Magistratura democratica

Neutralità o imparzialità? Un sentiero storico-giuridico

di Irene Stolzi

Il contributo affronta in prospettiva storica la questione dell’imparzialità del giudice. Traccia, in particolare, un sintetico itinerario che, muovendo dalla visione di Beccaria e arrivando al presente, tenta di collocare le differenti declinazioni ricevute dal tema della imparzialità all’interno di un discorso più generale, avente ad oggetto la relazione tra le diverse fonti del diritto.

L’idea che l’imparzialità del giudice possa (e debba) identificarsi con l’attivazione di un ragionamento di tipo esclusivamente logico-meccanico trova, come noto, significative espressioni in alcune visioni dell’Illuminismo giuridico europeo. Sono celebri, in proposito, alcune pagine del «Dei delitti e delle pene» nelle quali Beccaria, descrivendo la patologica situazione dei sistemi di giustizia penale a lui coevi, identifica le condizioni che, a suo dire, avrebbero garantito una maggiore efficienza (e anche una maggiore umanità) della macchina repressiva. Il censimento delle disfunzionalità è chiaro e impietoso: un insieme farraginoso di norme, provenienti dalle più differenti fonti e stratificatesi nei secoli senza un preciso ordine; un coacervo, egualmente intricato e alluvionale, di opinioni di giuristi e sentenze di giudici che contribuivano a rendere il sistema regolativo un’autentica selva nella quale era difficile orientarsi e che sembrava rendere possibile qualunque esito processuale. Quello della certezza è, come ugualmente noto, un problema tipicamente settecentesco: via via che le società diventavano più mobili ed economicamente intraprendenti e prendeva forma la spinta verso un diritto eguale per tutti; via via che si consolidava la spinta accentratrice degli Stati e cresceva l’insofferenza verso il vecchio ordine di ceti e corpi, anche le molteplici e spesso disordinate nicchie normative tipiche di quell’ordine iniziavano a mostrare la loro inadeguatezza. Dinanzi ad un tale scenario, la risposta di Beccaria – simile, in questo, anche ad altre (ma non a tutte) espressioni dell’Illuminismo – è chiara: a emergere è una contrapposizione netta, manichea, tra la legge e il giudice, tra il simbolo positivo del mondo avvenire (la legge) e l’emblema decrepito del mondo passato (il giudice). La dialettica tra legge e giudice viene, cioè, disegnata nei termini dell’insanabile divario tra la voce oggettiva della ragione, di cui la legge sarebbe stata espressione, e le manifestazioni di un soggettivismo nocivo, dipendente da fattori del tutto imprevedibili e arbitrari («una buona o cattiva logica (…) una facile o malsana digestione (…) la violenza delle (…) passioni»). 

Dinanzi alle leggi – poche, certe e chiare vagheggiate dalla riflessione illuministica –, il giudice, per Beccaria, doveva essere autore di un «sillogismo perfetto», ovvero esprimere un tipo di ragionamento che, a fronte di due premesse, ammettesse una sola soluzione logicamente obbligata. Nella sua visione, la premessa maggiore è rappresentata dalla legge, la minore dal fatto concreto sul quale il giudice è chiamato a giudicare, la conclusione – appunto logicamente obbligata – dalla sentenza che stabilisce la libertà o la pena. Questo tipo di percorso non prevede, e soprattutto non ammette, spazio alcuno per l’apprezzamento o la valutazione del giudice: riaprire – anche nel solco tracciato dalla legge – un tale spazio avrebbe significato, per Beccaria, esporre di nuovo gli ordinamenti al «torrente delle opinioni», rendendo vano ogni sforzo orientato a garantire una maggior prevedibilità delle decisioni. Tra la «costante e fissa voce della legge» e la deriva soggettivistica, tertium non datur: il giudice incarna in maniera adeguata il suo ruolo se si limita a ribaltare meccanicamente la fattispecie astratta su quella concreta.

