L’imparzialità del giudice: il punto di vista di un civilista
Il tema dell’imparzialità del giudice, di cui molto si discute riferendosi soprattutto all’esercizio della giurisdizione penale, presenta spunti di interesse anche dal punto di vista civilistico. Se è ovvio che il giudice debba essere indipendente e imparziale, meno ovvio è cosa per “imparzialità” debba intendersi. Si pongono al riguardo tre domande: se e quanto incidono sull’imparzialità del giudice le sue convinzioni ideali e politiche e il modo in cui egli eventualmente le manifesti; se l’imparzialità debba precludere al giudice di intervenire nel processo per riequilibrare le posizioni delle parti quando esse siano in partenza sbilanciate; entro quali limiti la manifestazione di un qualche suo pre-convincimento condizioni l’imparzialità del giudice all’atto della decisione. Un cenno, infine, all’intelligenza artificiale e il dubbio se la sua applicazione in ambito giurisdizionale possa meglio garantire l’imparzialità della giustizia, ma rischi di privarla di umanità.
1. Una doverosa premessa / 2. Imparzialità: un concetto meno ovvio di quel che appare / 3. Scelte valoriali / 4. Imparzialità ed equidistanza / 5. Imparzialità e manifestazioni anticipate di giudizio / 6. Imparzialità e intelligenza artificiale
1. Una doverosa premessa
Questione giustizia ci invita a riflettere sul tema dell’imparzialità dei magistrati prendendo spunto da due assai stimolanti interventi già apparsi sulla Rivista online: l’uno di Nello Rossi, intitolato «Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria», e l’altro di Enrico Scoditti, intitolato «Magistrato e cittadino: l’imparzialità dell’interprete in discussione»[1].
Si tratta di un tema, oggi molto dibattuto, che assume non di rado nella stampa e negli altri mezzi d’informazione più diffusi toni anche polemici quando un qualche caso di cronaca induce a sollevarlo, riaccendendo mai sopite dispute sui rapporti tra magistratura e mondo politico. Sono polemiche per lo più proiettate sullo scenario del processo penale, che notoriamente attira in maggior misura l’attenzione del pubblico e soprattutto con riferimento al quale suscitano contrastanti emozioni gli interventi della magistratura in aree politicamente sensibili.
Non è di questo, però, che vorrei parlare. Le brevi considerazioni che mi accingo a fare, benché alcune di esse possano avere anche una portata più generale, muoveranno infatti essenzialmente dal punto di vista del civilista, che a causa della mia esperienza professionale è quello a me più congeniale. Anche nel settore della giurisdizione civile, d’altronde, il tema dell’imparzialità del magistrato mi sembra presenti aspetti di notevole attualità e interesse.
2. Imparzialità: un concetto meno ovvio di quel che appare
Che il giudice, nell’esercizio della sua funzione, abbia il dovere di essere imparziale è cosa persino ovvia. L’imparzialità, come indica il secondo comma dell’art. 97 della Costituzione, dovrebbe connotare in via generale l’operato dell’amministrazione pubblica, e quindi anche l’esercizio della giurisdizione affidato ai magistrati. Per il giudice il dovere d’essere imparziale è, però, ancor più stringente e trova un’ulteriore conferma nel primo comma dell’art. 111 della Costituzione, a tenore del quale «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo» che deve svolgersi «davanti ad un giudice terzo ed imparziale». Si tratta di un principio fondamentale, che caratterizza qualsiasi civiltà giuridica. Se colui il quale è chiamato a dirimere una controversia parteggiasse per uno dei contendenti, non di giustizia, bensì di sopraffazione del più forte sul più debole si dovrebbe parlare. E, infatti, il medesimo principio, sia pure in diversa formulazione, si rinviene anche nell’art. 10 della Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, e nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Né può dubitarsi che il dovere d’imparzialità valga anche per i giudici privati, ossia per gli arbitri, quantunque essi non siano pubblici funzionari e a loro, perciò, non si applichi il citato disposto dell’art. 97 Cost. L’imparzialità, insomma, è la condizione che legittima taluno ad ergersi a giudice di vicende altrui.
