Libertà religiosa
1. Introduzione
Risponde al vero l’affermazione per cui la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo è dotata di un’autorità tale «da irradiare i suoi effetti capillarmente in tutto il continente»[1]. Tuttavia, continuando con la metafora, è altrettanto evidente che la luce propagata da Strasburgo è sovente offuscata da alcune criticità. Lo attesta una non lineare giurisprudenza che, dominata da elementi contingenti, rende sovente difficile l’individuazione di interpretazioni stabili o, quantomeno, orientative. L’esempio paradigmatico è fornito dalle sentenze aventi a oggetto la libertà religiosa.
Diversi i fattori che conducono a questo risultato. I più noti richiamano i cambiamenti occorsi negli ultimi decenni nella geografia confessionale europea, la contestuale deprivatizzazione del fenomeno religioso[2], l’eccessivo aumento dei ricorsi[3], il carattere internazionale della Corte di Strasburgo, l’influenza esercitata sulle sue pronunce dagli Stati membri[4], il suo concreto funzionamento e la tendenza alla de-giurisdizionalizzazione delle sue attività[5]. Senza sminuire il ruolo di questi elementi, a mio avviso tale risultato è, pero, anche determinato da due altre importanti condizioni, non sempre analizzate con la dovuta attenzione.
Da un lato, la Corte Edu è giudice dei casi e non della nomofilachia[6]. Dall’altro, il fenomeno religioso si contraddistingue per il suo carattere proteiforme e multidimensionale, che proprio le concrete circostanze sottostanti ai singoli ricorsi e la varietà delle esperienze di fede presenti a livello statale finiscono regolarmente per esaltare. Le sentenze che, con alterne conseguenze, hanno coinvolto l’Italia stanno lì a dimostrarlo[7].
2. La fonte
L’indole poliedrica di tale fenomeno emerge, del resto, dalla lettura dell’art. 9 Cedu che, architrave della libertà religiosa nel sistema convenzionale[8], già nella titolazione ne sottolinea la relazione con altri capisaldi delle democrazie costituzionali: la libera manifestazione del pensiero e la tutela della coscienza personale. Focalizzando poi l’attenzione sul contenuto essenziale del testo, si scopre che l’art. 9 comprende il diritto di scegliere o non scegliere una religione o un credo, come anche il diritto di cambiare religione o credo[9]. Si tratta di diritti quasi assoluti che, giacché connessi con il foro interno dell’individuo, non sono suscettibili d’indebite limitazioni – comprese quelle poste in essere dalle autorità statali attraverso i rispettivi ordinamenti[10].
Stando alla lettera della fonte convenzionale, i margini di azione degli Stati sono infatti circoscritti alla libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo che, come si sancisce nel secondo comma, non può «essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui».
Questo perché i diritti di cui all’art. 9, oltre a richiamare «gli elementi essenziali dell’identità dei credenti e della loro concezione di vita», si affermano come «beni preziosi anche per gli atei, gli agnostici, gli scettici o gli indifferenti». Da essi, insomma, «dipende quel pluralismo inseparabile della società democratica, che è stato conquistato a caro prezzo nel corso dei secoli»[11]. La dimensione individuale della libertà religiosa s’intreccia, in tal modo, con quella collettiva e comunitaria. L’art. 9 si riferisce principalmente all’individuo, che, proprio per i diritti ivi richiamati, deve tuttavia essere libero di aderire a dei gruppi religiosi; perché, magari, capaci di valorizzare la sua libertà di pensiero e di coscienza o perché in grado di svolgere in modo più compiuto la propria personalità.
D’altra parte, lo Stato ha il dovere di tutelare direttamente i diritti religiosi della persona e, quindi, gli interessi attinenti alla coscienza individuale, comunque orientata. Si tratta di una tutela particolare che, ad esempio, mal si concilia con gli statuti derogatori della cittadinanza e che, data l’importanza dei beni personali tutelati, s’impone anche sulle pretese delle singole organizzazioni confessionali, limitandone se del caso autonomia e indipendenza. L’appartenenza a una religione non è condizione necessaria per l’effettivo esercizio dei diritti di cui all’art. 9 Cedu, la cui protezione è aliena dalla mediazione delle confessioni. Ciò, tuttavia, non esclude la possibilità che una persona possa aderire a una formazione sociale religiosamente connotata, né il divieto di trattamenti discriminatori nei confronti di uno o più gruppi cultural-religiosi. Con tutto il suo carico di diritti, accettando la diversità e il pluralismo, la disciplina convenzionale della libertà religiosa si specifica così con l’eguaglianza nella differenza.
L’art. 9 Cedu porta, per questa via, ad accentuare uno dei più importanti dilemmi del costituzionalismo occidentale, perennemente conteso fra il principio di eguaglianza e diritto alla differenza; fra, cioè, il riconoscimento delle specificità culturali dei singoli gruppi e l’universalità dei diritti umani. Vero è che un’applicazione ragionevole del principio di eguaglianza implica il rispetto delle diversità. Queste differenze non possono, tuttavia, oltrepassare i limiti imposti da alcuni fondamentali diritti che, come tali, devono essere garantiti e tutelati nei confronti di tutti gli individui, indipendentemente dalla loro fede o credo.
Il che spiega il coinvolgimento in questo ambito delle materie rilevanti sul piano dell’etica e della morale (unioni tra persone dello stesso sesso, procreazione assistita, aborto, fine vita, etc.), la cui regolamentazione risulta spesso condizionata dalla disciplina del sistema di relazioni Stato-confessioni vigente a livello dei singoli Stati membri. Ovvero, dal modo di intendere il principio di laicità che, nello spazio giuridico europeo, risulta peraltro diversamente declinato, come dimostrano le sue molteplici aggettivazioni (laicità confessionale, concordata, sana, separatista, militante, multiculturale, etc.), attestanti le sue più o meno timide variabili.
