Magistratura democratica

Essere e apparire imparziali: il giudice del lavoro

di Carla Ponterio

Il giudice del lavoro, nell’interpretazione delle norme da applicare ai casi umani sottoposti al suo esame, deve tenersi ben stretto alla Costituzione, che colloca il lavoro tra i diritti sociali fondamentali, presupposto stesso dei diritti di libertà, senza che possa in alcun modo confondersi il piano della imparzialità con il doveroso controllo di conformità delle leggi ai valori-principi costituzionali e sovranazionali.

1. Giudici terzi e imparziali / 2. L’interpretazione / 3. I giudici del lavoro 

 

1. Giudici terzi e imparziali

L’imparzialità è la caratteristica fondamentale del giudice e del giudicare, come solennemente sancito dall’art. 111 della Costituzione («Ogni processo si svolge (…) davanti a un giudice terzo e imparziale») e dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo («Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) da un tribunale indipendente e imparziale»). La posizione di terzietà, rispetto alle parti in causa, agli interessi e alle posizioni in conflitto, è presupposto immanente di una giustizia che sia soggetta «soltanto alla legge».

In mancanza di un soggetto indipendente non può esistere la giustizia, diventa inconcepibile anche il diritto in sé e le regole e le garanzie processuali perdono ogni significato[1].

Dai giudici si esige non solo che siano imparziali, ma anche che appaiano tali, e quest’ultimo aspetto è di più difficile definizione. 

L’apparire imparziale è lo specchio dell’essere imparziale, è la stessa caratteristica riflessa all’esterno, è la terzietà resa percepibile e visibile nella condotta esteriore di chi impersona la giustizia attraverso le manifestazioni di pensiero, le prese di posizione su tematiche di vario genere, i comportamenti tenuti in uno spazio che possiamo definire “pubblico” in senso lato.

L’apparire imparziale non richiede un’azione positiva, volta a mostrare e rendere percepibile all’esterno la condizione di terzietà, ma evoca piuttosto un non fare, un obbligo negativo, di natura giuridica o anche solo etica, un astenersi dal porre in essere condotte che possano incrinare l’immagine di terzietà, un consapevole self-restraint.

Non vi è dubbio che al giudice sia riconosciuto il libero esercizio dei diritti garantiti dalla Carta costituzionale e dall’ordinamento giuridico, esattamente come a tutte le persone, a cominciare dalla libertà di opinione e dalla libertà di manifestare il proprio pensiero. 

Tuttavia, il delicato compito che l’ordinamento assegna alla funzione giudiziaria di decidere sui diritti e sui comportamenti altrui, con effetti che si ripercuotono su molteplici aspetti della vita delle persone, esige un accurato contemperamento tra i diritti di libertà di chi esercita la funzione di giudicare e il diritto, di chi alla giustizia si rivolge, di avere di fronte un giudice indipendente e imparziale, che si accinga al processo e alla decisione senza pregiudizi, senza precomprensioni, senza interessi, senza preferenze per una o per l’altra soluzione, e che così appaia[2].

Di terzietà del giudice, o meglio di mancanza di terzietà del giudice, si parla anche sotto un diverso profilo, che ha a che fare non con i comportamenti esteriori, i quali solo di riflesso possono proiettare ombre sull’esercizio della giurisdizione, ma direttamente con il modo di interpretare e di applicare le leggi, che è l’essenza della funzione del giudice.

Si dubita, insomma, che sia effettivamente terzo il giudice guidato nel suo lavoro e nelle decisioni che assume – o che contribuisce a fare assumere – dallo scopo di affermare e difendere alcuni principi, in funzione dei quali interpreta le norme, senza curarsi della ratio legis e a costo anche di ostacolare interventi di riforma adottati dal legislatore. Sono critiche spesso rivolte a settori della giurisdizione in materie in cui il conflitto sociale, politico e ideologico è maggiormente avvertito; tra queste materie rientra il diritto del lavoro. L’accusa di soggettivismo e abuso si accompagna ad etichette di giudici “ideologizzati” o “politicizzati” e a critiche contro una giurisprudenza che si assume essenzialmente creativa.

 

2. L’interpretazione

Sull’attività interpretativa affidata al giudice occorre però intendersi con maggiore chiarezza.

