Magistratura democratica

Un ossimoro: il pubblico ministero parte imparziale

di Stefano Musolino

L’imparzialità è un attributo sacralizzato nel giudice, quanto trascurato per il pubblico ministero. Eppure la discrezionalità insita nella fase delle indagini e la sua qualità di parte pubblica nel contraddittorio processuale impongono una rivisitazione del rapporto tra pubblico ministero e imparzialità. 

1. Premessa stipulativa / 2. Spigolature di diritto positivo / 3. L’imparzialità del pubblico ministero quale strumento a tutela della sua indipendenza / 4. Due momenti in cui l’imparzialità è pretesa: l’applicazione dei criteri di priorità e la discrezionalità investigativa del pubblico ministero, anche alla luce dell’art. 358 cpp / 5. Due momenti di potenziale crisi dell’imparzialità: la comunicazione e l’atteggiamento processuale / 6. Brevi conclusioni ed un auspicio

 

1. Premessa stipulativa

Nel dibattito pubblico, ma anche nella stessa percezione dei ruoli diffusa nella magistratura, l’imparzialità è un requisito indispensabile per il giudice, assai meno per il pubblico ministero. Assecondando questo sentire, può dirsi che il ruolo di parte processuale (sia pure pubblica) del pubblico ministero autorizzi quest’ultimo a una libertà di espressione che è insita nella sua funzione di soggetto portatore di istanze processuali e procedimentali, sottoposto dal giudice a controlli e verifiche in ordine ai tempi, ai modi e alle scelte che ne caratterizzano l’operato. Sono, perciò, l’enfasi implicita nella funzione requirente e i controlli a cui è sottoposta quella inquirente che renderebbero meno cogente per il pubblico ministero il requisito dell’imparzialità. Tuttavia, è tempo di sottoporre a verifica questa conclusione, per comprendere se sia il frutto di una stratificazione di percezioni corrispondente al sistema giuridico-organizzativo ovvero ne costituisca una deviazione influenzata da pratiche e modelli culturali che stanno prendendo il sopravvento, mutando carsicamente lo statuto materiale del pubblico ministero. 

 

2. Spigolature di diritto positivo

In disparte i comuni pre-requisiti di incompatibilità disciplinati agli artt. 18 e 19 ord. giud., la verifica delle norme processuali in tema di astensione e ricusazione, essendo poste a salvaguardia dell’imparzialità dei protagonisti del processo, offre qualche utile spunto di riflessione. Sono ben dieci le norme del codice di procedura penale (artt. 34-44) che regolano le incompatibilità (funzionali e personali) del giudice, insieme alle forme e ai modi per accertarle. Il dover essere imparziale del giudice è espresso attraverso le previsioni di obbligatorietà della sua astensione, rafforzate dalla possibilità che siano le parti a sollecitarne una verifica attraverso la sua ricusazione. 

A una prima verifica, un simile apparato normativo non si riscontra né per numero, né per rigore precettivo per il pubblico ministero, la cui astensione è prevista quale ipotesi facoltativa dall’art. 52 cpp, nel caso in cui si evidenzino le medesime «gravi ragioni di convenienza» che costituiscono una delle ipotesi di astensione obbligatoria del giudice (art. 36, comma 1, lett. h, cpp). 

La possibilità di rendere obbligatoria anche l’astensione del pubblico ministero in siffatti casi era stata presa in considerazione nel corso dei lavori preparatori del codice del 1988, allorché si optò, invece, per la facoltatività, in analogia a quanto già previsto dal codice del 1930, accompagnata dal divieto (implicito) di ricusazione[1]. Tuttavia, la distinzione appare meno significativa nella sua pratica applicazione a cagione della indeterminatezza casistica delle «gravi ragioni di convenienza»[2] che rendono l’obbligo di astensione rimesso alla «percezione della propria imparzialità da parte dello stesso giudicante»[3]; sicché, in sostanza, la mancanza di elementi oggettivi che descrivano in maniera tassativa l’ipotesi fanno decisamente sfumare la sua natura obbligatoria, essendo questa rimessa al prudente apprezzamento del giudice, al pari di quanto avviene per l’analoga ipotesi facoltativa del pubblico ministero. E poiché la casistica prevista dall’art. 36, comma 1, lett. h, cpp non è inclusa nel catalogo di quelle per cui è consentita la ricusazione del giudice[4], è agevole intendere come sussista un’omogeneità sostanziale tra la posizione di quest’ultimo e quella del pubblico ministero in relazione alle «gravi ragioni di convenienza» che ne giustificano l’astensione.

Tuttavia, a un migliore approfondimento, ci si avvede di come lo statuto di imparzialità del pm non si esaurisca con l’art. 52 cpp, ma sia completato dall’art. 372 cpp, che disciplina le ipotesi di avocazione delle indagini preliminari da parte del procuratore generale anche nei casi in cui il procuratore della Repubblica abbia omesso di provvedere alla tempestiva sostituzione del pubblico ministero designato che incorra in alcune delle ipotesi descritte all’art. 36, comma 1, lett. a, b, d, e, cpp, determinanti l’obbligo di astensione del giudice. Quindi, seppure disciplinato per via patologica, attraverso l’istituto dell’avocazione, lo statuto di imparzialità del pubblico ministero tende a omologarsi sempre di più a quello del giudice. È evidente, infatti, come la previsione dell’avocazione finisca per rendere, sostanzialmente, obbligatoria l’astensione nei casi sopra citati, giacché la sua mancanza costituisce un’ipotesi patologica che giustifica l’intervento del procuratore generale; inoltre, il meccanismo dell’avocazione consente di ricondurre tali casi allo schema della ricusazione, giacché la parte potrà rivolgersi al procuratore generale ogni qualvolta ritenga che il pubblico ministero eserciti le sue funzioni, pur sussistendo una delle ipotesi descritte all’art. 36, comma 1, lett. a, b, d, e, cpp. 

Sia chiaro, non si tratta di una sovrapposizione delle discipline, ma di una loro tendenziale omologazione. Non vi è dubbio, infatti, che lo statuto di imparzialità del giudice sia retto da previsioni, verifiche e controlli più rigorosi e garantiti rispetto all’analogo statuto del pubblico ministero. Per rendersene conto, basta rammentare che gli atti compiuti dal pubblico ministero che abbia agito in violazione del dovere di astensione non sono nulli, mentre l’art. 42 cpp prevede che, accogliendo l’istanza di astensione o di ricusazione, il giudice dichiari se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservino efficacia; ed ancora, non vi è dubbio che il procedimento incidentale di ricusazione offra garanzie maggiori rispetto al meccanismo di avocazione avviato dal procuratore generale ex art. 372 cpp. Tuttavia, le differenze sostanziali sono meno rilevanti di quanto possa apparire e finiscono per essere rimesse al concreto atteggiarsi dei protagonisti: alla percezione di sé e del proprio ruolo che caratterizza ciascun pubblico ministero, in relazione alla previsione di cui agli artt. 52/36, comma 1, lett. h, cpp; alla concreta trasparenza e garanzia che il procuratore generale vorrà assegnare ai procedimenti di avocazione, avviati ad istanza di parte, nelle ipotesi di cui agli artt. 372/36, comma 1, lett. a, b, d, e, cpp.

Va solo accennato, poi, che l’astensione del pubblico ministero – sia che la si ritenga un potere-dovere, sia che la si ritenga un atto dovuto – costituisce un obbligo deontologico la cui violazione può comportare sanzioni disciplinari (art. 2, lett. c, d.lgs 23 febbraio 2006, n. 109). 

L’analisi integrata delle ipotesi di astensione evocate dagli artt. 52 e 372 cpp consente poi di individuare, per omissione, quelle per cui è prevista l’astensione del giudice, ma non del pubblico ministero. Queste si sostanziano nell’essersi espresso sull’oggetto del procedimento fuori dell’esercizio delle funzioni giudiziarie (art. 36, comma 1, lett. c, cpp) e, all’interno di queste, nell’avere assunto decisioni e/o determinazioni espressive di un pre-giudizio sui fatti per cui si procede o sui temi di prova che li fondano (le ipotesi di cui all’art. 34 cpp). Si tratta di casistiche strettamente dipendenti dalle differenze funzionali tra le due figure che impongono una definizione separata dei profili di incompatibilità. La prima ipotesi coinvolge i rapporti con la stampa, la comunità giuridica e la società civile, consentendo al pubblico ministero una libertà di parola che non incontra un espresso limite nella norma processuale, poiché l’eventuale parzialità così espressa non è incidente sul protagonista del giudizio, ma su uno degli attori che concorre a formare la verità processuale, senza affermarla. La seconda ragione è, invece, di tipo squisitamente funzionale, giacché un pubblico ministero che abbia una migliore e più approfondita conoscenza di una vicenda, avendola istruita e poi verificata nel contraddittorio progressivo con l’imputato, sarà un protagonista più acuto del processo rispetto a un altro che vi si approcci per la prima volta. Si tratta, dunque, di una parzialità dipendente dalla pregressa conoscenza della dinamica probatoria e dall’affinamento delle questioni giuridiche che, liberata da spinte agonistiche e dall’ansia del risultato favorevole all’ipotesi accusatoria, costituisce una qualità che consente al pubblico ministero di essere una parte processuale non già parziale, ma autorevole e affidabile.

In conseguenza, non è incompatibile con le funzioni di pubblico ministero chi abbia svolto nel medesimo procedimento il ruolo di giudice[5], mentre la questione di legittimità costituzionale della mancata previsione, in siffatti casi, di un obbligo di astensione è stata ritenuta più volte manifestamente infondata dalla Suprema corte[6].

Sul tema, va segnalata l’ordinanza n. 436/1993 della Corte costituzionale, chiamata a verificare la compatibilità con la Carta della mancanza di norme che prevedessero la sostituzione, nella fase del dibattimento, del pubblico ministero a cui il gip avesse respinto la richiesta di archiviazione. Il rimettente, infatti, dubitava che in tal modo si determinasse la possibilità di un esercizio di fatto discrezionale dell’azione penale, non consentendosi, attraverso l’invocata sostituzione del pubblico ministero, di esprimere con efficacia una tesi diversa da quella da lui originariamente perorata e dare, così, «concretezza al controllo che il g.i.p. è tenuto a fare sull’esercizio dell’azione penale». Nel dichiarare manifestamente infondata la questione, la Corte evidenziava trattarsi di un profilo eventuale e di mero fatto, relativo all’atteggiamento mantenuto dal pm nel corso del dibattimento, sicché le eventuali condotte patologiche, quand’anche sussistenti, «sfuggono a qualsiasi controllo di legittimità da parte di questa Corte, proprio perché frutto delle più disparate ed imprevedibili scelte che ciascun magistrato del pubblico ministero può in concreto adottare in ordine alle modalità secondo le quali coltivare l’accusa nel corso del dibattimento, restando conseguentemente esclusa qualsiasi possibilità di ricondurre simili aspetti al quadro normativo che il giudice a quo pone ad oggetto delle proprie censure».

L’ordinanza ha il pregio di ribadire un dato spesso sottovalutato: anche per il pubblico ministero l’imparzialità è un requisito verso il quale tendere nel quotidiano e concreto esercizio della sua attività giurisdizionale. E a questa conclusione la citata pronuncia della Corte costituzionale ne aggiunge un’altra: l’imparzialità del pubblico ministero è un risultato atteso (del citato atteggiamento di consapevole «tensione verso») che il sistema presuppone quale suo tratto fisiologico, restando relegato alla patologia un approccio viziato da una parzialità figlia di soggettive percezioni. 

 

3. L’imparzialità del pubblico ministero quale strumento a tutela della sua indipendenza 

La lettura sistematica delle norme processuali in materia di incompatibilità, tratteggiando la tensione verso l’imparzialità come un atteggiamento atteso sia in capo al giudice, sia in capo al pubblico ministero, la costituisce quale componente essenziale della prestazione professionale del magistrato, a prescindere dalla funzione svolta. Può dirsi, perciò, esistente uno statuto comune dell’imparzialità che caratterizza entrambe le funzioni seppure con modalità esplicative, talvolta, differenti a cagione della loro specificità esplicativa. Si tratta, perciò, di una qualità e caratteristica che accomuna tutti i magistrati quale riflesso della loro autonomia e indipendenza[7].

Per questo, l’analisi dello statuto materiale dell’imparzialità del pubblico ministero nel contesto attuale costituisce l’ennesimo campo di verifica di quanto gli approcci culturali alla professione incidano sulla sua effettiva indipendenza. Si tratta infatti di una guarentigia che, pur accomunando pm e giudice, è per il primo più fragile ed esposta alle temperie politico-mediatiche. In proposito, va rammentato come una lettura dell’ordito costituzionale sul pubblico ministero scevra da ideologismi riveli talune differenze, rispetto al giudice, di cui il pubblico ministero deve essere consapevole, giacché lo onerano a un esercizio responsabile della funzione ispirato al modello d’imparzialità del giudice, quale riflesso della comune appartenenza all’unico ordinamento giudiziario. Scrive, in proposito, Piero Gaeta: «Serve quindi – con grande maturità culturale – spogliarsi dell’idea che lo statuto costituzionale del p.m. sia in tutto assimilabile a quello del giudice o che esso sia esente da ambiguità e contraddizioni, viceversa rilevate con puntualità da giuristi di vera fede democratica. Solo per fare due esempi, di “normativa costituzionale innegabilmente ambigua” sul p.m. parlava Massimo Nobili e di “elementi di contraddittorietà [sul pubblico ministero] insiti nello stesso testo della Costituzione” ha ragionato, sapientemente e in vari saggi, Alessandro Pizzorusso»[8]

E infatti, la raffinata architettura della Carta fondamentale se, da una parte, avvolge giudice e pubblico ministero nell’unico reticolo degli artt. 104 e 105 Cost. per la garanzia di status, dall’altra rinvia la tutela della garanzia funzionale – de-costituzionalizzata per il pm – al comune ordinamento giudiziario, completando così la tutela dell’autonomia e indipendenza degli attori pubblici della giurisdizione. Tuttavia, l’assenza di una tutela costituzionale dei profili funzionali di autonomia e indipendenza del pubblico ministero li rende più fragili ed esposti ai modi di interpretare il ruolo da parte di ciascun magistrato.  

Il tema merita di essere verificato, giacché la progressiva separazione delle funzioni di giudice e pubblico ministero è stata portata dalla legge n. 71/2022 (delega di riforma dell’ordinamento giudiziario) al massimo della divaricazione possibile a Costituzione invariata, mentre le annunciate riforme costituzionali ambiscono a giungere alla separazione delle carriere. Si è così realizzata «una separazione di fatto e nei fatti delle carriere, in attesa di tempi migliori per intervenire con modifiche costituzionali sullo statuto complessivo del pubblico ministero che, secondo il disegno del Costituente, garantisce la sua indipendenza e l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge»[9]

Le citate innovazioni legislative attuate o annunciate stanno influenzando lo stile professionale del pubblico ministero, accentuandone i profili di separatezza dal giudice. È come se l’attuato modello di separazione delle funzioni e quello progettato della separazione delle carriere avessero già fatto pedagogia culturale, inquinando la percezione di sé dei magistrati inquirenti, rendendo accettabili comportamenti e stili fortemente caratterizzati da una reclamata parzialità del pubblico ministero, sempre più proteso a percepirsi quale interprete delle esigenze securitarie che vengono dall’opinione pubblica, trovando autorevoli sponde nella politica parlamentare. Ne esce una diversa coscienza del ruolo del pm, in cui i tratti securitari e preventivi risultano più accentuati rispetto al passato perché si innestano in una legislazione[10] e in un dibattito pubblico che spingono in questa direzione. In questo senso, perciò, l’eccessivo protagonismo mediatico da parte di alcuni autorevoli interpreti del ruolo, l’enfasi posta sui criteri di priorità, le accentuate forme di gerarchizzazione interna, giustificate dalla responsabilità “politica” del dirigente per l’efficientismo securitario dell’ufficio, l’espandersi di una logica agonistica del ruolo, che individua nell’indagato-imputato (e nella sua difesa tecnica) il “nemico” contro cui si vince o si perde nell’agone processuale, costituiscono piccole slavine sul fronte dell’imparzialità che possono generare una pericolosa valanga. È, infatti, la percezione di sé e del proprio ruolo il primo argine di difesa contro riforme che pretendono di snaturare il ruolo del pubblico ministero, degradandolo a parte processuale impegnata nella difesa dell’operato della polizia giudiziaria e, in conseguenza, co-protagonista ma anche co-responsabile delle politiche perseguite dal governo di turno in materia di sicurezza pubblica. Un pubblico ministero definitivamente separato dal giudice perché culturalmente asimmetrico a lui, ormai trasformato in una parte parziale del procedimento, orientata al perseguimento di obiettivi e risultati (che potranno costituire anche il parametro del giudizio di professionalità) rispetto ai quali la tutela dei diritti coinvolti e il contributo alla ricerca della verità processuale diventeranno accessori secondari, se non proprio scomodi orpelli. Ben si intende, allora, come preoccuparsi dell’imparzialità della parte pubblica significhi anche interrogarsi sull’attuale statuto materiale del pubblico ministero, per essere meglio consapevoli che la posta in gioco è la tutela dei suoi profili di autonomia e indipendenza.  

 

4. Due momenti in cui l’imparzialità è pretesa: l’applicazione dei criteri di priorità e la discrezionalità investigativa del pubblico ministero, anche alla luce dell’art. 358 cpp 

Il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale è tornato alla ribalta in esito alla cd. “riforma Cartabia”, che ha introdotto nella materia i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Poiché sul tema – anche in questa Rivista – sono stati numerosi gli approfondimenti critici[11], rinviando a quelli per maggiori dettagli, la questione potrà essere qui affrontata nella più stretta prospettiva che coinvolge l’imparzialità del pubblico ministero, con qualche necessario cenno introduttivo e di contesto. 

L’art. 112 della Costituzione prevede che «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». È raro che un precetto costituzionale sia espresso con parole così asciutte e nette da non lasciar spazio a margini interpretativi. Se ne deve, quindi, dedurre che lo scopo del Legislatore costituzionale fosse quello di impedire la degradazione dell’affermazione da precetto immediatamente cogente a mero principio. E infatti, la natura obbligatoria dell’azione penale non ha mai trovato smentite nella giurisprudenza costituzionale. Anzi, con la sentenza n. 84/1979, la Corte costituzionale l’ha individuata quale fulcro che concorre a garantire, insieme all’indipendenza del pm nell’esercizio della sua funzione, anche l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. Dopo la novella del codice di procedura penale, l’insegnamento è stato ancora ribadito con immutata nettezza. La decisione più nota ed evocata è la sentenza n. 88/1991, in cui la Corte costituzionale evidenzia come la legalità del procedere non sia realizzabile senza un pubblico ministero indipendente da altri poteri, sicché «il principio di obbligatorietà è punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale (...) talché il suo venir meno ne altererebbe l’assetto complessivo[12]. È possibile, quindi, parafrasare l’insegnamento del Giudice delle leggi nei termini che seguono: l’indipendenza del pubblico ministero è strumentale a un esercizio imparziale della sua funzione, di cui l’obbligatorietà dell’azione penale è espressione a tutela dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Al contrario, un’interpretazione del ruolo privata del requisito dell’imparzialità ne inquina l’indipendenza e pregiudica il complessivo assetto costituzionale e, con questo, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. È, quindi, l’obbligatorietà dell’azione penale che fonda e giustifica il regime d’indipendenza di cui gode il pubblico ministero italiano. Come è stato incisivamente scritto, «l’azione penale è obbligatoria perché l’ordinamento vuole che essa sia esercitata in modo indipendente ed imparziale, mentre il pubblico ministero deve essere indipendente ed imparziale, in quanto l’azione penale è obbligatoria»[13].

Tuttavia, è senza avere troppi scrupoli per le preoccupazioni coeve al mantenimento dei delicati equilibri costituzionali che, sulla legalità del procedere del pubblico ministero, è intervenuto l’art. 1, comma 9, lett. i della legge n. 134/2021. La norma prevede che, nella trattazione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale, il pubblico ministero si conforma ai criteri di priorità contenuti nel progetto organizzativo dell’ufficio, definiti dal dirigente «nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge». 

La norma costituisce uno degli strumenti con cui il Legislatore moderno ha tentato di dare una risposta alla reale esigenza deflattiva che incombe sul processo penale, rendendolo bulimico e inefficiente. In sostanza, i criteri di priorità, insieme alle norme sull’improcedibilità previste per i gradi di appello e di cassazione, costituiscono gli strumenti deflattivi – posti all’inizio e alla fine del procedimento – con cui alla magistratura è stato assegnato il compito di attenuare l’inefficienza dell’ipertrofico sistema penale che il Legislatore continua, imperterrito, ad alimentare, quale anestetico delle paure sociali (quelle reali e quelle mediaticamente indotte)[14]. In realtà, una seria depenalizzazione, l’ulteriore ampliamento sia dei reati perseguibili a querela, sia dei casi e modi di archiviazione avrebbero costituito una migliore e più efficiente soluzione al problema, senza intervenire sul delicato settore della modalità di esercizio dell’azione penale, giacché gli interventi in questo campo possono turbare gli equilibri costituzionali sottesi alla sua obbligatorietà e ai conseguenti riflessi sull’imparzialità del pubblico ministero. Diversamente, come ha osservato acutamente Emanuele De Franco, la norma cela «l’intenzione del legislatore di “subappaltare” agli uffici giudiziari l’impresa della depenalizzazione, in spregio del principio di legalità. Nel d.lgs. n. 150 del 2022 il principio di legalità, dunque, cede il passo alla necessità di soddisfare gli obiettivi di deflazione cui il nostro Paese si è vincolato ottenendo i fondi del PNRR. Una riforma parlamentare organica, orientata ai principi di sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale, sarebbe stata forse lo strumento più efficace per addivenire ad una sensibile diminuzione del numero dei processi»[15]

Se il potere del pm è costituzionalmente vincolato – in quanto egli ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (sempre e solo) per fatti previsti come reato dalla legge penale –, ogni forma di direzione esterna della sua azione rischia di contraddire i principi di legalità e di eguaglianza propri della giurisdizione penale[16], immettendo nel sistema valutazioni diverse da quelle strettamente giuridiche. E invece, la corrosione della regola dettata dall’art. 112 Cost., la sua tendenziale degradazione da precetto a principio ha innestato il tema delle scelte su quali tipologie di reato perseguire prima (o su cosa abbandonare per strada) e su cosa costituisca emergenza criminale in una determinata area geografica, affidandone la concreta soluzione al dirigente dell’ufficio. Osserva, sul punto, Piero Gaeta: «il modello gerarchico sembra essere andato in armonia (storica e sistematica) con il progressivo sfilacciamento del principio di obbligatorietà dell’azione. Si tratta di fenomeni che camminano necessariamente assieme, in parallelo. Più lasco diviene il principio di obbligatorietà dell’azione e si trasforma da regola in principio (per adottare una terminologia alla Dworkin), e maggiormente esso sembra doversi sposare con un modello gerarchico, funzionalmente orientato, dell’ufficio del pubblico ministero»[17]

L’esercizio imparziale dell’azione penale è, perciò, affidato alle scelte discrezionali di un solo soggetto, che le seleziona nel contesto delle ampie indicazioni che verranno dal Legislatore, imponendo il tema della sua imparzialità, giacché questa non è più consustanziale all’obbligatorietà dell’azione penale[18]. Senza rendere trasparente la sua selezione discrezionale, senza sottoporla alle valutazioni collettive dell’ufficio, senza un’esposizione pubblica che ne spieghi le ragioni e una successiva verifica pubblica per rendere conto dell’efficacia di quelle scelte, l’individuazione dei criteri di priorità da parte del procuratore della Repubblica rischia di essere viziata di parzialità già nel metodo, perché questo impedisce una critica e, quindi, una verifica di quelle scelte nel sistema di autogoverno e nella percezione pubblica dell’operato dell’ufficio.

Già prima dell’introduzione delle scelte discrezionali nell’esercizio dell’azione penale, tramite i criteri di priorità, nel corso delle indagini preliminari al pm era ed è ancora riconosciuta la cd. “discrezionalità investigativa”. Nel descriverla, Nello Rossi evidenzia come, sebbene sia destinata a essere esercitata entro un fitto reticolo di regole, limiti e controlli «essa conserv[i] una elasticità e una possibile varietà di forme che in parte la sottraggono a regole predeterminate e ne rimettono il calibrato esercizio alla correttezza e alla capacità professionale degli inquirenti»[19]

Dunque, dentro il perimetro legale costituito dal sistema di regole e controlli, il pubblico ministero esercita pregnanti scelte che orientano significativamente l’esito dell’indagine, a partire dalla gestione delle risorse umane, economiche e tecnologiche a sua disposizione, per finire alla modulazione dei tempi e dei modi delle attività investigative, con particolare riferimento alla selezione dei mezzi di prova a cui ricorrere per raggiungere il risultato dimostrativo. Tuttavia, in questa attività discrezionale il Legislatore indica al pm un parametro che è insieme culturale e funzionale: le indagini devono essere svolte anche in favore dell’indagato (art. 358 cpp). Si tratta di una previsione che esalta l’imparzialità del pubblico ministero quale bussola di orientamento indispensabile delle indagini preliminari. L’indagato non è il nemico da sconfiggere, attraverso un’indagine mossa da una tesi precostituita che lo vede protagonista di reati, ma è lo sviluppo investigativo che forma e orienta la tesi accusatoria, secondo accertamenti caratterizzata da una ontologica precarietà che deve essere sottoposta a progressive verifiche. Per questo, osserva ancora Nello Rossi, «professionalità e deontologia del pubblico ministero concorrono a definire tale ruolo come di “garanzia” e di “misura”».

La discrezionalità delle scelte – dapprima nell’individuazione dei criteri di priorità, quindi nelle decisioni investigative – pretende un pubblico ministero «capace di fare la tara alle proprie convinzioni ed alla propria “precomprensione” della realtà effettuale e del significato dei dati normativi e [che] interpreta i fatti e le norme impegnandosi a far sì che le sue convinzioni non prevalgano sulla razionale applicazione del diritto nel caso concreto»[20]; insomma, un pubblico ministero attore del procedimento che, alla stregua del giudice, agisca con consapevole tensione verso l’imparzialità, senza la quale le indagini preliminari risulteranno viziate, con effetti inquinanti che possono seriamente pregiudicare le fasi successive e lo stesso risultato giurisdizionale. Un pubblico ministero poco consapevole della rilevanza, per l’intera giurisdizione, dei modi attraverso cui esercita la sua funzione nel corso delle indagini preliminari potrà concorrere, in maniera talvolta decisiva, a generare un risultato processuale iniquo e ingiusto. È, quindi, la cura della tensione verso l’imparzialità l’atteggiamento atteso in capo al pubblico ministero e al giudice, in quanto requisito funzionale a limitare il rischio di incorrere in provvedimenti ingiustamente afflittivi dei diritti coinvolti nel processo. 

Nella complessità del tema e dei suoi approcci, un’analisi delle più recenti scelte legislative su questi profili evidenzia un’apparente contraddittorietà delle stesse. Mentre, infatti, l’adozione dei criteri di priorità inserisce la discrezionalità delle scelte di politica giudiziaria in un campo dominato dall’obbligatorietà dell’agire, la discrezionalità investigativa è messa in crisi dall’introduzione di previsioni cogenti, che irreggimentano le scelte del pm nelle indagini sui reati in materia di violenza domestica e contro le donne (l. n. 168/2023, cd. “legge Roccella”). La figura del pubblico ministero appare, quindi, “sballottata”: per un verso, si ampliano i suoi poteri in fase di esercizio dell’azione penale; per altro verso, si restringe la sua autonomia valutativa e discrezionale nelle scelte investigative per alcuni reati di particolare allarme sociale. Tuttavia, la dicotomia è solo apparente, giacché è la sfiducia istituzionale il motore comune delle citate scelte legislative, che scaricano sul pubblico ministero responsabilità e obiettivi securitari che non gli competono, trattandolo alla stregua di una forza di polizia giudiziaria. La logica ispiratrice, infatti, è quella del processo penale di scopo, in cui la stessa azione penale è intesa alla stregua di un servizio sociale da ottimizzare, mentre il diritto penale diviene lo strumento delle politiche di annunci che caratterizzano questa stagione, sicché al pm è assegnato l’onere di fungere da capro espiatorio dell’inefficienza del sistema sanzionatorio e della insicurezza sociale percepita.

A tale spinta non sembrano impermeabili le direttive di alcuni dirigenti di uffici di procura, che – a formale garanzia di un esercizio omogeneo dell’azione penale – impongono ai sostituti procuratori procedure investigative e scelte di esercizio dell’azione cautelare pre-costituite, per alcuni reati che impattano sulla percezione di insicurezza sociale. Ne sono esempio le direttive in materia di esercizio indiscriminato dell’azione cautelare reale, in caso di occupazione abusiva di immobili.

Orbene, mentre l’obbligatorietà dell’azione penale costituisce il riflesso dell’imparzialità dell’organo, l’obbligatorietà delle procedure investigative e delle scelte cautelari per categorie di reati può costituire il riflesso di pre-giudizi valutativi, sintomo di parzialità (oltre che di sfiducia). 

È per questo che la tensione verso l’imparzialità deve essere una qualità e caratteristica consapevolmente coltivata e salvaguardata anche da ciascun pubblico ministero, giacché solo la pratica effettiva di questo pre-requisito gli consente un esercizio autorevole delle sue funzioni. Tuttavia, insieme all’atteggiamento del singolo, alla cura e manutenzione del suo foro interiore, la tensione verso l’imparzialità deve essere praticata e sottoposta a verifica collettiva all’interno di ciascun ufficio. Infatti, a fronte dei maggiori poteri riconosciuti al dirigente, solo una capacità “generativa” e di gestione – condivisa con tutti i sostituti procuratori – delle principali scelte discrezionali dell’ufficio (in materia di criteri di priorità e di direttive investigative e cautelari, in particolare) costituisce la migliore espressione della sua imparzialità, giacché questa è il riflesso di un ragionamento e un discernimento collettivo che costituiscono presidi a garanzia di decisioni non viziate da parzialità.

 

5. Due momenti di potenziale crisi dell’imparzialità: la comunicazione e l’atteggiamento processuale

La tendenziale segretezza delle indagini “esplode” nella società civile al momento dell’adozione di misure cautelari reali e personali. In queste circostanze, informare la comunità di quanto accaduto e delle ragioni che hanno giustificato un intervento così penetrante e coercitivo dei diritti di libertà di altri consociati costituisce un servizio necessario alle società democratiche[21] (che, anche per questo, si distinguono da altre che si collocano fuori dallo Stato di diritto). Il pubblico ministero – parte professionalmente informata, che non deve esprimere ulteriori giudizi in qualità di terzo che decide nel contraddittorio – è onerato di questo dovere sociale di comunicare, ma nel farlo deve essere consapevole di porsi al centro del conflitto tra il diritto all’informazione e altri valori costituzionali potenzialmente confliggenti (tra questi, le garanzie del giusto processo e la riservatezza delle persone in questo coinvolte), sicché deve avere l’obiettivo di rappresentare il punto di equilibrio in un settore nevralgico per la democrazia. Questa consapevolezza deve essere oggi accresciuta dalla distorsione esistente nel rapporto tra giustizia reale e giustizia socialmente percepita, che costituisce il frutto delle semplificazioni e della velocità dell’informazione mediatica e social.

La spettacolarizzazione della realtà processuale è divenuta un fenomeno commerciale che ha bisogno sempre di nuove notizie che alimentino l’emotività sociale, sicché «le autorità giurisdizionali, ogniqualvolta che sono chiamate ad assumere decisioni percepite come incidenti sulla sicurezza sociale, vengono cinte da una sorta di assedio emotivo che finisce per delegittimare la giustizia che non condanna e alla lunga potrebbe indurre persino a conformare alla precedente sentenza mediatica quella giurisdizionale»[22], mentre se la decisione raggiunta dal giudice non dovesse risultare conforme all’idea che l’utente mediatico aveva maturato in relazione a quel dato evento, ecco che la sentenza sarà percepita come ingiusta, perché non coerente all’aspettativa così maturata. E siccome non c’è tempo per attendere la verità processuale perché la bulimia informativa, da una parte, alimenta l’emotività sociale per finalità commerciali e/o politiche e, dall’altra, ne placa le attese costruendo un parallelo «processo mediatico»[23], ecco che nella fase delle indagini preliminari si concentrano una serie di tensioni e aspettative informative che il pubblico ministero è chiamato a gestire.

Orbene, non sempre il risultato è stato soddisfacente. Spesso la comunicazione è stata assertiva, poco problematica, incline a soddisfare le attese pubbliche, per nulla cauta rispetto al rischio di contribuire a creare una “verità mediatica” inquinante la dinamica procedimentale, se non proprio schiettamente orientata a questo scopo. Non si tratta solo di venir meno ai doveri etici e a quelli imposti da una legislazione che ha tentato di veicolare per legge modalità e persino un lessico informativo che doveva “naturalmente” caratterizzare la rappresentazione dei risultati procedimentali, fornita dal pubblico ministero, ma soprattutto di violare l’imparzialità intesa quale caratteristica unitaria di tutti gli attori pubblici del procedimento, dalla fase delle indagini preliminari alla sentenza definitiva. Un pubblico ministero che tenta di condizionare i giudici attraverso lo strumentario mediatico, o anche solo che non si cura di tutelare la decisione dei giudici dai condizionamenti mediatici che la sua comunicazione può provocare, si colloca fuori dal perimetro culturale dell’ordine giudiziario per qualificarsi come parte faziosa, intenta al raggiungimento di obiettivi processuali precostituiti, distante dai requisiti di sobrietà, capacità di confronto, accettazione della precarietà e intrinseca imperfezione delle verità processuali che deve alimentare la cultura del dubbio quale patrimonio dell’intera magistratura, a prescindere dalle funzioni svolte.

Questo atteggiamento può influenzare anche l’approccio processuale di quel pubblico ministero che interpreti il contraddittorio con la difesa come uno spazio agonistico nel quale vincere o perdere, e non già come un campo di verifica della ricostruzione accusatoria, nell’ambito del quale egli è indifferente al risultato finale. Beninteso, la “indifferenza” a cui si è fatto cenno non è l’atteggiamento apatico, noncurante e indolente che è sintomo di sciatteria professionale, ma è, al contrario, l’affidamento al risultato giurisdizionale del proprio massimo sforzo dimostrativo, nell’ambito di un confronto caratterizzato dalla correttezza nei rapporti con le altre parti e dalla capacità di ascolto delle loro ragioni. Se, infatti, la verifica dell’imparzialità dei giudici trova nella motivazione il suo momento di controllo, per il pubblico ministero è la modalità di conduzione del procedimento la cartina al tornasole della sua imparzialità nel corso del processo. La circostanza che per tale profilo non vi sia un sistema di controllo successivo, come avviene per la motivazione dei provvedimenti dei giudici, lo rende più fragile ed esposto alle interpretazioni personali di ciascuno, rilevabili – in caso di eccessi – solo in sede di valutazione di professionalità. Tuttavia, è proprio per questo che il confronto culturale può far crescere la diffusa consapevolezza della rilevanza dell’imparzialità anche processuale del pubblico ministero, intesa quale tratto tipico e immanente della funzione che ne giustifica l’autonomia e indipendenza, all’interno dell’unico ordinamento giudiziario. Gli atteggiamenti agonistici, invece, sono il sintomo di una faziosità incompatibile con l’imparzialità della funzione, con conseguenze nefaste per la sua autonomia e indipendenza. 

 

6. Brevi conclusioni ed un auspicio

Già in tempi passati e poi ancora di recente, Magistratura democratica ha assunto posizioni critiche verso alcune rappresentazioni mediatiche dei risultati investigativi, proposte da autorevoli pubblici ministeri. Si è trattato – restando a vicende più recenti – di casi in cui all’indagine si riconosceva una natura palingenetica della comunità politica e della stessa società civile, ovvero di casi in cui si è tentato di amplificare, con narrazioni dietrologiche o ricostruzioni affidate ad analisi storiche e sociologiche, un portato dimostrativo carente di efficaci e univoci elementi probatori. Nella percezione pubblica, queste prese di posizione sono state interpretate alla stregua di forme di partigianeria associativa, se non proprio come espressione di una sorta di conflittualità ad personam.

L’obiettivo era, invece, quello di rappresentare pubblicamente la possibilità di interpretare il ruolo secondo modelli altri rispetto a quelli a cui si è fatto sopra cenno, nonostante questi trovassero vasta eco nel dibattito mediatico e fossero sinceramente apprezzati dentro la magistratura. In questi casi, infatti, la popolarità di alcuni pubblici ministeri finisce per tratteggiarli come modello professionale di successo anche per le nuove generazioni di magistrati. 

Con l’umiltà che si impone, approcciando al dibattito culturale su questi temi, a me pare, invece, che quei modelli professionali, non prendendosi cura dell’imparzialità, finiscano per proporre stili che allontanano il pubblico ministero dalla giurisdizione e lo innestano in un ruolo ibrido che apre le porte alla separazione delle carriere, antipasto della fine della sua autonomia e indipendenza. L’auspicio, dunque, è quello che il pm diventi sempre più consapevole di condividere con il giudice uno statuto unitario dell’imparzialità – riflesso della comune autonomia e indipendenza – che si esplica diversamente solo a cagione delle differenze insite nell’esercizio delle due funzioni. 

In disparte i casi patologici, l’assenza di un sistema di controllo e verifica della modalità d’imparziale conduzione del procedimento e del processo da parte del pubblico ministero, l’assenza di elementi oggettivi (come è la motivazione per il giudice) utili a questo scopo, rendono la tutela del requisito un onere affidato a ciascuno dei protagonisti e a ciascun ufficio, nella misura in cui il ruolo del dirigente quale primus inter pares, espressione del discernimento collettivo dei sostituti, avrà la prevalenza su versioni solipsistiche del ruolo. Esserne consapevoli significa sollecitare uno sforzo collettivo, affinché l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero dentro l’ordito costituzionale siano resilienti alle riforme attuate e a quelle in cantiere. Queste e quelle, infatti, possono cambiare gli statuti formali, ma non quelli materiali. E, in epoca di resistenze costituzionali, è fondamentale tutelare l’essenza dei valori prima ancora che il loro vestito formale. Pertanto, la cura e l’attenzione alla tensione verso l’imparzialità del pubblico ministero diventano la cartina al tornasole di come il ruolo viene concretamente interpretato e, con questo, di quale sia la prospettiva futura del pubblico ministero, a prescindere dal se e come la sua figura possa essere riformata dal Legislatore. 

 

 

1. Aa.Vv., Codice di Procedura Penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Giuffrè, Milano, 2003.

2. In termini, cfr. Cass., sez. I, 11 settembre 2020, n. 30033  (dep. 29 ottobre 2020), Rv. 279732 – 01; Cass., sez. II, 19 giugno 2007, n. 27611 (dep. 12 luglio 2007), Rv. 239215 – 01.

3. Così Cass., sez. VI, 4 ottobre 2022, n. 44436 (dep. 22 novembre 2022 ), Rv. 284151 – 02.

4. Le eccezioni di legittimità costituzionale sul punto sono sempre state dichiarate manifestamente infondate dalla Corte di cassazione, anche con alcune delle sentenze sopra citate (Cass., nn. 44436/2022 e 27611/2007).

5. Cfr. Cass., 13 gennaio 1984, Savi, in Giust. pen., 1985, III, c. 215. Nella specie il pretore, che in primo grado era stato estensore della sentenza di condanna, aveva svolto funzioni di pubblico ministero in appello.

6. A partire dagli insegnamenti di Cass., 17 gennaio 1986, Felisini, Cass. pen., n. 1431/1987, sotto la vigenza del codice del 1930.

7. Per migliori approfondimenti sul tema, vds. N. Rossi, Il caso Apostolico: essere e apparire imparziali nell’epoca dell’emergenza migratoria, in Questione giustizia online, 10 ottobre 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-caso-apostolico-essere-e-apparire-imparziali-nell-epoca-dell-emergenza-migratoria), ora in questo fascicolo. 

8. P. Gaeta, Verso una nuova circolare del CSM sull’organizzazione degli Uffici di Procura, in Questione giustizia online, 29 giugno 2023 (www.questionegiustizia.it/articolo/csm-uffici-procura).

9. Per una riflessione sul punto, anche in un’ottica comparata, vds. M. Gugliemi, Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra, in Questione giustizia online, 17 settembre 2022 (www.questionegiustizia.it/articolo/un-pubblico-ministero-finalmente-separato).

10. Orientano in questo senso, ad esempio, le più recenti modifiche in materia di cd. “codice rosso” (l. n. 168/2023), che sollecitano l’adozione urgente di misure cautelari e scelte investigative a protezione delle persone offese, accentuando il ruolo di prevenzione specifica di futuri più gravi reati in capo al pubblico ministero, attraverso una tecnica legislativa che può indurre a scelte cautelari di tipo difensivo e deresponsabilizzante a fronte di prognosi recidivanti non sempre compiutamente prevedibili, ovvero imputabili a forme patologiche che giustificherebbero l’intervento di professionalità, istituzioni e strumenti di contenimento diversi da quelli rinvenibili in sede penale. 

11. Tra i molti, si segnala N. Rossi, I criteri di esercizio dell’azione penale. Interviene il «Parlamento con legge», in Questione giustizia online, 8 novembre 2021 (www.questionegiustizia.it/articolo/i-criteri-di-esercizio-dell-azione-penale-interviene-il-parlamento-con-legge).

12. Per più ampi riferimenti sul punto, anche in relazione alla compatibilità del principio costituzionale con l’introduzione dei criteri di priorità, si rinvia a: S. Panizza, Se l’esercizio dell’azione penale diventa obbligatorio… nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge e A. Spataro, La selezione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale: la criticabile scelta adottata con la legge 27 settembre 2021, n. 134, entrambi in questa Rivista trimestrale, n. 4/2021, rispettivamente pp. 105-114 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/991/4-2021_qg_panizza.pdf) e pp. 82-95 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/988/4-2021_qg_spataro.pdf). 

13. G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 128.

14. Sul tema, M. Donini, Populismo penale e ruolo del giurista, in Sistema penale, 7 settembre 2020 (www.sistemapenale.it/it/articolo/donini-populismo-penale-ruolo-del-giurista); G. Giostra, Processi giusti e processi spettacolo. Un media-evo d’ingiustizia, Avvenire, 12 giugno 2021 (www.avvenire.it/opinioni/pagine/un-mediaevo-dingiustizia).

15. E. De Franco, La riforma cd. “Cartabia” in tema di procedimento penale. Una pericolosa eterogenesi dei fini, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2023, pp. 16-22 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/1088/2_2023_qg_defranco.pdf).

16. V.L. Daga, Pubblico ministero (Diritto costituzionale), in Enc. giur., vol. XXV, Treccani, Roma, 1991, p. 3; Relazione annuale sullo stato della giustizia, in Quaderni del Csm, n. 55, 1992, p. 39 (par. 1.6.6., «Il ruolo del pubblico ministero» – www.csm.it/documents/21768/81517/Quaderno+n.+55/6e5ce75e-ceab-4292-8975-617b2722a70b?version=1.0).

17. P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione giustizia online, 18 dicembre 2019 (www.questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php).

18. Per ulteriori approfondimenti sui modi attraverso cui conciliare la discrezionalità delle scelte con la natura di organo “tecnico” e non “politico” del pubblico ministero, vds. ancora N. Rossi, I criteri, op. cit.

19. N. Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2021, pp. 16-31 (www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/933/2-2021_qg_rossi.pdf).

20. N. Rossi, Il caso Apostolico, op. cit.

21. Per migliori approfondimenti sul tema, si rinvia a: D. Stasio, Il “dovere” della comunicazione giudiziaria, in Questione giustizia online, 9 febbraio 2015 (www.questionegiustizia.it/articolo/il-dovere-della-comunicazione-giudiziaria_09-02-2015.php); G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, Giuffrè, 1989.

22. G. Giostra, Processi giusti e processi spettacolo, cit.

23. Per approfondimenti sul tema, si rinvia a: L. Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Dir. pen. cont., n. 3/2017, pp. 4-19 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/5408-ferrarelladpctrim317.pdf); N. Triggiani (a cura di), Informazione e giustizia penale. Dalla cronaca giudiziaria al “processo mediatico”, Cacucci, Bari, 2022.