3. Margine e consenso, ossia sussidiarietà versus universalità
In questo complesso quanto variegato scenario, la Corte europea ha precisato il suo ruolo e le sue competenze facendo innanzitutto leva sul principio di sussidiarietà costituzionale[12], legittimato in molti casi dal richiamo all’art. 53 Cedu. A dimostrarlo soccorre, fra le altre, la risalente decisione Handyside c. Regno Unito[13] che, incentrata sulla libertà dei genitori di improntare l’educazione dei figli alle proprie convinzioni, sottolinea come il meccanismo di protezione dei diritti costituito dalla Convenzione sia «sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di tutela»[14]. Ciò significa che l’intervento della Corte europea deve principalmente sostanziarsi nella mansione di supervisore (Court’s supervisory function), la cui influenza può eventualmente estendersi sia alla legislazione statale, sia ai verdetti dei giusdicenti nazionali chiamati ad applicarla[15]. Senza, però, dimenticare che a Strasburgo i giudici sentenziano sui singoli casi e non in funzione nomofilattica[16].
Non essendo stati chiariti i confini della sua azione, da allora questa supervisione ha finito per alimentare una continua tensione fra sussidiarietà europea e universalità dei diritti umani[17]. Vero è che tale impostazione pone l’accento sull’ambito di competenza propria di ogni Stato membro – con tutto il peso che le tradizioni culturali e giuridiche locali possono esercitare. Allo stesso tempo, tuttavia, da essa emerge la necessità di applicare standard universali propri dei diritti umani – a cominciare da quelli che danno corpo e sostanza alla libertà religiosa. Il che aiuta a comprendere le soluzioni adottate dalla Corte Edu per cercare di sciogliere la richiamata tensione depotenziandone, per quanto possibile, effetti irragionevoli.
Una risposta in tal senso giunge dal primo significativo approdo giurisprudenziale sull’art. 9 Cedu[18], quando la Corte, mettendo l’accento sull’approccio case-by-case, finisce per esaltare la caratteristica di giudice del caso singolo che, come tale, non necessariamente interviene sulla norma nazionale[19]. Ciò, allo stesso tempo, genera l’esigenza di dare rilevanza a specifici congegni interpretativi, tra cui un posto di rilievo spetta alla dottrina del margine di apprezzamento e al principio di proporzionalità, entrambi non a caso di derivazione giurisprudenziale: facendo leva sul secondo paragrafo dell’art. 9 – il cui schema è significativamente riproposto negli artt. 8, 10 e 11 Cedu –, la Corte riconosce un margine di discrezionalità agli Stati membri, il cui impatto in termini di tutela dei diritti convenzionali è, volta per volta, misurato in base alla proporzionalità della misura restrittiva. Questo significa che se l’intervento nazionale non dovesse risultare proporzionato rispetto agli scopi legittimi (art. 9, par. 2) e all’esigenza di tutela minima (art. 53), la Corte europea decreta il superamento del margine e, di conseguenza, la violazione della Convenzione. La soglia del margine e la proporzionalità della misura non possono però essere fissate una volta per tutte. Devono, invece, tener costantemente conto di differenti fattori, a cominciare dalle circostanze concrete sottostanti (case-by-case) al ricorso e dal peculiare contesto statale interessato (case-by-case) dalla controversia.
Nella determinazione dei limiti di tutela ai diritti di libertà religiosa, ossia nella veste di supervisore europeo, la Corte di Strasburgo si riserva così grandi margini di manovra nello stesso momento in cui riconosce agli Stati apprezzabili margini di discrezionalità. Un’attitudine, questa, corroborata dall’intensa interazione, anch’essa di derivazione giurisprudenziale, fra il margine di apprezzamento e la dottrina del consenso[20].
Concepita anche e soprattutto per modulare l’ampiezza del margine, la rilevazione del grado di consenso fra gli Stati su una determinata materia è funzionale a legittimare il ruolo della Corte Edu quale giudice sovrastatale. Non per nulla, la dottrina del consenso serve a individuare dei punti fermi nella coordinazione fra il compito della Corte e quello dei decisori nazionali. E senza, con ciò, intaccare la flessibilità di cui gode il giusdicente europeo nell’interpretazione della disciplina convenzionale della libertà religiosa, anche perché, in relazione all’art. 9 e, più in generale, al fenomeno religioso, lo sforzo interpretativo è sovente coadiuvato dal rinvio ad altri concetti che, sul piano definitorio e del concreto significato, si caratterizzano per essere altrettanto fluidi e modellabili. I continui riferimenti alla “pace religiosa”, alle “condizioni essenziali per vivere assieme”, alla “misure necessarie in una società democratica” e al “bisogno sociale impellente” lo attestano in modo a dir poco evidente. E non è certamente un caso se, accanto alle dottrine del margine di apprezzamento e del consenso, questi stessi concetti ricorrono con frequenza proprio nelle sentenze riguardanti il sistema di relazione Stato-chiese, la protezione delle confessioni di minoranza, il principio di laicità, l’abbigliamento del fedele, i rapporti di lavoro e l’esposizione dei simboli confessionali nello spazio pubblico. Tutti ambiti nei quali, come si vedrà, il carattere multidimensionale della libertà religiosa gioca un ruolo di primaria importanza.
4. Supervisione europea
Questa impostazione è frutto di un lungo percorso giurisprudenziale che, come si accennava, trova un importante punto di approdo nel 1993: con il caso Kokkinakis c. Grecia, la Corte Edu rompe il lungo silenzio sull’art. 9 Cedu, ponendo le basi per una più compiuta costruzione della disciplina della libertà religiosa.
È importante notare come, nella sentenza, dopo aver affermato che questa libertà è il «fondamento della società democratica», il giudice si soffermi sul necessario equilibrio fra il margine di intervento statalee la european supervision. In questo contesto, si precisa, il suo compito è di valutare se le misure nazionali siano proporzionate[21]. Non è il caso di quelle adottate dalla Grecia contro l’attività di proselitismo del ricorrente che, ai sensi di una legislazione degli anni Trenta del secolo scorso[22], ha subito in patria una pesante condanna penale.