Le cose, però, iniziano ad apparire meno ovvie non appena ci si cominci a interrogare su quel che davvero deve intendersi per imparzialità del giudice. Essere “imparziale”, come indica la parola stessa, vuol dire non essere parte (nemo iudex in causa propria): significa che il giudice non può essere portatore, neppure per conto di terzi, di un interesse personale all’esito della lite, e neppure deve essere legato a una delle parti da un qualche rapporto di dipendenza. Indipendenza e imparzialità non sono concetti del tutto sovrapponibili, ma è indubbio che la prima costituisca una condizione necessaria (benché non sempre sufficiente) a garantire la seconda. L’assenza di un interesse personale del giudice a un determinato esito della vertenza o di un suo qualsivoglia rapporto di dipendenza con una delle parti in causa potrebbe però non esaurire l’intera gamma delle situazioni nelle quali entra in gioco il dovere dell’imparzialità. Restano diversi nodi problematici da mettere in conto e alcuni interrogativi sui quali conviene svolgere qualche sintetica riflessione.
Possono essere le convinzioni politiche del giudice, la sua filosofia di vita, il suo mondo ideale, il suo punto di vista generale sui problemi della società e della giustizia a comprometterne l’imparzialità? L’imparzialità è incompatibile con eventuali interventi del giudice che possano incidere sul preesistente rapporto di forza tra le parti in causa e quindi, in certo qual modo, condizionare l’esito di una controversia che sarebbe altrimenti segnato da quello squilibrato rapporto di forze? E ancora: in qual misura la manifestazione, prima o durante lo svolgimento del processo, di un qualche convincimento che il giudice si sia fatto, sia pur magari solo provvisoriamente e allo stato degli atti, può condizionare l’imparzialità del suo successivo giudizio?
3. Scelte valoriali
Intorno al primo dei tre interrogativi che ho posto molto si è discusso e molto si è scritto. Mi limiterò quindi a poche brevi considerazioni, senza alcuna pretesa di originalità, partendo dalla necessità di distinguere ciò che accade nel processo da ciò che accade fuori dal processo.
L’idea che la funzione del giudice si risolva unicamente nell’applicazione a singoli casi concreti di disposizioni di legge generali e astratte, la cui interpretazione risponda a canoni ermeneutici prestabiliti, ben chiari e indiscutibili, non ha probabilmente mai davvero corrisposto alla realtà. Di certo, comunque, essa non vi corrisponde ora, in un contesto storico nel quale il diritto positivo è frutto dell’intreccio di regole più o meno specifiche e di principi generali, nonché della sovrapposizione, non sempre lineare e ben decifrabile, tra normative nazionali e sovranazionali. E ciò anche a tacere della rapidità dei mutamenti sociali e tecnologici che, sovente, sopravanzano la capacità regolatoria del legislatore e pongono il giudice di fronte alla necessità di risolvere questioni poco o per nulla contemplate dalla legge. In questa situazione, l’opera interpretativa e applicativa del diritto risulta sempre meno circoscrivibile a un mero esercizio di tecnica giuridica e sempre più sovente, invece, impone al giudice di compiere delle scelte di valore. Vi sono comunque, beninteso, dei limiti segnati dal dato testuale della legge di volta in volta applicabile e, soprattutto, dai principi costituzionali; ma, sia pure entro il perimetro segnato da questi limiti, credo sia innegabile l’ampliamento della sfera di discrezionalità interpretativa del giudice. È certo vero che il bilanciamento dei principi e dei valori espressi dal testo costituzionale compete anzitutto al legislatore e che al giudice – come ci ricorda Enrico Scoditti – spetta eventualmente di controllare che quel bilanciamento non abbia comportato un sacrificio sproporzionato di uno dei valori in gioco. Ma non sempre il legislatore assolve quel compito di bilanciamento, e perciò il giudice è costretto a farsene direttamente carico. Anche lo stabilire se sia o meno sproporzionato il sacrificio imposto all’uno o all’altro dei contrapposti principi da bilanciare comporta immancabilmente delle scelte valoriali, trattandosi di valutare se o sino a qual punto sia lecito sacrificare l’un principio a favore dell’altro. Inevitabile mi sembra perciò che, nell’esercizio di questa alquanto estesa discrezionalità, entri in gioco anche quell’insieme di convinzioni, quel modo di sentire e di comprendere la vita, quella scala di valori sociali e morali di cui ogni essere umano pensante e senziente – perciò anche il giudice – è portatore. Se non si ha timore della parola, le si può ben definire “convinzioni politiche” in senso lato, cioè nel senso etimologico del termine.
