Dalla gravitas alla partecipazione. Spunti per una “storia” dell’imparzialità del giudice
L’imparzialità del giudice rappresenta un’esigenza consustanziale all’idea di giustizia. Il concetto ha conosciuto, nel lungo periodo, letture e declinazioni diverse, riconducibili intorno a due nuclei principali: la terzietà rispetto alle parti e l’indipendenza da poteri concorrenti o antagonisti. L’analisi storica mostra come la cultura giuridica e le istituzioni abbiano prevalentemente privilegiato i segni esteriori dell’equidistanza, nella convinzione che comportamenti e posizioni palesemente neutrali infondano nella comunità un sentimento di fiducia nella giurisdizione.
1. Terzietà endoprocessuale e indipendenza costituzionale / 2. Nel laboratorio medievale / 3. La dialettica tra Principe e Grandi Tribunali / 4. Il trionfo tardo-umanistico del conformismo / 5. Scenari costituzionali / 6. L’epoca dei notabili: le «seduzioni» della politica e le sirene della società / 7. La parte imparziale: il pubblico ministero / 8. L’indipendenza «in tempi di libertà»
1. Terzietà endoprocessuale e indipendenza costituzionale
«È proprio del giudice sapiente pensare che tanto gli è permesso dal popolo romano quanto gli è stato affidato, e ricordarsi non solo del potere ricevuto, ma anche della fides ottenuta».
Il brano dell’orazione ciceroniana Pro Cluentio (§ LVIII) echeggiava nelle trattazioni sulla deontologia del magistrato nell’età del diritto comune. In quegli elenchi di virtù, che ai lettori smaliziati di oggi suonano vanamente retorici, si annidavano indicazioni meno banali di quanto possa sembrare. L’imparzialità si celava dietro coppie semantiche come amor/odium, amicitia/inimicitia. Nessuno, però, dubitava che per il giudicante inclinare pro una parte fosse un comportamento non solo riprovevole, ma idoneo a minare la fides riposta dal popolo nella giustizia.
La traccia che qui si cercherà di seguire diacronicamente, attraverso una selezione di tappe e di fonti del tutto opinabile, è che la parvenza di imparzialità ha sempre rilevato quasi quanto la sua effettiva sussistenza[1]: equivalenza che non stupisce, data la natura sociale del sapere giuridico. La ricostruzione dovrà tuttavia tener conto sia della profonda disomogeneità socio-istituzionale e culturale tra le esperienze vagliate, sia della polisemia del vocabolo.
In linea di massima, anche l’approccio storico può assumere a canovaccio la duplice accezione “attuale” dell’imparzialità: la prima ordinamentale (o esterna), coincidente con l’indipendenza da altri poteri sovraordinati o comunque potenzialmente condizionanti; la seconda endoprocessuale, consistente nella terzietà tra le parti del processo[2] e sfociante in quella che Calamandrei definiva «sintesi chimica di due contrapposte parzialità»[3]. Una scorsa anche superficiale alla dottrina giuridica mostra come, sino al crollo dell’Ancien Régime, l’attenzione si concentrasse pressoché esclusivamente sul primo polo (la terzietà). La ragione è intuibile. Negli ordinamenti medievali – si perdoni l’estrema semplificazione – il ius dicere era il potere sovrano per eccellenza, un potere originario, speculum della giustizia divina: non era, dunque, qualitativamente “altro” rispetto alle altre potestà (anche il papa e l’imperatore erano anzitutto giudici). In età moderna (in senso stretto: tra Cinquecento e Settecento) le dinamiche si complicarono. Il principe iniziò a salariare in forme più o meno congrue i “suoi” officiales di giustizia, dai quali pretendeva, di conseguenza, un esercizio della giurisdizione funzionale alla propria voluntas; le corti giudiziarie, dal canto loro, avevano interesse a proclamarsi membra e corpo del loro dante causa, rimandando al gioco sottile della prassi la ricerca di equilibri assai meno asimmetrici. Solo la separazione dei poteri, teorizzata dall’Illuminismo maturo, avrebbe reso possibile reclamare apertis verbis una formale indipendenza del giudiziario. Indipendenza che, almeno inizialmente, si traduceva in propositi di ridimensionamento, e che comunque obbligava i magistrati a fornire alla comunità politica tangibili segni di distacco non solo dai “litiganti”, ma anche dai governi e dai legislatori.
2. Nel laboratorio medievale
Del dovere del giudice di terzietà verso le parti in causa non s’è mai dubitato. O meglio, quasi mai: come acutamente segnalato da Gaetano Foschini, in alcune congiunture patologiche la partigianeria dei tribunali rivoluzionari o di guerra costituisce una sorta di regola d’ingaggio[4].
Il diritto romano imperiale (ad esempio, la costituzione giustinianea Apertissimi iuris: C. 3.1.16) approntava strumenti, quali la ricusazione, la suspicione, l’obbligo di astensione, transitati nell’esperienza del diritto comune, che vi affiancò meccanismi di controllo ex post (non sempre efficienti) come il sindacato degli officiali. La codificazione ottocentesca delle procedure avrebbe tesaurizzato quell’intensa elaborazione giurisprudenziale, tipizzandone le ipotesi: affetto, interesse, odio e inimicizia, amor proprio, incompatibilità formali e sostanziali, etc. (vds., ad esempio, l’art. 116 cpc italiano del 1865).
Le ridotte dimensioni delle comunità medievali, sia civili sia ecclesiastiche, rendevano spesso velleitaria l’individuazione d’un giudice effettivamente terzo. Al tramonto della civiltà comunale fu necessario ricorrere al podestà forastiero per evitare che la lotta tra fazioni dilagasse anche nei palazzi di giustizia. In ambienti così circoscritti bisognava evitare che il giudice decidesse in conscientia, ossia che si avvalesse di elementi probatori non già allegati dalle parti bensì acquisiti in via riservata o addirittura in sede di confessione. Il rigoroso divieto si sarebbe allentato sin dal Trecento, con l’espansione dell’inquisitio che consentiva al magistrato di attingere a conoscenze personali[5]. Nel «Theatrum» del cardinal Giambattista De Luca (1669-73), forse il più illustre giurista italiano del Seicento, la questione trovò un punto di caduta qui di particolare interesse: l’Autore sosteneva che nel foro esterno, dove il giudice videt in facie, non in corde, si richiede che le prove trovino una «extrinseca justificatio publica in actis», in modo che la verità pateat non solo a sé (ossia allo stesso giudice), ma a tutti; donde il brocardo secondo cui bisogna giudicare secundum acta et probata, non per scienza e coscienza[6]. Dalle parole del De Luca traspare, ben prima che venisse istituzionalizzato l’obbligo di motivazione delle sentenze, la consapevolezza dei benefici pubblici derivanti da logiche giudiziali patenti: col che si lasciava intendere che l’opacità della decisione presa in conscientia alimentava sospetti di settarismo.
Nel diritto canonico, componente essenziale degli ordinamenti medievali, la rettitudine del giusdicente era parametrata sulla moralità interiore, a prescindere dall’obiettiva correttezza della decisione presa. Il principio trovava nella corruzione il tipico terreno di collaudo. Stando a una lettera di Sant’Agostino recepita nel Decretum di Graziano (del XII secolo), il giudice non avrebbe potuto “vendere” nemmeno il iudicium iustum, perché, a differenza dell’avvocato che offre dichiaratamente una consulenza “di parte”, egli deve muoversi inter utramque partem[7].
Citando i Salmi, una bolla di Innocenzo IV (Liber Sextus, II, 14, 1) risalente al Concilio di Lione (1245) raccomandava ai giudici ecclesiastici (si apprezzi la finezza lessicale della cancelleria pontificia) che nei processi l’odium non avanzasse pretese, il favor non comportasse usurpazioni, il timor fosse messo al bando, l’aspettativa d’un premio non capovolgesse la giustizia: quei magistrati avrebbero dovuto tenere in equilibrio nelle loro mani i piatti della bilancia, e amministrare la giustizia guardando soltanto a Dio e imitandone l’esempio. La bolla minacciava la sospensione al giudice che, per gratiam o per denaro, avesse fatto alcunché contra conscientiam e contra iustitiam a danno d’una parte in giudizio.