Ponendo l’accento sulla sua natura di giudice dei casi, la Corte rileva così la violazione dell’art. 9, ma solo per la non proporzionalità della condanna. Non ritiene, invece, di censurare la legislazione nazionale, basata su un’idea confessionista della disciplina del fenomeno religioso, peraltro incentrata su una specifica visione della Chiesa ortodossa. Questa è definita dalla Costituzione come religione prevalente[23] che, come tale, si distingue dalla altre confessioni, la cui rilevanza all’interno dell’ordinamento statale si afferma solo se riconosciute come religioni note[24] – qualifica negata ai Testimoni di Geova, cui appartiene il ricorrente. Il credito attribuito al sistema greco e alla sua legislazione si evidenzia nei passaggi finali della sentenza. Qui, la Corte avalla la singolare nozione di «proselitismo improprio»[25], frutto di un ordinamento improntato alla rilevanza o, meglio, alla prevalenza della religione di Stato e in contrasto, così pare, con quanto si afferma poche righe prima a proposito dei diritti tutelati dall’art. 9[26]. Peraltro, ciò è anche confermato dall’opinione parzialmente concorrente del giudice Pettiti che, pur sottolineando la novità di un Paese membro condannato per violazione dell’art. 9, mette in guardia dall’idea della Corte Edu quale giudice del caso singolo: ciò che rischia di legittimare norme, istituti e sistemi non compatibili con quanto stabilito dalla Cedu[27].
Questa riflessione non tiene, però, conto del fatto che, considerata la valenza dei diritti di libertà religiosa, pur nella veste di giudice dei casi concreti la Corte può comunque incidere sulla coerenza dei sistemi statali e delle relative disposizioni, esprimendo sui di essi un “giudizio”, anche se in modo indiretto. A mio avviso, i veri punti nodali sono altri. Riguardano, in particolare, due fattori: la graduale estensione della european supervision dalla dimensione individuale della libertà religiosa a quella collettivo-comunitaria; l’utilizzo e la portata del margine di apprezzamento.
5. Dimensione individuale e collettiva
La sentenza Kokkinakis inaugura una sequenza di condanne della Grecia e di altri Paesi a maggioranza ortodossa per violazione dell’art. 9[28]. Esse, però, riguardano fattispecie strettamente legate alla libertà religiosa degli individui[29]. Dagli anni 2000[30], senza abbondonare questo filone giurisprudenziale, la Corte interviene anche sulle modalità e i criteri stabiliti dallo Stato per il riconoscimento ufficiale dei gruppi religiosi. In gioco non è più solamente la libertà religiosa del singolo: a essere posti in rilievo sono anche i diritti dell’intera comunità religiosamente orientata. Questa novità, tuttavia, non sminuisce l’importanza del margine di apprezzamento che, al contrario, rafforza la sua presenta e la sua influenza. Lo testimonia il repertorio di una giurisprudenza che, in materia religiosa, risulta sempre più instabile.
Specie per le questioni in cui non si registra un consenso diffuso fra gli Stati, la soglia del margine subisce brusche oscillazioni, esponendo le decisioni dei giudici europei ad alti indici d’imprevedibilità. Ciò anche perché – come si accennava –, nel frattempo, nella dottrina del margine s’innestano concetti (social and religious peace, living together, pressing social need, etc.) altrettanto indefiniti e, perciò, fortemente elastici.
6. Pace sociale e vita in comune
Ad esempio, nella decisione Otto-Preminger-Institut, la Corte non censura il provvedimento di sequestro di un’opera cinematografica, considerata dalle autorità austriache come blasfema. Il margine di apprezzamento non è stato superato perché il provvedimento risponde alla necessità di un bisogno sociale impellente di preservare la pace religiosa in un contesto geopolitico e culturale, il Tirolo, intriso di tradizione cristiana[31]. A nulla valgono le considerazioni per cui l’opera sarà proiettata in una sala privata, nelle ore serali e per il solo pubblico adulto, pagante e reso edotto dei contenuti della pellicola, come peraltro si evince dalla locandina[32].
Passano dieci anni e la Corte Edu arriva alle medesime conclusioni per un libro pubblicato in Turchia e giudicato blasfemo da una parte della popolazione musulmana. Anche qui a pesare è il «besoin social impérieux» di pace religiosa che, rendendo la misura proporzionata, la colloca sotto la soglia del margine di valutazione riconosciuto allo Stato convenuto[33]. Meno di otto mesi dopo, però, per la medesima fattispecie questi stessi concetti conducono a risultati opposti: i margini di discrezionalità si restringono perché il convenuto non ha dimostrato che, nel 1992, anno di pubblicazione della prima edizione di un libro giudicato blasfemo, esistesse un analogo besoin social impérieux[34]. Il grado di oscillazione della giurisprudenza raggiunge, così, vette impensate, come del resto testimonia la celebre decisione Refah Partisi, in cui il suddetto bisogno sociale estende gli orizzonti del margine, esaltando il principio di laicità militante turca (laiklik)[35], sulla base del quale un partito politico di ispirazione religiosa è stato dichiarato fuori legge.
Da notare che, in quest’ultimo caso, l’esito della decisione è sostenuto da alcune considerazioni di carattere storico-teologico, con cui il giudice europeo partorisce una interpretazione essenzialista della Shari’a islamica[36]: questa – si afferma – è incompatibile con i principi fondamentali della democrazia poiché storicamente estranea al pluralismo politico e all’incessante evoluzione delle libertà pubbliche[37]. Le autorità turche non hanno, pertanto, superato il margine di apprezzamento, essendo la misura in questione proporzionata al bisogno impellente di pace sociale e alla necessità di protezione di un regime laico e democratico.
Insomma, appurato l’appiglio legislativo della misura restrittiva, i giudici europei decidono che, in questo ambito, siano lo Stato turco e il suo principio di laicità a dover essere tutelati da rivendicazioni di carattere religioso, sotto le quali coverebbero tendenze fondamentalistiche. Il che, secondo la Corte, può giustificare la limitazione della libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Lo sa bene la studentessa Leyla Şahin, su cui si abbatte il divieto di indossare il velo islamico (hijab) in un’università statale. Divieto rispetto al quale i giudici europei solcano il consueto repertorio concettuale basato – appunto – sul bisogno di pace religiosa, sulle misure necessarie in una società democratica e, ovviamente, sul margine di apprezzamento[38].
