminate dal testo finale, che comunque enfatizza i legami tra il margine d’apprezzamento e il principio di sussidiarietà (punto 28, lett. b) e, soprattutto, assegna un peso rilevante al bilanciamento operato dalle autorità nazionali nel rispetto di quanto stabilito nella stessa giurisprudenza europea, con particolare riferimento ai diritti contenuti negli artt. da 8 a 11 Cedu[26]. Non bisogna, però, enfatizzare eccessivamente il rilievo di questi documenti, tenuto conto che essi si inseriscono in un processo quasi permanente di riforma[27] dal quale è dichiaratamente assente ogni prospettiva di lungo termine sull’identità e sul futuro della Corte e del sistema convenzionale. Al contrario, in questo processo assumono un peso rilevante considerazioni e strategie legate alla particolare congiuntura politica e giurisdizionale in cui, di volta in volta, ci si trova a discutere e a deliberare[28]. Nondimeno, essi sono indicativi di un insieme di problemi, che hanno a che fare in vario modo con le difficoltà di tenuta e di legittimazione politica dell’operato della Corte Edu e – forse per la prima volta dal varo della Corte unica, alla fine degli anni ’90 – vedono saldate insieme le rivendicazioni di alcuni Stati di democrazia consolidata con quelle provenienti da democrazie più giovani e di sempre più incerto e instabile consolidamento.
I casi di aperta reazione di cui si è dato conto all’inizio (dal Regno Unito alla Russia, dalla Danimarca alla Slovenia) non sono infatti che l’epitome di una serie di resistenze che, sempre più spesso, l’operato della Corte suscita a livello nazionale e che si traducono principalmente in una crescente e inarrestabile inadempienza rispetto alle sentenze di condanna, ovvero nelle critiche nei confronti dell’attivismo interpretativo della Corte europea. Negli ultimi anni, tali critiche hanno portato a formulare propositi di “rinazionalizzazione” (repatriation) del sistema di protezione dei diritti: dall’invocato varo del British Bill of Rights al proposito della Russia e di altri Stati dell’Est-Europa di recedere dalla Convenzione europea e dal sistema convenzionale nel suo complesso[29].
Il punto non è, ora, soffermarsi su questi sviluppi[30], che scontano spesso (come nel caso inglese[31]) un fortissimo legame con la contingenza politica e il mutamento delle relative maggioranze.
Più utile pare, invece, inquadrare tali problemi alla luce dei diversi paradigmi che, negli ultimi anni, hanno indagato la questione del fondamento della legittimazione politica della Corte europea dei diritti dell’uomo. Ciò anche al fine di individuare possibili rimedi funzionali al contrasto delle indubbie difficoltà che l’autorità di Strasburgo sta attraversando nel far accettare le sue sentenze e, più in generale, il suo ruolo in un contesto ormai radicalmente mutato rispetto ai decenni passati.
Su questo specifico aspetto, a contendersi la scena sono state ricostruzioni monodimensionali ovvero pluridimensionali della legitimacy della Corte Edu.
Per un verso, infatti, è risultata prevalente la lettura che inquadra il fondamento e i margini di azione della Corte in linea di continuità con i modelli che si sono occupati del vasto scenario delle corti internazionali nei più diversi ambiti, e in particolare della legittimazione di queste ultime nel momento in cui, dall’esercizio delle loro funzioni di dispute settlement (dal commercio internazionale alla regolazione, dai diritti umani all’integrazione economica), scaturiscano funzioni propriamente innovative di law- making[32]. Nelle sue declinazioni più avanzate e raffinate, un simile orientamento individua nel principio democratico l’orizzonte ultimo in grado di giustificare le più diverse prassi giurisprudenziali sovranazionali, con la conseguenza che l’espansione dei compiti – in particolare – della Corte europea dei diritti dell’uomo (ad esempio, in taluni casi di sentenze pilota in cui essa ha fornito allo Stato condannato un “decalogo” di soluzioni da approntare) travalica i confini che la tengono all’interno del compito (agency) ad essa affidato dal sistema istituzionale statale che ne sorregge l’azione[33]. Pertanto, al fondo di questa ricostruzione vi è l’idea che (a) l’assolvimento delle funzioni della Corte Edu non la differenzi da qualsiasi altro giudice sovranazionale e che (b), come per tale categoria di giudici, anche per la Corte l’unico fondamento di legittimazione non possa che coincidere con il rispetto dei compiti che le hanno assegnato gli Stati come Alte Parti Contraenti, per quanto interpretabili più o meno estensivamente. Così, ad esempio, l’apertura della Corte Edu a pratiche interpretative sempre meno rispettose del criterio letterale e dell’original intent alla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta (da Golder a Sunday Times) è letta come una netta transizione da una concezione state-oriented a una community-oriented, di cui resta ulteriore traccia nei più recenti tentativi di fare propria una giurisprudenza “di principio” che si faccia carico delle violazioni strutturali a livello statale[34].