A questa disposizione innocenziana e al ciceroniano «De oratore» (II, 178), secondo cui gli uomini giudicano più spesso per odio, amore o per qualche permotio mentis che per verità o per legge, dichiarava di ispirarsi il commentatore Costantino Rogerio, autore nel 1463 d’un trattatello sull’interpretazione confluito in una sede assai autorevole quale il primo tomo dei Tractatus universi iuris[8]. È evidente che la fissazione di canoni ermeneutici così moraleggianti, e tutt’altro che cogenti, assimilava gli oneri dell’esegeta (e, in primis, del magistrato) a quelli del principe legibus solutus o, meglio, vincolato al solo diritto naturale[9].
3. La dialettica tra Principe e Grandi Tribunali
L’identificazione “organica” tra monarca e magistrature di vertice si delineò nella prima età moderna. I giudici supremi esercitavano l’officio nomine regis. Ma, al contempo, continuavano a parlare la lingua sacra e neutra del ius, prezioso lascito della sapienza medievale. Proprio la circostanza che amministrare giustizia significasse essenzialmente interpretare innescava una vivace dialettica tra la Corona e i cd. “Grandi Tribunali”. L’esempio più vistoso è quello dei Parlements di Francia, i quali disponevano di strumenti particolarmente acuminati di “interdizione” e di resistenza alla potestà legislativa del Principe[10], tanto da dar vita a metà Seicento a una temibile Fronda. Di solito, però, la sfida tra sovrano e apparati giudiziari restava sotto traccia. Questi ultimi, sentendosi delegati del primo, si arrogavano la medesima facoltà di decidere non secondo lo strictum ius, bensì in base all’aequitas o agli apices iuris (i principi generali), sola facti veritate inspecta. E così essi stemperavano la vis della norma principesca diluendola entro le sterminate fonti disponibili: ius commune, iura propria, consuetudini, opiniones doctorum, precedenti giurisprudenziali.
E non è tutto. Le magistrature centrali veicolavano un’interpretatio che, proprio perché non appiattita ai voleri del potente di turno, poteva agganciarsi alla scienza giuridica universale, a quel «mondo civile communicabile» tratteggiato dal Cardinal De Luca[11].
In alcune aree si arrivava a insinuare che i magistrati supremi, quando fosse in gioco la vita umana, usassero obbedire più a Dio e alla sua giustizia che agli uomini e ai prìncipi[12]. Affermazioni così azzardate (e forse adulatorie) circolavano nel Regno di Napoli, cioè in quella «respublica dei togati» mirabilmente descritta, nel tardo Seicento, da Francesco D’Andrea:
«Non vi è parte del mondo donde i ministri tengono maggior autorità che in Napoli, poiché, come non tengono obbligazione di render conto delle loro azzioni che al Re nostro signore, il quale è lontano, né i signori viceré tengono sopra di loro alcuna giurisdittione, la loro potestà si riconosce tanto maggiore quanto è independente; talmente che ne tempi addietro eran chiamati comunemente dij terreni (...), cioè diavoli»[13].
Quasi ovunque il “governo” dei giuristi nella prima età moderna rispecchiava l’ideale platonico-umanistico di un’élite di saggi[14] che aveva fatto della sua scienza, rigorosamente neutrale e arcana, un formidabile instrumentum Regni, la sorgente di un’ontologica legittimazione a collocarsi super partes agli occhi non solo dei potenti formalmente sovraordinati, ma anche delle varie articolazioni della società. Anche quando assurgeva a noblesse de robe, come in Francia; anche quando proveniva pressoché integralmente dal patriziato, come a Milano, la magistratura evitava accortamente di raffigurarsi come status in competizione con gli altri: nella società tuttora cetuale, nella quale si regnava – più che nel Medioevo – per diritto divino, essa ripeteva dal re la potestas sacerdotale che la elevava a corpo separato e disinteressato.
La cointeressenza di valori politico-religiosi si materializzava nei criteri ufficiali di reclutamento. Valga l’esempio del Sacro Regio Consiglio, supremo consesso giudiziario del Regno di Napoli, istituito (o forse semplicemente riformato) dagli Aragonesi a metà Quattrocento. Uno dei provvedimenti fondativi prevedeva che l’organismo fosse composto di un presidente e nove consiglieri, «viri juris insignibus decorati, docti, graves, severi, insontes [incensurati], mites, justi, faciles, lenesque [compassionevoli]», non corruttibili né con preghiere, né con denaro, né con amicizia, né con odio[15]. Le qualità richieste (la gravitas, la severitas, la mitezza, la compassione) erano “esteriormente” percepibili: dovevano infondere fiducia nella compagine sociale.
Nei decaloghi del buon giudice moderno, la riconoscibilità rappresenta il denominatore comune alle virtù richieste. Vi si leggeva che il magistrato in cerca della verità rifugge i piaceri e antepone l’utile al divertente; vi si ricordava, con nonchalance, che nulla è più gradito aspectu (all’occhio, per l’appunto) se non ciò che si vede compiere in modo giusto e pio; nulla è più soave auditu, se non ciò che rende l’anima migliore[16]. Per converso, vi si stigmatizzavano atteggiamenti ritenuti esternamente non consoni al ruolo, come il foeminarum commercium o la partecipazione a giochi (anche non proibiti) e a spettacoli[17].
Moniti, questi ultimi, che richiamano alla memoria una sulfurea pagina di Calamandrei: «Nei giudici, anche nella vita privata, si biasimano come disdicevoli alla gravità del loro ufficio certe piccole debolezze o certe innocenti distrazioni». L’insigne giurista ammetteva che avrebbe esitato a riporre «fiducia» nella «serenità» e nell’«equilibrio» d’un magistrato dopo averlo visto agitarsi in preda al tifo calcistico[18]. Comportamenti disdicevoli alla gravità dell’ufficio: dal frasario si evince che il professore fiorentino aveva compulsato l’ampia letteratura sul tema.
4. Il trionfo tardo-umanistico del conformismo
La vita civile del secolo XVI sembrava particolarmente propensa a misurare la moralità degli attori sociali da segni esteriori. È il secolo del «Galateo», del «Cortegiano» di Baldassarre Castiglione, del conformismo; è il tempo nel quale Machiavelli registrava che i governanti hanno «uno animo in piazza, ed uno in palazzo»[19]. L’«esteriorizzazione» dell’etica faceva apprezzare le «apparenze simili alla virtù»[20]. Quelle apparenze divenivano norma dell’agire[21] e criterio di giudizio dell’esercizio del potere.
Coerentemente con questa forma mentis tardo-umanistica, il giurista veniva definito «non iuris novator, sed religiosissimus observator». Di conseguenza, il giudice era esortato, anche per non incorrere in responsabilità nel giudizio di sindacato, a conformarsi all’opinione comune, sebbene fosse acclarata la volatilità casistica di questa “bussola”[22].
Al magistrato che perseguisse una trasversale credibilità conveniva mostrarsi distante, ma non scostante. L’ideal-tipo, secondo D’Andrea, era incarnato dal napoletano Giovan Francesco Sanfelice:
«Fu severissimo nel castigare i delitti, ma con tal tranquillità che, quando condannava i rei, pareva che l’assolvesse, né fu meno ammirabile per l’indicibil patienza con la quale ascoltava tutte le differenze che succedeano in Napoli anche tra povere donnicciuole e tra persone d’infima plebe e per l’equità nel determinarle; sicché la sua vita potea dirsi un esercizio continuo in amministrare a tutti indifferentemente giustizia»[23].
Proprio perché assillati dalla preoccupazione di combattere le forme palesi di parzialità, i legislatori punivano severamente il magistrato che esplicitasse «il suo voto (...) con parole, segni» o altri indizi di «dove inclina[sse]»; o che discutesse con i colleghi fuori dalla sede deputata, rendendo edotte le parti[24]. I repertori giurisprudenziali trascrivevano un campionario di disinvolte battute sfuggite a margine della camera di consiglio: «Che merita mille morti, per essere huomo infame, e che si era solo nella causa, lo voleva far trovare appiccato una matina»; «Questo cavaliere mi fruscia, ed ha torto». Ma di solito le esternazioni sanzionate da ricusazione erano solo quelle rese extra iudicium: alle altre si rimediava con gli ordinari mezzi d’impugnazione[25].
Forse per la medesima esigenza di “decoro” la dottrina censurava quei giudici che, dopo aver mostrato, durante il processo informativo, di «inclinare pro una parte», mutavano ex abrupto opinione e votavano in senso contrario, scatenando le proteste degli avvocati i quali avevano, nel frattempo, fatto balenare la vittoria al cliente[26]. L’ipotesi presenta una singolare analogia con la vicenda descritta da Calamandrei. Un costruttore che aveva ricevuto, in udienza, da un giudice istruttore rassicurazioni circa la fondatezza della propria pretesa scoprì, all’udienza successiva, che «il contegno del giudice era cambiato dal giorno alla notte»; quando si recò a chiedere «a quattr’occhi» spiegazioni al magistrato, si sentì candidamente confessare che il repentino ripensamento era stato indotto da un’aspettativa di promozione[27].