Con due fondamentali corollari, però: che queste convinzioni non si traducano in aprioristiche ed astratte scelte di campo e che siano sempre limpidamente motivate.
È indispensabile che il giudice, quali che siano in via generale le sue convinzioni, per potersi conservare terzo e imparziale resti sempre aperto all’ascolto delle ragioni di tutte le parti e decida tenendo conto delle peculiarità di ciascun caso concreto, sapendo all’occorrenza anche temperare o modificare le proprie convinzioni di partenza, quando quel caso lo esiga. Nessun giudice può spogliarsi del proprio mondo interiore, della scala di valori che lo popolano, dei principi morali ai quali è stato educato e del suo modo di intendere e vivere la vita, ma tutto ciò attiene ai criteri di fondo sui quali inevitabilmente si modelleranno le sue scelte interpretative, senza per questo compromettere la sua libertà di giudizio per quel che riguarda le singole vertenze che è chiamato a giudicare, con il loro carico di umanità e l’infinita variabilità che ne discende. L’imparzialità presuppone la massima onestà intellettuale e decisioni “per partito preso” non possono mai essere imparziali.
L’onestà intellettuale del giudice deve manifestarsi anche nella franchezza e completezza della motivazione dei suoi provvedimenti. Quanto maggiore si fa lo spazio della discrezionalità interpretativa e applicativa del diritto, tanto più impellente è l’esigenza di dar conto di come quella discrezionalità sia stata esercitata. Si tratta di un’elementare esigenza di democrazia, ma si tratta anche della consapevolezza del fatto che i singoli provvedimenti giurisdizionali – proprio e soprattutto in un’epoca nella quale il cd. “diritto vivente” ha acquistato grande spazio – non servono soltanto a dirimere singole controversie ma concorrono tutti, quale più quale meno, a formare orientamenti giurisprudenziali capaci di condizionare una molteplicità di altre decisioni future. Anche per questo se ne deve, all’occorrenza, poter criticare le motivazioni e verificare a posteriori che i legittimi convincimenti del giudice non abbiano compromesso l’imparzialità del giudizio. L’imparzialità è il presupposto di una corretta nomofilachia.
Altro discorso è da farsi per quel che riguarda il comportamento extraprocessuale del magistrato. Qui si tratta di contemperare due opposte esigenze: da un lato, il diritto di piena partecipazione alla vita sociale e politica della comunità, e quindi il diritto di associazione e di manifestazione del pensiero spettante a ciascun cittadino, magistrati compresi; dall’altro, la necessità di evitare che determinati vincoli di appartenenza, comportamenti o esternazioni possano far dubitare (non importa quanto fondatamente) della capacità del magistrato di serbarsi imparziale nell’esercizio delle sue funzioni, rischiando così di minare la fiducia nella giustizia. Che questo contemperamento occorra è testimoniato dall’ultimo comma dell’art. 98 della Costituzione, in attuazione del quale la legge sull’ordinamento giudiziario ha vietato ai magistrati sia l’iscrizione sia la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici, prevedendo sanzioni disciplinari in caso di violazione di tale divieto. Ulteriori specifiche limitazioni alle libertà civili dei magistrati il legislatore – credo – non avrebbe potuto imporre, né lo ha fatto, ma ciò non toglie che ciascun magistrato abbia il dovere di avvertire l’eventuale inopportunità di comportamenti che rischino di mettere in dubbio la sua capacità di serbarsi imparziale nell’esercizio delle sue funzioni, come del resto anche il codice etico della magistratura non manca di indicare. Si tratta di valutazioni necessariamente da fare a seconda delle circostanze, tenendo conto del ruolo ricoperto dal singolo magistrato, della possibilità che egli si trovi in futuro a dover assumere decisioni influenzate dai suoi comportamenti extraprocessuali, delle possibili ripercussioni di quei comportamenti sulla pubblica opinione quando è prevedibile ne possano scaturire inutili polemiche che non giovano al sereno esercizio della giurisdizione. Per essere all’altezza del delicato compito che la Costituzione gli affida, il magistrato deve essere capace di operare costantemente questo genere di valutazioni: deve saper coniugare, per dirla con Max Weber, etica della convinzione ed etica della responsabilità.