In linea di continuità con questa ricostruzione, c’è poi chi ritiene che la Corte Edu, nella sua impossibilità di fare appello a un “popolo europeo”, perciò di rappresentarsi come autentica “Corte costituzionale” europea, possa avvalersi unicamente di forme di legittimazione indiretta: una legittimazione convogliata e mediata dal circuito istituzionale statale (a partire dalle corti costituzionali) e dell’Unione europea[35].
Si ha, tuttavia, l’impressione che tali ricostruzioni monodimensionali, se sono sicuramente di grande utilità per cogliere quanto vi è di comune nelle diverse strutture istituzionali, finiscano per costruire un modello analitico che ripropone l’identificazione della legittimazione politica sulla falsariga di quanto avviene, a livello statale, nei rapporti tra politica e giurisdizione. Così, l’impossibilità di qualificare univocamente la Corte Edu come un’istituzione che ha a disposizione le stesse risorse tecniche, ermeneutiche, politiche e simboliche di una corte costituzionale non pare dovuta a uno scostamento rispetto a un qualche modello definito ex ante. Essa appare, piuttosto, la logica conseguenza del fatto che la Corte opera in un sistema istituzionale privo di quei caratteri di completezza e di chiusura propri degli Stati, dato che la Convenzione è, con tutta evidenza, una partial anziché una full polity, dove alla presenza di una funzione giurisdizionale e di un embrione di amministrazione fa da contraltare l’assenza della funzione legislativa[36].
Di conseguenza, più che interrogarsi su cosa la Corte Edu non è e non può essere (una corte costituzionale), più utile appare chiedersi cosa la Corte Edu sia o possa diventare[37].
Porre in questi diversi termini il problema della sua legittimazione politica vuol dire, innanzi tutto, cogliere le trasformazioni di cui la Corte è stata protagonista dalla sua istituzione e, sulla loro scorta, individuare quali siano gli attori e gli interlocutori che, nella fase attuale, provvedono a conferirle il fondamento necessario all’accettazione del suo agire.
Senza poter entrare nel merito di un dibattito che, negli ultimi anni, ha trovato una nuova fioritura[38], basti pensare al fatto che il sistema della Convenzione ha sperimentato sin dall’inizio uno sviluppo tutt’altro che lineare e coerente, che ha portato in particolare la Corte a grandi trasformazioni non necessariamente coincidenti con il mutamento della sua base normativa quanto, piuttosto, con una congerie di fattori diversi: dai fattori puramente istituzionali a quelli politici, dalla geopolitica ai mutamenti sociali. Una delle più intriganti riflessioni sull’argomento, ad esempio, ha mostrato il vero e proprio cambio di paradigma prodottosi nell’evoluzione della giurisprudenza europea nel momento in cui essa – una volta consolidato il meccanismo del ricorso individuale – “muta pelle” passando da una legal diplomacy (come quella che si era avuta nei primi anni, quando i ricorsi erano prevalentemente interstatali) a una integrationist jurisprudence, come quella che ha accompagnato la Corte al volgere degli anni Settanta, sfruttando i ricorsi individuali al fine di consolidare il suo ruolo e potendo riflettere (nei casi fondativi aventi ad oggetto gli artt. da 8 a 11, da Sunday Times a Dudgeon, da Marckx a Tyrer) l’avvenuta evoluzione dei costumi sociali in Europa. Discorso analogo, ma in una direzione ancora diversa, si dovrà fare per comprendere quanto l’incerta fisionomia della Corte, a partire dal Protocollo n. 11 (e dall’eliminazione del filtro politico della Commissione), rispecchi i caratteri e le ambivalenze di fondo di un’Europa che si pensava ormai riunificata sotto le bandiere della democrazia e dello Stato di diritto, e che confidava nella capacità dei diritti umani di conferire una spinta autopropulsiva alla creazione di una greater unity tra gli Stati contraenti[39].
In un simile scenario, che coinvolge una serie considerevole di fattori storici, politici, istituzionali e sociali, appare limitativo operare una riduzione del fondamento di legittimazione della Corte ai soli apporti provenienti dagli Stati[40]. Più proficua si rivela, invece, l’intuizione per cui la sua azione si alimenta dei contributi provenienti da sfere diverse, più ampie e variamente composte: il livello propriamente giuridico (costituito dalle relazioni con i giudici nazionali e sovranazionali, anche per il tramite di strutture di comity[41]), il livello politico (che lega la Corte agli altri attori pubblici nazionali e sovranazionali, con i quali è chiamata a stabilire una separazione di ambiti e confini decisionali) e, infine, il livello sociale (che la pone a contatto con il più vasto corpus dei soggetti, individuali o collettivi, variamente impegnati nelle attività di promozione e difesa dei diritti umani: ong, centri di ricerca, università, etc.)[42].
Queste diverse sfere di influenza conferiscono alla Corte prestazioni di legittimazione che non si riducono a unità, ma disegnano un quadro composito e pluralisticamente articolato. All’accettazione e al sostegno che le sentenze della Corte ricevono dal circuito politico corrisponde, in tale ambito, una legittimazione in primo luogo istituzionale, che però si accompagna a quella funzionale (che vede coinvolti i giudici nazionali e i diversi sistemi giudiziari di protezione dei diritti come interlocutori a sé stanti rispetto alle istituzioni politiche) e a quella discorsiva (che qualifica la Corte sulla base della sua capacità di costituire un suo distinto e autonomo “capitale morale” nel rapporto con una sfera pubblica più ampia)[43].
Questi distinti canali e percorsi dovrebbero, quindi, essere analizzati congiuntamente quando si valuta se la Corte europea, ad esempio, abbia adeguatamente tenuto conto delle specificità del diritto nazionale, abbia imposto agli Stati misure di esecuzione che vanno al di là della funzione meramente dichiarativa delle sue pronunce ovvero sia chiamata a gestire “politicamente” il perdurante inadempimento delle sue sentenze – senza, quindi, dover fare necessario e unico appello al potenziale di legittimazione veicolato dal circuito istituzionale degli Stati.
Il quadro che ne potrebbe derivare, in ultima analisi, è quello di una possibile traduzione delle debolezze derivanti, per la Corte Edu, dal fatto di operare in una partial polity, in elemento di forza che le assegni la capacità di fungere da raccordo tra una pluralità di sistemi istituzionali, normativi e giurisdizionali privi di un’autonoma capacità ordinante, perché privi di un’istanza in grado di esercitare oggi, in questo scenario più ampio e frammentato, una qualsiasi potestà sovrana.
[1] Per un quadro più ampio, si veda S. Flogaitis - T. Zwart - J. Fraser, The European Court of Human Rights and its Discontents. Turning Criticism into Strength, Edward Elgar, Cheltenham, 2013.
[2] J. Hartmann, A Danish Crusade for the Reform of the European Court of Human Rights, in EJIL Talk!, 14 novembre 2017.
[3] M. Avbelj, Slovenia’s Supreme Court rejects the European Court of Human Rights, in Verfassungsblog.de, 26 ottobre 2018 (https://verfassungsblog.de/slovenias-supreme-court-rejects-the-european-court-of-human-rights/).
[4] Alla fine del 2017, il numero di ricorsi pendenti di fronte a una delle varie composizioni giurisdizionali della Corte Edu era pari a 56250, di poco inferiore ai 56800 del 2005, in cui però non erano ancora operative alcune soluzioni introdotte con il Protocollo n. 14 (in particolare, il giudice unico di cui all’art. 27 Cedu): ECHR, Analysis of statistics 2017, gennaio 2018, p. 7 (www.echr.coe.int/Documents/Stats_analysis_2017_ENG.pdf). Al 30 settembre 2018, i ricorsi pendenti risultano essere 59250.