Si tratta di un registro giurisprudenziale che l’azione erosiva del tempo non scalfisce. Tanto che, dieci anni dopo, lo vediamo proposto nella decisione S.A.S. c. Francia riguardante il divieto di indossare il velo integrale nello spazio pubblico[39]. Qui, tuttavia, il quadro argomentativo, oltre a riaffermare il ruolo sostanzialmente sussidiario del meccanismo della Cedu e la portata del margine, si arricchisce del bisogno di preservare le condizioni per una vita in comune (vivre ensemble)[40]. Un concetto che, al pari dei suoi antecedenti, si espone a possibilità interpretative polivalenti, incidendo ulteriormente sul grado di prevedibilità della giurisprudenza europea e, quindi, sulla sua capacità orientativa[41].
Non bisogna, del resto, dimenticare il peso esercitato su questa capacità dal fatto che la Corte Edu è giudice dei casi. Come tale, essa è particolarmente attenta alle circostanze concrete sottostanti al singolo ricorso.
7. Autonomia confessionale e divieto di discriminazioni
Ciò è reso più evidente dalle controversie in cui la dimensione collettiva e quella individuale della disciplina del fenomeno religioso inevitabilmente s’intrecciano. Lo testimoniano le sentenze in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dalle quali emerge l’esigenza di un ragionevole bilanciamento tra differenti bisogni: la tutela dell’identità collettiva delle confessioni e la conseguente richiesta di efficacia civilistica-secolare delle loro regole interne; il divieto di discriminazione a garanzia dei diritti delle persone che vivono e lavorano all’interno delle formazioni sociali religiosamente orientate.
Non sorprende, allora, se in questo ambito due importanti decisioni presentino esiti opposti, nonostante la loro concomitante pubblicazione e la sostanziale corrispondenza delle fattispecie. Queste s’incentrano su una relazione extraconiugale, valutata come contraria all’etica dell’organizzazione confessionale nel caso di un ufficiale della Chiesa mormone, ma non anche in quello di un organista e maestro del coro di una parrocchia cattolica[42].
A conferma del fatto che la Corte Edu non agisce in funzione nomofilattica soccorrono, poi, due altri orientamenti, in cui l’autonomia confessionale prevale sulle lamentele di un’associazione parasindacale di preti ortodossi e di un insegnante di religione delle scuole spagnole: nel primo, l’organizzazione è stata vietata in Romania[43]; nel secondo, il ricorrente si è visto ritirare il nulla osta all’insegnamento da parte della Conferenza episcopale[44].
Il che aiuta a comprendere l’andamento delle decisioni che, collegate con la disciplina del fenomeno religioso e la libertà di fede, hanno nel frattempo coinvolto l’Italia e il suo peculiare sistema di relazione Stato-chiese. Un sistema fortemente influenzato dall’interpretazione unilaterale, ex parte Ecclesiae, del principio della bilateralità pattizia di cui agli artt. 7, comma 2, e 8, comma 3, della Costituzione repubblicana[45].
8. L’Italia e la Corte Edu. Fra bilateralità pattizia…
In rilievo si pongono le sentenze Pellegrini[46], Lombardi Vallauri[47] e Lautsi[48] che, pur essendo incentrate sui diritti degli individui, hanno proiettato i loro esiti sulla dimensione collettiva della disciplina della libertà religiosa: in particolare, sugli aspetti della bilateralità pattizia improntati alla rilevanza pubblica della confessione cattolica e delle sue più importanti prescrizioni.
Una di queste fa riferimento al matrimonio concordatario, precisamente alla delibazione di sentenza canonica di nullità matrimoniale di cui all’art. 8, comma 2, e alla relativa norma protocollare (n. 4, lett. b) della legge 25 marzo 1985, n. 121. Si tratta del caso della Signora Pellegrini che, esperite tutte le vie giudiziali interne, si rivolge alla Corte di Strasburgo, incentrando il suo ricorso sulla violazione del diritto di difesa ex art. 6 Cedu e lasciando, così, sullo sfondo tutte le altre questioni attinenti alla disciplina del fenomeno religioso, pure presenti nel caso di specie[49]. Il giudice europeo lo calibra ulteriormente. Il suo compito è di accertare che, prima di dare l’exequatur a detta dichiarazione di nullità, le giurisdizioni italiane abbiano verificato l’effettivo rispetto delle garanzie processuali previste dalla Cedu. La Corte scopre così che, alla luce dei livelli minimi di tutela sanciti dall’art. 6, questa verifica non ha portato ai dovuti risultati: il diritto al contraddittorio della ricorrente è stato leso da un processo meramente documentale, cui essa, non informata dettagliatamente del contenuto della domanda, non ha partecipato. La european supervisiondimostra in tal modo che, in materia di delibazione di sentenze ecclesiastiche, i parametri interpretativi messi a punto dalle autorità nazionali[50] decadono se non superano il vaglio delle garanzie processuali minime sancite dalla Convenzione.
Ciò si riverbera sull’intero sistema italiano di relazione Stato-Chiesa, bollato per la prima volta su un suo aspetto qualificante: la disciplina del matrimonio concordatario. Non è certamente un caso se, in seguito, questa disciplina sia stata sottoposta a un più stringente controllo sotto il profilo della legalità europea e nazionale. Attraverso la breccia così aperta nella costruzione degli effetti della bilateralità pattizia s’insinuerà la Corte di cassazione italiana che, già a partire dal 2008 e, conclusivamente, con le sentenze nn. 16379 e 16380 del 2014[51], assoggetta la lettura dell’art. 8, comma 2, della legge n. 121/1985 e della relativa norma protocollare a un più rigoroso rispetto dell’ordine pubblico interno, ostativo alla delibazione di sentenze di nullità di atti di matrimonio, cui sia seguita una convivenza prolungatasi oltre tre anni.
Intanto, con la decisione Lombardi Vallauri, la Corte Edu interviene su un altro aspetto della suddetta legislazione di derivazione bilaterale, e lo fa solcando il percorso argomentativo tracciato proprio dalla sentenza Pellegrini.
Lo si può definire come un nuovo caso Cordero[52], ancorché il Vallauri all’epoca dei fatti non fosse, come Franco Cordero, professore di ruolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, bensì solamente incaricato di uno specifico insegnamento. Ad ogni modo, ai sensi dell’art. 10, comma 3, della citata legge n. 121/1985, anche le nomine di questo tipo sono subordinate «al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica», la Congregazione per l’educazione della Santa Sede. Quest’ultima comunica agli organi direttivi dell’Università che alcune posizioni del Vallauri s’oppongono alla dottrina cattolica: «nel rispetto della verità e del bene degli studenti», il professore non è pertanto più gradito, indi non deve più insegnare in quella università. Il Consiglio della facoltà di giurisprudenza ne prende atto, non attribuendo al Vallauri l’insegnamento di filosofia del diritto, come invece ha fatto per tutti gli anni precedenti, a partire dal 1976.
Ora, innanzi alla Corte di Strasburgo sussistono tutti i presupposti per lamentare la violazione dei diritti e dei principi più strettamente connessi con la disciplina della libertà religiosa, che tuttavia – come nel caso Pellegrini – il Vallauri decide di non richiamare: proprio perché, alla luce della pregressa giurisprudenza, essa rende più scivolosi e imprevedibili gli esiti della vertenza. Meglio allora mantenersi, come appunto nel caso Pellegrini, sul piano delle garanzie processuali, rispetto alle quali i margini di discrezionalità degli Stati e delle relative misure sono, come si è notato, molto più limitati. E, infatti, la Corte europea pone subito in evidenza come dal provvedimento del Consiglio di facoltà non si comprenda quali siano le opinioni eterodosse espresse dal ricorrente. Il che ha precluso al Vallauri «ogni possibilità di esercizio di un dibattito in contraddittorio», tutelato dall’art. 6 Cedu[53]. Anche in questo caso, quindi, la decisione s’incentra sui diritti individuali del ricorrente. L’impatto della pronuncia è, però, tale da “colpire” le facoltà e i benefici riconosciuti ad alcune confessioni attraverso la bilateralità pattizia, il cui prodotto più illustre e qualificante è proprio la legge n. 121/1985[54].
Va, infine, sottolineato che nella decisione Lombardi Vallauri il giudice europeo non manca di effettuare una importante precisazione: in questo caso, il margine d’apprezzamento non rileva, giacché i provvedimenti adottati dagli organi accademici non costituiscono misure necessarie in una società democratica[55]. Al contrario, il margine torna a far sentire i suoi effetti nella celebre vicenda Lautsi che, incentrata sull’esposizione del crocefisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane[56], è segnata da due opposti orientamenti.
9. … e simboli religiosi
Il primo orientamento è messo a punto dalla seconda sezione della Corte di Strasburgo, per la quale l’esposizione del crocifisso offende la libertà religiosa dei cittadini non cattolici, diversamente credenti o non credenti in nessuna confessione. La Corte focalizza la sua attenzione su una questione di principio e di carattere generale, esattamente appigliandosi all’interpretazione dell’art. 2 del Protocollo addizionale del 1952, esaminato congiuntamente all’art. 9 Cedu[57].
Dopo aver precisato che il crocifisso può anche assumere una pluralità di significati, tra cui quello religioso resta, però, predominante[58], la Corte Edu sottolinea come sullo Stato membro incomba il dovere di neutralità e imparzialità. Esso deve evitare qualunque tipo di apprezzamento rispetto a una determinata convinzione, soprattutto in tema di scolarizzazione dei bambini «cui manca ancora la capacità critica che permette di prendere distanza rispetto al messaggio derivante da una scelta preferenziale espressa dall’ordinamento in materia religiosa»[59]. Si tratta, come si vede, di un principio a valenza generale che, ridimensionando il peso dei contesti nazionali e delle circostanze sottostanti al singolo caso, porta all’irrilevanza del margine di apprezzamento[60]. Ciò che, invece, è posto in grande risalto dalla Grande Camera la quale, con la sentenza del 18 marzo 2011[61], ribalta l’orientamento della sezione semplice, ponendo l’accento sulla valenza e sulla percezione del simbolo religioso, il cui impatto su diritti degli individui cambia a seconda delle singole circostanze. Sono queste che, ad esempio, nella decisione Dahlab c. Svizzera[62], assunta come precedente dalla sezione semplice, hanno portato la Corte europea a considerare il velo islamico indossato da una insegnante come «simbolo esteriore forte»[63]. Lo stesso, però, non si può dire del crocifisso appeso al muro che, secondo la Grande Camera, è «un simbolo essenzialmente passivo». Il che, si precisa, è «un aspetto importante agli occhi della Corte, tenuto conto soprattutto del principio di neutralità dello Stato». Ciò significa che nella scuola pubblica italiana non si può attribuire al crocefisso «una influenza sugli allievi paragonabile a quella che può avere un discorso didattico o la partecipazione ad attività religiose»[64].
La Grande Camera ridimensiona, così, ai minimi termini la questione di principio posta dalla seconda sezione, portando nuovamente alla ribalta le dottrine del consenso e del margine di apprezzamento, elevato – questo sì – a principio generalmente riconosciuto. Sicché, sulla questione della presenza dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche si puntualizza che non sussiste, fra gli Stati membri, un consenso diffuso[65] e, alla luce di questa mancata concordia e armonizzazione, «perpetuare o no una tradizione religiosa rientra in linea di principio nel margine di valutazione dello Stato»[66]. Ragioni per le quali, nel caso specifico riguardante l’Italia, non vi è stata la violazione dell’art. 2 del richiamato Protocollo e non si pone nessuna questione distinta per quanto riguarda l’art. 9.
10. Conclusioni
Tutto ciò, però, evidenzia anche il fatto che la disciplina convenzionale del fenomeno religioso (e, talvolta, della stessa libertà religiosa) non si esaurisca nell’art. 9. Alla luce dei casi concreti e delle relative decisioni, essa si definisce e completa con altri principi e diritti ivi pure riconosciuti e tutelati. A cominciare, come si è notato, da quelli contenuti nell’art. 2 del Protocollo del 1952, riguardante il diritto dei genitori di assicurare l’istruzione dei propri figli in conformità alle loro convinzioni religiose e filosofiche.
La giurisprudenza del giudice europeo ha tuttavia ampiamente dimostrato che alla definizione del paradigma normativo della suddetta disciplina contribuiscono anche altre norme, comprese quelle in cui non si fa nessun esplicito riferimento alla religione e al rapporto fra ordinamenti statali e fenomeni confessionali. L’esempio è fornito dall’art. 2 Cedu che, tutelando il diritto alla vita, ha svolto un ruolo decisivo nei casi eticamente e religiosamente rilevanti concernenti l’aborto, la fecondazione assistita, la maternità surrogata e le regole sul fine vita[67]. Lo stesso si dica dell’art. 3, che, stabilendo il divieto di tortura, ha permesso alla Corte Edu di condannare le attività di persecuzione condotte da uno Stato membro nei confronti di alcune minoranze cultural-religiose[68]. Il che ha finito per valorizzare il ruolo pubblico delle confessioni, della rilevanza civilistica-secolare delle loro prescrizioni, su cui la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è intervenuta in più di un’occasione. E, come si è visto, lo ha fatto non solo mediante l’art. 9, ma anche attraverso altre disposizioni, come quelle che definiscono la libertà di espressione (art. 10) e il diritto a un equo e giusto processo (art. 6).
Nel corso del suo operato, la Corte ha avuto modo di ribadire che l’autonomia delle comunità religiose gode, a livello convenzionale, di una particolare protezione; soprattutto quando è in gioco l’etica della loro organizzazione che, considerato anche il principio della neutralità e imparzialità delle istituzioni pubbliche, normalmente esula dal sindacato del giudice[69]. A questa conclusione si giunge tramite l’art. 9 che, però, in casi del genere è spesso interpretato alla luce dell’art. 11 Cedu[70]. In tal modo, la Corte ha rafforzato la tutela della dimensione collettiva della libertà religiosa o, meglio, della vita associativa religiosamente connotata: una tutela indispensabile per il pluralismo delle società democratiche, proprio perché connessa al «nodo fondamentale della protezione della libertà religiosa»[71].
Non va peraltro dimenticato che l’interazione fra aspetto collettivo e quello individuale non si esaurisce ai soli gruppi confessionali. Essa s’impone anche con riferimento ad altre formazioni sociali, a cominciare dalla famiglia. Questo spiega l’attenzione per le disposizioni di cui agli artt. 8[72] e 12[73] Cedu che, a partire dal 2010[74], hanno segnato la innovativa giurisprudenza della Corte europea in materia di unioni tra persone dello stesso sesso. Un cambio di rotta giustificato anche dal fatto che, nel frattempo, fra gli Stati membri si era diffuso un certo consenso sul riconoscimento dei diritti alle persone LGBT: ciò che ha limitato il margine di discrezionalità dei singoli ordinamenti in subiecta materia[75]. Anche qui, non di rado, si è evidenziato il coinvolgimento della disciplina della libertà religiosa dei ricorrenti nonché il sistema di relazione Stato-chiese vigente in talune Alte Parti Contraenti. Basti dire che la Corte ha, a più riprese, affermato che la limitazione nel godimento dei diritti di cui agli artt. 8 e 12 non può giustificare irragionevoli discriminazioni, comprese quelle determinate in base alla particolare protezione accordata dall’ordinamento statale al matrimonio religioso o alla famiglia tradizionale religiosamente connotata[76].
Nelle sentenze riguardanti il fenomeno religioso, il principio di eguaglianza si attesta, in effetti, come una norma di sistema, i cui contenuti sono principalmente stabiliti dagli artt. 14 Cedu e 1 Protocollo n. 12. E forse non è un caso se essi definiscono l’eguaglianza ponendo l’accento sul divieto di indebite distinzioni e disparità di trattamento, soprattutto quando fondate su dati elementi tra i quali, ovviamente, si annoverano l’appartenenza a una formazione sociale e gli orientamenti in materia di religione o di credo. Il che vale per tutte le persone e per tutti i diritti attinenti alla libertà di fede e, più generale, al fenomeno religioso[77].
Come, però, si è cercato di dimostrare con il presente lavoro, queste considerazioni devono tenere conto di altri fondamentali fattori. Uno di questi fa leva sul ruolo della Corte Edu quale giudice dei casi e non della nomofilachia, cui si accosta un’altra importante considerazione: questo giudice opera in un contesto internazionale contraddistinto da differenti tradizioni sociali, culturali e giuridiche. Differenze che, peraltro, s’accentuano alla luce delle questioni riguardanti non solo la libertà religiosa, ma anche le problematiche cariche di riferimenti etico-morali, tali da stimolare i nervi sensibili delle tradizioni confessionali e i loro influenti ordinamenti.
[1] Così M. Cartabia, I “nuovi” diritti, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, febbraio 2011, pp. 9-10, disponibile online (www.statoechiese.it/images/uploads/articoli_pdf/cartabia_i_nuovi.pdf?pdf=i-nuovi-diritti).
[2] S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, Cristianesimo e Islam a confronto, Il Mulino, Bologna, 2002, spec. pp. 59 ss.
[3] P. Annicchino, La religione in giudizio. Tra Corte Suprema degli Stati Uniti e Corte europea dei diritti dell’uomo, Il Mulino, Bologna, 2018, in cui si rinvia al fenomeno della tribunalizzazione (judicialization) di cui alle opere di Ran Hirschl (cit., p. 12, nota n. 6).
[4] Come ha dimostrato, fra gli altri, E. Voeten, The impartiality of International Judges: Evidence from the European Court of Human Rights, in American political science review, vol. 102, n. 4/2008, pp. 417-433. Sul punto, già K. Martin, Voting Behaviour and National Bias in the European Court of Human Rights, in Leiden Journal of international law, vol. 10, n. 1/1997, pp. 49-67.
[5] Si veda ampiamente la parte seconda di questo volume: La Corte Edu: struttura, soggetti, funzionamento.
[6] N. Colaianni, Divieto di discriminazione religiosa sul lavoro e organizzazioni religiose, in Questione Giustizia on line del 3/5/2018, www.questionegiustizia.it/articolo/divieto-di-discriminazione-religiosa-sul-lavoro-e-organizzazioni-religiose_03-05-2018.php.
[7] Come si avrà modo di appurare nel corso di questo lavoro, infra, parr. 8 e 9.
[8] Su questo sistema, V. De Gaetano, Alcune chiavi di lettura del sistema Cedu, in questo volume (parte prima, n. 2).
