Imparzialità e indipendenza
L’imparzialità del magistrato è l’altra faccia dell’indipendenza della giurisdizione.
Il tema della imparzialità del magistrato viene spesso in gioco in riferimento a esternazioni e condotte del magistrato inerenti a temi “politicamente sensibili” ed è più raramente scandagliato rispetto allo specifico esercizio della giurisdizione, profilo questo dal quale mi pare utile prendere le mosse per una breve riflessione sul tema, alla luce della mia esperienza di giudice civile.
In questa riflessione si può partire dalla Costituzione, i cui artt. 101 («I giudici sono soggetti soltanto alla legge») e 104 («La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere») disegnano i principi di indipendenza interna ed esterna della giurisdizione che scolpiscono lo Stato di diritto e che, per un verso, rimandano alla giurisdizione come potere diffuso, mentre per altro verso sottolineano la soggezione dell’attività giurisdizionale alla legge, id est alla Costituzione, alle norme sovranazionali da questa richiamate e alle norme emanate dal Parlamento.
Le norme costituzionali richiamano così due caratteri dell’attività interpretativa in apparenza contrastanti, ma al cui continuo equilibrio occorre tendere:
- da un lato, il pluralismo della giurisdizione, strumento di evoluzione giurisprudenziale che permette – in particolare in presenza di nuove norme, in caso di applicazione di clausole generali, in mancanza di disciplina specifica – all’attività interpretativa di adeguare le soluzioni ai casi concreti e alle loro multiformi caratteristiche, così come di rispondere a “nuove” domande di giustizia;
- dall’altro, la prevedibilità delle decisioni, non solo quale esito della nomofilachia, ma anche quale frutto, nei gradi di merito, di consapevoli orientamenti consolidati nella lettura delle norme favoriti dalla specializzazione del giudice.
Molte vicende della giurisprudenza civile illuminano questa tensione tra i due poli pluralismo/prevedibilità.
Ad esempio, l’interpretazione dell’art. 2043 cc nel senso della risarcibilità del cd. danno biologico alla persona si è affermata nella giurisprudenza nel secolo scorso, a seguito di pronunce di merito dapprima isolate, che hanno superato il tradizionale orientamento in tema di risarcibilità delle sole conseguenze patrimoniali di illeciti causanti lesioni alla persona: a tale acquisizione ha fatto poi seguito l’elaborazione, da parte degli Osservatori sulla giustizia civile, di criteri per la quantificazione del danno alla persona oggi riconosciuti dalla giurisprudenza di legittimità come necessari parametri di equità.
Ancora, nel diverso campo del diritto societario, la “nuova” norma in vigore dal 2003 ex art. 2476 cc, introducente un generale diritto di controllo dei soci di srl, è stata oggetto di specificazioni giurisprudenziali quanto alle modalità dell’accesso ai documenti da parte del socio e quanto al limite dell’esercizio del diritto nel caso di abuso: queste specificazioni, dapprima frutto di pronunce “isolate” delle sezioni specializzate in materia di impresa, si sono poi consolidate nel senso della possibilità di estrazione di copia dei documenti a spese del socio, della possibilità di oscuramento di dati sensibili a fini della concorrenza, di esclusione del diritto nel caso di atti emulativi o di finalità concorrenziali illecite.
All’indipendenza della giurisdizione la Costituzione affianca poi, come principi fondamentali, quelli dell’imparzialità del giudice e del giusto processo, sanciti da tre commi dell’art. 111: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge» (primo comma); «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale» (secondo comma); «Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati» (sesto comma).