Di contro, la letteratura giuridica moderna pareva tollerare occasioni di prossimità soggettiva – come l’amicitia tra giudice e parti – potenzialmente ben più lesive dell’imparzialità ma, forse, prive di analoga risonanza “pubblica”[28]. Così come non si ravvisava un obbligo inderogabile di astenersi a carico del giudice già intervenuto, in qualità di avvocato fiscale (ossia come pubblico accusatore), in una fase precedente del medesimo procedimento[29].
Non va dimenticato che il principio dell’equidistanza giudiziaria doveva pur sempre fare i conti con una società frazionata in ceti e non affrancata dal privilegio. Per tacere, poi, degli impalpabili condizionamenti derivanti dalla venalità degli offici, quantunque studi autorevoli escludano che quel sistema, laddove istituzionalizzato, moltiplicasse di per sé la corruzione[30].
5. Scenari costituzionali
Fu la crisi della coscienza europea[31], locuzione che contrassegna il tormentato passaggio culturale avviatosi alla fine del Seicento, a rendere non più appaganti le mere sembianze del potere, a cominciare da quelle giudiziarie. La dissociazione tra l’«austère dévotion» del mondo ufficiale e «la plus extrême liberté» dei comportamenti sociali[32] procurava «disagio» per la «discrasia fra immagine pubblica e vita privata, fra l’ordine qual si mostrava e qual era»[33].
La corrosiva critica illuministica, forgiata proprio da quella crisi, non risparmiò l’immagine del magistrato gravis. I philosophes misero in dubbio la sacertà e la meta-temporalità del sapere giuridico, e ritennero che all’ingiustificata ambizione dei giudici di collocarsi super partes andasse sostituito un posizionamento inter partes: in quest’ottica si spiegano le proposte di ripristinare l’accusatorio o, addirittura, di importare sul Continente la giuria popolare.
Già da questi cenni al declassamento culturale e sociale patito dal ceto togato nella transizione al nuovo regime si comprende perché negli ordinamenti costituzionali, mentre l’imparzialità interna o terzietà continuava, in fondo, a porre i medesimi problemi di contenimento di quando il giudice viveva, o simulava di vivere, in un pensoso eremitaggio, l’imparzialità esterna iniziò a esigere l’attivazione di garanzie quali l’inamovibilità, la perpetuità, la congrua retribuzione, l’autogoverno disciplinare[34]. È questo secondo versante che verrà qui privilegiato.
Lo spostamento del fulcro della sovranità in direzione del popolo incoraggiò i costituzionalisti italiani del secolo XIX a recuperare una provocazione di Bentham, secondo cui l’irrinunciabile indipendenza del giudice doveva ribaltarsi in dipendenza dalla pubblica opinione e responsabilità di fronte ad essa; doveva fortificare il vincolo con la «massa della nazione»; doveva trasformare il giudice da «uomo del potere» in «uomo della legge» e «del popolo»[35]. L’auspicio benthamiano circolava appaiato a un memento (risalente alla prima metà del secolo XVIII) del Cancelliere di Francia Henri-François d’Aguesseau: «Ricordatevi, o giudici, che se voi siete elevati al di sopra del popolo (...) non lo siete che per essere meglio esposti agli sguardi di tutti. Voi giudicate la sua causa, ma esso giudica la vostra giustizia (...) [e] non gli potete nascondere né la vostra virtù, né i vostri difetti»[36].
Non era solo il fantasma dell’antico regime, ovvero dell’assolutismo regio, a sollecitare, da parte della pubblicistica liberale, un rafforzamento delle guarentigie magistratuali. Monarchie e imperi usciti dal Congresso di Vienna puntavano all’«onnipotenza amministrativa», a detrimento del giudiziario. La più seria minaccia all’imparzialità dei giudici sembrava venire dai governi. Ma non andava sottovalutata l’insidiosa influenza del popolo, inedito e imprevedibile interlocutore politico[37].
Nel «Manuale del diritto pubblico costituzionale», apparso nel marzo del 1849 in concomitanza con il traumatico scioglimento del Parlamento napoletano, il ventunenne Enrico Pessina sosteneva con fermezza che il potere giudiciario, emanante da un’impersonale «Sovranità giuridica», non fosse affatto una «branca» dell’esecutivo: anzi, esso disponeva del diritto-dovere di ingerirsi nell’attività di governo per giudicarla. Da Pierre-Paul Royer-Collard, teorico transalpino della monarchia limitata, Pessina desumeva la convinzione che il fulcro della «potestà governativa» consistesse nella forza di trascinare in tribunale i perturbatori dell’ordine pubblico[38]. Erano idee circolanti sin dalla Restaurazione in Francia, dove i moderati avevano provato a rilanciare il primato della giustizia (ribattezzata “seconde Providence”) fondandola sulla sua capacità coattiva di tener salda la società ed evitare che andasse a fuoco[39]. Qualche decennio dopo (1884), il magistrato Georges Picot, nel rivendicare un incremento delle garanzie per i giudici, ricordava come il corpo giudiziario fosse un baluardo contro la demagogia delle folle e dei partiti e meritasse, pertanto, di trovarsi stabilmente collocato in posizione elevata[40].
Nel medesimo solco ideologico, Attilio Brunialti, nel 1870, deplorava che, mentre negli ordinamenti anglo-americani il magistrato era preposto a «mantenere il rispetto della legge e della costituzione [l’arca santa – ndr] contro chiunque», ossia anche schierandosi contro tutti gli altri poteri, nel Continente esso non fosse che «un delegato del potere esecutivo» e che «il potere giudiziario [fosse] una funzione del governo». I manuali universitari di diritto costituzionale, si rammaricava lo studioso, situavano in coda la stringata trattazione del giudiziario; e, del resto, anche lo Statuto accordava a quest’ultimo un peso «assai scarso», definendolo «ordine» anziché «potere». «Non è certo con siffatti principii», commentava Brunialti, «che alligna e cresce rigogliosa nella coscienza di un popolo la libertà costituzionale. Si ingenera quella triste abitudine di non avere alcuna o assai scarsa fiducia nella giustizia, così generale nei popoli del mezzodí». Mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti qualsiasi controversia sfociava in un processo, nei Paesi continentali, per vedersi riconosciuto un diritto «si fa la rivoluzione: costa più che un processo, e quel che è peggio è sempre la libertà che ne paga le spese»[41].
Ancora l’agognata meta della fiducia nella giustizia. Malinconicamente, Brunialti la vedeva raggiunta Oltremare, meno in Italia, dove sarebbe servita non più tanto (o almeno non solo) l’imparzialità interna, ma soprattutto quella esterna, sistemica[42]. Con toni assai meno felpati, trent’anni dopo, l’anarco-internazionalista Francesco Saverio Merlino avrebbe bollato l’indipendenza della magistratura come «una menzogna convenzionale»[43].
Per invertire la tendenza, i pubblicisti liberali italiani individuarono nell’inamovibilità la garanzia giudiziaria per antonomasia[44]. Essa andava, certo, temperata, «anche per ovviare al pericolo di ristagno, di adattamento o di influenze locali determinate, più che dalle persone, dall’ambiente»[45]. Ma, come comprendeva qualsiasi «mente, per quanto ottusa», la prerogativa non era «un favore alla persona del giudice, ma una guarentigia alla società»[46].
Eppure i legislatori ottocenteschi s’impegnarono pervicacemente a comprimerla o addirittura, pro tempore, a eliminarla. In Francia, sebbene l’inamovibilità fosse stata costituzionalizzata (1814 e 1830), si assistette a ondate di epurazione della magistratura[47]. Dopo la rivoluzione del febbraio 1848, una circolare del Ministro della giustizia Cremieux arrivò a dichiararla «incompatibile col governo repubblicano»[48]. Le «tradizioni demagogiche insieme e reazionarie» si proiettarono anche sulla Terza Repubblica (dopo il 1870): un numero cospicuo di magistrati preferì dimettersi anziché rassegnarsi alle continue modifiche legislative di segno punitivo verso la corporazione[49].