Dobbiamo, anzitutto, essere consapevoli della importanza del lato pratico del diritto, cioè del suo legame imprescindibile con i fatti della vita da regolare. È ormai lontana la tradizione del positivismo legalistico ed è patrimonio comune, nell’epoca definita da Paolo Grossi come «pos-moderna», che il diritto non possa più essere concepito come una scienza teoretica ma vada pensato nell’ottica di una scienza pratica[3], la sola congeniale alla sua dimensione storica.

L’interpretazione giuridica, ci ricorda Gustavo Zagrebelsky, è «attività mossa da finalità essenzialmente pratiche, nel senso ch’essa si giustifica con l’esistenza di fatti e casi concreti da regolare ed è finalizzata non alla conoscenza ma all’azione, cioè all’applicazione tramite decisione. Se non esistessero problemi pratici da risolvere, nessuno si rivolgerebbe al diritto; se non ci fosse nulla da giudicare, non ci sarebbe diritto», e ancora: «se non ci fosse questo processo di interrogazione pratica della norma, l’interpretazione si corromperebbe… in una semplice e vuota parafrasi della legge»[4].

Il procedimento di produzione normativa si esaurisce con l’emanazione del testo di legge, poi si passa alla sua applicazione ed è questo l’aspetto rilevante, il fatto della vita per il quale l’interprete interroga il testo, cioè «la norma a contatto con la vita degli utenti»[5]

Questa consapevolezza è alla base della distinzione che le moderne teorie tracciano, attraverso un preciso e netto spartiacque, tra la legge quale insieme di disposizioni provenienti dal legislatore e da questi confezionate, e le norme, cioè il diritto, l’insieme delle regole giuridiche che l’interprete trae dalle disposizioni per farne applicazione ai casi concreti.

Considerato che le leggi contengono regole generali e astratte, formulate attraverso parole e sintagmi, è compito dell’interprete attribuire un significato alle locuzioni contenute negli atti normativi; l’interprete ha anzitutto il compito di trasformare le disposizioni in norme, di estrarre dalle prime i significati e i contenuti normativi da applicare. Ma l’interpretazione del giudice non è solo questo, non è rivolta unilateralmente alla legge, non è solo «riflettente il diritto posto dal legislatore»[6]; essa guarda ai casi, ai fatti umani sottoposti al suo esame, perché da questi si sviluppa e ad essi immancabilmente ritorna[7].

Zagrebelsky attribuisce particolare valore alla preposizione “inter-”, inclusa nella parola interpretazione, che rimanda a un rapporto, a una intermediazione, a un collegamento tra parti diverse; scrive che «l’interpretazione è al centro di due flussi di influenza» e che «l’interprete è colui che congiunge il passato (il tempo del testo) al presente (il tempo dell’interpretazione) o magari al futuro (il tempo in cui l’interpretazione, oggi non ancora convincente, lo diventerà)». Avverte che «la posizione inter-pretativa è fonte di tutte le difficoltà, ma anche di tutte le potenzialità dell’interpretazione, potenzialità che si manifestano nell’essere sempre aperta e nuove domande e nuove risposte, pur fermi restando i dati testuali da interpretare»[8].

Sono i casi della vita, i fatti umani con le loro “aspettative normative” che sollecitano l’interpretazione, e questa non può svolgersi se non partendo da essi e ad essi ritornando, secondo una traiettoria circolare, perché le norme non hanno significato se non in riferimento ai casi da regolare e questi non possono comprendersi giuridicamente, se non in riferimento alla norma[9].

Ma l’attività interpretativa ha anche uno spazio in cui muoversi, che ne segna in qualche modo i confini e in cui sono collocati i terminali di riferimento del corpo normativo. Le attribuzioni di senso e di significato alle disposizioni, in connessione con i fatti da regolare, presuppongono un contesto di valori condivisi, quali pilastri di un ordine giuridico coerente, destinati a orientare l’agire e il decidere.

In questo senso, «quella necessaria precomprensione che è supposta da ogni processo di comprensione del diritto implica il riferimento a criteri di valore, cioè a quei princìpi-forza sulla cui base si definisce lo spazio entro il quale e la direzione verso la quale vengono utilizzati i testi normativi, i metodi interpretativi, i precedenti giurisprudenziali e le formulazioni dottrinali»[10]

E se è vero che nessun ordinamento può concepirsi senza un sistema di valori, è indubbio che l’epoca moderna presenta, da questo punto di vista, una estrema complessità. 