4. Imparzialità ed equidistanza
Si sarebbe portati naturalmente a pensare che il dovere d’imparzialità cui il giudice è tenuto – la sua terzietà – implichi che egli debba restare sempre del tutto equidistante dalle parti in causa, evitando ogni intervento che possa condizionare l’esito della contesa processuale. Questo è vero, ma solo fino a un certo punto. L’imparzialità nell’esercizio della giurisdizione non è un concetto formale e deve esser coniugata con un altro principio fondamentale: quello dell’eguaglianza (sostanziale) espresso dal capoverso dell’art. 3 della Costituzione. Anche il giudice dev’essere, cioè, sensibile al dovere di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto l’eguaglianza dei cittadini e il pieno sviluppo della persona umana. Se la bilancia della giustizia risulta sin da principio squilibrata, può dunque ben accadere che il giudice debba intervenire per riequilibrarla: lungi dall’intaccare la sua imparzialità, ciò vale a ricostituire i corretti presupposti per un giudizio (non formalmente, ma nella sostanza) davvero imparziale. Con l’avvertenza, però, che questo tipo di interventi non può essere rimesso alla soggettiva valutazione di ciascun giudicante, ma deve necessariamente trovare nella legge – e in una plausibile interpretazione di essa – il suo giuridico fondamento. In quest’ottica si giustificano e vanno in concreto esercitati senza timidezza i molteplici poteri officiosi che il codice di procedura civile assegna al giudice. È il caso, ad esempio, della rilevazione d’ufficio delle cd. nullità di protezione con cui il giudice è chiamato a rafforzare la tutela che, in determinate situazioni, il legislatore ha inteso assicurare ai consumatori, ai risparmiatori o ad altre parti deboli di rapporti contrattuali asimmetrici.
Legge e giustizia, ovviamente, non si identificano. Ma, benché soggetto alla legge, come vuole l’art. 101 della Costituzione, il giudice non può mai dimenticare che la sua funzione è pur sempre quella di rendere giustizia: questo è ciò che i cittadini da lui si attendono. Senza mai varcare i limiti invalicabili segnati dalla legge, ma entro lo spazio di discrezionalità interpretativa e applicativa che la legge stessa e l’estrema variabilità delle vicende umane gli consentono, egli deve sforzarsi di perseguire un’ideale di giustizia, quale emerge dai principi sui quali la nostra Carta costituzionale si basa. E allora non posso trattenermi dal richiamare qui le belle pagine di un recente libro di Tommaso Greco, «Curare il mondo con Simone Weil»[2], e in particolare quelle nelle quali, rifacendosi al pensiero delle filosofa francese prematuramente scomparsa nel 1943, l’Autore richiama i tradizionali simboli della benda e della bilancia con cui la Giustizia viene di solito raffigurata, ponendo in evidenza come l’idea di una giustizia cieca risponda a un criterio d’imparzialità astratta e risulti, perciò, incapace di dare la necessaria attenzione alla realtà di ogni singola situazione e ai concreti bisogni che ne scaturiscono; e come, d’altro canto, se si è consapevoli delle ragioni dello squilibrio sociale, occorre aggiungere peso sul piatto troppo leggero della bilancia (o addirittura adottare, secondo l’immagine proposta dalla Weil, una bilancia «a bracci diseguali»).
5. Imparzialità e manifestazioni anticipate di giudizio
Veniano ora all’ultimo dei tre interrogativi che avevo posto. L’aver manifestato un’opinione sulla controversia che è chiamato a decidere compromette, ed eventualmente sino a qual punto, l’imparzialità del giudice?