In Italia l’art. 69 dello Statuto Albertino prevedeva per i giudici «nominati dal re» (non per i pubblici ministeri né per i futuri pretori) l’inamovibilità di grado, e non di sede, al termine del primo triennio dall’assunzione. Dopo la parentesi della legge Siccardi (19 maggio 1851), l’ordinamento giudiziario Rattazzi (la legge «illiberale»[50] 13 novembre 1859, art. 103) parificò, di fatto, il giudice a qualsiasi altro funzionario, rendendone legittimo il trasferimento «per l’utilità del servizio». Regola confermata dall’ordinamento Cortese (rd 6 dicembre 1865, n. 2626, art. 199), peraltro nel quadro d’un rafforzamento dei poteri del guardasigilli e della conformazione gerarchica della magistratura. Persino i più benevoli commentatori di quelle norme non escludevano che vi fossero magistrati pronti a piaggiare il potere anche dinanzi a suoi semplici «cenni» e «desiderii»[51].
6. L’epoca dei notabili: le «seduzioni» della politica e le sirene della società
L’ascesa al potere della Sinistra storica (1876) pose in termini indifferibili il problema di sottrarre la magistratura alla tenzone politica[52]. Come osservava nel 1884 Adeodato Bonasi, professore di diritto costituzionale e amministrativo a Modena e futuro guardasigilli, l’ordinamento inglese aveva capito che occorreva preservare il magistrato non solo (mediante l’inamovibilità) dalle «intimidazioni» del potere politico, ma anche dalle relative «seduzioni». Tra le proposte avanzate dallo studioso per ovviare al pericolo figurava «l’assoluta incompatibilità dell’ufficio di deputato colle funzioni giudiziarie». Bonasi argomentava: «L’atmosfera dei Parlamenti è infesta alla serenità dello spirito ed alla equanimità dei sentimenti; e d’altronde non si può entrare in un’assemblea politica senza ascriversi ad una delle parti che la dividono, mentre il magistrato deve inspirare la stessa fiducia a tutti indistintamente i cittadini». Da questa preclusione l’Autore avrebbe eccettuato la nomina in Senato, giacché la Camera alta non era segmentata in partiti e svolgeva saltuarie funzioni giudiziarie per i reati contro la sicurezza dello Stato[53].
L’istituzione del Consiglio superiore della magistratura per effetto della riforma Orlando (l. 14 luglio 1907, n. 511) introdusse l’inamovibilità di sede, salvi i casi di «incompatibilità ambientale». Il 28 novembre 1907 lo stesso guardasigilli presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge su guarentigie e disciplina della magistratura: esso prometteva ai giudici la più ampia «indipendenza» affinché «la giustizia [fosse] e [apparisse] estranea e superiore alla ragion politica e ai conflitti dei partiti»[54].
Che la relazione ministeriale accostasse essere e apparire fa pensare che fosse ancora una volta il secondo, l’apparenza, il prioritario obiettivo del Ministro. Sospetto accreditato dal prosieguo della discussione parlamentare. Nel febbraio successivo, infatti, il relatore Alessandro Fortis (ex-Presidente del Consiglio) illustrava la peculiarità della disciplina richiesta ai magistrati: «In coloro ai quali noi confidiamo» valori così preziosi come la vita, i beni, la libertà, l’onore, «noi dobbiamo pretendere un molto elevato e rigido sentimento di moralità; e, nell’impossibilità di conoscere il foro interno della loro coscienza, noi abbiamo il diritto di indagare tutta intera la loro condotta pubblica e privata per vedere se essi siano veramente degni». Senza troppe perifrasi, il navigato statista romagnolo scendeva al cuore del problema: «Né vuolsi dimenticare che la opinione della giustizia è altrettanto necessaria della realtà della giustizia stessa»; donde il dovere dei magistrati di «ottemperare, quasi direi, più rigorosamente degli altri» ai doveri comuni nonché a quelli speciali «che facciano salvo anche l’esteriore prestigio della giustizia». Il disegno di legge, concludeva Fortis, avrebbe assicurato, mediante l’inamovibilità, «una sostanziale e formale indipendenza da ogni indebita pressione e ingerenza»; grazie, poi, all’incompatibilità e ad altri meccanismi avrebbe evitato che «il magistrato indegno» continuasse «lungamente ad inquinare l’ordine giudiziario»[55].
La seconda legge Orlando (24 luglio 1908, n. 438), imperniata sulla Suprema corte disciplinare, sopraggiungeva in una fase in cui le frange più giovani della magistratura premevano per ritagliarsi qualche spazio d’indipendenza. Forse non a caso, recependo le aspirazioni del relatore Fortis, una clausola di chiusura piuttosto elastica (art. 11) obbligava il magistrato a «tenere, in ufficio e fuori, una condotta tale da non renderlo immeritevole della fiducia e considerazione di cui deve godere e da non compromettere il prestigio dell’ordine giudiziario»[56]. Balzava, ancora una volta, in evidenza il profilo della publica fides e della reputazione “esterna”. Fu, comunque, merito del lavoro della Suprema corte disciplinare se si avviò un lento cambiamento della fisionomia del giudice, ad esempio con riguardo alla non punibilità della partecipazione «seren[a] e imparziale» alla vita dei partiti[57].
Intanto, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la Scuola positiva andava smontando il mito della necessaria segregazione del giudice dalla compagine sociale. Gli esponenti della criminologia antropologica sospettavano che quel luogo comune simboleggiasse una distorta visione “castale” della magistratura, un’eccessiva divaricazione tra i tre poteri, nonché l’erronea convinzione che solo il «distacco completo dalla vita» e uno stile da «paleontologo, o anatomista» preservassero «dignità» e «onestà» del giusdicente. Sperando di rovesciare quei pregiudizi, Raffaele Garofalo e Luigi Carelli, magistrati e lombrosiani di prima generazione, quantunque dichiaratamente uomini d’ordine, esortavano a guardare al modello politico sorto dalla Rivoluzione francese, fondato nella «costituzione sociale» e dotato d’una giurisdizione aggiornata alle esigenze pratiche[58].
Ad esiti non troppo dissimili avrebbe potuto condurre il paradigma del “bon juge”, costruito principalmente da Paul Magnaud (1848-1926) e imperniato, in nome di istanze solidaristiche o addirittura “sentimentali”, sul primato dell’equità come criterio di giudizio. Un ruolo come quello immaginato e praticato da Magnaud (o, in Italia, dal suo emulo Raffaele Majetti) presupponeva un’immersione del giudice negli angoli anche più appartati della società[59].
7. La parte imparziale: il pubblico ministero
Un’autonoma ma spinosa questione riguardava l’imparzialità del pubblico ministero. In base all’art. 129 dell’ordinamento giudiziario del 1865, ricalcato sul prototipo francese, questi era «il rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» ed era «posto sotto la direzione del ministro di giustizia». Suscitava ironici interrogativi il «mostruoso ermafroditismo» dell’inquirente, «che indossa[va] la toga del magistrato ed [era] posto alla dipendenza non della legge, ma dei ministri». In tal modo, paventava Bonasi, «l’esercizio dell’azione penale [era] lasciato in arbitrio del potere esecutivo», che avrebbe potuto rendere i procuratori «strumento di persecuzione» degli avversari. In luogo delle carriere «distinte e parallele, ma che poi in effetto si toccano», Bonasi proponeva perciò l’istituzione della carriera unica, munita delle medesime guarentigie[60].
Di contrario avviso i fautori dell’accusatorio puro, a cui parere non era dalla magistratura inquirente che si doveva «esigere l’imparzialità»: anzi, se questa fosse stata lasciata del tutto libera anche di forzare le proprie tesi, il procedimento sarebbe risultato «più chiaro, più franco, più nobile»[61]. La speranza s’incrinò quando i gravi scandali politico-affaristici di fine Ottocento indussero a dubitare che un pm rappresentante del potere esecutivo scegliesse di esercitare l’azione penale laddove si profilassero elementi probatori a carico del Governo[62].
In sintonia col «Manuale» di Vincenzo Manzini (1912)[63], il codice di procedura penale Finocchiaro-Aprile (1913) volle escludere il pubblico ministero dal novero delle parti, in considerazione del fatto che lo Stato aveva interesse non a una sentenza di condanna, ma a una sentenza giusta e che perciò il pm poteva anche esser chiamato a tutelare l’innocenza dell’imputato[64]. Soluzione ribaltata dal codice di rito del 1930, che restituiva al pm la qualifica di parte, seppur «sui generis, che agisce nell’interesse dello Stato» e obbligata ai «doveri di lealtà e di obiettività (…) propri di ogni funzione pubblica». Peraltro nella medesima «Relazione» definitiva, il Ministro Alfredo Rocco liquidava il tema come «questione più che altro accademica»[65].