Venuto definitivamente meno il dogma della statualità del diritto, il giudice ha di fronte una pluralità di ordinamenti giuridici e di fonti, nazionali e sovranazionali, che interagiscono e dialogano, in una continua rincorsa e contaminazione.

Il processo interpretativo delle leggi non può che svolgersi assecondando i valori e i principi delle fonti sovraordinate, che proiettano la loro precettività sull’intero sistema normativo e costituiscono il filtro attraverso cui leggere il diritto positivo, portando ad attribuire allo stesso significati che non sempre sono desumibili con l’uso dei tradizionali canoni ermeneutici. I principi che da tali fonti superiori promanano rappresentano la chiave di volta per cogliere il senso e il significato degli atti normativi da applicare, quando non si traducono essi stessi in regola per la decisione di casi e questioni su cui il legislatore omette di intervenire.

E che il giudice debba costantemente confrontarsi con essi emerge in modo lapalissiano dal controllo diffuso, al medesimo specificamente demandato, sulla conformità delle leggi alla Costituzione e alle fonti europee. Di fronte a qualsiasi testo normativo e prima di applicare le relative disposizioni al caso sottoposto al suo esame, il giudice deve interrogarsi sulla conformità di quelle disposizioni ai principi costituzionali e convenzionali e alle direttive europee e, ove dubiti di tale conformità, deve percorrere la strada della interpretazione costituzionalmente o convenzionalmente orientata, che la Corte costituzionale ha elevato a condizione di ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale, oppure procedere, ove ne ricorrano i presupposti, alla disapplicazione delle regole di diritto interno in contrasto con quelle di matrice europea.

E se si considera che, tra i principi accennati, rientra il fondamentale canone di ragionevolezza[11], si ha la percezione dello spazio che l’ordinamento riserva alla funzione interpretativa del giudice e al suo ruolo di veicolo di integrazione e promozione dei valori costituzionali e sovranazionali nel diritto positivo. Spazio che assume dimensioni di ancora maggiore complessità ove si faccia mente a quella che viene definita “giurisprudenza per principi”. Essa, è bene sottolinearlo, «non è creazione di diritto, nel senso dell’estensione del campo del giuridicamente rilevante a nuove materie, rapporti, situazioni», ma è ius dicere, è decisione di casi che già ricadono sotto il diritto, perché «sarebbe una forzatura e una fuga dalle responsabilità che il diritto – per principi – pone ai suoi interpreti e ai suoi giudici il dire che i principi sono regole incomplete, cioè regole difettose e incapaci di operare come diritto, fino a quando non sia stata posta una regola legislativa attuativa, come se il sistema giuridico ideale dovesse ritenersi quello composto da sole regole»[12]

Ma lo scenario in cui si colloca oggi la funzione giurisdizionale e la latitudine assunta dall’attività interpretativa non ci conducono automaticamente nell’area della giurisprudenza creativa[13] o di un indefinito soggettivismo, né mettono in discussione i capisaldi dello Stato di diritto.

Come è stato osservato, il giudice oggi, nel compito di applicare il diritto, non ha più di fronte «un oggetto definito da acquisire nella sua datità, ma (…) un oggetto da ricercare, da individuare»[14], un difficile percorso da compiere per arrivare alla norma regolatrice adeguata al caso e al diritto[15].

In tale percorso, il giudice deve agire con estrema prudenza.

È infatti la prudenza che, come l’etimo stesso della parola “iuris-prudentia” suggerisce, deve guidare l’interprete nel contemperare leggi e principi, “prudenza” da intendere nel suo originario significato di saggezza, maturità di consiglio, capacità di prevedere e valutare le conseguenze, come equilibrio e misura, che trovano nel rigoroso obbligo di motivazione un insostituibile tassello e, nello stesso tempo, un rassicurante argine.

Ma accanto all’obbligo di motivazione costituzionalmente posto, altri elementi concorrono a guidare l’attività interpretativa del giudice, emancipata dalla mera comprensione del dato legislativo in chiave veritativa, verso un punto di equilibrio tra il diritto positivo e i principi su cui l’ordinamento si regge. 

Tra questi, la consapevolezza che il diritto è storia che si dipana lungo sentieri interpretativi a cui il giurista, e il giudice in particolar modo, deve immancabilmente guardare[16]. I precedenti, se pure non formalmente vincolanti, costituiscono per il giudice-interprete un punto di partenza imprescindibile poiché permettono di cogliere come i conflitti si sono manifestati e come sono stati composti, quali argomenti e quali ragionamenti sono stati impiegati, in che modo i valori e i principi siano stati inverati nell’esperienza giurisprudenziale. 