[9] Sull’endiadi religione-credo, già F. Margiotta Broglio, La protezione internazionale della libertà religiosa nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Giuffrè, Milano, 1967, pp. 27 ss. Sul punto, di recente, anche M. Toscano, Il fattore religioso nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ETS, Milano, 2018, spec. pp. 162 ss.
[10] Commissione europea dei diritti dell’uomo, C. c.. Regno Unito, ric. n. 10358/83, 15 dicembre 1983.
[11] Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, ric. n. 14307/88, 25 maggio 1993, par. 31 [ndA: nel presente lavoro le eventuali traduzioni delle sentenze sono mie].
[12] Così lo definisce S. Cassese, La crisi dello Stato, Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 126.
[13] ric. n. 5493/72, 7 dicembre 1976.
[14] Ibid., par. 48.
[15] Ibid., par. 49.
[16] Come si preciserà nella sentenza Kokkinakis c. Grecia, cit., del 1993, su cui infra in questo paragrafo.
[17] Sul punto, S. Mancini, Il potere dei simboli, i simboli del potere, CEDAM, Padova, 2008, p. 107.
[18] Kokkinakis c. Grecia, cit.
[19] Come criticamente sottolinea il giudice Pettiti nella sua opinione parzialmente concorrente a Kokkinakis c. Grecia, cit.: «[t]he reasoning adopted by the majority with the intention of confining themselves to the particular case» non permette di considerare che «what is in issue is the very principle» stabilito dalla «domestic law».
[20] K. Dzehtsiarou, European Consensus: A Way of Reasoning, in University College Dublin law research Paper, 2009, n. 11.
[21] E, come si accennava, questo vale per «both the legislation and the decisions applying it»; Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, cit., par. 47.
[22] Dl n. 1672/1939.
[23] Art. 3 Cost.
[24] Art. 13 Cost.
[25] Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, cit., par. 48.
[26] Ibid., par. 31.
[27] Ibid., opinione parzialmente concorrente del giudice Pettiti, cit.
[28] Al punto da configurare uno scontro fra la giurisprudenza della Corte Edu e la peculiarità del modello ortodosso di sistemi di relazioni Stato-Chiese; S. Ferrari, La Corte di Strasburgo e l’art. 9 della Convenzione europea. Un’analisi quantitativa della giurisprudenza, in R. Mazzola (a cura di), Diritto e religione in Europa. Rapporto sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di libertà religiosa, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 35.
[29] Per tutte, si vedano Corte Edu: Valsamis c. Grecia, ric. n. 21787/93, 18 dicembre 1996; Efstratiou c. Grecia, ric. n. 24095/94, 18 dicembre 1996. Si veda anche Buscarini e altri c. San Marino, ric. n. 24645/94, 18 febbraio 1999.
[30] Precisamente, da Corte Edu, Hasan e Chaush c. Bulgaria, ric. n. 30985/96, 26 ottobre 2000.
[31] Corte Edu, Otto-Preminger-Institut c. Austria, ric. n. 13470/87, 20 settembre 1994 (ric. n. 11/1993/406/485).
[32] Con le medesime motivazioni, questo orientamento è solcato due anni dopo da Corte Edu, Wingrove c. Regno Unito, ric. n. 17419/90, 25 novembre 1996, par. 52: «the interference corresponded to a “pressing social need” and (…) it was “proportionate to the legitimate aim pursued”».
[33] Corte Edu, Í.A. c. Turchia, ric. n. 42571/98, 13 settembre 2005, par. 26.
[34] In effetti, la censura turca interviene sulle altre edizioni del libro; Corte Edu,Aydin Tatlav c. Turchia, ric. n. 50692/99, 2 maggio 2006, par. 31.
[35] R. Bottoni, Il principio di laicità in Turchia, Vita e Pensiero, Milano, 2012.
[36] Corte Edu [GC], Refah Partisi (Partito della Propserità) e altri c. Turchia, ricc. nn. 41340/98, 41342/98, 41343/98 e 41344/98, 13 febbraio 2003.
[37] Ibid., parr. 123, 132, 134 e 135.
[38] Corte Edu, Leyla Şahin c. Turchia, ric. n. 44774/98, 10 novembre 2005.
[39] Loi n. 2010-1192 dell’11 ottobre2010, «interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public».
[40] Un concetto, si precisa, che rinvia al «respect des exigences minimales de la vie en société»; Corte Edu, S.A.S. c. Francia, ric. n. 44774/98, 10 novembre 2015, par. 121.
[41] Sul punto, si veda l’opinione parzialmente dissidente a S.A.S. c. Francia dei giudici A. Nußberger e H. Jäderblom.
[42] Corte Edu, Obst c. Germania, ric. n. 425/03, e Schüts c. Germania, ric. n 1620/03, 23 settembre 2010.
[43] Corte Edu, Sindicatul Păstorul cel Bun c. Romania, ric. n. 2330/09, 9 luglio 2013, su cui L.S Martucci, Libertà sindacale nelle confessioni religiose. Spunti comparativi, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, n. 39/2014 (15 dicembre), disponibile online (www.statoechiese.it/images/uploads/articoli_pdf/martucci.m._libert.pdf?pdf=liberta-sindacale-nelle-confessioni-religiose.-spunti-comparativi).
[44] Corte Edu, Fernandez Martinez c. Spagna, ric. n. 56030/07, 12 giugno 2014, su cui N. Colaianni, Organizzazioni, istituzioni di tendenza religiose e diritti delle parti, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, n. 1/2013, p. 229.
[45] In argomento N. Colaianni, La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 59-84.
[46] Ric. n. 30882/9620, luglio 2001, su cui per tutti Aa.Vv., La sentenza della Corte dei diritti dell’uomo del 20 luglio 2001, Milano, Giuffrè, 2004.
[47] Ric. n. 39128/05, 20 ottobre 2009.
[48] Si tratta della decisione della seconda sezione della Corte Edu, del 3 novembre 2009, e di quella della Grande Camera, del 3 marzo 2011 (ric. n. 30814/06).
[49] Corte Edu, Pellegrini c. Italia, cit.