[5] In occasione dell’apertura dell’anno giudiziario della Corte Edu, il 27 gennaio 2012 – vds. EHCR, Annual Report 2012, 2013, p. 33 (https://www.echr.coe.int/Documents/Annual_report_2012_ENG.pdf).
[6] 22260 ricorsi nei sette mesi del 2010, per passare ai 46928 del 2011 e agli 88407 del 2012.
[7] I. Cameron, The Court and the member states: procedural aspects, in A. Føllesdal - B. Peters - G. Ulfstein (a cura di), Constituting Europe: the European Court of Human Rights in a National, European and Global Context, Cambridge University Press, Cambridge, 2013, p. 33.
[8] Si veda, ad esempio, O’Halloran e Francis c. Regno Unito [GC], ricc. nn. 15809/02 e 25624/02, Dissenting Opinion del giudice Myjer. Per ulteriori indicazioni, si veda W.A. Schabas, The European Convention on Human Rights. A Commentary, Oxford University Press, Oxford, 2015, p. 782.
[9] Nel primo anno di vigore del Protocollo n. 11, ad essa si è fatto ricorso in relazione allo 0,34% dei casi. Negli anni successivi, la percentuale si è ulteriormente ridotta fino allo 0,1% del 2015 (si veda S. Greer e F. Wylde, Has the European Court of Human Rights Become a “Small Claims Tribunal” and Why, If at All, Does it Matter?, in European Human Rights Law Review, 2017, p. 147). Da notare, peraltro, che con il Protocollo n. 15 (non ancora entrato in vigore) è stato soppresso l’ultimo inciso del periodo in questione («e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno»), rafforzando così – almeno nelle intenzioni – la portata deflattiva dello strumento (cfr. Explanatory Report al Protocollo n. 15, punto 23).
[10] Si è soffermata su queste e su altre tecniche decisionali affini L. R. Glas, Changes in the Procedural Practice of the European Court of Human Rights: Consequences for the Convention System and Lessons to be Drawn, in Human Rights Law Review, 2014, pp. 674 ss., 676.
[11] Ric. n. 30696/09, 21 gennaio 2011. La Corte si è espressa facendo ricorso al medesimo strumento anche nei casi N.A. c. Regno Unito (ric. n. 25904/07, 17 luglio 2008) e Sufi e Elmi c. Regno Unito (ricc. nn. 8319/07 e 11449/07, 28 giugno 2011).
[12] Nei casi Shakor e altri c. Finlandia (ricc. nn. 10941/10 e altri, cancellata dal ruolo, 28 giugno 2011); Ali Gedi e altri c. Austria (ricc. nn. 61567/10 e altri, cancellata dal ruolo, 4 ottobre 2011); Ahmed Ali c. Paesi Bassi e Grecia (ric. n. 26494/09, decisione di ammissibilità, 24 gennaio 2012, par. 8).
[13] Mediante la modifica dell’art. 41 del Regolamento di procedura della Corte.
[14] Nell’ultima versione della priority policy (in vigore dal 22 maggio 2017), il grado più alto di priorità è attribuito ai casi in cui sussiste un rischio per la vita o la salute del ricorrente, la restrizione della sua libertà personale o i diritti dei minori. A un livello immediatamente inferiore si collocano le «applications raising questions capable of having an impact on the effectiveness of the Convention system (in particular a structural or endemic situation that the Court has not yet examined, pilot-judgment procedure) or applications raising an important question of general interest (in particular a serious question capable of having major implications for domestic legal systems or for the European system)», The Court’s priority policy, disponibile online (www.echr.coe.int/Documents/Priority_policy_ENG.pdf).
[15] I. Cameron, The Court and the member states, op. cit., p. 43.
[16] A porre l’accento, ad esempio, sulla funzione “costitutionalizzante” delle sentenze pilota è stato, a suo tempo, W. Sadurski, “Partnering with Strasbourg”. Constitutionalisation of the ECtHR, the Accession of Central and East European States to the Council of Europe, and the Idea of Pilot Judgments, in Human rights law Review, 2009, p. 450.