Quelli enumerati sono accorgimenti che, in una visione articolata e complessa dell’ordinamento, consentono all’interprete di tenere insieme questa complessità.

Si tratta di coordinate che segnano le potenzialità e, al contempo, i confini dell’attività interpretativa del giudice, chiamato a un compito molto più difficile rispetto a passato, di cui porta ogni responsabilità[17].

Di questa concezione del diritto e dell’attività del giudice nell’epoca moderna si trova traccia in alcune lungimiranti pronunce di legittimità. Nella sentenza della Corte di cassazione[18], sul tema dell’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche, si legge che, nell’esame della questione di massima, le sezioni unite «non sono sole (…). Per un verso, sono guidate dalla forza peculiare dei principi fondamentali che entrano in gioco, dalla libertà religiosa al principio di laicità nelle sue diverse declinazioni, al pluralismo, al divieto di discriminazioni, alla libertà di insegnamento nella scuola pubblica aperta a tutti. Tali principi, definiti dalla Costituzione italiana, dalle Carte dei diritti e dalle Corti che ne sono gli interpreti, costituiscono la bussola per rinvenire nell’ordinamento la regola per la soluzione del caso. Per altro verso, sono supportate da una fitta rete di precedenti giudiziali e di contributi della dottrina: gli uni rappresentano i sentieri già percorsi dall’esperienza giurisprudenziale per risolvere controversie che presentano elementi di somiglianza, e sono tanto più rilevanti in mancanza di una legge del Parlamento; gli altri offrono la ricostruzione del quadro di sistema e l’elaborazione di linee di prospettiva coerenti con le attese della comunità interpretante. Infine, sono accompagnate dai contributi offerti dal processo e dal suo svolgersi nel contraddittorio tra le parti». 

Questi plurimi tasselli, che parimenti delimitano e danno linfa al lavoro interpretativo ove esista una regolazione legislativa, fanno sì che «l’esercizio della giurisdizione, secondo i paradigmi del diritto come scienza pratica, lungi dal risolversi in un indeterminato soggettivismo, si offra a criteri di verifica molto rigorosi e puntuali»[19].

 

3. I giudici del lavoro

Il contesto valoriale di riferimento è particolarmente nutrito per i giudici del lavoro.

Possiamo cominciare dall’art. 1 della Costituzione, in cui il lavoro compare quale fondamento della democrazia. 

Il lavoro è il diritto sociale fondamentale, accanto all’istruzione e alla salute; appartiene a quella rosa di diritti riconosciuti e protetti non solo nell’interesse dell’individuo che ne è titolare, ma anche nell’interesse generale della società cui l’individuo appartiene. Norberto Bobbio eleva il riconoscimento di alcuni diritti sociali fondamentali a «presupposto o precondizione di un effettivo esercizio dei diritti di libertà», per la ragione che «l’individuo istruito è più libero di un incolto; un individuo che ha un lavoro è più libero di un disoccupato; un uomo sano è più libero di un malato»[20]

È in funzione della tutela del lavoro che sono stati predisposti complessi apparati normativi, orientati alla tutela dei soggetti più deboli nel rapporto contrattuale.

A partire dagli anni sessanta e, soprattutto, con lo Statuto dei lavoratori, ha avuto inizio una fase promozionale dei diritti dei lavoratori, proseguita con la legislazione anche di natura processuale.

Il rito per le controversie di lavoro introdotto nel 1973, caratterizzato da celerità e penetranti poteri d’ufficio assegnati al giudice, si fonda sulla consapevolezza di una relazione asimmetrica tra le parti in causa e ha l’obiettivo di temperare quella disuguaglianza nel rapporto, evitando che la stessa possa riprodursi nelle aule di giustizia.

La legislazione a tutela dei lavoratori è disseminata di “clausole generali” che, riponendo fiducia nella capacità interpretativa e adeguatrice del giudice, hanno consentito una applicazione del diritto in grado di inverare i principi costituzionali nella concretezza dei rapporti di lavoro.