[50] Il riferimento è, in particolare, alla “specificità dell’ordinamento canonico nel quale ha avuto origine il matrimonio concordatario”, al “maggiore margine di disponibilità verso il riconoscimento degli effetti civili delle sentenze ecclesiastiche” e al “nucleo essenziale e ristretto del diritto di difesa”,su cui F. Alicino, I “nodi” della delibazione di sentenze ecclesiastiche e il “pettine” delle Sezioni Unite della Cassazione, in Il Diritto ecclesiastico, vol. CXXV, nn. 1-2/2014, pp. 195-222.
[51] Il che riduce ai minimi termini l’impatto sull’ordinamento statale delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale. Si veda Cass., sez. unite civ., 3 dicembre – 17 luglio 2014, nn. 16379 e 16380, che precisa ulteriormente quanto affermato in Cass., sez. unite civ., 18 luglio 2008, n. 19809, e che interviene dopo Cass., sez. I civ., 20 gennaio 2011, n. 134 e, soprattutto, dopo l’arresto giurisprudenziale di Cass., sez. I civ., 4 giugno 2012, n. 8926. L’orientamento poi affermato dalle sez. unite civ. nel 2014 è stato solcato, in modo – pare – definitivo, da Cass., sez. I civ., 27 gennaio 2015, nn. 1495 e 1496; 28 gennaio 2015, n. 1622; 2 febbraio 2015, n. 1788; 9 febbraio 2015, n. 2398.
[52] Caso concluso, perlomeno dal punto di vista giudiziario, con la sentenza della Corte costituzionale del 22 dicembre 1972, n. 195.
[53] Corte Edu, Lombardi Vallauri c. Italia, cit., par. 54.
[54] Sul punto, va ricordato che pende tuttora, davanti alla Corte di Strasburgo, un ricorso presentato dall’«Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti» (UAAR), incentrato sulla bilateralità pattizia riguardante, questa volta, le intese Stato-confessioni diverse dalla cattolica (art. 8, comma 3, Cost.). Il ricorso si pone al termine di una travagliata vicenda giudiziaria, che ha visto anche l’intervento del Consiglio di Stato (18 novembre 2011, n. 6083), delle sezione unite della Cassazione (28 giugno 2013, n. 16305) e della Corte costituzionale (10 marzo 2016, n. 52), su cui si rinvia a F. Alicino, La bilateralità pattizia Stato-confessioni dopo la sentenza n. 52/2016 della Corte costituzionale, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2016.
[55] Corte Edu, Lombardi Vallauri c. Italia, cit., par. 71.
[56] Esposizione imposta dall’art. 118 del regio decreto 30 aprile 1924, n. 965,e dall’art. 119 del regio decreto 26 aprile 1928, n. 1297.
[57] Corte Edu, Lautsi c. Italia, 3 novembre 2009, cit., par. 47 (c).
[58] Ibid., par. 51.
[59] Ibid., par. 48.
[60] Nella sentenza compare solo tre volte (par. 41), tutte dovute al richiamo effettuato alla memoria presentata in giudizio dal Governo italiano.
[61] Corte Edu [GC], Lautsi c. Italia, 18 marzo 2011, cit.
[62] Dahlab c. Svizzera, ric. n. 42393/98,15 febbraio 2001.
[63] Corte Edu [GC], Lautsi c. Italia, 18 marzo 2011, cit., par. 73.
[64] Ibid., par. 72.
[65] Ibid., par. 70.
[66] Ibid., par. 68 (corsivo mio).
[67] Si veda, in particolare, Corte Edu, Pretty c. Regno Unito, ric. n. 2346/02, 29 aprile 2002 e, per quanto riguarda le pronunce che rivestono particolare interesse per l’Italia, in materia di fecondazione assistita e maternità surrogata: Corte Edu, Costa e Pavan c. Italia, ric. n. 54270/10, 22 agosto 2012; Parillo c. Italia, ric. n 2346/02, 27 agosto 2015; Paradiso e Campanelli c. Italia, ric. n. 25358/12, 24 gennaio 2017.
[68] Corte Edu, Membri della Congregazione dei Testimoni di Geova di Gldani e altri c. Georgia, ric. n. 71156/01, 3 maggio 2007.
[69] Corte Edu, Fernandez Martinez c. Spagna, cit. parr. 127, 128 e 129.
[70] Corte Edu, Chiesa metropolitana di Bessarabia e altri c. Moldavia, ric. n. 45701/99, 13 dicembre 2001.
[71] Corte Edu, Hasan and Chaush c. Bulgaria, cit., par. 62.
[72] Diritto al rispetto della vita privata e familiare.
[73] Diritto al matrimonio.
[74] Precisamente, dalla sentenza della Corte Edu, Schalk e Kopf c. Austria, ric. n. 30141/04, 24 giugno 2010.
[75] Sul punto, oltre a Schalk and Kopf c. Austria, cit., si veda anche Corte Edu [GC], S.H. e altri c. Austria, ric. n. 57813/00, 3 novembre 2011 nonché [GC] X e altri c. Austria, ric. n. 19010/07, 13 febbraio 2013; per quanto riguarda l’Italia, Oliari c. Italia, ric. n. 19010/07, 21 luglio 2015, su cui F. Alicino, Le coppie dello stesso sesso. L’arte dello Stato e lo stato della giurisprudenza, in Forum di Quaderni costituzionali, 22 agosto 2015 (www.forumcostituzionale.it/wordpress/wp-content/uploads/2015/07/alicino.pdf).
[76] Corte Edu [GC], Vallianatos e atri c. Grecia, ric. nn. 29381/09 e 32684/09, 7 novembre 2013 e [GC], Hämäläinen c. Finlandia, ric. n. 37359/09, 16 luglio 2014. Per approfondimenti, si rinvia a F. Alicino, The Road to Equality. Same-Sex Relationship within the European Context: The Case of Italy, in SOG-Working papers 24, giugno 2015, pp. 1-54.
[77] Sia per quelli stabiliti dalla Convenzione (art. 14 Cedu) che per quelli stabiliti dalla legge (Protocollo n. 12), intesa in senso generale del termine; come rileva il lemma «law» contenuto nel testo ufficiale in inglese del suddetto Protocollo.