La querelle si trascinò sino alla stagione costituente[66], intrecciandosi col tema dell’obbligatorietà dell’azione penale. Neppure l’opzione accusatoria del codice Pisapia-Vassalli (1989) sembra aver risolto l’«indovinello», per dirla con Carnelutti, della parte imparziale[67].
8. L’indipendenza «in tempi di libertà»
Sono ben note le tappe che portarono dall’ordinamento giudiziario Grandi (rd 30 gennaio 1941, n. 12) alla legge Togliatti sulle guarentigie (rd.lgs 31 maggio 1946, n. 511), che assicurava quantomeno l’indipendenza esterna della magistratura; e poi al titolo IV, parte II della Costituzione (1948) che, oltre a confermare l’autonomia dell’ordine giudiziario (art. 104, comma 1, Cost.), prometteva di irrobustirne l’indipendenza interna distinguendo i magistrati solo per funzioni (art. 107, comma 3, Cost.)[68].
Se si volesse disegnare una linea di tendenza di lungo periodo, si potrebbe sostenere, con qualche approssimazione, che i termini dell’attuale, cronica diatriba tra politica e magistratura affondino le radici più nel passato d’antico regime che nei sistemi costituzionali otto-novecenteschi. Non si può negare che, negli anni della costruzione dello Stato liberale, la giurisdizione parteggiasse, per lo più, per i poteri costituiti e, in particolare, per le forze di maggioranza, cui si sentiva avvinta da una comune appartenenza di classe e di formazione. Al tempo della Destra e della Sinistra storica, l’ingerenza dei ministri negli affari di giustizia esondava dalle riviste specialistiche e scuoteva l’opinione pubblica più informata. Il fascismo dispose di armi di controllo ancor più affilate, anche se forse è esagerato affermare che, allora, governo e magistratura fossero «una cosa sola: un corpo ed un’anima»; l’uno iniziava, l’altro finiva il lavoro[69]. Appare, perciò, tutt’altro che un’illazione quella formulata cent’anni fa da Merlino, a cui parere i governi di qualsiasi orientamento esercitarono «una coazione continua» sulla magistratura, a lungo impedendo che in questa si cementasse «una tradizione di rettitudine e d’indipendenza»; ed è parimenti plausibile che le generazioni di italiani vissute prima della Repubblica fossero assuefatte a vedere politica e magistratura «trescare insieme»[70].
Nel «Sistema» del 1936 (si era negli anni dell’apogeo del consenso al fascismo), Francesco Carnelutti affrontava con elegante schiettezza «un argomento di estrema gravità», che si riverberava sull’«ordinamento dello Stato»: quello della compatibilità tra la libertà del giudice e la sua dipendenza impiegatizia. Il professore friulano sgomberava il campo dalle finzioni: non era vero che dallo Stato, in quanto «supremamente interessato alla libertà del giudice», questi non avesse nulla da temere. Non era vero per due motivi. Anzitutto, poteva capitare che lo Stato-amministratore comparisse come parte dinanzi alla giustizia: e allora il giudice si sarebbe trovato nella paradossale situazione di “dipendere” dalla parte sulla quale doveva pronunciarsi. In secondo luogo, allo Stato amministratore afferiva una pluralità di interessi, non tutti indirizzati verso la soluzione “giusta”: contro le possibili distorsioni non si poteva fare «soverchio affidamento» sul «freno» morale, giacché le istituzioni sono popolate da uomini, «e questi sono imperfetti», portatori di interessi propri, familiari, amicali. La separazione dei poteri, incalzava Carnelutti, era stata ideata per «troncare il legame» tra Stato-amministratore e Stato-giudice. Con chiara allusione alle strategie del regime, egli ammetteva che a volte, per i rivolgimenti della storia, quel principio registrava «qualche incertezza»; e che forse davvero «la tripartizione uscita dalla Rivoluzione francese [stava] per subire o [aveva] già subíto una certa modificazione». Su un punto, però, Carnelutti non intendeva transigere: non poteva «non rimanere come una conquista definitiva della civiltà» proprio «la separazione tra lo Stato amministratore e lo Stato giudice», la quale non indicava altro se non «la separazione tra il giudice e la parte». A sigillo di queste appassionate argomentazioni, lo studioso non aveva remore nell’includere l’inamovibilità prevista dall’art. 69 dello Statuto tra i «principi fondamentali del reggimento dello Stato»[71].
Perché l’impermeabilità tra Stato amministratore e Stato giudice mettesse salde radici nel diritto vivente bisognò attendere il Secondo dopoguerra, quando la fisiologica contiguità tra magistratura e classi dirigenti conobbe, nell’Occidente democratico, una vistosa incrinatura[72]. In Italia, l’entrata in vigore della Costituzione (1948) e, soprattutto, l’attivazione della Corte costituzionale (1956) indussero non tanto una politicizzazione delle toghe, quanto la consapevolezza dell’inevitabile politicità della giurisdizione[73]. Grazie al progressivo ricambio anagrafico, all’ingresso delle donne in magistratura (1965), alla liberalizzazione degli accessi alle facoltà di giurisprudenza (1969), alla formazione di correnti progressiste come Magistratura democratica (1964), dagli anni sessanta e settanta crebbe, accanto al tradizionale giudice neutrale, apolitico, ossequioso della legalità formale, una leva di giudici che, «pur senza abbandonare la regola dell’imparzialità», intendeva concorrere all’affermazione dei valori costituzionali: la virtù del magistrato progressista non era più la neutralità, ma «l’impegno sociale»[74]. In quegli anni si arrivò a sostenere che l’indipendenza dell’ordine giudiziario non andasse più correlata alla meccanica ripartizione tra poteri, ma dovesse confrontarsi con il principio di sovranità popolare e con le possibili modalità di controllo sociale sull’attività giurisdizionale[75].
Restava scoperto il nervo della diretta partecipazione del giudice alla politica attiva. Se l’ordinamento Oviglio (rd 30 dicembre 1923, n. 2786, art. 15) aveva consentito ai «funzionari dell’ordine giudiziario» di svolgere esclusivamente le funzioni di deputato, senatore, consigliere comunale o provinciale, il liberale Vincenzo Arangio Ruiz, guardasigilli del Governo Badoglio, rimosse (con circolare 6 giugno 1944, n. 285) il divieto per i magistrati («privilegio odioso») di esprimersi liberamente e d’impegnarsi in politica (un «dovere civico»): il Ministro fece notare che a inquietare davvero erano, semmai, le relazioni «nascoste». Poco più d’un anno dopo, il nuovo guardasigilli Palmiro Togliatti (circolare 18 agosto 1945, n. 1941) ribadiva che «la partecipazione alla vita politica rientra tra i doveri civici in senso ampio»[76]. L’art. 983 Cost. previde però la possibilità di limitare con legge il diritto dei magistrati di iscriversi ai partiti: com’è avvenuto, da ultimo, con legge 24 ottobre 2006, n. 269 (art. 1, comma 3, lett. h), che configura tale adesione come illecito disciplinare.
È scontato rivangare la provocatoria proposta di Calamandrei di codificare l’iscrizione a un partito quale causa di ricusazione da parte del giudicabile appartenente a un diverso schieramento. La chiave del ragionamento stava, ancora una volta, nella fides apparente: «I giudici, per goder la fiducia del popolo, non basta che siano giusti, ma occorre anche che si comportino in modo da apparire tali: il magistrato che è salito sulla tribuna di un comizio elettorale (...) non potrà sperare mai più, come giudice, di aver la fiducia degli appartenenti al partito avverso. L’opinione pubblica è convinta (e forse non a torto) che prender parte nella politica voglia dire, per i giudici, rinunciare alla imparzialità nella giustizia»[77].
Com’è noto, Calamandrei, che pure non risparmiava il sarcasmo nel descrivere retrospettivamente le cerimonie ufficiali e gli imbarazzanti comportamenti individuali omologati alla propaganda fascista, avanzava, all’alba della stagione repubblicana, il sospetto che per un magistrato «mantenere la sua indipendenza [fosse] più difficile in tempi di libertà che in tempi di tirannia». Mentre, sotto i regimi autoritari, la scelta «tra il servilismo e la coscienza» appariva, in fondo, elementare e decifrabile, «in tempi di libertà, quando le correnti politiche soffiano in contrasto da tutti i lati, il giudice si trova esposto come l’albero sulla cima del monte: se non ha il fusto ben solido, per ogni vento che tira rischia di incurvarsi da quella parte»[78]. Preoccupazione chiaroveggente – chiosava Paolo Barile – sollecitata, con ogni probabilità, dalle tante, troppe assoluzioni dei collaborazionisti concesse in quei lustri e dalle prime avvisaglie di giudici che si reputavano «le avanguardie della lotta di classe»[79].
Molti decenni sono trascorsi dall’«Elogio» calamandreiano. La presa delle ideologie si è allentata o dissolta; l’opposizione concettuale tra servilismo e coscienza ha perso il pathos del Secondo dopoguerra. Rimane intatta, e forse è accresciuta dai mille occhi digitali che rovistano nelle vite quotidiane, la difficoltà di conciliare il diritto del giudice a esercitare uti civis i propri diritti di partecipazione politica e l’aspettativa dei cittadini di trarre fiducia dalla sua “patente” imparzialità. Anche oggi, come tuonava Merlino durante il fascismo, bisognerebbe rendersi (e mostrarsi) indipendenti «non solo da’ Governi, ma dalle fazioni dominanti, e perfino» dall’opinione pubblica[80]. Esposto, come forse mai in passato, al tentativo di decrittare qualsiasi suo atto, pubblico o privato, il giudice dovrebbe forse meditare sulla gravitas raccomandata ai lontani predecessori e valutare se, al di là dell’innegabile dazio pagato all’ipocrisia, di quella esibita e compiaciuta sobrietà, affidabilità, sapienza non vi sia qualcosa da salvare.
1. I. Trujillo, Imparzialità, Giappichelli, Torino, 2003, pp. 277-278.
2. I. Trujillo, Imparzialità, op. ult. cit., pp. 278-279. Sulla distinzione tra terzietà e imparzialità vds. anche, con riferimento alla clausola di chiusura del nuovo art. 111, comma 2, Cost., l’ipotesi di S. Chiarloni, Giusto processo civile (dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto. Annali II/1, Giuffrè, Milano, 2008, p. 415. G. Foschini, Sistema del diritto processuale penale - I, Giuffrè, Milano, 1965 (II ed.), p. 313 preferiva parlare di indipendenza (libertà del giudice «da ogni sollecitazione sociale») ed estraneità (trascendenza dagli specifici individui implicati nel giudizio), e articolava a sua volta l’estraneità (ivi, p. 336) in imparzialità (del giudice rispetto alle parti) e impersonalità (del giudice rispetto a se stesso).
3. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1959), Ponte alle Grazie, Milano, 1999, p. 122.
4. G. Foschini, Sistema, op. cit., p. 338.
5. A. Padoa Schioppa, Sur la conscience du juge dans le ius commune européen (1999), ora in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 255-257 e 272-278.
6. G.B. De Luca, Theatrum veritatis, et iustitiae [...]. Liber decimusquintus, Typographia Luca Laurentii, Napoli, 1758, disc. XXII, n. 2, p. 58.
7. Per una puntuale disamina delle fonti, cfr. C. Natalini, Bonus iudex, iustum iudicium. Esperienze giuridiche sulla corruzione del giudice nei secoli XII-XIII, in Studi senesi, n. 119, 2007, pp. 61-118, ora in Ead., «Bonus iudex». Saggi sulla tutela della giustizia tra Medioevo e prima età moderna, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, pp. 25-73, part. pp. 32 e 34.
8. C. Rogerio, Tractatus de iuris interpretatione (1463), in Tractatus universi iuris [...], Venezia, 1584, I, ff. 386ra-394va: XII, n. 30, f. 394rb.
9. D. Luongo, La metodologia del Commento nei trattati sull’interpretatio iuris di età umanistica, in Aion – Sez. di filologia e letteratura classica, n. 40, 2018, pp. 197-239, part. p. 210.
10. Cfr., ad esempio, S. Hanley, The Lit de Justice of the Kings of France. Constitutional Ideology in Legend, Ritual, and Discourse, Prince University Press, New Jersey, 1983.
11. G.B. De Luca, Dello stile legale [...] (1674), in Id., Theatrum, op. cit., cap. XVII, n. 25, p. 551. L’espressione fu più volte utilizzata da Gino Gorla: vds., ad esempio, Unificazione «legislativa» e unificazione «giurisprudenziale». L’esperienza del diritto comune, in Foro it., vol. 100, 1977, V, cc. 91-120, part. c. 101; in Le nuove frontiere del diritto e il problema dell’unificazione, atti del Congresso internazionale organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari (1975), vol. I, Giuffrè, Milano, 1979, pp. 469 ss.; ora in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, Giuffrè, Milano, 1981, p. 670.
12. F. Vivio, Sylvae communium opinionum Doctorum utriusque censurae, in tres libros distinctae [...]. Liber secundus, apud Georgium Daghanum Monteripellium Sabaudium, L’Aquila, 1582, Op. DCXXXVIII, n. 9, p. 161.
13. F. D’Andrea, Avvertimenti ai nipoti, a cura di I. Ascione, Jovene, Napoli, 1990, p. 154. Respublica dei togati è il titolo d’un pregevole volume di P. Rovito (Jovene, Napoli, 1981).
14. R. Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Jovene, Napoli, 1976, p. 311.
15. L. Giustiniani, Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli. Tomo XI, Stamperia Simoniana, Napoli, 1805, tit. CCIX, De Officio Sacri Regii Consilii, pramm. II, p. 41.
16. F. Vivio, Decisiones Regni Neapolitani, Officina Damiani Zenari, Venezia, 1592, dec. CLXXXIX, n. 1, p. 260.
17. F.M. Costantini, Observationes forenses practicabiles, sive Commentaria ad varia Capita Statutorum Almae Urbis [...]. Tomus Primus [...], Sumptibus Francisci Ant. Galleri […],Typographia Ioannis Francisci de Buagnis, Roma, 1701, De Iudicibus cap. VIII, nn. 27-34, p. 25.
18. P. Calamandrei, Elogio, op. cit., pp. 295-296.
19. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 47.
20. E. Garin, L’educazione in Europa (1400-1600). Problemi e programmi, Laterza, Roma-Bari, 1976, p. 147.
21. R. Ajello, Formalismo medievale e moderno, Jovene, Napoli, 1990, parla in proposito di «estroversione normativa».
22. G. Nevizzano, Sylvae nuptialis Libri sex [...], apud Ioannem Prellonium, Lione, 1556, lb. V, n. 63, pp. 481-482 (responsabilità del giudice); ivi, nn. 64-65, pp. 482-483 (preminenza della consuetudine); ivi, n. 4, p. 422 (definizione di giurista).
23. F. D’Andrea, Avvertimenti, op. cit., p. 173.
24. C. Tapia, Ius Regni Neapolitani [...], Typographia Io. Iacobi Carlini, & Constantini Vitali, Napoli, 1608, lb. II, pragm. L De causis decidendis (4 giugno 1574, viceré Antoine Perrenot, cardinal Granvelle), pp. 155-156.
25. G.F. Sanfelice, Decisionum Supremorum Tribunalium Regni Neapolitani [...]. Tomus Primus [...], apud Turrinum, Venezia, 1644, dec. LXXX, nn. 1-4, pp. 172-173 («che merita» etc.); G.B. Mucci, Additiones in Dilucidationes rerum judicatarum A Supremis Regni Neapolitani Tribunalibus, jam Relatas per Regentem Jo. Franciscum Sanfelicium [...] (1682), Sumptibus Nicolai & Vincentii Rispoli, Napoli, 1720, dilucid. dec. LXXX, n. 13, p. 150 («questo cavaliere» etc.). A proposito di incauta propalazione del voto, suscitò scalpore nel Regno di Napoli il caso di Marino Freccia, illustre magistrato cinquecentesco, espulso dalle magistrature di vertice proprio con quel capo d’imputazione: cfr. C. Borrelli, Additio a Pedro Belluga, Speculum Principum [...], Expensis Iacobi Anielli Mariae, Venezia, 1580, rb. 10 De officio examinatorum, vb. Capite, f. 31rb.