I giudici del lavoro sono stati fedeli interpreti di quella legislazione che, in piena sintonia con i principi e con il complessivo disegno costituzionale, era impegnata ad elevare il lavoro dalla condizione di servilismo e aveva iniettato nei rapporti di lavoro e nei luoghi di lavoro il respiro dei diritti e delle libertà fondamentali. 

Negli ultimi due decenni, in coincidenza con l’affacciarsi di una nuova visione dei rapporti sociali ed economici di matrice essenzialmente liberista, la produzione legislativa ha inseguito altri obiettivi, ha selezionato altre priorità, ha scelto altri contenuti, distanziandosi e dissociandosi dall’assetto costruito a partire dagli anni settanta.

Si sono verificati profondi mutamenti nelle relazioni sindacali, al punto da determinare una sorta di “eterogenesi dei fini” di alcune disposizioni che, pur rimaste immutate nel tenore letterale, hanno tuttavia tradito la loro originaria funzione. Ciò è accaduto, ad esempio, per l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che, da strumento di selezione delle organizzazioni sindacali in ragione della loro rappresentatività, si è trasformato in meccanismo di esclusione di quelle stesse organizzazioni, pure dotate della maggiore rappresentatività[21]. Un fenomeno analogo è, di recente, avvenuto per alcuni contratti collettivi nazionali, sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, dichiarati nulli per contrasto con l’articolo 36 della Costituzione, di cui storicamente quel tipo di contrattazione ha rappresentato il parametro attuativo[22].

Molteplici interventi di riforma hanno inoculato nel sistema forti dosi di liberalizzazione, dando ingresso alla contrattazione di prossimità e moltiplicando i tipi contrattuali, così da indurre una generalizzata precarizzazione dei rapporti di lavoro, ormai divenuta la cifra costante – in qualche modo anche metabolizzata – nelle prospettive delle giovani generazioni.

Il legislatore ha spinto sempre più nella direzione dell’abbassamento delle tutele del lavoro e nel 2012, poi di nuovo nel 2015, ha compiuto il passo più ardito, modificando (sia pure in modo graduale) la disciplina sui licenziamenti, da sempre considerata avamposto di tutte le garanzie e dei diritti riconosciuti ai lavoratori.

La sequenza di norme che ha cambiato l’assetto delle tutele per i lavoratori è nota. Per citare quelle principali, si parte dalla “norma-manifesto” di cui all’art. 30 della legge n. 183/2010, volta a limitare lo spazio di interpretazione del giudice nella materia del lavoro, per arrivare alla legge cd. “Fornero” (n. 92/2012) e al “Jobs Act” (d.lgs n. 23/2015).

Il legislatore ha delineato un nuovo ordine delle relazioni di lavoro, alleggerendo il vincolo che la disciplina introdotta dallo Statuto rappresentava per la libertà di iniziativa economica, ha progressivamente ridotto le possibilità di reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato, sostituite da indennità contenute in un tetto massimo e neppure graduabili dal giudice; un costo fisso del recesso, predeterminato per legge.

Una serie di fattori, tra cui l’obiettiva difficoltà di attribuire senso compiuto ad alcune disposizione di legge, di amalgamare le stesse col tessuto normativo esistente e di ricondurle in un sistema composito e coerente dal punto di vista della razionalità e in sintonia con i principi della Costituzione e delle fonti sovranazionali, è stata all’origine di un percorso giurisprudenziale faticoso, complesso, ancora per nulla sopito. 

L’impossibilità pratica di giungere a soluzioni interpretative soddisfacenti, sotto il profilo della ragionevolezza della disciplina disegnata dal legislatore e della imprescindibile adesione al tessuto valoriale sovraordinato, è alla base delle plurime, davvero numerose questioni di legittimità costituzionale e dei rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia che hanno puntellato la giurisprudenza dell’ultimo decennio in materia. 

Oggi, analizzando retrospettivamente l’impatto di quelle riforme sulle tutele del lavoratore in caso di licenziamento, si ha la percezione che, sul piano del diritto (perché molto diverso è stato l’impatto nella vita reale), esse non abbiano realizzato del tutto le trasformazioni di disciplina e di assetto dei rapporti di lavoro enunciate e perseguite dal legislatore.

Le interpretazioni date dalla giurisprudenza lavoristica (si pensi alla nota disputa sul “fatto materiale” e sul “fatto giuridico”) e i dubbi di legittimità costituzionale sollevati hanno avuto l’effetto di arginare un percorso di deregolazione e mortificazione delle tutele di un diritto, quello del lavoro e dei lavoratori, che rappresenta il fondamento dello Stato democratico.