In una lettura complessiva delle norme costituzionali, l’imparzialità del giudice può dunque essere vista come l’altra faccia dell’indipendenza della giurisdizione, nel senso che:
- in una prima accezione, l’imparzialità è definibile come la mancanza in capo al giudice di un interesse proprio in causa, come descritto dalle norme in tema di astensione e ricusazione contenute nel cpc e nel cpp: in presenza di legami più o meno diretti con le parti in causa o con il tema della controversia, il sistema prevede i rimedi dell’astensione e della ricusazione;
- in una più ampia accezione, l’imparzialità rimanda alla necessità che la lettura dei fatti di causa e l’interpretazione delle norme che li regolano sia compiuta dal giudice senza “prendere parte” ad alcuna delle posizioni in conflitto e senza influenze esterne.
Negli ultimi mesi, proprio questa seconda accezione è stata richiamata in modo veemente da esponenti dell’Esecutivo e del Parlamento per sostenere la “parzialità” di taluni giudici in servizio presso le sezioni specializzate in materia di protezione internazionale: parzialità che sarebbe attestata dalla risalente partecipazione a manifestazioni pubbliche ovvero a convegni di studi coinvolgenti il tema della protezione internazionale, sì che, in sostanza, questi giudici, avendo espresso pubblicamente opinioni “a favore” di persone migranti, non sarebbero più in grado di applicare imparzialmente le norme in materia ma sarebbero portatori di un “pregiudizio” favorevole all’accoglimento delle domande di richiedenti asilo o comunque di persone migranti.
A prescindere dalle modalità di tali interventi – modalità già efficacemente censurate in molte sedi, alle quali si può qui rinviare –, va poi ricordato che altri interventi, pur se critici rispetto all’irruenza governativa lesiva dell’equilibrio tra poteri proprio dello Stato di diritto, hanno sottolineato, in particolare in riferimento alla partecipazione a manifestazioni pubbliche, come il giudice sia tenuto non solo a essere, ma anche ad apparire imparziale, e debba quindi evitare di presenziare non solo a manifestazioni di partito, ma anche a occasioni pubbliche di palese critica all’Esecutivo.
Entrambe queste due posizioni mi sembrano il portato di una semplificazione che non regge a un’analisi più approfondita.
Per un primo verso, infatti, la figura di un giudice tabula rasa di fronte al caso da decidere si scontra in modo netto proprio con le più recenti acquisizioni in tema di specializzazione degli uffici giudiziari e della connessa prevedibilità delle decisioni.
Nessuno, credo, potrebbe più oggi sostenere che il giudice civile il quale faccia riferimento, nel corso della trattazione della causa, a orientamenti di settore consolidati “anticipi il giudizio” (e sia quindi ricusabile), come ancora invece si ripeteva in modo tralaticio nel secolo scorso: e ciò anche a fronte di innesti normativi più o meno recenti, che disegnano nel cpc la figura di un giudice chiamato, in molteplici occasioni, a evidenziare alle parti le questioni da dibattere e anche legittimato a formulare proposte di conciliazione – che non possono «costituire motivo di ricusazione o astensione» ex art. 185-bis cpc – se del caso fondate su di una valutazione del rischio di lite ispirata da orientamenti consolidati.
Si può, dunque, sgombrare il campo dalle censure di parzialità mosse a magistrati che partecipino a occasioni di studio o di dibattito concernenti la materia di cui si occupano nell’esercizio delle loro funzioni: occasioni che, lungi dal poter evidenziare un pregiudizio decisorio, sono di per sé gradini di quel percorso verso la formazione di orientamenti prevedibili cui tende l’intero sistema.
E, ovviamente, questo discorso vale quale che sia il settore interessato – l’ampiezza del diritto di controllo del socio di srl, la misura del risarcimento da danno biologico, la nozione di “Paese sicuro” – e quale che sia il grado di “sensibilità” della materia rispetto ai programmi del Governo e alla propaganda dei partiti politici.
Ma, anche lasciando il terreno meno accidentato della partecipazione a dibattiti tecnico-giuridici, la censura di parzialità – quantomeno apparente – mossa a giudici che “manifestino” le loro opinioni in occasioni pubbliche si rivela a mio parere inconsistente.