26. F.M. Costantini, Observationes forenses, op. cit., I, De Iudicibus, cap. VIII, n. 64, p. 27.
27. P. Calamandrei, Elogio, op. cit., pp. 279-280.
28. G.G. Lorenzio, Tractatus De Iudice suspecto, apud Georgium Variscum, Venezia, 1607, Praefatio, ff. n.n. esprimeva, sì, un’accorata esigenza di moralizzazione dei giudici; ma poi (ivi, cap. V, n. 12, f. 25ra) si limitava appena ad accennare alla suspicione procurata dall’«intrinseca amicitia» tra giudice e parte. Altrettanto stringato il riferimento all’amicizia in Costantini, Observationes forenses, op. cit., I, De Iudicibus cap. VIII, n. 112, p. 30. Sull’inimicizia lieve come causa di ricusazione, cfr. G. Mastrillo, Decisionum Consistorii Sacrae Regiae Conscientiae Regni Siciliae, Liber Secundus [...], Officina typographica Heliae Kembachij, Spira, 1615, dec. CLI, n. 46, p. 177; G.F. Sanfelice, Decisionum, op. cit., I, dec. LXXXI, nn. 1-4, p. 174. Si riteneva invece che non ingenerasse suspicione, in quanto sentimento naturale, l’amicizia lieve: G.B. Mucci, Additiones, op. cit., dilucid. dec. LXXXI, n. 9, p. 152.
29. C. Tapia, Decisiones Sacri Neapolitani Concilii, Typographia Aegidij Longhi, Napoli, 1629, dec. XL, nn. 1-4, pp. 291-293; n. 27, p. 300. La causa aveva visto contrapposti Antonio De Cardona, duca di Sessa, e il conte di Trivento Giovanni Girolamo d’Afflitto; oggetto del contendere era stata la vendita (1582) della città di Sessa; il giudice coinvolto era Camillo De Curtis, già avvocato fiscale e ora presidente della Regia Camera della Sommaria.
30. Cfr. J. Van Klaveren, Die historische Erscheinung der Korruption, in ihrem Zusammenhang mit der Staats- und Gesellschaftsstruktur betrachtet, in Vierteljahrschrift für Sozial - und Wirtschaftsgeschichte, XLIV (1957), pp. 289-324; ivi, XLV (1958), pp. 433-504; J. Vicens Vives, Estructura administrativa estatal en los siglos XVI y XVII (1960) – tr. it.: La struttura amministrativa statale nei secoli XVI e XVII, in E. Rotelli e P. Schiera (a cura di), Lo Stato moderno - I. Dal Medioevo all’Età moderna, Il Mulino, Bologna, 1971, p. 245. Non diversa la tesi del classico studio (originariamente una tesi dottorale, più volte ripubblicata) di R. Mousnier, La vénalité des offices sous Henry IV et Louis XIII, Maugard, Rouen, 1946.
31. P. Hazard, La crise de la conscience européenne (1680-1715), Arthème Fayard, Parigi, 1961 – tr. it.: La crisi della coscienza europea, a cura di P. Serini, UTET, Torino, 2007.
32. L’intuizione è di Roland Mousnier, Les xvie et xviie siècles. Les progrès de la civilisation européenne et le déclin de l’Orient (1492-1715), PUF, Parigi, 1954 – tr. it.: Il XVI e il XVII secolo. Progresso della civiltà europea e declino dell’Oriente (1492-1715), in M. Crouzet (a cura di), Storia generale delle civiltà, Casini, Firenze, 1959, p. 186.
33. R. Ajello, Cartesianismo e cultura oltremontana al tempo dell’«Istoria Civile», in Id. (a cura di), Pietro Giannone e il suo tempo, atti del convegno di studi (1976), vol. I, Jovene, Napoli, 1980, p. 86 (Introduzione).
34. I. Trujillo, Imparzialità, op. cit., pp. 278-279.
35. L. Casanova, Del diritto costituzionale. Lezioni [...], vol. II, Cammelli, Firenze, 1875 (III ed.), pp. 401-402.
Bentham (aggiungeva Dionigi Castelli, Garantie indispensabili per la magistratura affinché giustizia sia bene amministrata. Contribuzione alla riforma giudiziaria, Como, 1° gennaio 1886, in Archivio giuridico, n. 36, 1886, p. 33) aveva esortato i giudici a non “illudersi” che indipendenza significasse totale libertà, e li aveva anzi ammoniti a render conto alla coscienza e, «dopo questa, all’opinione pubblica». Il gius-filosofo inglese aveva sottolineato la responsabilità del giusdicente verso il popolo anche per argomentare la sua predilezione per l’organo monocratico: lo ricordava Diego Soria, Corso completo di diritto pubblico elementare. Volume I, Tipografia Pavesio e Soria, Torino, 1851 (II ed.), p. 1052.
36. D. Castelli, Garantie indispensabili, op. cit., p. 33. Sulla ricca riflessione di d’Aguesseau in materia di deontologia giudiziaria, vds. P. Beneduce, Altri codici. Sentimenti al lavoro nei galatei forensic, in Appendice: Discorsi di Henri-François D’Aguesseau sull’arte del giudice e dell’avvocato, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz), 2008.
37. S. Merlino (Politica e magistratura dal 1860 ad oggi in Italia (1925), postfazione di G. Neppi Modona, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2023, p. 96) auspicava l’indipendenza dei magistrati «perfino da un’opinione pubblica[,] che volesse imporsi alla loro coscienza». Secondo l’A. (ivi, p. 97), «serenità ed imparzialità» non si sarebbero potute «attendere da un’assemblea agitata da passioni diverse e dominata da simpatie e antipatie».
38. E. Pessina, Manuale del diritto pubblico costituzionale, Stabilimento Tipografico, Napoli, 1849, pp. 253-254 (caratteri del giudiciario); ivi, pp. 263-264 («branca»; citazione di Royer-Collard). L’A. (ivi, pp. 228-229) passava in rassegna le garanzie d’indipendenza della magistratura dal potere e dai cittadini: inviolabilità, inamovibilità, adeguata retribuzione.
39. P.-F. Mézard, Du principe conservateur, ou de la liberté considérée sous le rapport de la justice et du jury, chez Béchet, Paris-Rouen, 1820, pp. 78-79.
40. P. Alvazzi Del Frate, Autonomia, legittimazione e reclutamento della magistratura: considerazioni storiche sull’ordinamento francese, in Rivista trimestrale di scienza dell’amministrazione, n. 2/2021, p. 11.
41. A. Brunialti, La funzione politica del potere giudiziario, in Archivio giuridico, vol. V, 1870, pp. 415-417.
42. Attilio Brunialti (Il Diritto costituzionale e la politica nelle scienze e nelle istituzioni - Volume Primo, Unione Tipografico-Editrice, Torino, 1896, pp. 322-325) concordava con Rudolph von Gneist nel riconoscere il nesso tra «indipendenza del potere giudiziario» e sviluppo liberale delle istituzioni inglesi. Lo studioso deplorava nuovamente la perdurante «subordinazione morale» del giudiziario all’esecutivo.
43. S. Merlino, Politica e magistratura, op. cit., p. XI.
44. L. Mattirolo, Elementi di diritto giudiziario civile italiano [...], vol. I, Fratelli Bocca, Torino, 1875, p. 78; con qualche perplessità, e una dichiarata preferenza per il sistema dei giudici elettivi, L. Casanova, Del diritto costituzionale, op. cit., pp. 400-401; A. Bonasi, La magistratura in Italia. Studio, Zanichelli, Bologna, 1884, pp. 115-116 (vds., a p. 116, il richiamo alla presunta «pubblica utilità»); G. Arcoleo, Diritto costituzionale. Dottrina e storia, N. Jovene e C.o, Napoli, 1907 (III ed.), pp. 592-593.
45. G. Arcoleo, op. ult. cit., pp. 593-594.
46. A. Bonasi, La magistratura, op. cit., pp. 141-142.
47. G. Arcoleo, Diritto costituzionale, op. cit., p. 592.
48. G. Mirabelli, L’inamovibilità della magistratura nel Regno d’Italia. Considerazioni, dai Tipi di Salvatore Marchese, Napoli, 1876, p. 36.
49. G. Arcoleo, Diritto costituzionale, op. cit., p. 593.
50. A. Bonasi, La magistratura, op. cit., pp. 47-48.
51. L. Casanova, Del diritto costituzionale, op. cit., pp. 354-355 (a proposito dell’opportunità di rimettere ai tribunali ordinari la competenza sui reati perpetrati dai ministri al di fuori delle loro funzioni).
52. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, p. 71.