I giudici del lavoro o una parte di essi sono venuti meno al dovere di terzietà? 

La giurisprudenza del lavoro, o una parte di essa, si è messa «di traverso, cercando di sterilizzare o quanto meno di minimizzare le conseguenze delle innovazioni normative»[23]?

Le risposte della Corte costituzionale sono state nette. Con più sentenze, ha dichiarato illegittimi alcuni articoli, sia della legge del 2012 sia del decreto legislativo del 2015, su aspetti nevralgici della disciplina che incidono sul tipo di tutela spettante al lavoratore illegittimamente licenziato – reintegratoria o indennitaria – e sul ruolo del giudice nella valutazione delle concrete conseguenze di un licenziamento illegittimo.

Il giudice delle leggi ha deciso guardando, come sempre, al passato, ai precedenti della stessa Corte, ma ha segnato nel contempo un preciso percorso per il futuro. Ha tracciato i binari entro cui potranno muoversi i prossimi interventi riformatori, ancorandoli strettamente ai principi e valori solennemente affermati dalla nostra Costituzione e dalle Carte europee[24].

Le sentenze non mettono in discussione – né potrebbero farlo – l’ampio margine di apprezzamento riservato al legislatore nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore e ribadiscono che, nel sistema costituzionale, la reintegrazione non rappresenti l’unico rimedio di compensazione per il lavoratore illegittimamente licenziato; tuttavia, ricordano ripetutamente e a chiare lettere che, nell’esercizio della sua discrezionalità, «il legislatore (…) è vincolato al rispetto dei princìpi di eguaglianza e di ragionevolezza».

In questa cornice, e con importanti effetti per il futuro, la Corte costituzionale ha rimarcato le «notevoli implicazioni» connesse all’«alternativa fra una più incisiva tutela reintegratoria o una meramente indennitaria» e l’irragionevolezza derivante dalla scelta di riconnettere a «fattori contingenti» impropri o privi di attinenza con il disvalore del licenziamento il discrimine tra le due forme di tutela applicabile (sent. n. 59/2021, § 10.1). Ha affermato che l’«esercizio arbitrario del potere di licenziamento, sia quando adduce a pretesto un fatto disciplinare inesistente sia quando si appella a una ragione produttiva priva di ogni riscontro, lede l’interesse del lavoratore alla continuità del vincolo negoziale (…) e denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.» (n. 59/2021). Ha ricordato, a proposito dell’indennità standardizzata introdotta dal d.lgs n. 23/2015, come la tutela risarcitoria ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio «contrast(i) altresì con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente» (n. 194/2018) e che, «all’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa, la discrezionalità del giudice risponde, infatti, all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza» (ivi).

Fino al monito che la Corte ha voluto rivolgere al legislatore, rilevando che «la materia, frutto di interventi normativi stratificati, non può che essere rivista in termini complessivi, che investano sia i criteri distintivi tra i regimi applicabili ai diversi datori di lavoro, sia la funzione dissuasiva dei rimedi previsti per le disparate fattispecie»[25]

Il compito dei giudici del lavoro, e di tutti i giudici, si svolge nello spazio e nella relazione tra il dato normativo e il fatto umano, il caso da decidere, la realtà della vita da regolare. L’interpretazione è attività che mira a congiungere la norma regolatrice al caso «fino a farli combaciare in un risultato appagante su entrambi i lati»[26] e coerente col sistema di valori che le costituzioni moderne hanno tradotto in principi fondamentali e nei quali il diritto è immerso, sì che da essi dipende non solo la sua interpretazione ma la sua stessa validità.

Né può onestamente pensarsi che l’indipendenza dei giudici sia meglio assicurata da un’applicazione asettica delle regole giuridiche, che non intralci i disegni riformatori e la voluntas legis, relegando i principi sovraordinati, se non proprio nella sfera morale, in una sorta di astratto dover essere, quasi che il diritto possa costituire un mondo a sé stante.

Il lavoro, che l’art. 1 della Costituzione lega indissolubilmente alla democrazia, quale veicolo di inclusione, diritto sociale fondamentale, accanto all’istruzione e alla salute, e «presupposto o precondizione di un effettivo esercizio dei diritti di libertà»[27], non può essere disciplinato con leggerezza e in modo irragionevole, specie quando si tratta della perdita del posto di lavoro.