Da molte prospettive, successivamente, è stata evidenziata l’ottimistica fallacia di una simile ricostruzione: la sussunzione, per quanto meccanica, richiede almeno la qualificazione del fatto e l’identificazione della norma più adeguata a regolarlo, richiede, in sostanza, l’attivazione di un’intelligenza diversa, di tipo in senso lato valutativo. Questo non vuol dire, evidentemente, che Beccaria fosse un folle o un ingenuo. Semplicemente, è figlio del proprio tempo. Ed è in buona compagnia. È vero che le sue teorie guardano al diritto penale, a un diritto cioè che richiede più di altre branche del giure – ora come allora – una chiara e tassativa identificazione legislativa dei reati e delle pene, ma è anche vero che la passione per la legge e, con essa, l’idea che la legge possa divenire la fonte tendenzialmente unica del diritto tiene a battesimo la modernità giuridica continentale. 

In particolare, ad affermarsi, nel tornante storico successivo alla Rivoluzione francese, è un modello di convivenza che è stato recentemente compendiato da Maurizio Fioravanti ricorrendo all’immagine del cerchio, di una figura geometrica che ha un unico centro (lo Stato) e tanti punti sulla circonferenza (gli individui), tutti uguali gli uni agli altri e tutti collocati alla stessa distanza dal centro. Un modello dunque fortemente polarizzato, che ambisce a strutturare lo spazio giuspolitico intorno a due soli protagonisti (lo Stato e gli individui) e a svuotare la zona intermedia da quella ragnatela di ceti e corpi caratteristica della realtà di Ancien Régime. Non solo: un simile modello presuppone e al tempo stesso promuove anche una nitida separazione di sfere e competenze. Vi è un diritto pubblico che si occupa prevalentemente dei poteri dello Stato e della loro organizzazione, e un diritto privato che si occupa di regolare i movimenti di una società concepita soprattutto come mercato, come luogo nel quale prende corpo una interazione competitiva tra individui formalmente eguali. La legge, tematizzata come comando generale e astratto proveniente dallo Stato e avente per destinatari individui, non è, a ben vedere, che la traduzione sul piano delle fonti di questa nuova concezione del mondo. La sua centralità si lega a (ed esprime un) duplice processo liberatorio: la legge, accreditando lo Stato quale produttore tendenzialmente monopolista del diritto, segnala l’avvenuta liberazione dello Stato stesso dai lacci cetuali e corporativi; al tempo stesso, la legge restituisce anche una nuova idea dell’individuo, concepito adesso uti singulus, ed egualmente liberato dalle precedenti appartenenze cetuali o corporative. «La legge», dispone solennemente l’art. 6 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, «è uguale per tutti, sia che protegga sia che punisca»: considerata da alcuni storici l’autentico inizio della modernità giuridica continentale, questa norma insedia negli ordinamenti il principio di eguaglianza giuridica formale e contribuisce a radicare l’idea che, dinanzi a questa nuova centralità della legge, il giudice non possa che assumere – lo si dirà tra un attimo – l’identità di mera bocca della legge. Il giudice cui tende la Rivoluzione francese, ma anche i vari assolutismi illuminati europei, è un giudice-funzionario: non più espressione di un’autonoma legittimazione professionale (nella realtà di Ancien Régime la carica di giudice era ereditaria e/o venale), ma figlia della nuova organizzazione statuale, il giudice assume le sembianza dell’emissario di una legge che proviene dallo Stato e deve arrivare agli individui. 

Non solo: la legge, concepita quale espressione di una volontà qualificata (che sia la volontà generale di cui parla lo stesso art. 6 o quella di un sovrano illuminato), viene per questo considerata anche la custodia più affidabile per la tutela dei diritti e delle libertà individuali. Diritti, legge, Stato non vengono dunque considerati come espressioni potenzialmente confliggenti, ma appunto come capitoli di un unico, positivo, processo di rinnovamento. Si sarebbero dovute aspettare – lo si nota per inciso – le esperienze dittatoriali infrabelliche per entrare in contatto con una legge dal volto persecutorio e liberticida, e per immaginare alcune possibili risposte a simili derive, prime tra tutte le costituzioni rigide e la presenza di un giudice delle leggi. 