[17] La più coerente teorizzazione di questo orientamento si trova in S. Greer, L. Wildhaber, Revisiting the Debate about “constitutionalizing” the European Court of Human Rights, in Human rights law Review, 2013, in particolare p. 686.
[18] S. Greer e F. Wylde, Has the European Court of Human Rights Become a “Small Claims Tribunal” and Why, If at All, Does it Matter?, op. cit., pp. 145 ss.
[19] J. Christoffersen, Individual and Constitutional Justice: Can the Power Balance of Adjudication be Reversed?, in M.R. Madsen e J. Christoffersen (a cura di), The European Court of Human Rights between Law and Politics, Oxford University Press, Oxford, 2013, pp. 190 ss.
[20] P. Mahoney, The European Court of Human Rights and its ever-growing caseload: Preserving the mission of the Court while ensuring the viability of the individual petition system, in S. Flogaitis - T. Zwart - J. Fraser, The European Court of Human Rights and its Discontents, op. cit., p. 18.
[21] Si veda, sul punto, il contenuto della High-level Conference on the “Implementation of the European Convention on Human Rights, our shared responsibility” (cd. Brussels Declaration), del 27 marzo 2015.
[22] S. Greer e L. Wildhaber, Revisiting the Debate, op. cit., p. 668, C. Pinelli, The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law. General Assessments, in G. Repetto (a cura di), The Constitutional Relevance of the ECHR in Domestic and European Law, Intersentia, Cambridge/Antwerp/Portland, 2013, p. 250.
[23] Pur rimarcando la necessità che gli Stati diano prontamente attuazione alle sentenze di condanna (punti 21-23), la Dichiarazione invita il Comitato dei ministri a esercitare tutti i poteri attribuiti ad esso dalla Convenzione, incluse le procedure previste dall’art. 46, parr. 3 e 4, che affidano ad esso il potere di coinvolgere la Corte laddove sussistano problemi interpretativi delle sentenze ovvero sia necessario accertare un mancato adempimento. L’invito a servirsi di questi poteri è, però, accompagnato dal caveat per cui è necessario «keep (...) in mind that it was foreseen that they would be used sparingly and in exceptional circumstances respectively» (punto 24).
[24] Punti 47 ss., in particolare 48, dove si ribadisce che «the right of individual application remains a cornerstone of the Convention system», e 50.
[25] Opinion on the draft Copenhagen Declaration Adopted by the Bureau in light of the Discussion of the Plenary Court on 19 February 2018, punto 10, in www.echr.coe.int. Su questo versante dei lavori preparatori e sulle condizioni in cui è maturata la Dichiarazione di Copenaghen rinvio a D. Tega, Politica e Corte Edu dopo la Conferenza di Copenaghen, in Quaderni costituzionali, 2018, pp. 715 ss.
[26] Punto 28, lett. c), da cui si fa discendere per la Corte un invito a rafforzare la «clarity and consistency» delle sue pronunce e a interpretare la Convenzione «in a careful and balanced manner» (punti 29 e 30).
[27] J.-P. Costa, Comments on the Wise Persons, Report from the Perspective of the European Court of Human Rights, in Council of Europe, Future Developments of the European Court of Human Rights in the Light of the Wise Persons’ Report, Strasburgo, 2007, p. 38.
[28] Nel punto 30 della Dichiarazione di Brighton, ad esempio, si legge chiaramente che «This Declaration addresses the immediate issues faced by the Court».
[29] Distingue opportunamente un «legal» da un «political resentment» D. Thór Björgvinsson, The role of judges of the European Court of Human Rights as guardians of fundamental rights of the individual, in M. Scheinin - H. Krunke - M. Aksenova (a cura di), Judges as Gurdians of Constitutionalism and Human Rights, Edward Elgar, Cheltenham, 2016, p. 332.
[30] Per una efficace sintesi, si veda di recente A. Guazzarotti, La parabola della costituzionalizzazione delle tutele della Cedu: rapida ma anche inarrestabile?, in C. Padula (a cura di), La Corte europea dei diritti dell’uomo: quarto grado di giurisdizione o seconda Corte costituzionale?, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, pp. 20 ss.
[31] Occorre notare che, negli ultimi tempi, una delle cause scatenanti delle reazioni inglesi – la controversia originata dal caso Hirst riguardo la privazione del diritto di voto ai detenuti – ha trovato una composizione a livello diplomatico, con l’accettazione da parte del Governo britannico della possibilità di ammettere al voto una porzione (assai modesta, ma comunque significativa) dei detenuti condannati per i reati più lievi: cfr. il Report della House of Commons, Prisoners’ voting rights: developments since May 2015, 9 agosto 2018 (https://researchbriefings.parliament.uk/ResearchBriefing/Summary/CBP-7461).
[32] Sui termini del problema, si veda già T. Skouteris, The New Tribunalism: Strategies of (De)Legitimization in the Era of Adjudication, in Finnish Yearbook of international law, 2006, p. 307.
[33] Si veda, in particolare, A. von Bogdandy e I. Venzke, On the Democratic Legitimation of International Judicial Lawmaking, in Id. (a cura di), International Judicial Lawmaking. On Public Authority and Democratic Legitimation in Global Governance, Springer, Heidelberg, 2012, pp. 475, 478, 483. Nello stesso volume, si veda ancora, in particolare, M. Fyrnys, Expanding Competences by Judicial Lawmaking: The Pilot Judgment Procedure of the European Court of Human Rights, pp. 329 ss.
[34] A. von Bogdandy e I. Venzke, In Whose Name? A Public Law Theory of International Adjudication, Oxford University Press, Oxford, 2014, pp. 68 ss.
[35] A. Guazzarotti, La parabola della costituzionalizzazione, op. cit., pp. 27 ss.
[36] S. Greer e L. Wildhaber, Revisiting the Debate, op. cit., p. 685. Appare significativo, in questa direzione, il fallito tentativo di “deconvenzionalizzare” alcune parti organizzative della Cedu, così da sottrarle al potere di veto degli Stati in sede di ratifica dei protocolli, per addossarne la disciplina al potere di autonormazione della stessa Corte: ne dà conto I. Cameron, The Court and the member states, op. cit., pp. 44 ss.
[37] In questo senso mi sembra che vadano le riflessioni di chi, da tempo, ragiona di una tendenza alla “costituzionalizzazione” della Corte Edu (oltre che della Corte di giustizia dell’Ue), come A. Ruggeri, Salvaguardia dei diritti fondamentali ed equilibri istituzionali in un ordinamento “intercostituzionale”, in Rivista AIC, n. 4/2013, p. 14.
[38] A partire dalla pionieristica ricostruzione di E. Bates, The Evolution of the European Convention on Human Rights, Oxford University Press, Oxford, 2010 e dai lavori di A.W. Brian Simpson, Human Rights and the End of Empire, Oxford University Press, Oxford, 2001 e di M. Duranti, The Conservative Human Rights Revolution. European Identity, Transnational Politics and the Origin of the European Convention, Oxford University Press, Oxford, 2017.
[39] M.R. Madsen, The Protracted Institutionalization of the Strasbourg Court: From Legal Diplomacy to Integrationist Jurisprudence, in J. Christoffersen e M.R. Madsen (a cura di), The European Court, op. cit., pp. 43 ss.
[40] M.R. Madsen, The Legitimization Strategies of International Judges. The Case of the European Court of Human Rights, in M. Bobek (a cura di), Selecting Europe’s Judges, Oxford University Press, Oxford, 2015, p. 265, dove giustamente si osserva: «the critique of juristocracy generally fails due to its one-sided focus on the rather artificial dichotomy between an essentialist view of politics as the institutionalized expression of a democratic will and what might be described as international legal self-reference. This overlooks what is in practice a much more blurred boundary between international law and politics. Closely linked, it presupposes an increasingly inadequate notion of international law as an interstate contract law which very clearly defines international courts’ framework and legal playing field vis-à-vis national levels of law and politics».
[41] In questa direzione, la Dichiarazione di Copenaghen (punto 37, lett. b) invita la Corte Edu a consolidare il Superior Courts Network (https://www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=court/network&c).
[42] M.R. Madsen, The Legitimization Strategies of International Judges, op. cit., p. 266.
[43] D. Thór Björgvinsson, The role of judges of the European Court of Human Rights, op. cit., pp. 336 ss.