53. A. Bonasi, La magistratura, op. cit., pp. 116 e 153.
54. Atti parlamentari – Camera dei deputati, Legisl. XIII (sess. 1904-907 – disegni di legge e relazioni), Disegno di legge n. 655 presentato dal ministro di Grazia e Giustizia e dei culti (Orlando V.E.), Guarentigie e disciplina della magistratura», seduta del 28 novembre 1907, p. 1. Cfr. anche A. Meniconi, Disciplina e garanzie: alle origini dell’attuale Csm, in Studi storici, anno LI, n. 4/2010, p. 819.
55. Atti parlamentari – Camera dei deputati, n. 855-A, Relazione della Commissione composta da Fortis (presidente e relatore) […] sul disegno di legge presentato dal ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti (Orlando V.E.) nella seduta del 28 febbraio 1907. Guarentigie e disciplina della magistratura, seduta del 21 febbraio 1908, pp. 1-2.
56. A. Meniconi, Storia, op. cit., pp. 119-120.
57. Così si pronunciava la Scd del 1913 nei confronti di un pretore di Locorotondo, come ricorda A. Meniconi, Disciplina e garanzie, op. cit., p. 842.
58. R. Garofalo e L. Carelli, Riforma della procedura penale in Italia – Progetto di un nuovo codice, Fratelli Bocca, Torino, 1889, Introduzione, pp. XIX-XX. Già E. Pessina (Sommario di lezioni sul procedimento penale italiano, Marghieri, Napoli, 1883 (II ed.), pp. 105-106) aveva preso in esame – senza condividerla – la tesi secondo cui il magistrato popolare, presuntivamente dotato del «semplice lume del senso comune», fosse più immerso nella «realtà della vita» di quanto non fosse il giudice di professione, arroccato nel suo routinario tecnicismo.
59. Si consiglia almeno la lettura di C.M. Herrera, Entre équité et socialisme? Le juge et la question sociale dans le débat politico-doctrinal français du début du XXe siècle, in Quaderni fiorentini, vol. XL, 2011 (Giudici e giuristi. Il problema del diritto giurisprudenziale fra Otto e Novecento) tomo I, pp. 331-366, e di M. Stronati, Un’idea di giustizia solidale. Il buon giudice Majetti e il caso della giurisprudenza “minorile” nel primo Novecento, ivi, tomo II, pp. 813-867.
60. A. Bonasi, La magistratura, op. cit., pp. 157 (ermafroditismo) e 160 (proposta).
61. L. Casanova, Del diritto costituzionale, op. cit., pp. 354-355 (giudici); pp. 357-358 (accusatori). Cfr. anche l’ironia di Luigi Lucchini, Elementi di procedura penale, G. Barbèra, Firenze, 1895, p. 215, sul pm: «persona ibrida quant’è ibrido il sistema misto, un po’ soggetto al governo e un po’ indipendente».
62. La relazione della Commissione governativa istituita il 4 agosto 1894 per «accertare la responsabilità dei funzionari giudiziari» impegnati nell’«istruttoria del processo per i fatti della Banca Romana» si augurava che il Ministro non avesse esercitato pressioni sui pubblici ministeri; e comunque definiva «errore fatale», perché contrario alla separazione dei poteri, interpretare l’art. 129 ord. giud. nel senso che il pm «rappresenti il potere esecutivo anche nell’esercizio dell’azione penale» (c.vo aggiunto). Cfr. Pubblico ministero e governo, in Riv. pen., vol. XLI, fasc. II, 1895, Cronaca, pp. 171-173 e, ivi, il commento anonimo (probabilmente del direttore Lucchini).
63. Vincenzo Manzini (Manuale di procedura penale italiana, Fratelli Bocca, Torino, 1912, pp. 14-15 e 297-298) era disposto a qualificare il pm non più che «parte in senso meramente formale».
64. C. Finocchiaro-Aprile, Relazione al Re (27 febbraio 1913), in Commento al Codice di procedura penale a cura dei signori sen. Lodovico Mortara, dep. Alessandro Stoppato, sen. Guglielmo Vacca, comm. Augusto Setti, comm. Raffaele de Notaristefani, cav. Silvio Longhi, parte I, vol. III, UTET, Torino, 1914, p. 562.
65. A. Rocco, Relazione, in Ministero della giustizia e degli affari di culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale. Volume X: Progetto definitivo di un nuovo codice di procedura penale con la Relazione del guardasigilli on. Alfredo Rocco, Tipografia delle Mantellate, Roma, 1930, p. 22.
66. Sul punto, mi permetto di rinviare a M.N. Miletti, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale oggi: confini e prospettive. Premessa storica, in Criminalia, 2010, pp. 304-327, part. p. 326 (https://discrimen.it/wp-content/uploads/011-OPINIONI-PRINCIPIO.pdf).
67. F. Carnelutti, Lezioni sul processo penale, vol. II, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1947, p. 157. Lo stesso Autore (Sistema di diritto processuale civile. I. Funzione e composizione del processo, CEDAM, Padova, 1936, pp. 387-388) aveva già definito «bisticcio» la locuzione “parte imparziale”, ma aveva spiegato che il pm si avvicina alla parte per ciò che fa; e al giudice perché, agendo, adempie un dovere.
68. G. Ferri, La magistratura in Italia. Raccolta di scritti, Giappichelli, Torino, 2021 (II ed.), pp. 7-14.
69. S. Merlino, Politica e magistratura, op. cit., p. 100.
70. Ivi, pp. 103-104.
71. F. Carnelutti, Sistema, op. cit. (supra, nota 67), pp. 646-648. L’A. (ivi, pp. 651-652) caldeggiava un’estensione dell’inamovibilità a tutti gli aspetti della carriera del giudice e proponeva cautamente di attribuire il potere di accertamento ad organi composti prettamente da esponenti dell’ordine giudiziario («autarchia»).
72. Da una prospettiva dichiaratamente anti-capitalistica, restano suggestive le considerazioni di R. Miliband, The State in Capitalist Society, New York, Basic Books, 1968 – tr. it.: Lo Stato nella società capitalistica, Laterza, Bari, 1971, pp. 162-171. Di segno opposto la (più risalente) denuncia di S. Merlino, Politica e magistratura, op. cit., pp. 18-23, a proposito della disparità di trattamento riservata dalla magistratura alla classe operaia.
73. E. Cheli, Caratteri del conflitto ideologico nella magistratura italiana (1975), in Id., Costituzione e sviluppo delle istituzioni in Italia, Il Mulino, Bologna, 1978, p. 126.
74. E. Cheli, op. ult. cit., pp. 132-133. Cfr., con riguardo al Congresso di Gardone del 1965, S. Senese, Le vicende del pluralismo nella magistratura italiana, in Democrazia e diritto, n. 4-5/1986, p. 51.
R. Ferrante, “Toghe di piombo”. Crisi della giustizia, riforma della magistratura, separazione delle funzioni: 1964-1965, in Questione giustizia online, 13 marzo 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/toghe-di-piombo) riporta pungenti articoli di stampa (1965), nei quali non solo si stigmatizzava la persistenza d’una magistratura conservatrice, ma se ne rimarcava il «grigiore» e lo «scollamento» dall’evoluzione della società, specie riguardo ai costumi e alla morale sessuale.
75. E. Cheli, Funzione giurisdizionale e responsabilità politica, in Democrazia e diritto, 1976, pp. 659-662, ora in Id., Costituzione e sviluppo, op. cit., pp. 143-149. S. Senese (Sovranità popolare e amministrazione della giustizia, in Quale giustizia, 1973, pp. 381 ss.) attribuiva alla magistratura un ruolo di rappresentanza politica, della quale essa risponde dinanzi al popolo. Da un’indagine condotta da V. Tomeo (L’immagine del giudice nella cultura di massa in Italia, in Aa.Vv., La domanda e l’offerta di giustizia in Italia, CEDAM, Padova, 1972, pp. 96-105) emerse che, agli inizi degli anni settanta, le classi subalterne si aspettavano, in luogo del giudice super partes, un «giudice interprete del conflitto sociale» e impegnato nella realizzazione della giustizia sostanziale.
76. Cfr. S. Senese, Magistrati e iscrizione ai partiti politici, in Quaderni della giustizia, n. 61, 1986, pp. 7-8; E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Bari-Roma, 2018, p. 15.
77. P. Calamandrei, Elogio, op. cit., p. 239.
78. Ivi, p. 240.
79. P. Barile, ivi, Introduzione, p. 11.
80. S. Merlino, Politica e magistratura, op. cit., p. 96.