Ma torniamo al codice genetico della modernità giuridica continentale: l’anima legicentrica ne costituisce un tratto saliente e ha una proiezione cronologica che supera di molto – lo si vedrà tra un attimo – i confini temporali della stagione che le ha dato i natali. Il che ha determinato uno slittamento progressivo di significati: da strumento di fondazione (così in Beccaria) di un ordine ancora di là da venire a strumento di consolidamento di un ordine da poco insediato. Uno degli emblemi di questo nuovo modo di guardare alla legge e, di conseguenza, alle altre fonti del diritto, è considerato l’art. 4 del codice civile francese («Se un giudice ricuserà di giudicare sotto pretesto di silenzio, oscurità o difetto della legge, si potrà agire contro di lui come colpevole di denegata giustizia»). La storiografia, in proposito, ha messo in luce due aspetti rilevanti. Il primo: questa norma era stata pensata, originariamente, in connessione con un’altra, contenuta nel titolo preliminare del codice, che autorizzava il giudice a ricorrere all’equità in caso di lacuna od oscurità delle norme. Il secondo: la scomparsa del titolo preliminare dal testo definitivo del codice ha reso possibile una lettura claustrofobica dell’art. 4, nel quale si è vista la norma che sancisce la completezza del codice e, con essa, l’obbligo del giudice di trovare all’interno del codice stesso la soluzione per qualunque caso, presente e futuro. Una lettura che, nata dall’esigenza di enfatizzare l’autosufficienza della legge e di comprimere il ruolo dell’interprete, ha finito per produrre – come autorevolmente notato – un effetto contrario. In particolare: l’obbligo del giudice di agganciare a una norma del codice le sue decisioni ha condotto a valorizzare proprio il ragionamento giudiziale, ogni volta in cui la sussunzione del fatto sotto una certa norma non appariva così immediata e richiedeva invece l’esplicitazione del percorso interpretativo seguito. Una rivincita surrettizia, si potrebbe dire, del ruolo del giudice. 

Altri codici del 1800 e anche del 1900 seguono una strada diversa ed è una strada che ammette uno spazio interpretativo, ma al tempo stesso lo guida, lo orienta, ne gradua l’estensione. È la soluzione adottata, ad esempio, dall’art. 3 e dall’art. 12 delle preleggi, rispettivamente, del codice civile italiano del 1865 e di quello del 1942. In estrema sintesi: è il codice stesso a identificare il percorso che l’interprete deve seguire per cercare la regola che serve alla soluzione del caso. I gradini individuati ampliano, progressivamente, il raggio dei riferimenti ammessi: interpretazione letterale, analogica, ricorso ai principi generali («del diritto», secondo la dizione del codice del 1865; «dell’ordinamento giuridico dello Stato», secondo quello del 1942). Il codice, insomma, resta la norma che traccia la rotta, che individua le condizioni che permettono (finché possibile) di ampliare la propria capacità regolativa o che autorizzano a gettare lo sguardo extra moenia in direzione dei principi. Si potrebbe anche dire: l’interpretazione è ammessa, ma solo in caso di prestazione difettosa (lacuna, oscurità) della legge. 

Certo, soprattutto dall’ultimo ventennio dell’Ottocento si riprende a riflettere sul ruolo dell’interprete e, come sempre, la cronologia non è casuale: la Seconda rivoluzione industriale mette in crisi molte certezze e sollecita la ricerca di nuove soluzioni anche dal punto di vista giuridico (si pensi al problema degli infortuni sul lavoro e alla nascita delle assicurazioni sociali obbligatorie). Soprattutto, mostra in maniera chiara come anche le norme – al pari di ogni umana cosa – siano soggette all’usura del tempo e perciò progressivamente meno capaci di regolare i fatti nuovi della vita. La fioritura di differenti riflessioni sull’interpretazione – da Saleilles a Geny, dalla Scuola del diritto libero alla voce di alcuni giuristi italiani – ha, in questo periodo, un denominatore comune: l’interprete, e dunque anche il giudice, viene visto come colui che contribuisce a legare norma e vita, come colui che, attraverso il suo lavoro, rallenta l’invecchiamento della norma, rendendola capiente anche rispetto alla regolazione di fattispecie non previste né prevedibili al momento della sua formulazione. L’interprete, in sostanza, svolge sempre una funzione di soccorso alla norma, ma si accredita non come presenza occasionale o eventuale (e rigorosamente limitata alle ipotesi previste dalla legge), ma come presenza stabile, stabilmente impegnata a connettere norme e vita, e a mettere in luce, per questa via, la fissità (solo apparente?) della norma. 

Questo scenario subisce una profonda trasformazione col XX secolo. Sarà soprattutto la Grande guerra – la «vera fine del XIX secolo», secondo la suggestiva immagine di Tullio Ascarelli – a seppellire, sotto la pressione dell’emergenza, buona parte del mondo precedente. Anche la legge cambia volto: non più garante della non interferenza tra privato e pubblico, essa riflette il nuovo impasto tra le due dimensioni, diventa espressione di un potere che interviene massicciamente in materia economica e sociale e che cambia, di conseguenza, modelli e statuti di azione. Uno Stato che – al lucidissimo sguardo di Capograssi – appare, al tempo stesso, più forte e più debole: più forte nella sua nuova veste “interventista”, ma anche più debole, non solo perché a rischio di rimanere vittima della propria ipertrofia, ma anche perché accerchiato da una società crescentemente organizzata e crescentemente conflittuale, strutturata ormai intorno a blocchi di interessi economici, sociali e politici («ora come in preda a un terrore folle, abbassando le armi dinanzi al nemico, e piegando la testa a ogni tirannia, ora come rapito da un odio cieco per le libere creazioni del volere stritolando nel suo pugno di ferro le mille forme spontanee e attive della vita sociale»). 

È in questo momento che si consuma una prima, decisiva relativizzazione, quanto meno dal punto di vista teorico. Giuristi diversissimi per formazione e sensibilità ideale segnalano l’esigenza di ripensare la stessa nozione di diritto. Non solo il Santi Romano de «L’ordinamento giuridico» con la teoria della pluralità degli ordinamenti, ma anche il Cesarini Sforza de «Il diritto dei privati», così come la riflessione capograssiana sul concetto di esperienza giuridica, portano tutti stesso punto: il diritto non è solo quello scritto nella legge e in generale nelle norme formalmente poste. Il diritto ha un’identità che fa capo a una differente genealogia: è realtà tipica e insopprimibile di ogni gruppo sociale organizzato, dal più semplice al più complesso, dalla famiglia allo Stato. È una dimensione ordinante irrinunciabile: non esiste convivenza senza regole e il giurista deve allargare il suo sguardo oltre il terreno del diritto ufficiale e statuale. Lo Stato resta in una posizione di indiscussa supremazia e può anche decidere di mettere fuori legge o di non “vedere” ordinamenti diversi dal proprio, ma ormai si presenta come parte di una galassia più ampia, teoricamente disvelata, che ha, per virtù propria (a prescindere cioè dal riconoscimento statale) il carattere della giuridicità. 

Simili acquisizioni non sono, evidentemente, prive di esiti sul tema che ci occupa: l’interprete deve acquisire consapevolezza di questa nuova complessità che tende ad allargare il novero delle fonti del diritto. E ancora: deve acquisire dimestichezza con un elemento a lungo (dolosamente?) pretermesso dallo spettro semantico del diritto (e quindi escluso dallo stesso campo visuale dei suoi operatori). Deve, in poche parole, affrontare la questione dell’elemento teleologico nel diritto. Mi spiego: le regole giuridiche esprimono sempre una certa visione del mondo e dunque non sono mai neutrali. La modernità giuridica, anche grazie al nitore teorico delle sue categorie, aveva potuto ammantare di oggettività i propri assunti e le proprie norme presentandole, a seconda dei casi, come derivanti dalla natura stessa dell’uomo o come espressione di un ragionamento logico-dogmatico munito, in quanto tale, di ferrea evidenza. A prendere forma era dunque una catena di neutralità: alla voce oggettiva della legge faceva riscontro la voce oggettiva dei suoi operatori, del giudice in primis, che della oggettività legislativa doveva essere garante e sacerdote. 

Noi sappiamo bene che questa visione non aveva nulla di oggettivo o di neutrale, e che anzi i suoi principali corollari (la separazione netta tra Stato e società; il richiamo a una nozione meramente formale di eguaglianza; la celebrazione dell’autonomia proprietaria e contrattuale) erano funzionali allo sviluppo delle società borghesi e al consolidamento di un certo assetto delle gerarchie sociali. Ma, sia pure con qualche cedimento, questa rappresentazione tiene, nel suo complesso, fino al XX secolo. Il Novecento fa saltare il banco proprio perché mostra un panorama, non più eludibile, di intersezioni, interazioni e sovrapposizioni tra dimensioni (privato e pubblico; giuridico, politico ed economico, etc.) che fino a quel momento si erano immaginate separate. Il Novecento impone, in sostanza, di cercare le strade che elevino questo tessuto di relazioni a elemento fondativo (e non più turbativo) dell’ordine. L’ordine, insomma, diventa possibile e pensabile in quanto esista e venga identificato un insieme di contenuti, valori, finalità chiamati a legare e indirizzare la condotta degli attori privati, sociali e pubblici. Lo stesso Stato non si presenta più quale voce di una sovranità politicamente non orientata, ma diventa concepibile, secondo la felice espressione di Mortati, solo come «unità teleologica», solo se capace di farsi portatore di una determinata visione del mondo.

Anche per questo, totalitarismi e democrazie sono due fenomeni tipicamente novecenteschi. Sia pure ispirate, come ovvio, a valori speculari, entrambe queste esperienze ci restituiscono l’immagine di un ordine che si costruisce a partire dalla relazione tra le sue differenti dimensioni (gli individui, i gruppi sociali, lo Stato) e dall’identificazione di un complesso di valori e principi chiamati a orientarne il movimento. Ed entrambe queste esperienze riversano la crescente complessità del contesto anche in un’estensione del territorio delle fonti, estensione che non risparmia neppure il ruolo previsto per interpreti e giudici, immaginati da ora in poi come elementi attivi nella perpetuazione e attuazione di quei valori e principi. 

Nelle concezioni ed esperienze totalitarie (o “a vocazione totalitaria”, se si preferisce questa espressione) il discorso sulla pluralità delle fonti assume, come è facile intuire, connotati particolari. Anche senza arrivare agli estremi della Germania nazionalsocialista – il giudice che può creare fattispecie di reato non previste ispirandosi al “sano sentimento del popolo” –, nell’Italia fascista la pubblicistica di regime teorizza la necessità di un ridimensionamento del ruolo della legge. La legge, come ovvio, non scompare, ma si trova collocata in una scala di fonti più ampia che ha per vertice i principi generali e alla base fonti più vicine ai rapporti da regolare (le fonti corporative, le sentenze dei giudici, i provvedimenti degli amministratori). Le novità non sono da poco. La prima: i principi generali – cui vengono dedicati anche importanti studi collettanei agli inizi degli anni quaranta – non sono più concepiti, come nel testo delle preleggi, nelle vesti di extrema ratio, dell’ultima istanza cui l’interprete può attingere in caso di persistente lacuna della legge, ma diventano una fonte sovraordinata alla legge che ne deve ispirare i contenuti e orientare l’interpretazione (in questa ottica inedita, nel 1941, vengono riconosciute quali principi generali dell’ordinamento le dichiarazioni della Carta del lavoro, considerata da molti la tavola di valori del fascismo corporativo). La seconda novità: l’apertura ad altre fonti del diritto e il conseguente ridimensionamento del ruolo della legge non servono ad attenuare il tasso di statualità del diritto, a dar voce a istanze normative diverse da quelle facenti capo allo Stato (la legge è la fonte statuale per eccellenza), ma servono allo scopo esattamente contrario. Servono, in coerenza con la vocazione totalitaria del fascismo, a portare lo Stato ovunque, a far penetrare capillarmente, in ogni rivolo della convivenza, l’ideologia del regime, la visione del mondo di cui il regime si fa latore. Amministratori, giudici, organismi corporativi diventano tutti, in questa logica, gangli rilevanti, emissari preziosi per garantire una tentacolare penetrazione ideologica del regime all’interno della società (che poi non sia stato questo il ruolo effettivamente svolto dalla magistratura negli anni del fascismo è un altro discorso, evidentemente). «[D]appertutto», nota un vigile Jemolo nel 1932, «si inneggia (…) al giurista, al giudice, il quale partecipa della vita del suo tempo (…) interpreta i bisogni della società in cui egli vive (…) in luogo della fedeltà alla norma (…) si chiede a lui la fedeltà all’idea politica e sociale animatrice dello Stato, e che il potere sovrano incarna e proclama».

Le ipoteche di simili concezioni sulla successiva storia non sono, anche su questo fronte, irrilevanti. Lo nota con estrema chiarezza Carnelutti nel 1952: non appena la scienza giuridica aveva cominciato ad avvertire e rilevare l’equivoco dell’identificazione del diritto con la legge, «è succeduta la catastrofe; e purtroppo siamo tornati indietro, e così ora in Italia sembrano termini indissolubili legge e democrazia anziché diritto e democrazia».

Le opzioni non legalistiche, insomma, avevano ricevuto una declinazione specifica, e contestabile, negli anni del regime, di modo che si aveva difficoltà ad abbandonare la tradizionale identificazione tra diritto e legge tipica della modernità giuridica (e, con essa, l’idea di un giudice mera bocca della legge). A ciò si aggiunge la tendenza, anche da parte di molti giuristi, a vedere nel fascismo una parentesi, una stagione da isolare dal corso della storia italiana: un modo, questo, non solo per archiviare venti anni di regime, ma per rinviare, più in generale, l’incontro con la peculiare complessità del Novecento, anche di quello democratico, e per riproporre un’idea semplice e rassicurante delle stesse fonti del diritto. Ne è prova il modo tiepido con cui fu accolta la Costituzione repubblicana, cui si ebbe difficoltà a riconoscere, fin da subito, una portata compiutamente normativa. A volte, però, la storia aiuta con le date. E qui basta citarne una: il 1956. È l’anno della prima sentenza della Corte costituzionale, rilevante non solo perché segna un imprescindibile dies a quo nel processo di attuazione della Carta fondamentale, ma anche perché, con quella sentenza, la Corte fissa i margini del proprio sindacato estendendolo alle norme entrate in vigore prima della Costituzione e riconoscendo la capacità abrogante delle norme costituzionali cd. programmatiche. Un modo, dunque, per legittimare la funzione di setaccio della Corte anche sulle molte norme emanate negli anni del fascismo e ancora vigenti alla metà degli anni cinquanta. Ma il 1956 è anche l’anno nel quale Piero Calamandrei difende Danilo Dolci: autore, insieme ad alcuni poverissimi abitanti di un borgo siciliano, di una singolare e pacifica protesta (riparare gratuitamente una strada dissestata), Dolci finisce imputato in un procedimento penale per effetto della perdurante vigenza del Testo unico di pubblica sicurezza del 1931. Dalle parole di Calamandrei non emerge solo il richiamo all’eterno contrasto tra Creonte e Antigone, ma l’invito, rivolto ai giudici, a partecipare alla «bonifica costituzionale» dell’ordinamento e a ripudiare una «legalità decrepita», quella del Testo unico del 1931, per abbracciare la nuova legalità costituzionale e il complesso di valori da essa veicolato. Invito tanto più significativo se si pensa che proviene da un giurista che, al principio degli anni quaranta, si era pronunciato per la legalità a tutti i costi (forse anche con l’intento di proteggere l’ordinamento da esiti analoghi a quelli della Germania nazionalsocialista e del giudice interprete del sentimento popolare) e che era poi tornato a più riprese su questo tema cruciale del rapporto tra legge e giudice. Sarebbero poi stati gli stessi magistrati a Gardone, nel 1965, a far sentire la loro voce e a porre l’accento sulla necessità di dare un’interpretazione delle norme coerente con la portata della Costituzione. 

Per chi, come me, si occupa di storia del diritto, questo potrebbe (forse: dovrebbe) essere il momento di chiusura della breve riflessione consegnata a queste pagine. Mi permetto, in conclusione, solo qualche considerazione. Si discute, almeno da una ventina d’anni, di un diritto formulato anche per principi e che dia più spazio alle clausole generali. Mi pare un dibattito rilevante dal quale poter trarre indicazioni importanti. La regolazione per principi e per clausole generali, infatti, presuppone e al contempo promuove una diversa relazione tra legislatore e interprete (giudice in testa). Si tratta infatti di una tecnica di normazione che contempla fin dall’inizio, fin dal momento della enunciazione della norma, il necessario apporto dell’interprete, dal momento che la portata precettiva della norma stessa può essere identificata solo grazie al successivo contributo dell’interprete (si pensi all’impatto della rivoluzione digitale sul concetto di buona fede). Legislatore e interprete, cioè, sono immaginati come figure cooperanti e non come figure reciprocamente escludentesi (l’interprete non è legittimato a comparire solo nel caso di lacuna o insufficienza della norma). 

Anche all’interno del dibattito su questi temi, è forse possibile tracciare una linea evolutiva: essenziali strumenti di connessione della norma con la realtà, principi e clausole sono stati inizialmente considerati soprattutto quali elisir di lunga vita delle norme, quali risorse incaricate di massimizzarne la capacità regolativa dinanzi alle trasformazioni della vita. Fin dai primi del Novecento, a essere registrato è infatti un crescente dinamismo delle esperienze (ci accorgemmo - dice Francesco Ferrara nel 1940 - che il diritto non era più «un ordinamento di riposo, a lunga scadenza»). Dinamismo che ha assunto, negli ultimi tempi, caratteristiche iperboliche soprattutto per la rapidità di un mutamento tecnologico che sembra condannare tutto (anche gli assetti regolativi?) a una precoce e inevitabile obsolescenza. A emergere è sovente un diritto che arranca, che rincorre una realtà che va più veloce delle regole esistenti. Con una importante e ulteriore conseguenza: questo diritto che spesso arriva dopo, tende ad assumere soprattutto carattere sanzionatorio, a vietare e reprimere gli effetti negativi di fenomeni che si sono già prodotti nell’esperienza concreta. 

Accanto a tale funzione – allungare la vita alle norme –, che resta intatta, mi pare si sia fatto strada un duplice movimento: da un lato, il riferimento alla irrinunciabilità della legge e in generale delle fonti eteronome, anche rispetto a fenomeni di autonomia normativa che in contesti, come quelli attuali, caratterizzati da una crescente asimmetria di forza economica e sociale, rischiano di tradursi nella celebrazione della legge del più forte (il mercato globale ha ben mostrato esiti di questo tipo); dall’altro lato, e in maniera non contraddittoria, la consapevolezza che sia impossibile (e dannoso) regolare tutto con la legge. Il risultato di questa tentazione – regolar tutto per legge – è sotto gli occhi di tutti: una selva sterminata di precetti nella quale è difficile orientarsi. Di modo che, negli ordinamenti attuali, il problema dell’incertezza del diritto sembra legarsi anche alle caratteristiche di un tessuto legislativo ipertrofico e, non di rado, contraddittorio. La certezza, inseguita dal pensiero illuministico attraverso l’idea della centralità della legge, sembra adesso messa in pericolo proprio dalla fisionomia assunta dall’universo legislativo. Così, quando nelle realtà attuali si invoca il pluralismo giuridico, mi sembra che non si auspichi la sostituzione di un monismo (il diritto legislativo) con un’altra forma di monismo (il diritto dei giudici), ma si intenda chiamare a raccolta tutte le risorse regolative immaginando un loro ingranaggio necessario, una loro necessaria interazione. Serve la legge, per le ragioni che si sono dette, ma serve anche l’istanza giudiziaria, capace di captare in presa diretta le trasformazioni della realtà e di raccordare i casi alle norme di legge, ma anche ai principi, così come risultanti dalla carta costituzionale e dalle interpretazioni delle corti che dialogano coi testi in senso lato costituzionali (nazionali e sovranazionali). Come è stato detto autorevolmente, dovrebbe prendere forma un «concerto a più voci» (M.R. Ferrarese) che non può rinunciare, nella complessità delle realtà odierne, a nessun apporto.

Ma cosa ha a che fare questo con l’imparzialità del giudice? Se, come molte teorie sull’ermeneutica hanno messo in luce, quello della neutralità non è solo un miraggio, ma anche un pericoloso paravento per avallare soluzioni contrarie ai principi dello Stato di diritto; se non esistono le regole – intese come espressioni semi-oracolari provenienti da un territorio astratto dalla realtà –, ma esistono le scelte regolative, la scelta, cioè, di regolare in un dato modo un certo fenomeno; se dunque ogni regola, quale che sia la fonte da cui promana, è sempre espressione di una determinata visione del mondo, è sempre ancorata a un determinato tessuto valoriale; e infine: se il giudice non è, e soprattutto non deve essere, un automa, ma un interprete qualificato dell’universo normativo e del tessuto valoriale di cui quell’universo è espressione, dobbiamo rassegnarci a una inesorabile parzialità del diritto e dei suoi operatori? O anche: l’impossibile neutralità (della legge, del giudice) rende inevitabile la parzialità? La risposta è positiva, se per “parzialità” si intende l’adesione a quello che si è chiamato il tessuto valoriale cui è ancorata una determinata esperienza storica e che è tracciato nelle sue linee portanti dalla Costituzione. La risposta è, chiaramente, negativa se per “parzialità” si intende l’adesione pregiudiziale a uno schema in senso ampio ideologico che condiziona l’intero ragionamento del giudice. L’imparzialità appare possibile (e dovuta) anche una volta tramontata l’illusione del sillogismo. Essa non risiede certo nelle circolanti proposte di ricorso agli algoritmi che non solo incorporano, come messo in luce dalla letteratura in materia, l’insieme di pregiudizi circolanti in una società, ma che si presentano come congegni per loro natura conservatori, capaci, come sono, di apprendere solo dai casi del passato con i quali sono stati “allenati”. 

Ma non risiede neppure, l’imparzialità, nella neutralizzazione della soggettività ideale del giudice. L’imparzialità, verrebbe voglia di dire, abita altrove. Riprendendo un parallelismo tante volte sondato – quello tra il giudice e lo storico –, l’imparzialità sta nella vigilanza serrata sulla qualità del proprio ragionamento e sull’ampiezza e affidabilità delle fonti utilizzate; sta nel dialogo, ugualmente serrato, con la «comunità ermeneutica» (Lipari) cui si appartiene e nella disponibilità alla revisione e all’autocritica; sta nel rispetto di quei diritti e di quelle garanzie che hanno costituito pietre miliari nei processi di civilizzazione degli ordinamenti; sta, infine, nel rifiuto di ogni sovrainterpretazione del proprio ruolo; sta, in poche parole, in una cultura delle regole che sa confrontarsi, al tempo stesso, con la forza e con i limiti del diritto. Con la forza: con la consapevolezza che il diritto rappresenta un imprescindibile strumento per ordinare le convivenze e identificare la tavola dei loro valori fondativi. Ma anche con la consapevolezza che l’attività di attuazione del diritto può avere un impatto enorme nella vita delle persone coinvolte da tale attività. Con i limiti: se ogni ordinamento che si professi democratico deve garantire l’accesso alla giustizia e alla stessa possibilità di contestare la decisione di un giudice, e se la qualità di tali procedure si riflette in maniera significativa sulla dimensione sostanziale dei diritti, vi sarà sempre un margine di inefficienza del sistema di regole rispetto alla piena garanzia di una postura di assoluta serietà e severità interiore, necessaria al buon giudicare. Avere piena cognizione del problema e delle sue proporzioni è già, mi pare, un eccellente ausilio per il giudice, un modo per tenere lontana la tentazione di risposte facili a questioni complesse. 

Per questo, anche su un tema incandescente come quello delle cd. correnti della magistratura, sembrerebbe necessario distinguere tra l’uso spregiudicato che se ne può fare e la diversa possibilità di riconoscersi apertamente in un certo orientamento (e anche in una certa concezione del proprio ruolo), nel quadro di una dialettica, ugualmente scoperta, tra posizioni differenti che non dovrebbe intaccare il profilo dell’imparzialità del giudice. La soppressione ex lege di simili presenze scongiurerebbe il rischio di utilizzazioni disinvolte? O ne consentirebbe semplicemente una proliferazione sotterranea?

 

 

*  Questo contributo nasce con un intento prevalentemente divulgativo. Questo spiega la sostanziale assenza di riferimenti bibliografici.