La giurisprudenza del lavoro ha usato bene la cassetta degli attrezzi quando ha interpretato le leggi di riforma in materia di licenziamento in modo coerente ai principi dell’ordinamento democratico e quando ha esternato i dubbi di compatibilità costituzionale; ed ha avuto conferma della fondatezza di quei dubbi, di molti di essi. Il sistema ha funzionato e ha consentito che fossero riaffermati principi basilari, che il legislatore non può ignorare e dimenticare.

Non è questione di indipendenza o di terzietà del giudice, ma del senso dell’esercizio della giurisdizione. La risposta dei giudici con la «Costituzione alla mano»[28] non è un’opzione ideologica o una sterile e preconcetta critica ai disegni di riforma, ma è la salutare risposta del sistema, e per esso dei giudici del lavoro, perché la Costituzione è anche un programma che guarda avanti ed esige che ogni cittadino, e anche i giudici, contribuiscano alla sua attuazione.

Le sentenze della Corte costituzionale rappresentano, da questo punto di vista, una solida conferma, a meno che non si voglia criticare anche la Corte costituzionale, il che sarebbe davvero un fuor d’opera.

 

 

1. Corte cost., sent. n. 155/1996.

2. Su questo tema vds. E. Scoditti, Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione, in Questione giustizia online, 22 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione); N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, ivi, 10 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria) – entrambi i contributi fanno ora parte di questo fascicolo.

3. N. Lipari, Che cosa significa fare il giudice, oggi, in Questione giustizia online, 7 novembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/giudice-oggi).

4. G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Il Mulino, Bologna, 2008, pp. 176-177. 

5. P. Grossi, Codici: qualche conclusione tra un millennio e l’altro (cap. III.), in Id., Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano, 2001, p. 111.

6. G. Zagrebelsky, La legge, op. cit., p. 167.

7. A.E. Cammarata, Formalismo giuridico, in C. Mortati e S. Pugliatti (a cura di), Enciclopedia del diritto, vol. XVII, Giuffrè, Milano, 1968, p. 1017.

8. G. Zagrebelsky, La legge, op. cit., p. 173.

9. Ivi, p. 175.

10. N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2003, p. 868.

11. N. Lipari, Che cosa significa, op. cit., sottolinea che: «Se è il principio di ragione che giudica della legittimità della legge, si tratta di un principio che non sta a monte, ma a valle e che si viene modulando in funzione di peculiari contingenze storiche. Ma la ragione non si qualifica in chiave di verità, non è riconducibile alla categoria dei dogmi, ma piuttosto ad indici di valore attuati e condivisi in una data esperienza storica». 

12. G. Zagrebelsky, La legge, op. cit., pp. 219-220.

13. L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2016, pp. 13-32 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/377/qg_2016-4_03.pdf).

14. N. Lipari, Che cosa significa, op. cit.

15. G. Zagrebelsky, La legge, op. cit., p. 179.

16. N. Lipari, Valori costituzionali, op. cit., pp. 877-878; P. Curzio, Il giudice e il precedente, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2018, pp. 37-44 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/549/qg_2018-4_05.pdf).

17. N. Lipari, Che cosa significa, op. cit.

18. Cass., n. 24414/2021.

19. N. Lipari, Che cosa significa, op. cit.

20. N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino, 1999, p. 465.

21. Corte cost., n. 231/2013.

22. Cass., n. 27711/2023.

23. L. Cavallaro, Il giudice del lavoro tra interpretazione “creativa” e fedeltà alla legge, in Giustizia insieme, 21 ottobre 2023.

24. Vds. anche la decisione del Comitato europeo dei diritti sociali dell’11 settembre 2019, resa sul reclamo collettivo n. 158 del 2017 proposto dalla CGIL, che conclude per la violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea da parte del d.lgs n. 23/2015.

25. Corte cost., n. 183/2022; vds. anche n. 150/2020 e, da ultimo, n. 22/2024. Altre questioni di legittimità costituzionale sono ancora pendenti – vds. Trib. Ravenna, ord. 27 settembre 2023; Trib. Catania, ord. 20 novembre 2023.

26. G. Zagrebelsky, La legge, op. cit., pp. 175-176.

27. N. Bobbio, Teoria generale, op. cit., p. 465.

28. L. Cavallaro, Il giudice del lavoro, op. cit.