Posto che l’attività interpretativa è un’attività umana e che ciascun essere umano è portatore di orientamenti, convinzioni religiose o laiche, passioni, idiosincrasie, l’interpretazione sarà infatti imparziale: non tanto in quanto il giudice si astenga, nella sua vita pubblica, da qualsiasi manifestazione di opinioni o convinzioni; ma in quanto il giudice, nella valutazione del caso concreto, prenda cognizione dei propri orientamenti e del proprio vissuto e li ponga a confronto con il sistema normativo, oggettivando il risultato interpretativo nella motivazione della decisione, soggetta a impugnazione su ricorso delle parti e, dunque, valutabile, proprio in quanto oggettivata, da un altro giudice nonché liberamente criticabile dall’opinione pubblica in riferimento alla sua adesione o meno al quadro normativo.
Connotare in altro modo l’imparzialità nell’attività interpretativa riconducendola a comportamenti personali del giudice porta, invece, a risultati incongrui e ingiustificatamente limitativi delle libertà costituzionali della persona del giudice. Pensiamo a un giudice che manifesti le proprie convinzioni religiose frequentando pubblicamente luoghi di culto o anche appartenendo ad associazioni confessionali: forse che dovrebbe, per questo, astenersi dal decidere casi che coinvolgano temi sui quali la confessione di appartenenza professa convinzioni opposte al tenore di norme statuali?
In altre parole: indipendenza, soggezione alla legge, requisito di imparzialità non portano limitazioni all’esercizio da parte del giudice delle libertà costituzionali, ma gli impongono, nell’esercizio dell’attività interpretativa, di rapportare la decisione al sistema normativo, quali che siano le sue convinzioni in materia e quali che siano state le modalità di loro esternazione nel suo vissuto pubblico e privato, salvo le ovvie conseguenze su altri piani, laddove tali modalità eccedano i limiti posti dalle leggi penali ovvero dalle norme disciplinari e dai principi deontologici[1].
Né queste conclusioni possono, a mio parere, essere smentite da recenti riflessioni (e analoghe proposte di modifica costituzionale) sulla necessità di «superamento del principio di sottoposizione del giudice solo alla legge» in favore di una legittimazione del giudice imperniata sul «rapporto di fiducia che si instaura con i cittadini»[2]: superamento che, col collegare l’esercizio della giurisdizione alle «istanze della collettività in materia di amministrazione della giustizia», pare scardinare interamente il principio di indipendenza della giurisdizione e, con esso, quello dell’imparzialità del giudice, quasi richiamando – al di là, penso, delle intenzioni dell’oratore – la legittimità di influenze esterne rispetto alla decisione del singolo caso, secondo caratteri ben noti fin dal Vangelo[3] e certo non risolventisi in una più appagante tutela dei diritti di ciascun appartenente alla collettività.
1. Sul tema della rilevanza disciplinare di esternazioni “politiche” di magistrati, cfr. la recente sentenza della Corte Edu Danilef c. Romania (ric. n. 16915/2021), del 28 febbraio 2024, e un primo commento di F. Buffa, In tema di sanzione disciplinare al giudice che posta messaggi politici su Facebook: la CEDU condanna la Romania per violazione del diritto alla libertà di espressione, in Questione giustizia online, 26 marzo 2024 (www.questionegiustizia.it/articolo/danilet-romania).
2. Così si legge nell’intervento del 25 gennaio 2024 all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Corte di cassazione, del Vicepresidente del Csm Fabio Pinelli.
3. Luca, 23: «13 Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, 14 disse: “Mi avete portato quest’uomo come sobillatore del popolo; ecco, l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate; 15 e neanche Erode, infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. 16 Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò”. 17 . 18 Ma essi si misero a gridare tutti insieme: “A morte costui! Dacci libero Barabba!”. 19 Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio.20 Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. 21 Ma essi urlavano: “Crocifiggilo, crocifiggilo!”. 22 Ed egli, per la terza volta, disse loro: “Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò”. 23 Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. 24 Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. 25 Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà».