Magistratura democratica

L’imparzialità giudiziale e la sua apparenza nell’esperienza giuridica inglese: uno schizzo

di Mario Serio

Il presente contributo affronta il tema della rilevanza dell’imparzialità giudiziaria nel diritto inglese, al fine di verificarne le conseguenze sul piano della regolarità e legittimità del processo nel caso della sua mancanza o del suo appannamento. Il principio fondamentale è che l’imparzialità implichi, in primo e decisivo luogo, l’assenza di pregiudizi nella mente del giudice, nozione riassunta nell’espressione inglese “bias”. Tipica manifestazione della ricorrenza di una simile condizione è quella dell’esistenza di un interesse, diretto o indiretto, del giudice all’esito del processo. L’indagine si svolge attraverso l’esame della lunga linea di precedenti giurisprudenziali del common law inglese sul tema.

1. Premessa / 2. L’imparzialità giudiziale nel circuito del fair trial / 3. Il progressivo affinamento giurisprudenziale del concetto di imparzialità giudiziale / 4. La titolarità di interesse all’esito del processo come causa di lesione dell’imparzialità del giudice / 5. Se l’apparenza dell’imparzialità possa essere inquinata dalle inclinazioni culturali o dalle opinioni personali dei giudici inglesi / 6. Succinti tratti conclusivi

 

1. Premessa

L’ordinamento processuale inglese ha sempre mostrato spiccata attenzione al tema della fiducia che nei cittadini deve suscitare l’opera di amministrazione della giustizia. In particolare, è stata sempre avvertita preoccupazione nei confronti di comportamenti, situazioni, circostanze rivelatrici di atteggiamenti o posizioni dei titolari di funzioni giurisdizionali tali da dar vita a impedimenti ad una retta e affidabile attività di giudizio, o anche idonei a ingenerare il sospetto o l’apparenza che questa aspirazione possa, in effetti, non realizzarsi. Nel corso della lunga traiettoria giurisprudenziale dipanatasi nel tempo, si è venuta elaborando una nozione riassuntiva delle ipotesi compromissorie del valore dell’imparzialità giudiziale intesa come garanzia del concreto raggiungimento di un risultato di giustizia rispettoso delle regole di equidistanza del giudice rispetto agli interessi delle parti del processo, anche sotto il profilo dell’impressione suscitata dalla sua figura e dalla sua biografia. Il termine “bias” rappresenta, infatti, quel disvalore, da riscontrare caso per caso, che consiste nell’allontanamento, per cause oggetto di rigorosa verifica, dell’operato del giudice dalla fondamentale direttrice di marcia della terzietà. Per quanto varia si sia presentata nel tempo la gamma delle specifiche circostanze la cui presenza può inquinare l’idea di un giusto processo assicurato, in primo luogo, dall’immagine di un giudice lontano dalla contesa e dalle contrapposizioni che vi si agitano, l’essenza della violazione del principio dell’imparzialità, effettiva o apparente, si condensa nell’accertata, o razionalmente presumibile, ricorrenza di un interesse di qualsivoglia natura, diretto o indiretto, patrimoniale o non, del giudice all’esito del processo a lui affidato. A questa impostazione di base continuano a rimanere estranei altri stati soggettivi del giudice, quali quelli riferibili alle sue personali convinzioni in ogni campo di possibile esplicazione della personalità umana, che non si traducano in sintomi assertivi di un suo interesse nel senso prima delineato. Alla breve illustrazione di questa linea giurisprudenziale, che certamente incoraggia meritori slanci emulativi in altri ordinamenti, è dedicato il presente studio, dal quale resta – al contrario – esclusa l’indagine relativa alla rilevanza, sul piano deontologico e disciplinare, della mancata osservanza del dovere di imparzialità.

 

2. L’imparzialità giudiziale nel circuito del fair trial

La prima parte della sezione 6 dello Human Rights Act inglese del 1998, traspositivo in quell’ordinamento della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani del 1950, è intitolata, in simmetria con la disposizione convenzionale, al diritto a un giusto processo («Right to a fair trial»). Essa prevede che, ai fini dell’accertamento delle proprie posizioni giuridiche attive e passive sia in materia civile sia in materia penale, ogni cittadino abbia diritto a un processo equo e pubblico, da svolgersi in un tempo ragionevole e ad opera di un organo di giustizia costituito per legge, indipendente e imparziale[1]. La tecnica, adottata dal legislatore britannico, di assoluta fedeltà alla lettera del testo del 1950 manifesta altresì una piena corrispondenza al relativo spirito che, tra i necessari requisiti atti a qualificare come giusto ogni processo giurisdizionale, annovera quello che l’organo giudicante, oltre che indipendente (e, quindi, posto al riparo da qualsiasi ingerenza esterna), sia imparziale. La mancanza di una definizione legislativa del concetto di “imparzialità” riferito al titolare di funzioni giurisdizionali non offusca certo la potenza del precetto, che possiede una tale energia da precludere la possibilità che, in assenza di un giudice imparziale, possa perfino concepirsi l’ipotesi della celebrazione di un processo giusto. Del resto, la generale conformazione dell’ordinamento inglese come ispirato a una matrice judge made ha reso possibile l’individuazione, per via del consolidamento di coerenti precedenti giudiziari, del significato tipico da attribuire all’espressione «impartial tribunal», utilizzata nel testo normativo del 1998.

Se è vero che l’introiezione nel tessuto ordinamentale inglese dei principi costitutivi della Convenzione europea li ha elevati al rango di parametri attraverso i quali misurare la obbligatoria compatibilità con essa delle disposizioni interne e legittimare i previsti interventi caducatori o di adeguamento nel caso di difformità, è altrettanto vero che è pienamente radicata nella ultrasecolare tradizione del common law d’Oltremanica l’aderenza al connaturale valore dell’imparzialità giudiziale. E questo non solo perché la storia processuale si è costantemente dispiegata in un senso assertivo del relativo dovere incombente sui singoli esercenti funzioni giudiziarie e assicurato anche mediante temutissimi sistemi sanzionatori, culminati nella loro somministrazione da parte della infausta Star Chamber. E, infatti, risiede nella stessa coscienza collettiva la consapevolezza dell’indissociabilità del requisito dell’imparzialità dal corredo morale e professionale di cui deve dotarsi l’opera dell’amministrazione della giustizia. Di questo profondo sentimento, autentico presidio della credibilità del complessivo sistema, ha saputo farsi sensibile e intelligente interprete la stessa giurisprudenza, interpellata circa l’effettivo rispetto in circostanze determinate del precetto.

 

3. Il progressivo affinamento giurisprudenziale del concetto di imparzialità giudiziale

Il tronco che sorregge l’elaborazione giurisprudenziale sul tema dell’imparzialità non ha mai registrato flessioni quanto al ceppo su cui si è insediato, ma si è via via rinverdito di crescenti contributi chiarificatori.

L’analisi che segue è unicamente dedicata alla constatazione delle conseguenze dell’assenza del requisito dell’imparzialità sulla regolarità e legittimità del processo.

Una delle prime manifestazioni di opinioni giurisprudenziali da cui trarre un messaggio di convincente attenzione al tema, declinato sia nella sua versione positiva (affermazione del dovere di imparzialità) sia in quella opposta (divieto di derogarvi), si può facilmente cogliere nel dictum di Lord Hewart in un caso del 1924[2]. Si trattava dell’impugnazione di una sentenza di condanna per lesioni personali conseguenti a un incidente stradale basata sulla circostanza, appresa successivamente alla conclusione del procedimento di prima istanza, che l’assistente di studio dei giudici di primo grado (clerk to justices)[3] appartenesse al medesimo studio legale che aveva inizialmente curato l’azione giudiziaria in sede civile nei confronti dell’imputato. I medesimi giudici di primo grado chiarirono, in virtù di una dichiarazione scritta acquisita agli atti di quello successivo, che l’assistente non era intervenuto alla discussione svoltasi durante la camera di consiglio, cui era stato ammesso, e non aveva interferito, pertanto, in alcun modo nella decisione. Tuttavia, il modo di ragionare sviluppato nell’opinione base di Lord Hewart della King’s Bench Division (cui aderirono gli altri due componenti), che portò all’accoglimento dell’appello e al conseguente annullamento della prima sentenza, fu di tutt’altro tenore e influenzato dal timore che l’apparenza di una posizione preconcetta (bias) dei primi giudici, possibilmente causata dalla presenza e dalla posizione del clerk, potesse indurre il sospetto di una pronuncia viziata e non genuina. Egli, infatti, si espresse in termini che ancor oggi risuonano come perdurante principio di diritto e che restano scolpiti nella famosa frase secondo cui non basta che la giustizia venga effettivamente ben amministrata, essendo necessario che ciò risulti senza alcun dubbio evidente[4]. I giudici d’appello, sulla base di tale enunciazione di principio, ritennero che nella fattispecie contasse non già il fatto che effettivamente l’assistente fosse portatore di un pregiudizio sfavorevole a una delle parti in causa e favorevole all’altra, trasmettendo questo sentimento ai componenti l’organo di giustizia, quanto l’attitudine della relativa posizione a dar luogo al sospetto che potesse essersi determinata un’impropria intromissione nel retto corso della giustizia. E tale interferenza avrebbe potuto derivare la propria scaturigine dall’interesse diretto dell’assistente al successo processuale della parte rappresentata dallo studio professionale di sua appartenenza.

Da questa prima raffigurazione dell’atteggiamento giurisprudenziale inglese può ricavarsi, tralasciando per il momento la questione centrale del rilievo dell’apparenza sul piano della preservazione dell’immagine dell’imparzialità giudiziale, che il drappo rosso agitato come nemico di quest’ultima sia stato fatto consistere nel pericolo che una singola circostanza, riferibile al modo di formazione del giudizio, potesse contaminarne la serenità sotto il profilo della necessaria mancanza di pregiudizi (bias). Attorno alla strenua difesa della roccaforte dell’attività giudicante, resa impenetrabile da cause perturbatrici esterne (di quelle interne, o meglio della loro irrilevanza, si scriverà più avanti) munite della capacità di appannare la fiducia della collettività, si è andata costruendo una diga concettuale che regge fino ai giorni nostri. Ma va anche aggiunto che le seguenti occasioni in cui è venuto alla ribalta il delicato tema della possibile lesione del principio di imparzialità hanno riconosciuto altri, meno evanescenti e soggettivi, metri di valutazione che via via sono emersi, come si vedrà.

Intanto, va detto che la riferita posizione inglese era stata preceduta da una pronuncia di segno corrispondente proveniente da una corte scozzese nel 1919[5], nella quale fu affermato il principio per cui la ricorrenza di circostanze relative alla persona di un giudice tali da rivelarsi idonee a destare in una persona ragionevole sospetti circa la sua imparzialità è sufficiente a provocarne l’astensione o la ricusazione, seppur non sia in concreto registrabile alcun effettivo atteggiamento di pregiudizio (bias)[6]. La ineliminabile tensione all’effettivo adempimento, da parte del giudice, dell’obbligo di esercitare le proprie funzioni in forma imparziale e avulsa da posizioni precostituite sarebbe stata riaffermata, in una fondamentale sentenza del 1999 della House of Lords, da Lord Hope of Craighead, anch’egli di origine scozzese e, quindi, affezionato a un modello ordinamentale di stampo romanistico[7].

A distanza di ben oltre un trentennio dal precedente che, preso nel suo stretto significato letterale, avrebbe potuto aprire le porte a un incontrollabile soggettivismo interpretativo in ordine all’ipotetica sussistenza di un bias impediente, la Court of Appeal intervenne nel 1960[8] per circoscrivere l’area di plausibilità dello stesso bias, opportunamente chiarendo che non può semplicemente consistere in una possibilità della sua effettiva ricorrenza, rivelandosi necessaria una concreta probabilità di esso e non la mera impressione[9].

Il metodo di giudizio è stato riaffermato nel 1993 dalla House of Lords[10], in un caso in cui l’imputato propose come motivo di impugnazione della sentenza di condanna la circostanza, la quale avrebbe concretato un bias a sé sfavorevole, che nella giuria sedesse una sua vicina di casa. Il debolissimo argomento fu d’acchito rigettato grazie a un’accurata opinione di Lord Goff of Chieveley, così argomentata: in linea di principio, perché non la semplice possibilità integra la figura ma la reale probabilità, desumibile dal giudizio di una persona ragionevole, che la mente del giudice possa essere stata deviata da un atteggiamento pregiudizialmente favorevole od ostile verso una delle parti. In punto di fatto, la sentenza puntualizzò che non ricorreva in concreto alcuna causa obbligatoria di astensione della giurata.

Si accennava alla coesistenza, più esattamente alla preesistenza, di un altro orientamento dedicato alla questione dell’imparzialità, che sposta il raggio di osservazione in una direzione più solida e meno opinabile, individuando, secondo il paradigma dell’attualità e non della semplice potenzialità, il principale fattore inquinante il valore di cui si discute. In un precedente del 1852[11] si controverteva dell’impugnazione di una sentenza civile in materia societaria il cui giudice di primo grado era azionista della società convenuta in giudizio. Il motivo tendente all’annullamento della pronuncia fu accolto, in quanto la posizione del giudice in questione configurava un’ipotesi tipica di provvedimento pronunciato da persona portatrice di un interesse diretto alla decisione e realizzava, pertanto, l’ipotesi, proibita per collisione con il principio di imparzialità, di iudex in causa propria[12]. È indiscutibile l’importanza della prospettiva che incentra sul tema della – direttamente e obiettivamente – percettibile partecipazione del giudice alla sfera di interessi costituente l’oggetto del giudizio l’accertamento della violazione dei doveri di imparzialità. Tale importanza si manifesta, in particolare, nel taglio del cordone ombelicale rispetto all’ipotesi dell’apparente violazione di tale dovere dedotta, come prima visto, da una prognosi fondata su un criterio probabilistico (seppur di concreta probabilità). Il rivolgere lo sguardo all’esistenza di uno specifico interesse, basato su dati obiettivi e incontroversi, riconverte il giudizio sul versante della effettività e tralascia quello scivoloso e, talvolta, pretestuoso del sospetto, facile esca utilizzabile per dilatorie e suggestive impugnazioni. Da questa linea rigida e sicura il diritto inglese non ha mai decampato, anche allorquando si è visto offrire l’occasione per rendere fungibili tra loro le ipotesi della sicura violazione del dovere di imparzialità e del sospetto o del timore di essa.

 

4. La titolarità di interesse all’esito del processo come causa di lesione dell’imparzialità del giudice

Un modo efficace di descrivere la rilevanza che può assumere, nell’economia processuale inglese, il principio dell’imparzialità, e di riflesso l’identificazione delle cause della sua mancanza, può essere quello di tracciare una bisettrice tra le ipotesi, già passate in rassegna, di attentato ad esso sotto il profilo dell’apparenza, e quelle in cui se ne verifica l’effettiva lesione. Non può realmente dirsi che la giurisprudenza inglese si sia espressa in maniera così manichea, operando cioè una distinzione concettuale corrispondente alle concrete evenienze della pratica; tuttavia, la solidità della considerazione si regge sull’osservazione del fenomeno delle denunce in sede giurisdizionale della mancata osservanza del dovere di imparzialità. La già esplorata figura dello iudex in causa propria esprime molto brillantemente il diverso passo che, sul piano ricostruttivo, esibisce il caso della lesione concreta del principio rispetto all’altro, in cui l’attentato si risolve sul piano della semplice apparenza, a propria volta desunta alla stregua di un criterio probabilistico del giudizio.

Questa dicotomia, che, è utile ribadire, è frutto della qualificazione delle fattispecie rinvenibili nei repertori giurisprudenziali del common law britannico, assolve chiaramente una funzione semplificatrice del compito dell’interprete e del ricercatore perché affida a un elemento empiricamente accertabile la sussistenza di un interesse del giudice all’esito del processo a lui assegnato, il ruolo discretivo tra casi di positiva ricorrenza del bias e casi di esclusione.

La linea di tendenza rivolta a rafforzare un’analisi oggettiva rispetto a un’altra poggiante su basi più fragili, se non addirittura congetturale, ha trovato modo di affermarsi anche allorquando la strada della messa in pericolo del valore dell’apparenza dell’imparzialità avrebbe potuto non irragionevolmente essere percorsa.

L’occasione fu fornita alla House of Lords in un caso seminale del 1999, richiamato alla nota 7. La materia sottoposta alla cognizione dei supremi giudici aveva carattere eccezionale tanto per le circostanze che avevano dato luogo al processo, quanto per l’importanza del caso in sé. Ed infatti, era stato devoluto alla corte in via di rimedio straordinario il quesito in relazione alla legittimità di una sentenza adottata a stretta maggioranza qualche settimana prima da un collegio della stessa House of Lords in diversa composizione. La sentenza impugnata aveva accolto l’istanza di estradizione in Spagna, formulata da quel governo, nei confronti del sanguinoso dittatore Pinochet perché rispondesse di delitti di tortura commessi negli anni di esercizio del suo potere violento e antidemocratico, illecitamente conquistato con il sovvertimento dell’ordine legittimamente costituito. Aveva partecipato alla decisione con il proprio voto determinante un giudice, Lord Hoffmann, campione di illuminate posizioni progressiste, la cui moglie era dipendente di Amnesty International, intervenuta nel processo in senso adesivo alla richiesta di estradizione. Lo stesso giudice era, a propria volta, condirettore, a titolo puramente amichevole, di un’organizzazione collegata all’interveniente, l’Amnesty International Charity Ltd, che agiva nell’interesse di Amnesty International curandone le attività di carattere non volontaristico; l’organizzazione era, tuttavia, assolutamente indipendente da quella intervenuta in giudizio e non aveva preso parte alla decisione di costituirsi. Tali circostanze non erano note ai difensori dell’estradando, che le appresero successivamente al deposito della sentenza. Sulla base di questa sopravvenuta conoscenza, essi proposero ricorso straordinario (tale perché non risultavano precedenti in termini) alla stessa House of Lords in diversa composizione perché, alla luce delle esposte circostanze, intaccanti l’imparzialità e implicanti il bias di uno dei giudici che, alla prova della resistenza, si era rivelato decisivo con il proprio voto, venisse caducata la pronuncia di estradizione.

Il bivio argomentativo che si poneva davanti al collegio era riducibile all’alternativa tra la propensione per la strada del bias temuto o presunto connesso al rapporto di lavoro subordinato che legava direttamente la moglie del giudice a una delle parti in causa (l’interveniente volontario adesivo) o per quella della dichiarazione di un interesse diretto (sussumibile sotto la pensilina dello iudex in causa propria) dello stesso in quanto dirigente, seppur a titolo gratuito, di un ente con il quale l’interveniente svolgeva attività istituzionali alle quali Lord Hoffmann era estraneo sul piano dell’interesse diretto, patrimoniale o meno. Non è difficile formulare il pensiero che, dal punto di vista dell’utilitarismo motivazionale, sarebbe riuscita molto più agevole la conclusione secondo cui avrebbe, con un alto grado di probabilità, destato dubbi circa l’apparenza dell’imparzialità del giudice il fatto che la coniuge fosse dipendente di una delle parti e ne venisse, pertanto, retribuita. Al cospetto di questa impostazione, che letteralmente avrebbe richiamato la figura in negativo della moglie di Cesare, se ne poneva un’altra, meno icastica ma più attenta a circondare di solidità il ragionamento della House of Lords, ossia quella fondata sul presupposto che la posizione di Lord Hoffmann all’interno di un ente le cui attività erano collegate a quelle di una delle parti avrebbe configurato un’ipotesi di appannamento immediato e diretto della sua immagine di imparzialità, in quanto il relativo ruolo era manifestazione sicura di un suo interesse all’esito del processo (intuitivamente, in senso favorevole alla posizione della parte interveniente). È evidente che, sul piano della logica astratta, ambedue le soluzioni avrebbero potuto esibire una propria forza, al contempo riconnettendola alla coerenza con i precedenti che le avrebbero egualmente legittimate. Di pari evidenza è la conseguenza che si sarebbe potuto trarre se il collegio si fosse limitato a esaminare i motivi di ricorso nell’ordine in cui erano stati posti, che vedeva come pregiudiziale e assorbente quello relativo alla posizione della moglie di Lord Hoffmann. Se così fosse avvenuto, il messaggio indirizzato agli interpreti e operatori si sarebbe potuto senza difficoltà individuare nella sostanziale equivalenza tra le due categorie di ipotesi di violazione del principio di imparzialità giudiziale, quella afferente all’attentato all’apparenza, l’altra involgente la presenza di un interesse diretto del giudice all’esito della causa. In effetti, così non avvenne e la House of Lords compì una scelta netta in favore del secondo polo dell’alternativa, di certo ritenuto meno fluttuante e opinabile del primo. E infatti, l’istanza di annullamento del primo provvedimento fu ritenuta fondata con riguardo alla indiscutibile ricorrenza di un rapporto tra il giudice, nella sua qualità di condirettore di un ente in diretti rapporti con una delle parti del giudizio, che, pur non contemplando alcuna forma di cointeressenza economica, configurava comunque un interesse di altra natura, tale da rappresentare una situazione di diretta partecipazione del giudice alla lite e, quindi, da porlo nella condizione di giudicare in causa propria. Fu, pertanto, dichiarata assorbita la questione, pur prospettata in via principale, del sospetto sull’imparzialità del marito nel giudicare di una causa nella quale fosse parte il datore di lavoro della moglie.

Non si intende sopravvalutare l’inversione dell’ordine di trattazione delle questioni dedotte davanti alla House of Lords, considerandola un sintomo incontrovertibile del desiderio di tracciare un nuovo indirizzo diretto a indebolire la presa dell’argomento dell’apparenza nella cornice del discorso sull’imparzialità giudiziale. È, d’altra parte, chiaro che la House of Lords non volle correre il rischio di pronunciarsi su un tema che aveva attratto l’interesse dell’opinione pubblica mondiale, e delle vittime delle torture inflitte dal regime guidato illegalmente da Pinochet, soltanto consegnando la propria pronuncia non a un fatto storico, quale l’interesse di uno dei giudici alla definizione del giudizio in senso conforme alla posizione processuale di una parte con la quale egli stesso, quale rappresentante di un ente, si trovava da tempo in relazioni negoziali, e non alle ricadute in termini puramente psicologici e soggettivi di un altro fatto storico che non riguardava direttamente il giudice, ma la moglie in quanto dipendente di una delle parti. E invero, mentre il primo fatto storico riguardava immediatamente la persona del giudice, realizzando l’ipotesi del suo interesse diretto alla causa, il secondo era privo di questa immediata efficacia deterministica ed era destinato a una sua valorizzazione in termini esclusivamente congetturali e, quindi, di semplice apparenza.

 

5. Se l’apparenza dell’imparzialità possa essere inquinata dalle inclinazioni culturali o dalle opinioni personali dei giudici inglesi 

È opinione diffusa, che si riflette in insistite e tralaticie invocazioni dell’esempio inglese, quella che il common law britannico esalti a tal punto la dote dell’apparenza dell’imparzialità da farne una sorta di idolo da venerare in misura così estesa da dar spazio a ogni possibile forma di soggettivismo interpretativo degli stati d’animo del giudice, staccandoli dalla concretezza di specifiche situazioni risolutive, per la loro univoca direzione significante (quali, ad esempio, la conclamata amicizia con una delle parti)[13], in senso affermativo del dubbio circa il suo difetto di imparzialità. Tuttavia, l’auspicio che justice must be seen to be done, che cioè l’amministrazione della giustizia non debba soffrire dell’occhiuta preoccupazione che i suoi autori possano essere portatori di una qualche bandita forma di bias, non sembra confortare l’indiscriminata tesi per la quale il puro sospetto derivante dalla vivisezione della vita personale, culturale, professionale del giudice sia in grado di per sé di trasformarsi in elemento probante della sua incapacità di assicurare nel singolo caso un servizio imparziale.

Ancora una volta, è d’aiuto a una misurata ponderazione dello stato del diritto inglese la lettura della sua evoluzione giurisprudenziale. In particolare, si possono ravvisare segni ben individuabili dell’assoluta mancanza di insofferenza verso posizioni scientifiche, culturali, ideali di singoli giudici, pubblicamente espresse, con riguardo a materie, temi, questioni costituenti possibile oggetto di esame giurisdizionale. La ragione sottintesa, mai resa palese perché mai se ne è posta la necessità, risiede nel rispetto della libertà di espressione del pensiero come momento elevato e incomprimibile della personalità umana, senza che la relativa manifestazione possa di per sé dare origine al sospetto che tale retroterra ideale, pur se proiettato nel terreno di uno specifico processo, costituisca una forma di bias invalidante.

Una siffatta considerazione trova, ad esempio, pieno (per quanto tacito) suggello nell’analisi di un importante giudicato nel 2005, sempre dalla House of Lords[14]. La materia dibattuta riguardava l’ammissibilità, in un processo penale, di prove ottenute mediante tortura posta in essere da un governo straniero. Il Supremo collegio, in riforma della sentenza della Court of Appeal, escluse questa possibilità in quanto contrastante sia con il diritto internazionale (consuetudinario e convenzionale) sia con lo stesso common law, che proibiscono l’inflizione della tortura e di trattamenti inumani e degradanti. Ora, del collegio faceva parte un giudice, Lord Hope of Stanhope, autore di un’opinione concorrente, che solo l’anno precedente aveva scritto, su una accreditata e diffusa rivista giuridica[15], un saggio sulla tortura in cui si sottolineava come essa fosse brutale espressione di forme di governo totalitarie, senza che ciò avesse indotto alcuna delle parti a lamentare la violazione della sua imparzialità, anche sotto l’aspetto dell’apparenza[16].

 

6. Succinti tratti conclusivi

Qualunque valore espresso dagli ordinamenti giuridici in vista del raggiungimento di obiettivi alti e nobili, quali l’estensione delle garanzie di cui la collettività nel suo complesso ha diritto ad aspirare, reca in sé l’eventualità della sua – deliberata o inconsapevole – distorsione, ovvero della sua spendita con funzioni eteronome rispetto a quelle originarie e proprie. Al rischio della eterogenesi dei fini non appare insensibile, come l’esperienza inglese prova, il principio dell’imparzialità giudiziale, una volta che impropriamente lo si legga con un’inclinazione mentale più disposta ad esaltare il dato probabilistico che quello effettuale. In altri termini, mentre sarebbe eccessivo deprezzare il significato edificante del dovere di non alimentare con proprie condotte esterne la diffidenza sul proprio operato giurisdizionale, sarebbe d’altro canto imprudente accontentarsi della sola introspezione con esiti probabilistici degli anfratti dell’animo del giudice per riconoscerne elementi infirmanti la sua serenità di giudizio. E ben si può parlare di introspezione quando la prognosi di difetto di apparenza di imparzialità viene formulata sull’unico presupposto di espressioni di pensiero o di opinione effettuate dal giudice all’esterno del proprio circuito funzionale e nell’esercizio delle libertà fondamentali assicurate a lui come a qualunque altro cittadino. Né i precedenti inglesi possono incoraggiare una confutazione di questa tesi, anche se guardati nella loro esplicazione del divieto di compromissione dell’apparenza. Le occasioni in cui si è giudicato che «justice did not seem to be done» non si riferivano a momenti della vita del giudice confinati alla sfera della manifestazione del pensiero o della partecipazione in termini ideali alla vita della comunità di appartenenza, ma riguardavano comportamenti di rilevanza esteriore logicamente implicanti, se non la presenza di un interesse diretto e personale, la sussistenza di una situazione oggettiva che avrebbe potuto recidere il nesso di indifferenza rispetto all’esito del processo che costituisce garanzia di imparzialità. Conferma questa considerazione, ad esempio, la decisione adottata nel caso del 1960 citato nella nota 8, in cui fu ritenuta ostativa al riconoscimento dell’assenza di bias nella pronuncia adottata da un organo amministrativo, dotata di effetti negativamente incidenti su situazioni pretensive al rilascio di una licenza per la mescita di bevande alcoliche, l’appartenenza di uno dei decisori a un’associazione di categoria ostile all’allargamento del numero di gestori di locali destinati al consumo di tali prodotti. Benché l’accertato bias sia stato considerato rilevante sul piano della compromissione dell’apparenza dell’imparzialità, non può trascurarsi che il caso fosse inquadrabile nel franoso terreno della agevole individuabilità di un motivo soggettivo – ma oggettivamente rilevabile – di tale portata da lasciar configurare in capo al decisore stesso un interesse eguale e contrario rispetto a quello di una delle parti. Il discorso torna così a essere circolare, nel senso che l’esperienza dimostra come sia normale che l’apparenza dell’imparzialità manchi se al giudice è riconducibile un interesse nella causa e, specularmente, che la figura dello iudex in causa propria naturalmente turbi la quiete dell’immagine dell’imparzialità stessa.

In questi rigorosi termini, poco proclivi a indulgere alla mitizzazione del concetto di apparenza dell’imparzialità come egemone in questa materia, sembra più appropriato rappresentare la conformazione del diritto inglese. E questo tenendo conto che la dilatazione del concetto di “apparenza”, svincolata dall’obiettività delle circostanze e dalla univocità della loro interpretazione, trascina con sé il grave rischio della instabilità delle pronunce giudiziarie, solleticando oltremodo le velleità litigiose. Del resto, se l’apparenza non deve e non può soltanto limitarsi a una eterea formula verbale, essa deve essere vivificata da un’evidenza esterna, perfettamente rappresentata dalla pubblicazione delle ragioni del decidere, parametro di controllabilità esterna e democratica della persuasività di ogni provvedimento giurisdizionale.

È molto incoraggiante constatare che le corti italiane di vertice, nel richiamare la preziosità del generale valore dell’imparzialità, si siano mostrate perfettamente in grado di governarlo adattandolo a particolari fattispecie, quali l’iscrizione dei magistrati a partiti politici, nelle quali possa trasparire il pericolo attuale e concreto della contaminazione tra interesse di parte desumibile dalla condizione soggettiva del giudice e interesse pubblico a una retta amministrazione della giustizia. Molto chiaramente si sono, ad esempio, pronunciate in tema di disciplina dei magistrati le sezioni unite civili della Corte di cassazione[17], affermando che «il principio dell’indipendenza è volto a garantire l’imparzialità del giudice, assicurandogli una posizione “super partes” che escluda qualsiasi, anche indiretto, interesse alla causa da decidere». La Corte costituzionale[18], in modo omogeneo, ha affermato che i magistrati sono tenuti «ad apparire indipendenti ed imparziali agli occhi della collettività, evitando di esporsi a qualsiasi sospetto di perseguire interessi di parte nell’adempimento delle proprie funzioni».

Alla fine, sembra possa dirsi confermata la conclusione, comune agli ordinamenti considerati, che attorno alla necessità di allontanare dalla figura del giudice la ricorrenza, suffragata da elementi concreti e non da pure supposizioni cerebrali, di un interesse circa la definizione del processo devolutogli, debba appropriatamente condursi ogni discorso scientifico sul valore e sulla rilevazione dell’imparzialità giudiziale. È, allora, del tutto naturale che da tale discorso esuli ogni censura che, indebitamente, includa nel perimetro delle cause negativamente reagenti sull’effettiva osservanza del dovere di imparzialità le manifestazioni di pensiero poste in essere nell’esercizio delle libertà civili del giudice e in sedi diverse da quella funzionale.

Diversa potrebbe essere la prospettiva in chiave deontologica o disciplinare, senza che, in ogni caso, possa dirsi ammissibile la compressione della fondamentale libertà di continente espressione del pensiero.

 

 

1. «In the determination of his civil rights and obligations or of any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an independent and impartial tribunal established by law».

2. Rex v Sussex Justices, Ex parte Mc Carthy (1924) KB 259.

3. La figura del clerk, diffusa nell’esperienza britannica, corrisponde a quella di un esperto professionista forense incaricato di assistere i giudici attraverso raccolte di precedenti e sintesi delle attività dibattimentali. Può, se invitato, partecipare senza diritto di voto alle camere di consiglio, intervenendo solo, su richiesta dei giudicanti, per chiarimenti e integrazioni informative. Sul generale sistema di amministrazione della giustizia inglese, si può vedere G. Criscuoli e M. Serio, Nuova introduzione allo studio del diritto inglese, Giuffrè, Milano, 2021 (II ed.), part. pp. 251 ss.

4. «It is not merely of some importance but it is of fundamental importance that justice should not only be done, but should manifestly seen to be done».

5. Law v Chartered Institute of Patent Agents (1919) 2 Ch 279, in cui risalta l’opinione del giudice Eve.

6. M. Serio, Appunti comparatistici sulla (apparenza della) imparzialità giudiziaria, in Questione giustizia online, 12 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/appunti-comparatistici-sulla-apparenza-della-imparzialita-giudiziaria).

7. In re Pinochet (1999) UKHL 1.

8. Reg v Barnsley Licensing Justices, Ex parte Barnsley and District Licensed Victuallers Association (1960) 2 QB 187.

9. Queste le parole del giudice Devlin: «We have to satisfy ourselves that there was a real likelihood of bias-not merely satisfy ourselves that that was the sort of impression that might reasonably get abroad». Sulla sentenza, vds. F.A. Trinidade, The Proper Test of A Real Likelihood of Bias, in Malaysia Law Review, vol. 7, n. 1/1965, pp. 170 ss., secondo cui chi voglia ricusare un giudice adducendo un bias non ha l’onere di provare che esso abbia carattere di effettività e attualità, bastando dimostrarne una concreta probabilità: è esclusa la rilevanza della mera possibilità. Vds., altresì, P. Jackson, A welter of authority, in The Modern Law Review, vol. 34, n. 4/1970, pp. 445 ss., che depreca l’incertezza giurisprudenziale a suo avviso riscontrabile sul tema.

10. In Reg v Gough, AC 1993, 846.

11. Dimes v Grand Junction Canal (1852) 3 H.L.C. 793.

12. Nella propria celebre opinione, ripresa da Lord Goff of Chieveley nel caso Pinochet, cit. alla nota 7, Lord Campbell espresse il principio per cui «A man shall not be a judge in his own case».

13. A questa particolare situazione fece, ad esempio, riferimento esplicito Lord Goff of Chieveley nel caso Pinochet trattato nel testo.

14. A v Secretary of State (2005) UKHL 71.

15. D. Hope, Torture, in International & Comparative Law Quarterly, vol. 53, n. 4/2004, pp. 807 ss.: «Torture may be used on a large scale as an instrument of blatant expression of totalitarian government... torture is an instrument of power».

16. Sia consentito il rinvio a M. Serio, Appunti, op. cit.

17. Cassazione civile, sez. unite, 14 maggio 2020, n. 8906.

18. Corte cost., 12 novembre 2018, n. 197.