L’art. 51, comma 1, n. 4, cpc, tra le altre ipotesi di astensione obbligatoria del magistrato, prevede che egli abbia dato consiglio sulla vertenza che sarà chiamato poi a decidere o che ne abbia già conosciuto in un precedente grado (disposizioni in larga parte analoghe si rinvengono, per il giudice penale, negli artt. 34 e 36 cpp).
La ragion d’essere di questa regola appare abbastanza evidente: l’aver già manifestato la propria opinione a terzi o a una delle parti può condizionare la successiva libertà di giudizio del magistrato, che quell’opinione abbia espresso, per la naturale ritrosia a smentire se stesso. A maggior ragione, non si può pretendere che la revisione critica di un provvedimento impugnato dalla parte sia affidata, nel grado successivo, al medesimo magistrato che quel provvedimento ha pronunciato. L’imparzialità del giudice – lo si è già detto – non consiste soltanto nell’assenza di un suo interesse personale all’esito della causa, ma anche nella condizione di totale libertà di giudizio, e questa può essere compromessa da fattori psicologici che inducano a privilegiare a priori l’una o l’altra delle tesi da cui la singola decisione dipende. Alla stessa logica sono ispirate anche altre disposizioni processuali, tra cui, ad esempio, quella che vieta al giudice il quale abbia emesso un provvedimento cautelare di far parte del collegio del tribunale chiamato a pronunciarsi sul reclamo proposto avverso quel medesimo provvedimento (art. 669-terdecies, comma 2, cpc); quella per la quale i giudizi di opposizione all’esecuzione non possono essere trattati dal magistrato che ha conosciuto degli atti avverso i quali l’opposizione è stata proposta (art. 186-bis disp. att. cpc); o quella che, nella procedura di liquidazione giudiziale, impedisce al giudice delegato di trattare i giudizi che egli stesso abbia autorizzato e di partecipare al collegio investito del reclamo avverso suoi provvedimenti (art. 123, comma 2 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza). Si è coniato in proposito il termine “pre-cognizione”, con cui s’intende definire le situazioni nelle quali l’imparzialità del giudice potrebbe difettare, perché convinzioni già precedentemente formatesi gli impedirebbero di decidere, poi, con mente sgombra. La pre-cognizione potrebbe facilmente divenire vero e proprio pre-giudizio.
Alcune di queste situazioni, come si è accennato, sono contemplate e regolate espressamente dal legislatore. Resta però da capire se sia consentito desumerne un principio generale, come tale invocabile anche in difetto di un’esplicita previsione di legge, e quale effettiva estensione gli si dovrebbe eventualmente riconoscere. Significativo è che, da ultimo, le sezioni unite della Cassazione, mancando un’indicazione del legislatore in tal senso, hanno escluso che, nel procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi per cassazione ex art. 380-bis cpc, il magistrato il quale ha formulato la proposta d’inammissibilità, improcedibilità o manifesta infondatezza del ricorso debba poi astenersi dal partecipare, eventualmente anche in veste di relatore, al collegio cui spetta di decidere su richiesta della parte che quella proposta non abbia condiviso (sez. unite, 10 aprile 2024, n. 9611).
È innegabile che l’essersi già in qualche modo pronunciato su questioni controverse può incidere sull’imparzialità (lato sensu intesa) di chi poi deve giudicare su quelle medesime questioni; ed è certo un principio generale quello per cui nessun giudice può esser chiamato a decidere (o a concorrere alla decisione) su impugnazioni proposte avverso provvedimenti da lui stesso in precedenza emessi. Non bisogna, però, esagerare sugli inconvenienti della cd. pre-cognizione del giudice.
Si danno situazioni nelle quali è fisiologico che il giudice, nel corso del processo, lasci intendere più o meno apertamente quale convinzione egli si va facendo in ordine a una o più delle questioni controverse. Questo può ben accadere, ad esempio, quando il giudice si pronuncia sull’ammissibilità e rilevanza dei mezzi di prova dedotti dalle parti, sull’opportunità di rimettere o meno immediatamente al collegio la decisione su una questione preliminare o pregiudiziale, quando dispone una consulenza tecnica formulando i relativi quesiti, e in molte altre circostanze ancora, senza che ciò gli impedisca di prender parte poi alla successiva fase decisoria. All’interno di ciascun grado di giudizio si previene alla decisione conclusiva progressivamente, ed è del tutto naturale che anche il convincimento del giudice si formi a mano a mano; né deve scandalizzare il fatto che esso talvolta si esterni in corso d’opera. Mi spingo anzi a dire che, in via generale e fatto comunque sempre salvo il rispetto delle specifiche disposizioni di rito vigenti al riguardo, sarebbe financo auspicabile uno svolgimento processuale caratterizzato da un maggior dialogo tra il giudice e le parti: tale per cui il giudice si senta libero di prospettare senza troppe remore le idee che già s’è fatto o che si va facendo e le parti possano adoperarsi, occorrendo, per meglio chiarire le loro ragioni, se ritengano che il giudice non le abbia bene intese. Mi rendo conto che le condizioni materiali nelle quali, di fatto, spesso si svolgono le affollate udienze civili nelle nostre aule di giustizia non facilitano questa prospettiva, ma continuo a pensare che un giudice disposto a dialogare senza troppa reticenza con le parti, anziché chiudersi in un enigmatico silenzio da sciogliere solo col provvedimento conclusivo, sarebbe assai più utile e assai meglio risponderebbe a una funzione giurisdizionale non solo – e non tanto – volta a troncare di netto con una decisione d’autorità i nodi da cui le dispute tra le parti sono avviluppate, quanto piuttosto a scioglierli e a ricomporre il tessuto dei rapporti intersoggettivi che quelle dispute avevano lacerato. Questo è, d’altronde, il senso della proposta transattiva o conciliativa che l’art. 185-bis cpc autorizza il giudice a fare: proposta nel formulare la quale, però, occorre appunto che il giudice non abbia timore a esprimere una prognosi sull’esito della vertenza, sia pur provvisoria e destinata a successiva revisione. Ciò che non è affatto incompatibile col suo dovere d’imparzialità, né implica un qualche successivo obbligo od opportunità di astensione, ma varrebbe invece a facilitare di molto le parti cui compete vagliare i presumibili vantaggi o svantaggi della proposta conciliativa.
6. Imparzialità e intelligenza artificiale
L’intelligenza artificiale è il tema del momento. Tutti ne parlano, tutti si industriano a immaginare le caratteristiche di un mondo sempre più popolato da automi capaci di svolgere ogni sorta di attività come e meglio degli esseri umani; i quali ne sono perciò, al tempo stesso, affascinati ma pure un po’ spaventati. S’intravede la possibilità che anche l’esercizio della giurisdizione sia, in un futuro più o meno prossimo, governato totalmente o parzialmente dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale.
Non ne so abbastanza per cimentarmi su questo terreno, ma non posso tacere una certa inquietudine, non foss’altro perché non mi è chiaro come sarebbe mai possibile esercitare una qualche forma di controllo sull’elaborazione di eventuali algoritmi decisori. Come esser certi – per restare al nostro argomento – che gli algoritmi, pur sempre elaborati all’origine da uomini, siano davvero imparziali? E poi, anche ammesso che possa risultare più imparziale una giustizia robotizzata, affidata a meccanismi funzionanti in base all’intelligenza artificiale, siamo sicuri che davvero essa riuscirebbe a tenere adeguatamente conto di tutte le infinite variabili e delle miriadi di tensioni che innervano il tessuto della società e generano i conflitti che il giudice è chiamato a comporre, ricorrendo talvolta anche all’equità? Non rischierebbe una tal giustizia di essere, magari più imparziale, ma anche più disumana?
Chissà, però, se queste mie inquietudini non siano solo la solita reazione delle persone ormai anziane, quale io sono, di fronte a novità capaci di sconvolgere il mondo cui sono abituate.
1. Vds. Questione giustizia online, rispettivamente: 10 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria) e 22 novembre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/magistrato-e-cittadino-l-imparzialita-dell-interprete-in-discussione), entrambi in questo fascicolo.
2. Laterza, Bari, 2023.